EDUARD BERNSTEIN
A cura di Diego Fusaro
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Eduard Bernstein (6/1/ 1850 - 18/12/1932) fu uno dei massimi esponenti del socialismo della Seconda Internazionale. Fin dal 1872, egli è iscritto al Partito Socialdemocratico: collabora direttamente con Marx ed Engels (il quale lo sceglierà come esecutore testamentario) ed è diverse volte deputato al Reichstag. Tra il 1896 e il 1903, egli è al centro del dibattito marxista per via della sua ardita proposta di revisione radicale del marxismo in direzione riformistica e anticlassista. Nel 1896, Bernstein pubblica sulla rivista Die neue Zeit una ricca serie di articoli sui Problemi del socialismo: nel 1899, egli raccoglie questi articoli in un saggio a cui dà il titolo di I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. Tutti questi scritti, al di là delle tante differenze che li caratterizzano, hanno come comun denominatore l’esame critico del concetto marxiano di rivoluzione: la tesi bernsteiniana è che la nozione marxiana di rivoluzione sarebbe del tutto infondata sul piano filosofico, economico e sociologico. Crolla in questo modo la dicotomia, interna alla Socialdemocrazia tedesca, tra l’enunciazione di una teoria rivoluzionaria e la pratica di marca riformistica. Quello che, secondo le sue stesse parole, Bernstein si propone di fare non è un revisionismo antimarxista, ma piuttosto un revisionismo nel marxismo, che ne corregga le storture: tali storture, del resto, erano – nota Bernstein – già stati ampiamente condannati da Marx ed Engels, nemici di tutti “gli edifici utopistici costruiti in base a princìpi astratti” e di tutte le teorie sganciate dalla prassi. Per questa ragione, Bernstein deride quei marxisti che dei principi del marxismo fanno una specie di “rivelazione divina”, tale da rimanere immutata per sempre. Viceversa, come avevano insegnato Marx ed Engels, il marxismo è il prodotto della pratica concreta del movimento operaio e, in quanto tale, è soggetto ai sempre nuovi mutamenti richiesti dal mutare della situazione storica. Se letto in trasparenza, il revisionismo di Bernstein tende a liquidare il marxismo più che a revisionarlo: infatti ne mette in discussione i principi cardinali come la lotta di classe, l’idea di rivoluzione, il materialismo storico. Si trattava di una vera e propria eresia all’interno del marxismo, come rilevarono i più autorevoli esponenti della Seconda Internazionale, da Kautsky a Plechanov, dalla Luxemburg a Lenin. Il vero punto di partenza della riflessione di Bernstein è il rifiuto del carattere scientifico del socialismo, inteso più come un’esigenza morale che come una teoria scientifica della società. È sì vero che la teoria marxiana del valore e quella della produzione sono il frutto di un’accurata analisi scientifica della società: ma ciò non di meno il socialismo è innanzitutto un ideale etico, è l’espressione di quel che gli uomini desiderano (giustizia, eguaglianza, fine dello sfruttamento, ecc) e che ancora manca. È proprio in questa enfatizzazione del momento etico che Bernstein può recuperare alcuni elementi del pensiero di Kant, che si stava allora diffondendo presso la Socialdemocrazia tedesca: la volontà morale, infatti, gioca un ruolo decisivo nel determinare i fini del socialismo e, di conseguenza, nega che esso sia il prodotto di un processo necessario e scientificamente prevedibile. Bernstein arriva addirittura ad accostare il socialismo alle idee della Critica della ragion pura kantiana: al pari di esse, che non hanno contenuto, anche il socialismo è un ideale da raggiungere ma che di fatto non sarà mai raggiunto; bisogna sforzarsi il più possibile di tendere ad esso, alla luce del fatto che “l’obiettivo è niente, il movimento è tutto”. Ecco perché Bernstein rivelò tanta avversione verso la dialettica hegeliana, arrivando a sostenere che “quel che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, l’hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa”. Altrettanto avverso egli fu nei confronti dell’evoluzionismo deterministico propugnato da Kautsky: il socialismo è una possibilità dipendente dalla volontà umana e alimentata dal cuore delle masse operaie, con la conseguenza che sbaglia Kautsky a credere che esso sia l’esito necessario della crisi finale del capitalismo. La più recente storia del capitalismo, secondo Bernstein, ha del resto dimostrato la falsità di molte proposizioni marxiste: ad esempio, la progressiva concentrazione delle imprese industriali non ha portato a una conseguente concentrazione del capitale, ma anzi è aumentato il numero dei possidenti grazie al diffondersi delle società per azioni. La stessa previsione marxiana della scomparsa dei ceti medi si è dimostrata falsa: essi, anziché estinguersi, oggi proliferano più che mai; le stesse medie imprese crescono di numero ogni giorno che passa. Da queste considerazioni, Bernstein trae la conseguenza che si debba buttare a mare l’idea marxista della graduale polarizzazione della società in due classi antagoniste (possessori e proletari), destinate a una guerra sociale culminante nella rivoluzione. Ciò anche alla luce del fatto che si è rivelata falsa anche la previsione marxiana di un crescente impoverimento della classe operaia, anch’esso inteso come origine dell’acuirsi degli scontri di classe. Ma la previsione di Marx che più si è rivelata falsa è quella del crollo del capitalismo: lo svilupparsi dei trust, dei monopoli e delle alleanze tra le imprese permette oggi al capitalismo, se non di azzerarne la crisi, almeno di ridurne la portata. Per tutte queste ragioni, Bernstein difende il rifiuto delle concezioni rivoluzionarie del socialismo, in nome di un graduale riformismo attraverso il quale la società capitalistica potrà consentire lo sviluppo al proprio interno del socialismo. Per questa via, la maturazione di rapporti socialisti di produzione avverrebbe lentamente e senza salti, in un lungo periodo di sviluppo, analogamente a come i rapporti capitalistici di produzione si sono formati gradualmente a partire dalla società feudale. In questa prospettiva, lo Stato deve controllare l’economia garantendone una funzione via via sempre più sociale. In opposizione all’autoisolamento della Socialdemocrazia propugnato dalle frange estremiste, Bernstein propone la collaborazione con i settori progressisti della borghesia e prospetta addirittura l’idea di una trasformazione della Socialdemocrazia in un raggruppamento democratico: queste proposte si inquadrano del resto perfettamente nella convinzione bernsteiniana secondo cui il socialismo sarebbe l’erede legittimo del liberalismo borghese, a tal punto che “non esiste idea liberale che non appartenga anche al patrimonio ideale del socialismo”. A queste tesi rispose Kautsky con uno scritto significativamente intitolato Bernstein e il programma socialdemocratico. Un’autocritica (1899): sostenendo la teoria del socialismo come esito necessario della crisi capitalistica, Kautsky rigetta tutte le proposte di Bernstein, mostrandone l’infondatezza. È vero che il ceto medio e le piccole imprese non sono scomparse, ma – nota Kautsky – è anche vero che su di esse è sempre maggiore il controllo esercitato dal grande capitale, il quale impedisce ai ceti medi un’autonoma espressione politica. La tesi dell’impoverimento assoluto del proletariato è secondo Kautsky un’assurdità inventata da Bernstein e sconosciuta a Marx, il quale s’è limitato a parlare di impoverimento relativo alla crescente ricchezza capitalistica. Le tesi di Bernstein saranno condannate nel 1903 nel Congresso di Dresda, ma ciò non impedirà la loro diffusione.