L'eutanasia
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Ben lungi dall'esser l'uomo a rendere comprensibile il mondo, è proprio l'uomo l'essere più incomprensibile. (Schelling)



A cura di Pasquale Antonio Riccio


DAVID: la morte di Socrate

 

La parola “eutanasia” deriva dal greco antico e significa "buona morte", “dolce morte” (eu = “buona” e thanatos = “morte”).

L’eutanasia è comunemente intesa come l’azione volta a liberare da dolori intollerabili il morente provocandone la morte.

Se la morte è provocata su più individui l’eutanasia è detta “collettivistica”, se si tratta di un singolo individuo è chiamata “individualistica”.

L’eutanasia “individualistica” è quella più conosciuta dal senso comune in quanto è proprio la conoscenza di casi di tale natura che ha contribuito a sviluppare il moderno dibattito intorno al problema della buona morte.

Questa forma di eutanasia si distingue in:

-         eutanasia attiva: la morte di una persona è causata da un comportamento attivo;

-         eutanasia passiva: la morte di un individuo è provocata da un comportamento passivo o omissivo, il quale può essere consentito dal paziente oppure essergli sconosciuto e deciso dai medici o dai parenti dello stesso. Per questa ragione si parla di eutanasia passiva consensuale ed eutanasia passiva non consensuale.

Attualmente i criteri per definire un’azione come eutanasia possono riassumersi secondo il seguente schema:

- Si tiene conto dell’obiettivo primario da parte di chi la pratica di estirpare la sofferenza procurando la morte al malato. A questo proposito, si precisa che non deve essere considerata eutanasia una cura palliativa, anche se dovesse come effetto secondario e non voluto avvicinar ela morte del paziente (in casi del genere si parla di eutanasia indiretta).

- È accertata la somministrazione di sostanze tossiche mortali o la non dovuta assistenza medica.

- Il suicidio non è considerato una forma di eutanasia.

- In presenza della richiesta fatta da chi intende morire, gli aiuti o la cooperazione al suicidio sono considerati forme di eutanasia.

 

L’eutanasia collettivistica, invece, si può riferire all’azione con cui vengono eliminate persone portatrici di handicap per migliorare la qualità della razza (si parla di eutanasia eugenia), oppure agli atti con cui sono soppresse persone anziane o comunque inutili nel processo economico per favorirne altre socialmente più utili (si parla di eutanasia economica).

 

Nel lessico riguardante l’eutanasia si è da qualche anno fatto strada il termine “living-will” o “testamento biologico”: esso indica il documento che consente ad ogni individuo di scegliere per iscritto come e se vorrà essere trattato quando non potrà essere lui stesso a dare il consenso, nel caso le sue condizioni fossero irreversibili. I “living-will”, infatti, hanno valore giuridico.

 

 

Un po’ di storia

 

Si hanno notizie di pratiche simili all’eutanasia sin dall'antica Grecia. Qui, così come a Roma, in determinate situazioni era possibile praticarla. Successivamente, il prosperare delle grandi religioni monoteistiche, le quali tra i cardini delle loro morali avevano e hanno la sacralità della vita umana, fece si che l'eutanasia fosse ritenuta un’azione moralmente inaccettabile. Questa condanna divenne in seguito legale, trovando prima un'enunciazione nelle norme morali e quindi negli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli stati.

Il termine “eutanasia” venne introdotto nel linguaggio medico dal filosofo inglese Francesco Bacone, agli inizi del secolo XVII, ma la situazione cominciò a mutare nella prima metà del XX secolo culminando nella fondazione di alcune associazioni che promuovevano la “liberalizzazione” dell’eutanasia individualistica.

Ciò avvenne nel 1935 in Gran Bretagna e nel 1938 negli Stati Uniti d'America.

Gli anni citati sono da tenere a mente poiché rappresentano l’avvio di un consenso cresciuto esponenzialmente e che ha portato in alcuni paesi occidentali ad un clima tale da consentire delle aperture legislative nei confronti dell'eutanasia passiva consensuale e non consensuale.

In Italia i principi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti, tradizionalmente vicini al credo cattolico, hanno favorito lo sviluppo di una legislazione che ha di fatto equiparato l'eutanasia all'omicidio, tuttavia è opportuno precisare che  Papa Pio XII si espresse a favore di quella che oggi è definita “terapia del dolore”, ossia un trattamento volto al controllo dei sintomi e non alla cura della patologia di base che, evidentemente, non è più guaribile. La terapia del dolore si effettua tramite somministrazione di analgesici di natura oppiacea, in pazienti non più guaribili in cui i sintomi della malattia comportino sofferenze-fisiche e psicologiche – insopportabili.

In Olanda, invece, da tempo è possibile optare per l'eutanasia passiva o suicidio assistito ed il dibattito sulla liceità dell’eutanasia attiva si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi interventi. Un caso simile questo è quello dell’Australia.

 

Le questioni cruciali

 

Gli interrogativi riguardanti questa delicatissima pratica sono aumentati di pari passo con l’aumento delle capacità della tecnica, la quale ha consentito la realizzazione di strumenti in grado di sostituire le funzioni vitali di un individuo.

È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica ( vita dell’organismo ) o la vita biografica.

A tale proposito, come comportarsi nel caso dei bimbi anencefalici? Cosa dire di coloro che sono affetti da malattie a carattere degenerativo? Ad esempio: il malato di Alzheimer, il quale si allontana pian piano dal una propria autocoscienza può essere forse considerato meno in vita di un individuo sano?

Questi interrogativi mostrano pienamente l’intrigo della questione riguardante l’eutanasia. Tuttavia, rispetto alle ovvie risposte che fornisce un pensiero collegato alla sacralità della vita propria della religione cattolica ( l’eutanasia non va applicata in nessun caso ), ad essi ha cercato di dare nuove risposte la corrente utilitarista.

Essa promuove una teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si stabilisce il valore di un’esistenza. Per cui non solo le vite degli individui in stato di coma irreversibile, ma anche di quelli in stato vegetativo persistente o dei neonati con gravi malformazioni non hanno alcun valore in sé.

Le definizioni di vita e di morte si intrecciano con gli importanti i problemi sollevati dall’esigenza di trovare un comportamento condiviso per i medici che entrano a contatto con individui che non presenta alcuno stato di coscienza e quindi non possono esprimere alcun consenso in merito alle terapie da seguire o alla soluzione drastica di interruzione delle cure.

Ancora una volta entra in gioco la tecnica con i suoi strumenti: la constatazione, attraverso l’elettroencefalogramma ( EEG ), della assenza di attività cerebrale, sembra mettere tutti d’accordo sul fatto che  ci si trova di fronte a qualcosa di molto distante da un individuo vivo.

Non costituisce dunque reato per i medici dare luogo alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, avendo constatato regolarmente la morte cerebrale.

A questa argomentazione gli avversari dell’eutanasia introducono l’argomento del “pendio scivoloso”: consentire l’eutanasia vuol dire imboccare una strada dalla quale sarebbe poi molto difficile deviare.

Affermano che dall’eutanasia di individui incoscienti si potrebbe giungere in seguito all’eutanasia di portatori di malattia neurologiche a carattere degenerativo e alla soppressione di embrioni portatori, ad esempio, del morbo di Huntngton ( che non si manifesta prima dei 40 anni ). Si riconsegnerebbe ai medici uno strapotere assai pericoloso, rispetto a cui solo loro e i loro mezzi tecnici sarebbero in grado di dire la verità sulla vita morente e nascente.

I sostenitori dell’eutanasia obiettano a queste considerazioni con l’idea e la convinzione che un buon apparato giuridico consentirebbe di evitare l’imbocco di strade scivolose.






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