HANS BLUMENBERG

A cura di Roberta Musolesi

 

Nato a Lubecca nel 1920, Hans Blumenberg ha insegnato filosofia in diverse università, tra cui dal 1970 al 1985 in quella di Münster.
blumenberg.jpg  Lo scopo che si propone Blumenberg con la sua ricerca è quello di investigare e porre ordine nell’intricato mondo dei miti, delle metafore e dei luoghi comuni; nei suoi numerosi saggi in cui ha raccolto i risultati delle sue ricerche, ha contribuito alla delineazione dello statuto della metaforologia.
Il presupposto di partenza dell’indagine di Blumenberg consiste nel ritenere le metafore e i miti non «strutture pre-logiche provvisorie, che sarebbero poi sostituite da idee chiare e distinte», ma strutture che sono espressione dello stesso logos, del quale costituiscono, secondo l’opinione di Remo Bodei, un quadro di riferimento.  Numerose sue opere sono comparse anche in edizione italiana e fra queste è possibile menzionare Paradigmi per una metaforologia (Il Mulino, Bologna 1991) ed Elaborazione del mito, (Il Mulino, Bologna 1991), che con La leggibilità del mondo vanno a costituire la «trilogia» in cui Blumenberg le radici filosofiche del mondo moderno e le modalità di trasmissione degli apparati mitologici.

 

1.     La metaforologia

 

Al centro del pensiero di Hans Blumenberg vi sono le metaforiche che nei secoli hanno contraddistinto la lingua filosofica occidentale, in particolare i presupposti che hanno potuto legittimare l’uso di alcune metafore di cui la filosofia stessa si è servita e attraverso cui è avanzata la riflessione filosofica. La metaforologia non rappresenta tuttavia un metodo e una guida all’uso delle metafore, tale da conferirci cioè la padronanza nelle questioni che nelle metafore stesse trovano espressione, ma appare piuttosto una ricerca di ordine storico, che ha appunto come tema la metafora stessa. Al filosofo tedesco non interessa dunque il meccanismo mediante il quale agiscono le singole espressioni metaforiche, interessa invece cosa queste raccontino del modo attraverso cui l’uomo ha cercato di esprimere il proprio rapporto con la “realtà”. Per Blumenberg la metafora è dunque sicuramente un fenomeno cognitivo, o meglio una strategia mediante la quale il pensiero non solo si articola, ma su cui si fonda: essa è ed è stata una componente essenziale dei processi di strutturazione ed interpretazione del mondo da parte delle culture. E’ necessario pertanto, secondo Blumenberg, indagare la metafora da un punto di vista antropologico-filosofico, per descrivere e ripercorrere una modalità di accesso al “senso” per mezzo di essa e l'origine della mancanza o della perdita di questo ‘senso’.

 

 

2.     Le “metaforiche” della verità e del mondo: Paradigmi per una metaforologia

Che cosa è dunque la metaforologia? Con questo termine si intende innanzitutto un sistema coerente ed esaustivo di classificazione delle metafore, a cui dovrebbe accompagnarsi una teoria in grado di spiegare il meccanismo della semantica metaforica. Tra i molti tentativi di elaborare una metaforologia, spesso falliti perché o troppo circoscritti, dunque eccessivamente sistematici, o, al contrario, per nulla sistematici, quindi riducibili a puri e semplici repertori di figure, quello di Blumenberg si distingue per il criterio di classificazione adottato, che è tematico e investe l’intera storia del pensiero e delle sue figure. Un esempio è la metaforica della potenza e della forza della verità,  la vis veritatis di cui, per esempio, parla Lattanzio, oppure quella della verità nuda, o ancora quelle che descrivono il mondo come kosmos, come teatro, come orologio, come organo, come tribunale, come libro da decifrare, come terra incognita. Con Blumenberg siamo di fronte ad un uso e ad un senso trascendentale di metafora che dovrebbe includere e riassumere tutti i luoghi metaforici; per questo motivo è forse più corretto sostenere che Blumenberg si occupa di metaforiche, vale a dire di configurazioni discorsive in cui confluiscono le diverse espressioni metaforiche (a volte anche in forma di similitudini) che vengono individuate nei testi di autori che appartengono non solo alla storia della filosofia, bensì all’intera storia delle idee del mondo occidentale. Proprio per come viene impostata la ricerca, l’indagine di Blumenberg non può che risultare aperta e virtualmente illimitata, come egli stesso indica nel  titolo dell’opera in cui egli delinea il suo progetto, “ per una - possibile e futura – metaforologia”. Blumenberg sostiene esplicitamente di voler tracciare delle “linee storiche”, o, meglio, di voler fissare dei punti attraverso cui sarà possibile delineare la linea di possibile sviluppo storico di una metaforica. Ma prima ancora di voler fissare dei punti ed individuare le coordinate di una singola configurazione metaforica, è necessario interpretare il contesto di pensiero nel quale essa si colloca ed agisce, nel senso che occorre operare quelli che Blumenberg definisce “spaccati trasversali” per rendere comprensibile ciò che di volta in volta significano le metafore adottate. Ciò che Blumenberg enuclea partendo dalle immagini del pensiero caratteristiche di un’epoca, non è l’usuale contrapposizione fra senso traslato e senso letterale di un’espressione metaforica, bensì l’intero fenomeno semantico ad essa sotteso. L’opposizione significativa, per l’autore, si pone infatti non fra significato letterale e significato traslato, bensì fra pensieri chiari e distinti, cioè fra termini logici, e pensieri che per esprimersi hanno bisogno della metafora, in quanto il loro “referente” è assente e in quanto per la domanda a cui cercano di dar risposta non c’è soluzione. Con Paradigmi per una metaforologia Blumenberg avvia così un tipo riflessione filosofica che innanzitutto cerca superare il tradizionale modo di considerare le metafore come una specie di “anticamera” al pensiero concettuale, e tenta invece di avvicinarsi ad esse considerandole come qualcosa di autonomo. Paradigmi esordisce con la denuncia della “fallacia cartesiana”, e cioè dell’errore insito nella convinzione di potere smantellare ogni nozione ricevuta attraverso l’operazione del dubbio metodico e in virtù della mediazione divina e di poter pervenire in tal modo ad una evidenza primaria da cui ripartire e su cui fondare le nostre certezze. Se fosse stato possibile attuare il programma di Cartesio, la lingua filosofica sarebbe, secondo Blumenberg, una lingua di ‘concepibilità’ pura, in cui tutto può essere definito e, conseguentemente, tutto deve essere definito e in cui tutte le forme e gli elementi di locuzioni traslate risulterebbero assolutamente provvisori e perfettamente sostituibili in termini logici; dato questo presupposto, non è un caso quindi che la prima metaforica di cui si occupa Blumenberg sia proprio quella della verità. Le metafore che compaiono nella lingua filosofica e la sostengono sono inoltre, secondo l’autore, per la maggior parte assolute,  tali cioè da presentarsi come irriducibili di fronte alle proprietà della terminologia logica. I concetti puri, differentemente dalle metafore, sono estremamente precisi, ma questa loro particolarità li conduce tuttavia a una perdita di polisemia, alla cristallizzazione del loro significato in un unico percorso interpretativo. La metafora al contrario è invece imprecisa, e questo è anche la ragione per cui è sempre stata espunta dalla filosofia, per essere relegata alla retorica o alla poetica. In realtà, come commenta Remo Bodei, anche  il pensiero più puro, più raffinato, più tecnicizzato non può fare a meno di essere “curvato da sistemi di metafore”. Secondo Blumenberg, ognuno di noi è in parte determinato dall’apparato delle immagini e dalla loro selezione, condizionato da ciò che in generale ci si può mostrare e che noi possiamo tradurre in esperienza e qui starebbe l’origine della metaforologia. Una metafora assoluta inoltre, in quanto esprime una concezione originale del mondo, non è derivabile per trasposizione di modi letterali di dire o di altre metafore già in uso: le metafore assolute sono infatti strumenti ermeneutici, nel senso che costituiscono codici interpretativi che regolano e dirigono il nostro giudizio sulle cose. Non è un caso allora che, cercando di chiarire la natura delle metafore, Blumenberg si affidi a Kant che nella Critica del giudizio, trattando del procedimento della “traslazione della riflessione”, definisce il simbolo in maniera del tutto simile alla metafora di Blumenberg. Per Kant la realtà dei concetti può essere individuata solo per intuizione e, in particolare, la realtà dei concetti di ragione, le idee, può prendere forma solo attraverso una rappresentazione, che ha in comune con l’“intenzionato” solamente la forma della riflessione e non i suoi contenuti. Tale è il procedimento che sta all’origine del simbolo e che per Blumenberg corrisponde quasi esattamente all’accezione di metafora da lui stesso impiegata. In questa accezione, il simbolo/metafora diviene un modello di tipo pragmatico, da cui scaturisce una regola della riflessione, dalla connotazione pratica, e non un principio della determinazione teoretica dell’oggetto come  cosa in sé. La rilevanza delle metafore  assolute e la loro verità storica sono perciò di ordine pragmatico e ciò  significa che il loro contenuto determina un comportamento, un tipo di orientamento nel mondo,  che dalla metafora si trova a esser strutturato. Attraverso la metafora un’epoca esprime pertanto le proprie certezze, ma anche i propri dubbi, le proprie aspirazioni, le aspettative, le azioni, gli interessi e dalle metafore si inducono stili di condotta nel mondo. Le metafore assolute, precisa ancora Blumenberg, forniscono inoltre una rappresentazione del “tutto” della realtà, che, come tale, non è mai completamente esprimibile o dominabile, e rendono rappresentabile il “tutto” del mondo, che non può mai essere colto come oggettività, ma che può invece essere colto grazie ad immagini. Cosa sia effettivamente il mondo appare una questione che meno di ogni altra può essere risolta, ma che tuttavia non può essere lasciata irrisolta: il mondo come kosmos fu una delle risoluzioni costitutive della nostra storia spirituale, una metafora cioè il cui senso originario non perde di risonanza, malgrado il processo di progressiva concettualizzazione, e che è stata sempre ripresa in altre immagini, come quella del mondo come “grande vivente” , del mondo come “teatro” o come “meccanismo di orologio”. Se dopo la riflessione di Kant e l’elaborazione delle sue antinomie è diventato inutile ed improduttivo proporre enunciazioni teoretiche sul “tutto del mondo”, lo stesso non si può dire per le ‘immagini’” che comunque lo rendono rappresentabile. Per la metaforologia, anche per quella che Blumenberg svilupperà successivamente ai Paradigmi, volendo affermare qualcosa di sensato sul mondo, l’unica strada è dunque quella di scegliere uno schema conduttore che guidi la nostra riflessione senza preoccuparsi di dire la verità: le metafore, infatti, nulla ci dicono a proposito della verità, ma “stanno in corrispondenza” con quegli interrogativi considerati ingenui, cui per principio non si dà risposta, e la cui rilevanza consiste semplicemente nel fatto che essi non sono eliminabili, perché non siamo noi singoli individui a porli, ma li troviamo già posti nella costituzione stessa dell'esistenza.

 

 

3.     La legittimità della modernità

Blumenberg rivendica ad ogni epoca storica legittimità ed autenticità di contenuti di pensiero e nega perciò la possibilità di derivazione degli stessi da epoche precedenti. Tale modo di vedere, che, a suo avviso, nasconderebbe una visione sostanzialistica della storia, impedirebbe di cogliere i fenomeni storici nella loro diversità ed originalità e per il loro essere in antitesi con le epoche precedenti. La continuità del processo storico, per Blumenberg, non è data dalla sopravvivenza di contenuti ideali da un’epoca a quelle successive, bensì dall'ipoteca di problemi che un'epoca in tramonto impone all'altra. L'età moderna, ad esempio, si è generata, secondo l’autore, assumendo come compito la soluzione di problemi che nel mondo medioevale erano colti in modo pressante come bisogni ed aspettative nei confronti del senso del mondo; queste aspettative, sotto forma di domande irrisolte, sono le fondamentali questioni cui l'epoca moderna ha saputo rispondere e in questo modo generarsi. Tale processo risponde ad una logica che, secondo Blumenberg,  guida e caratterizza non solo il passaggio alla modernità, ma è insita in ogni transito epocale dal vecchio al nuovo; lo stesso Cristianesimo, infatti, ai suoi inizi, si trovò soggetto ad una pressione problematica di questioni che gli erano genuinamente estranee, basti pensare, ad esempio, alle difficoltà degli autori patristici nell'opporre alle grandi speculazioni cosmologiche dell'Antichità greca qualcosa di paragonabile sulla base della storia biblica della creazione. Ogni epoca che si presenta come nuova deve pertanto necessariamente occupare il ruolo che fino ad allora aveva assunto l'epoca precedente e deve proporre risposte proprie nei confronti dell’estraneità del mondo. L'elemento comune che caratterizza la crisi di senso di un’epoca è, secondo Blumenberg, la perdita di ordine. Considerando, ad esempio, l’antichità e soprattutto il Medioevo, tale perdita di ordine si è caratterizzata come messa in discussione della struttura della realtà, vista fino a quel momento dominata da un’impronta di razionalità. Nella struttura del senso che si era affermata infatti durante il corso del Medioevo, l'intelletto divino era pensato sulla forma delle idee platoniche e le cose del mondo da lui create portavano in se stesse le idee, elemento questo che ne garantiva la conoscibilità poiché le cose stesse, essendo nella loro essenza razionali ed intelligibili, risultavano, per un essere razionale quale è l’uomo,  creato ad immagine e somiglianza di Dio, perfettamente penetrabili e comprensibili. L'intelletto umano si conformava così alla forma essenziale delle cose. Con il nominalismo tardo medioevale si afferma invece una concezione di Dio legata più alla potenza della volontà che alla razionalità. Il Dio dei nominalisti non è più il demiurgo platonico, ma è un Dio creatore e la sua potentia absoluta, che i nominalisti pensano in difesa del dogma dell'onnipotenza, implica l'infinità del possibile; ciò significa che ogni essere, si tratti di persone o cose, sorge dal nulla, senza esistere preliminarmente in nessun esemplare, modello o idea (platonicamente intesa), neanche nella sua determinatezza concettuale. La Creazione si fonda su un atto continuo e gratuito di Dio, sostenuto dalla propria assoluta libertà, e quest’ultima fa in modo che sia impossibile individuare o cogliere una conformità del principio divino con le necessità conoscitive della ragione, poiché l'ordine del mondo è continuamente revocabile dalla volontà libera di Dio. Le riflessioni di Blumenberg sulla continuità del processo storico si ricollegano direttamente alla critica avanzata nei confronti  della categoria di löwithiana di secolarizzazione. Secondo Löwith, la secolarizzazione è un evento all'interno del processo storico, da porre in relazione con la comparsa delle moderne filosofie della storia e coincidente con l'inizio del processo storico dell'età moderna; esso si caratterizza come desiderio rivoluzionario di realizzare concretamente sulla terra il regno di Dio. La critica al teorema della secolarizzazione costituisce il leit motif che attraversa l'intero lavoro di Blumenberg e che trova la sua motivazione profonda nell’avversione e nella diffidenza nei confronti di ogni tentativo intellettuale che osi pretendere di mettere in discussione il diritto della razionalità moderna a rivendicare l'indipendenza e l'originalità dei suoi assiomi teorici. La secolarizzazione si configura, secondo la prospettiva di Blumenberg, come un modello ermeneutico di interpretazione dei processi storici che cerca di dare un senso e un ordine possibile al processo dinamico della storia, spiegando e comprendendo gli eventi in quanto fondati su quelli che li precedono: la concezione del movimento temporale del processo storico sottesa, secondo Blumenberg, al teorema della secolarizzazione è uno sviluppo che procede dal passato verso il presente, in modo tale che ciò che viene dopo non è altro che ciò che viene prima secolarizzato (B è A secolarizzato). Blumenberg oppone a tale modello un movimento della storia che va dal presente verso il passato: questo movimento coincide con la dinamica delle rioccupazioni del senso della storia ad opera delle risposte del presente. Ciò che Blumenberg propone in luogo della  secolarizzazione è pertanto il concetto di nuova occupazione:  la nuova occupazione o “rioccupazione” di frammenti di senso della storia ad opera di elementi della modernità mostra come, in effetti, nuovi valori si insedino al posto degli antichi, anch’essi un tempo autentici, ma ormai vuoti ed esausti. Per Blumenberg tale processo è irreversibile e definisce un chiave interpretativa alla quale lo storico non può rinunciare. La difesa che il filosofo opera nei confronti della modernità passa perciò attraverso la rivendicazione di legittimità dell'atteggiamento moderno: laddove la prospettiva secolarizzante deforma l’autenticità dell’età moderna facendone un semplice residuo del passato, l’affermazione della legittimità dell'età moderna consente invece di dichiarare assenti o inconsistenti tutti i condizionamenti storici che possono in qualche modo ipotecare la libera creatività delle pratiche e delle teorie sviluppate dalla modernità. Blumenberg, respingendo l’attacco delegittimante mosso dalla tesi della secolarizzazione, assume pertanto il compito di difensore della modernità stessa e mostra l’autenticità dei presupposti su cui si è edificata tutta l’epoca moderna, che, come tutti i processi di legittimità politici e storici, sorge anch’essa per discontinuità. L'asse del discorso si sposta quindi, sulla questione problematica della continuità nella storia. Sganciato da pesanti eredità esteriori e protetto da ogni condizionamento, il mondo reale degli uomini di una data epoca, così come lo pensa Blumenberg, costituisce una totalità finalmente liberata dal bisogno di ricercare i suoi punti di riferimento fuori di sé. Ogni verità è quindi completamente ed esclusivamente figlia del suo tempo e ciò che è sbagliato, agli occhi di Blumenberg, è la tendenza diffusa a voler ricercare, per ogni evento storico, il presupposto di un “inizio”, immanentemente privo di premesse. Secondo Blumenberg, l'inizio assoluto che si vuole porre ad inaugurare la storia vieta a se stesso di avere una storia. Alla luce di ciò, all’origine e alla base di ogni evoluzione storica occorre pertanto supporre un più solido fondamento, che dovrà potrà essere ricercato, secondo Blumenberg, solo e necessariamente in un aggancio teorico, di natura squisitamente razionale, rappresentato, a suo avviso, dalla forza di autoaffermazione legittimante della ragione. Nel concetto di autoaffermazione si condensano dunque tutte le considerazioni che Blumenberg è venuto sviluppando ed è qui che conducono i temi della nuova occupazione, della discontinuità, della legittimità, che Blumenberg sapientemente ha intrecciato, in un intreccio che deve porsi come piena giustificazione della razionalità della ragione. Autoaffermazione significa in effetti autonomia dell'agire razionale, spontaneità della libertà dell'uomo, in cui si rispecchia il proprio illimitato potere sul mondo. L'autoaffermazione non va tuttavia minimamente confusa con la conservazione in vita dell'essere naturale, con la pura e semplice sopravvivenza biologica o economica, ma viene invece a coincidere con un progetto d'esistenza che consente all'uomo di determinare la modalità del suo rapportarsi alla realtà circostante, realizzando le proprie aspirazioni con l'aiuto dell'enorme potenziale tecnico reso disponibile dalla scienza moderna.
Appare chiaro quindi che l'autoaffermazione, vera chiave di volta della costruzione teoretica blumenberghiana, legittima la razionalità dell'epoca moderna. Ma che cosa è che legittima, a sua volta, l'autoaffermazione stessa? La risposta a questo interrogativo va ricercata solo nei fatti. La prova provata, infatti, della validità del principio di autoaffermazione della ragione sta nel fatto, storicamente indiscutibile, che la razionalità moderna ha avuto buon successo nel sostituire la fede religiosa medievale come guida dell'agire teoretico e pratico umano. Questa argomentazione non rimane però senza effetti, in quanto produce una sorta di sbilanciamento dell'impianto complessivo del pensiero, visto che  la legittimità dell'età moderna viene riferita ad un fatto storico, al fatto cioè che l'età moderna ha saputo scalzare quella medievale.

 

4.     La modernità come definitivo superamento dello gnosticismo.  

A questo punto si inserisce la questione della gnosticismo e del suo superamento, che riesce in maniera definitiva e completa solo alla ragione moderna e nel quale superamento Blumenberg vede una delle conferme maggiormente significative della sua tesi interpretativa. Fu nella battaglia contro la gnosi che il pensiero medievale fu portato ad innescare il circuito del rinnovato interessamento mondano, affermatosi nel Rinascimento prima e nell’Età moderna poi. L’evoluzione storica dell’epoca medievale può essere compresa allora, secondo Blumenberg, come tentativo di liberarsi definitivamente dalla gnosi, secondo un processo dialettico dalle vaghe risonanze idealistiche, che, muovendo dall’ ingenua visione del cosmo propria dell’antichità e dell’epoca medievale,  giunge ad un’idea di mondo pensato come luogo dell'esercizio della finalità teorico-pratica dell'uomo. Il superamento dello gnosticismo e il conseguente successo della ragione moderna rassicurano così la ragione stessa circa la legittimità delle proprie rivendicazioni, che godono da quel momento in poi di una credibilità assoluta. È stato lo gnosticismo quindi ad aver aperto la strada all'autoaffermazione della ragione, una ragione  poi completamente risolta nel pensiero tecnico-calcolante. Ma, volendo esprimere un commento alla dottrina blumenberghiana, contrariamente a quanto affermato dallo stesso Blumenberg che riteneva il pensiero della trascendenza niente più che ingenua e mortificante tranquillizzazione, l'assolutizzazione della tecnica ha finito per essere un altro tranquillizzante, che ha indotto  una anestetizzazione delle coscienze ancora più potente. Per Blumenberg la tecnica non produce, perché non lo conosce, il male; peccato però che sia stato proprio questo l’aspetto che è improvvisamente balzato in faccia all'umanità post-moderna.



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