Cesare Beccaria
Dei delitti e delle pene
In rebus quibuscumque
difficilioribus non expectandum, ut qui simul, et serat, et metat, sed praeparatione opus est, ut per gradus maturescant BACON, Serm. fidel, n. XLV |
In tutte le cose più
difficili non ci si deve aspettare che qualcuno semini e raccolga contemporaneamente ma è necessario un periodo di attesa affinché esse a poco a poco giungano a maturazione |
(1763)
*
A chi legge
Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo
conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in
Costantinopoli, frammischiate poscia co' riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi
di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran
parte dell'Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì
d'oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con
iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza
obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini.
Queste leggi, che sono uno scolo de' secoli i piú barbari, sono esaminate in questo libro
per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa
esporli a' direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non
illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza
delle opinioni volgari con cui è scritta quest'opera è un effetto del dolce e illuminato
governo sotto cui vive l'autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci
reggono, amano le verità esposte dall'oscuro filosofo con un non fanatico vigore,
detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione;
e i disordini presenti da chi ben n'esamina tutte le circostanze sono la satira e il
rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e de' suoi legislatori.
Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci
dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest'opera, scopo che ben lontano di
diminuire la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se piú che la forza può
negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l'umanità la giustificano agli occhi di
tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su confuse
nozioni, e mi obbligano d'interrompere per un momento i miei ragionamenti agl'illuminati
lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle
calunnie della maligna invidia.
Tre sono le sorgenti delle quali derivano i
principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le
convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per
rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre
alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell'ultima non è
l'escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili,
furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e
di virtú in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí sembra necessario di
esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni
umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta
ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole
intrappresa quella che sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi ai
principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque tre distinte classi
di virtú e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai
essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano
dall'una risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge
naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è
importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o
taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può
legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell'Essere
supremo. Dunque l'idea della virtú politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella
della virtú naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l'imbecillità o le passioni
degli uomini non la oscurassero; quella della virtú religiosa è sempre una costante,
perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata.
Sarebbe dunque un errore l'attribuire a chi parla
di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge
naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi,
parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso
hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di
prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una
sanzione espressa. Sarebbe un errore l'imputare a delitto ad uno scrittore, che considera
le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto istesso. La giustizia
divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perché la
relazione fra due medesimi oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia
politica, non essendo che una relazione fra l'azione e lo stato vario della società, può
variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell'azione, né ben si
discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili
combinazioni. Sí tosto che questi principii essenzialmente distinti vengano confusi, non
v'è piú speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a' teologi lo
stabilire i confini del giusto e dell'ingiusto, per ciò che riguarda l'intrinseca malizia
o bontà dell'atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell'ingiusto politico, cioè
dell'utile o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto può mai
pregiudicare all'altro, poiché ognun vede quanto la virtú puramente politica debba
cedere alla immutabile virtú emanata da Dio.
Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue
critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtú o
della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi
incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non
tremi ad ogni proposizione che sostenga gl'interessi dell'umanità; mi convinca o della
inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia
vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia
religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il
rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà
con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal
provare i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un
uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.
**
INTRODUZIONE
Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú
importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l'interesse
de' quali è di opporsi alle piú provide leggi che per natura rendono universali i
vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da
una parte il colmo della potenza e della felicità e dall'altra tutta la debolezza e la
miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piú
essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti
all'estremo, non s'inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le
piú palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti
volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un
pezzo, piú per tradizione che per esame.
Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono
o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo stromento
delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già
dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le
azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la
massima felicità divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni,
che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse
succedere all'estremità de' mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi
intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch'ebbe il
coraggio dall'oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi
lungamente infruttuosi delle utili verità.
Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i
sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all'aspetto delle verità
filosofiche rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra
d'industria la piú umana e la piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si
debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la
crudeltà delle pene e l'irregolarità delle procedure criminali, parte di legislazione
cosí principale e cosí trascurata in quasi tutta l'Europa, pochissimi, rimontando ai
principii generali, annientarono gli errori accumulati di piú secoli, frenando almeno,
con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal
diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità.
E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i
barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o
chimerici, la squallidezza e gli orrori d'una prigione, aumentati dal piú crudele
carnefice dei miseri, l'incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che
guidano le opinioni delle menti umane.
L'immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente
scorso su di questa materia. L'indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce
luminose di questo grand'uomo, ma gli uomini pensatori, pe' quali scrivo, sapranno
distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com'esso, i segreti
ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel
dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl'interessi della
umanità!
§ I
ORIGINE DELLE PENE
Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de' motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell'antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl'infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell'universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l'eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.
§ II
DIRITTO DI PUNIRE
Ogni pena che non derivi dall'assoluta necessità,
dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale
cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall'assoluta necessità è
tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti:
sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni
particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la
sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore
umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire
i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se
ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell'uomo. Qualunque legge devii da questi
incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una
forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto
comunicato ad un corpo.
Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della
propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne' romanzi; se
fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci
legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo.
La moltiplicazione del genere umano, piccola per se
stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per
soddisfare ai bisogni che sempre piú s'incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi
selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime, e
cosí lo stato di guerra trasportossi dall'individuo alle nazioni.
Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a
cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol
mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a
indurre gli altri a difenderlo. L'aggregato di queste minime porzioni possibili forma il
diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già
diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza,
ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú
utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario
per tenere uniti gl'interessi particolari, che senz'esso si scioglierebbono nell'antico
stato d'insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo
vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola
giustizia l'idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere
esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce
infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell'altra sorta di giustizia
che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della
vita avvenire.
§ III
CONSEGUENZE
La prima conseguenza di questi principii è che le
sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest'autorità non può risedere che
presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale;
nessun magistrato (che è parte di società) può con giustizia infligger pene contro ad
un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite
fissato dalle leggi è la pena giusta piú un'altra pena; dunque non può un magistrato,
sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un
delinquente cittadino.
La seconda conseguenza è che se ogni membro
particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro
particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione,
che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú grande e il piú
miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i
patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad
autorizzare l'anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare
che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia
violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una
rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del contratto, e l'altra
dall'accusato, che la nega. Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità
del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e
consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari.
La terza conseguenza è che quando si provasse che
l'atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo
d'impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo
contraria a quelle virtú benefiche che sono l'effetto d'una ragione illuminata che
preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi, nella quale si
faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla
natura del contratto sociale medesimo.
§ IV
INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI
Quarta conseguenza. Nemmeno l'autorità
d'interpetrare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa
ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi
nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri
che la cura d'ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano
rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell'attuale risultato della volontà
di tutti; le ricevono non come obbligazioni d'un antico giuramento, nullo, perché legava
volontà non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di società allo
stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso giuramento, che le volontà
riunite dei viventi sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli necessari per frenare e
reggere l'intestino fermento degl'interessi particolari. Quest'è la fisica e reale
autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre della legge? Il sovrano,
cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è
solo l'esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un'azione contraria alle leggi?
In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo
perfetto: la maggiore dev'essere la legge generale, la minore l'azione conforme o no alla
legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia
fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all'incertezza.
Non v'è cosa piú pericolosa di quell'assioma comune
che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle
opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari, piú percosse da un
piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso
principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le
nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto piú sono complicate, tanto piú
numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di
vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe
dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana
digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre,
dalle relazioni del giudice coll'offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le
apparenze di ogni oggetto nell'animo fluttuante dell'uomo. Quindi veggiamo la sorte di un
cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de'
miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell'attuale fermento degli umori d'un
giudice, che prende per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta quella
confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo
stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante
e fissa voce della legge, ma l'errante instabilità delle interpetrazioni. Un disordine
che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi
in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo
inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che
sono la cagione dell'incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui
nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si
debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le
azioni de' cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma
del giusto e dell'ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come
del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi
non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la
distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il
dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un
dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini
quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini
stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare
gl'inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresí che acquisteranno uno spirito
d'indipendenza, ma non già scuotitore delle leggi e ricalcitrante a' supremi magistrati,
bensí a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú la debolezza di cedere
alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro che si
sono fatto un diritto di trasmettere agl'inferiori i colpi della tirannia che hanno
ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile
collo spirito di lettura.
§ V
OSCURITA` DELLE LEGGI
Se l'interpetrazione delle leggi è un male, egli è
evidente esserne un altro l'oscurità che strascina seco necessariamente
l'interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua
straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar
da se stesso qual sarebbe l'esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che
formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare
degli uomini, riflettendo esser questo l'inveterato costume di buona parte della colta ed
illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno
fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché
non v'ha dubbio che l'ignoranza e l'incertezza delle pene aiutino l'eloquenza delle
passioni.
Una conseguenza di quest'ultime riflessioni è che
senza la scrittura una società non prenderà mai una forma fissa di governo, in cui la
forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le leggi, inalterabili se non
dalla volontà generale, non si corrompano passando per la folla degl'interessi privati.
L'esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la probabilità e la certezza delle
tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non
esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza
inevitabile del tempo e delle passioni?
Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende
il pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato
quello spirito tenebroso di cabala e d'intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle
scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la
cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l'atrocità de' delitti che facevano gemere
gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la
storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della
mollezza nacquero le piú dolci virtú, l'umanità, la beneficenza, la tolleranza degli
errori umani. Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica
semplicità e buona fede: l'umanità gemente sotto l'implacabile superstizione,
l'avarizia, l'ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni dell'oro e i troni dei
re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i
ministri della verità evangelica lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il
Dio di mansuetudine, non sono l'opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano
corrotto.
§ VI
PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE
Non solamente è interesse comune che non si
commettano delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano alla
società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai
delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli
portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene.
È impossibile di prevenire tutti i disordini
nell'universal combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della
popolazione e dell'incrocicchiamento degl'interessi particolari che non è possibile
dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All'esattezza matematica bisogna
sostituire nell'aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo
sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl'imperi, e, scemando
nell'istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in
ragione dell'interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di
aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú aumentando.
Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al
nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli
effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano
scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne
impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la
sensibilità medesima inseparabile dall'uomo, e il legislatore fa come l'abile architetto
di cui l'officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare
quelle che contribuiscono alla forza dell'edificio.
Data la necessità della riunione degli uomini, dati i
patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl'interessi privati,
trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che
distruggono immediatamente la società, e l'ultimo nella minima ingiustizia possibile
fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte
al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo
dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure
combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che
discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di
segnarne i punti principali, senza turbar l'ordine, non decretando ai delitti del primo
grado le pene dell'ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei
delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del
fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni.
Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati
limiti non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che
vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La incertezza di questi limiti ha
prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; piú attuali
legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il
piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio
e di virtú, e però nata l'incertezza della propria esistenza, che produce il
letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i
codici delle nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtú,
di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non
in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza
sempre conformi all'interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori che
successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di
un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del
fanatismo e dell'entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i
fenomeni fisici e morali all'equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e
lo strumento utile in mano del forte e dell'accorto. In questo modo nacquero le
oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché si cambiano colle
rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle
montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della morale geografia.
Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri
sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi operazioni,
furono destinati dall'invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta
distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto piú
comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è
destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno
un piú forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un
maggior vantaggio.
§ VII
ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE
Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di
asserire che l'unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però
errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l'intenzione di chi gli commette.
Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione
della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima
successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario
formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni
delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore intenzione fanno il maggior male alla
società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene.
Altri misurano i delitti piú dalla dignità della
persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera
misura dei delitti, una irriverenza all'Essere degli esseri dovrebbe piú atrocemente
punirsi che l'assassinio d'un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito
compenso alla differenza dell'offesa.
Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato
entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi
d'un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I
primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall'urto delle
passioni e dalle opposizioni degl'interessi l'idea della utilità comune, che è
la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto
e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel
medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene
eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l'insetto che oserà supplire
alla divina giustizia, che vorrà vendicare l'Essere che basta a se stesso, che non può
ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli
esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile
malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque
da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini
punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono
essere in contradizione coll'Onnipossente nell'offenderlo, possono anche esserlo col
punire.
§ VIII
DIVISIONE DEI DELITTI
Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti,
cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità che,
quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte, ma
sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione
di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori,
uomini d'ogni nazione e d'ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite
d'autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune
poche per violente impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici
nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società ed a cui la luce
di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però che può
essere somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli
medesimi. Or l'ordine ci condurrebbe ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte
di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile natura di essi per le diverse
circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio immenso e noioso. Mi
basterà indicare i principii piú generali e gli errori piú funesti e comuni per
disingannare sí quelli che per un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre
l'anarchia, come coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolarità.
Alcuni delitti distruggono immediatamente la società,
o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita,
nei beni, o nell'onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è
obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i
massimi delitti, perché piú dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola
tirannia e l'ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee piú chiare, possono dar
questo nome, e per conseguenza la massima pena, a' delitti di differente natura, e rendere
cosí gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto,
benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata
distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività
e sono diversamente circonscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo
spazio; e però la sola cavillosa interpetrazione, che è per l'ordinario la filosofia
della schiavitù, può confondere ciò che dall'eterna verità fu con immutabili rapporti
distinto.
Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza
di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione,
non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni
cittadino alcuna delle pene piú considerabili stabilita dalle leggi.
L'opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter
fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che
quello che può nascere dall'azione medesima, questo è il dogma politico che
dovrebb'essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle
leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta
ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell'azione universale su tutte le cose
che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo
forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma
di quella virtú che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna
solo di chi può soffrire un'esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la
sicurezza e libertà dei cittadini sono uno de' maggiori delitti, e sotto questa classe
cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi
e dei magistrati, l'influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior
vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella
del diritto del piú forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.
§ IX
DELL'ONORE
V'è una contradizione rimarcabile fralle leggi
civili, gelose custodi piú d'ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun cittadino, e
le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce l'opinione. Questa parola onore
è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza
attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le
lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con piú
distinta cognizione presenti che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti
sempre e confuse secondo che i venti delle passioni le sospingono e l'ignoranza guidata le
riceve e le trasmette! Ma sparirà l'apparente paradosso se si consideri che come gli
oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, cosí la troppa vicinanza delle idee
morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che le compongono, e
ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito geometrico che vuol misurare
i fenomeni della umana sensibilità. E scemerà del tutto la maraviglia nell'indifferente
indagatore delle cose umane, che sospetterà non esservi per avventura bisogno di tanto
apparato di morale, né di tanti legami per render gli uomini felici e sicuri.
Quest'onore dunque è una di quelle idee
complesse che sono un aggregato non solo d'idee semplici, ma d'idee parimente complicate,
che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora escludono alcuni de' diversi
elementi che le compongono; né conservano che alcune poche idee comuni, come piú
quantità complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune
divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell'onore è necessario
gettar rapidamente un colpo d'occhio sulla formazione delle società. Le prime leggi e i
primi magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo
di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della società, e questo fine primario si
è sempre conservato, realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche
distruttori; ma l'avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno
fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso gli
altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori all'attuale potere di
ciascuno. Da quest'epoca cominciò il dispotismo della opinione, che era l'unico mezzo di
ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali, ai quali le leggi non erano
sufficienti a provvedere. E l'opinione è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che
ha messo in credito l'apparenza della virtú al di sopra della virtú stessa, che fa
diventar missionario anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse. Quindi i
suffragi degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto
del comune livello. Quindi se l'ambizioso gli conquista come utili, se il vano va
mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l'uomo d'onore esigerli come
necessari. Quest'onore è una condizione che moltissimi uomini mettono alla propria
esistenza. Nato dopo la formazione della società, non poté esser messo nel comune
deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea
della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un
cittadino.
Quindi e nell'estrema libertà politica e nella estrema
dipendenza spariscono le idee dell'onore, o si confondono perfettamente con altre: perché
nella prima il dispotismo delle leggi rende inutile la ricerca degli altrui suffragi;
nella seconda, perché il dispotismo degli uomini, annullando l'esistenza civile, gli
riduce ad una precaria e momentanea personalità. L'onore è dunque uno dei principii
fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse sono quello
che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed
un ricordo al padrone dell'antica uguaglianza.
§ X
DEI DUELLI
Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero
i duelli privati, ch'ebbero appunto la loro origine nell'anarchia delle leggi. Si
pretendono sconosciuti all'antichità, forse perché gli antichi non si radunavano
sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici; forse perché il duello era
uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti davano al popolo, e
gli uomini liberi sdegnavano d'esser creduti e chiamati gladiatori coi privati
combattimenti. Invano gli editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato
estirpare questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono piú
che la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l'uomo d'onore si prevede esposto
o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole,
ovvero a divenire il bersaglio degl'insulti e dell'infamia, che colla ripetuta loro azione
prevalgono al pericolo della pena. Per qual motivo il minuto popolo non duella per lo piú
come i grandi? Non solo perché è disarmato, ma perché la necessità degli altrui
suffragi è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo piú elevati, si guardano
con maggior sospetto e gelosia.
Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto,
cioè che il miglior metodo di prevenire questo delitto è di punire l'aggressore, cioè
chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato
costretto a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè l'opinione, ed ha
dovuto mostrare a' suoi concittadini ch'egli teme le sole leggi e non gli uomini.