LA CONTROVERSIA TRA SEVERINO E BONTADINI: SPUNTI E RIFLESSIONI
di Andrea Damiani
Iniziato nel 1964, con la pubblicazione dell’articolo Ritornare a Parmenide, il confronto tra Emanuele Severino e il suo antico maestro Gustavo Bontadini si protrasse per circa un ventennio. Stando al parere di molti critici, i due protagonisti della discussione, peraltro legati da profondo affetto e sincera stima reciproca, non hanno mai modificato in modo essenziale le loro posizioni originarie; questo anche se a volte, per quanto riguarda Bontadini, si è voluto parlare di un “certo cambiamento di rotta”.
Alcuni studiosi, poi, hanno riscontrato in tale discussione una specie di impasse, in cui essa è venuta a trovarsi, a causa dei non pochi fraintendimenti generati dal differente utilizzo, da parte dei due autori, di concetti basilari quali “essere”, “contraddizione” o “divenire”. In ogni caso, prendendo in esame gli scritti in cui è concentrato il dibattito fra i due, ci pare di poter concordare con quanti sostengono la seguente tesi: pur se la critica bontadiniana non riesce ad argomentare in modo risolutivo i problemi che emergono dalle considerazioni di Severino, occorre tuttavia ammettere che Bontadini ha ragione nel ritenere insoddisfacenti, in certi punti, le repliche del suo discepolo.
A distanza di più di quarant’anni dalla comparsa di Ritornare a Parmenide e dell’articolo di Bontadini Sozein ta fainomena, che di quello costituiva la prima e immediata risposta, che valore possiamo attribuire oggi a questa controversia? Non è possibile, in questa sede, presentare in modo esaustivo il pensiero dei due illustri filosofi, e non ve n’è neppure l’intento. Ciò che qui si vuole mostrare è lo svolgimento di questo interessante dibattito nei suoi punti più salienti, perché questo potrebbe essere lo spunto per proporre alcune importanti considerazioni e riflettere su determinati problemi ancora aperti.
Nonostante Severino avesse già accuratamente elaborato ed esposto la sostanza del proprio pensiero ne La struttura originaria, (l’opera in cui tutti i suoi scritti, come egli stesso ebbe ad affermare nell’Introduzione del 1981, “ricevono il senso che è loro proprio”), il dibattito vero e proprio ebbe inizio, come già detto, con la pubblicazione di Ritornare a Parmenide nel 1964. Il neo-parmenidismo severiniano imponeva di ripensare, alla luce della verità del logos, tutta la storia della metafisica nei termini di un fondamentale nichilismo. Partendo dall’istanza parmenidea in base a cui “l’essere è e non può non essere”, si doveva constatare che, dopo Parmenide (ma forse già a partire dallo stesso eleate), questa caratteristica fondamentale dell’essere (cioè la sua eterna opposizione al non-essere, al nulla) fu applicata soltanto ad un certo tipo di essere, ossia l’Assoluto. Soltanto di questo ente privilegiato, trascendente rispetto al mondo, ci si sentì autorizzati ad affermare che esso non potesse non essere. Tutte le altre cose (uomini, alberi, case ecc…) di cui è costituito il mondo, e nelle quali quotidianamente ci imbattiamo, potevano tranquillamente essere concepite come indifferenti all’esistenza (come oscillanti, cioè, tra l’essere e il nulla). Questa l’essenza del nichilismo: l’essere è (almeno un certo tipo di essere), ma può anche non essere. Tale è la follia dell’Occidente, magistralmente espressa, secondo Severino, da questa breve asserzione tratta dal De interpretazione di Aristotele: “E’ necessario che l’essere sia, quando è, e che il non essere non sia, quando non è”. Il “quando” starebbe appunto ad indicare la possibilità di un tempo in cui l’essere non è ; o, che è lo stesso, l’inserimento dell’essere nel tempo. E il nichilismo sarebbe oramai diventato il modo di pensare comune a tutti gli uomini.
Chiunque prenda in mano un manuale di storia della filosofia constaterà che, dopo le pagine in cui si discorre di Parmenide e dei suoi discepoli, i capitoli successivi sono quasi sempre dedicati a quei filosofi, detti “pluralisti”, che hanno tentato di risolvere l’aporia del divenire, generata dalla potenza argomentativa del pensiero dell’Eleate, che rendeva l’essere immobile ed immutabile, e dalla attestazione del divenire nell’esperienza, che negava invece tale verità. Anche dal punto di vista del senso comune, immagino che la maggior parte di quanti si siano accostati per la prima volta allo studio della filosofia (magari al liceo!) abbiano provato, leggendo il pensiero di Parmenide, un senso di ammirazione e di insoddisfazione al contempo; quasi che, dopo aver assurto alle alte vette speculative del pensiero (per altro affascinanti), si attendesse con ansia un ritorno alle cose del mondo, che da Parmenide erano state relegate nell’ambito di una mera illusione. Pena, un’irrimediabile scissione tra la verità che si può ottenere attraverso la pura teoresi e la nostra vita di tutti i giorni; e, da ultimo, la sensazione di una sostanziale inutilità della filosofia la quale, pur discorrendo di cose nobilissime, non riesce a spiegare la sterminata varietà e ricchezza di cose che popolano l’universo in cui abitiamo. Continuando a sfogliare il nostro manuale, questo processo di riconciliazione tra la verità del logo e il referto dell’esperienza sembra giungere alla sua prima rilevante tappa, dopo gli sforzi di Empedocle, Anassagora e Democrito, con il pensiero di Platone; l’intento del quale, come ben sappiamo, fu proprio quello di rendere ragione della molteplicità dei fenomeni e insieme dell’unicità dell’essere. E tale intento si realizzò mediante l’introduzione della “Dottrina delle Idee” e del cosiddetto “parricidio”.
Rendere ragione della molteplicità dei fenomeni, ossia “salvare i fenomeni”: Sozein ta fainomena, appunto. L’essenziale della prima replica bontadiniana si scorge già a partire dal titolo dell’articolo suddetto; la critica principale rivolta a Severino è proprio quella di aver lasciato il mondo dell’esperienza in balìa della propria contraddittorietà, e di non averla risolta. La storia della metafisica, dunque, contrariamente a quanto aveva sostenuto il suo antico discepolo, non era affatto per Bontadini la storia della comprensione inautentica dell’essere, dominata dal nichilismo. Al contrario, essa rappresentava lo sforzo filosofico di superare la contraddizione del divenire attestato nell’esperienza. In essa, infatti, il divenire è qualcosa di evidentemente manifesto; e se la ragione guarda a questo divenire come a qualcosa di contraddittorio (perché il divenire altro non è che il passaggio dall’essere al non essere, e viceversa) è compito della ragione stessa il togliere di mezzo tale contraddizione (che sarà quindi, soltanto, una contraddizione apparente). L’errore di Severino sarebbe quello di aver creato una distinzione ipostatica fra i due mondi, cioè quello immutabile dell’Essere e quello diveniente dell’esperienza; lo stesso errore che aveva commesso Parmenide, con l’aggravante che adesso non è più accettabile rinchiudere il sensibile-diveniente nella casella dell’illusione.
Lo sforzo filosofico della metafisica di conciliare i due mondi, dunque, dopo i tentativi inadeguati (ma sempre sullo sfondo della Verità) di Platone prima e del neoplatonismo poi, giungeva a realizzarsi pienamente con la filosofia patristica e con la scolastica, mediante il concetto (sconosciuto alla mentalità greca) di creatio ex nihilo. Infatti, la potenza del Dio creatore (l’essere originario e immutabile) toglieva di mezzo la contraddizione del divenire, visto ora non più come qualcosa di originario, ma di derivato. Secondo Bontadini, dunque, se il divenire viene pensato come qualcosa di derivato (quindi non originario), allora esso non è più contraddittorio; l’immutabilità originaria dell’essere, (o, che è lo stesso, l’immutabilità dell’essere originario, Dio), rimane comunque garantita, e la sua potenza creatrice (e conseguenzialmente anche quella annichilitrice) permette di pensare senza contraddizione al divenire delle cose sensibili.
Non solo. Severino aveva affermato, sempre in Ritornare a Parmenide, che il Dio della patristica e della scolastica rappresentava la più grande elaborazione metafisica della ragione alienata, essendo un Dio creatore dell’assurdo (cioè di un essere che esce dal nulla e ritorna nel nulla; un essere che è ma può anche non essere; un essere che è un niente); Bontadini, al contrario, poteva replicare che l’unico modo possibile di pensare la non assurdità (cioè la non contraddittorietà) della realtà, in continuo divenire, era quello di pensare ad un Dio onnipotente che l’avesse creata. Non già un Dio assurdo creatore dell’assurdo, bensì un Dio che ci salva dall’assurdità.
La replica di Bontadini sembra a prima vista essere convincente. Non solo essa ci toglie da quell’imbarazzo misto a incredulità, che pervade il nostro animo dopo aver letto le pagine di Ritornare a Parmenide (sensazione molto simile a quella, cui si è accennato prima, provata dallo studente che s’imbatte per la prima volta negli scritti di Parmenide); ma presenta anche il vantaggio, molto rassicurante, di ripercorrere la storia della filosofia seguendo quell’impostazione “classica” che ci è stata trasmessa, da insegnanti e manuali, sin da ragazzi. Tutti noi, sicuramente, abbiamo avuto modo di leggere sui libri o di sentire in qualche lezione che la filosofia greca, mancando di concetti fondamentali quali “creazione” o “libertà”, non riesce a risolvere le aporie in cui essa è venuta ad imbattersi. Soltanto pensando ad una creatio ex nihilo, concetto ereditato dalla cultura giudaico-cristiana, ci è possibile ripensare le istanze della speculazione ellenica sotto una luce diversa, che elimina gran parte delle contraddizioni. Non si tratta di una adesione personale ad una fede particolare (di cui gli autori di patristica e scolastica sono stati illustri esponenti); non si vuole cioè affermare che l’unico modo possibile di pensare la realtà sia quello di credere in Dio; diciamo semplicemente che, se il pensiero metafisico ha ritenuto valido il principio parmenideo (l’essere è e non può non essere), allora ci accorgiamo che tale pensiero (sempre se vuol tenere saldo di fronte a sé il principio) va incontro a diversi problemi, e che questi problemi sembrano trovare un’adeguata soluzione soltanto attraverso il concetto di creazione, di origine cristiana.
La risposta di Bontadini, dunque, ci potrebbe apparire soddisfacente e ci potrebbe far pensare a Severino come ad un bizzarro personaggio che, incallitosi testardamente con una delle prime sentenze del pensiero metafisico, ha poi deliberatamente ignorato due millenni e mezzo di storia della filosofia, misconoscendone il valore. Ma l’apparenza spesso inganna, e Severino non è certamente un filosofo che si lascia intimidire dai manuali di storia della filosofia o dal senso comune; in effetti, con la pubblicazione nel 1965 del suo Poscritto, il filosofo bresciano chiarisce definitivamente quanto ancora era rimasto implicito del suo pensiero, rispondendo in modo inequivocabile alle obiezioni rivoltegli fino a quel momento (in primis proprio a quelle di Bontadini).
Se la critica mossa a Severino era stata, come si è detto, essenzialmente incentrata sul fatto che egli aveva deliberatamente lasciato il mondo dell’esperienza in balìa della propria contraddizione, cioè della contraddizione del divenire; ora, dalle pagine del Poscritto, emerge una considerazione ancora più sconcertante: il divenire (inteso come il passaggio dal non essere all’essere, e viceversa) non è assolutamente attestato dall’esperienza. La comprensione inautentica del senso dell’essere, che domina tutto il pensiero dell’Occidente, ha prodotto come sua principale conseguenza una comprensione inautentica del senso del divenire, sì che il divenire è erroneamente interpretato come un processo in cui ne vada dell’essere. Ma ciò è un’assurdità, perché all’essere (ad ogni essere) non è consentito in alcun modo di non essere.
L’esempio del pezzo di carta che brucia, addotto dallo stesso Severino, è rimasto celebre: vedendo un pezzo di carta che brucia, e che “diventa” cenere, il senso comune (o, come dice Severino, la “ragione alienata”) afferma appunto che, dopo essersi completamente bruciato, quel pezzo di carta non c’è più. Quell’essere, che noi chiamavamo “il pezzo di carta”; quell’essere che prima era e che, nel tempo in cui era, si opponeva al nulla; quel positivo, adesso che si è bruciato ed è stato ridotto in cenere, non esiste più. L’essere è trapassato nel non essere; l’essere che, appunto, si oppone al non essere fin tanto che esso è. E, secondo la ragione alienata, questo non esser più dell’essere è attestato dall’esperienza.
Ma l’esperienza, afferma Severino, non attesta affatto questo non esser più dell’essere. Il dato fenomenologico puro, libero da ogni interpretazione nichilistica, mostra soltanto che quell’essere, che è il pezzo di carta, non appare più. Il fatto che quell’essere non appaia più non ci autorizza ad affermare che esso non è più. Esso si è semplicemente dileguato dalla scena dell’apparire, ma l’esperienza (vista alla luce della comprensione autentica del logos) non dice nulla circa le sue sorti una volta che abbia abbandonato tale scena. In tal modo, ciò che non viene mostrato all’interno dell’apparire (la sorte appunto di quel pezzo di carta che ora non appare più, perché al suo posto sta apparendo un’altra cosa) è comunque conosciuto in base alla verità originaria dell’essere. E’ soltanto la ragione alienata che, interpretando quanto si mostra nel phainesthai, deduce che ciò che più non appare non sia neanche più; in realtà, in base al principio del logos, noi possiamo sapere con certezza che quel pezzo di carta, che adesso non appare più, è ancora (ed è eternamente).
A questo punto, risulta abbastanza evidente che quelle obiezioni di Bontadini comparse in Sozein ta fainomena, che abbiamo prima sommariamente riportato, vengono a cadere. Se infatti nell’esperienza, una volta che ci siamo liberati dei nostri pregiudizi alienati e nichilistici, non si dà alcuna attestazione del divenire (inteso come uscita e ritorno nel nulla da parte degli enti), in essa non v’è più alcuna contraddizione. Tale contraddizione, infatti, rimarrebbe insoluta se, una volta affermata l’immutabilità dell’essere, continuassimo a sostenere che, almeno in questa regione dell’essere, gli enti divengono; ma se il divenire non è un qualcosa di attestato, bensì soltanto il frutto di una nostra inautentica interpretazione della realtà, allora non si tratta più di dover conciliare la verità del logos col referto del phainesthai, giacchè questi due elementi non entrano più in contraddizione tra di loro.
La contraddizione del divenire, dunque, si risolve pensando il divenire stesso in termini di apparire-scomparire degli enti, anziché nei termini del loro essere-non essere. Solo in questo modo, per Severino, il mondo dei fenomeni è veramente tratto in salvo (giacchè esso è già stato tratto in salvo sin dall’eternità). Al contrario, la contraddizione non potrebbe essere risolta pensando il divenire in senso nichilistico, come fa Bontadini insieme a tutta la metafisica occidentale; in realtà, è proprio in questo atteggiamento nichilistico che si viene creare una separazione ipostatica tra due mondi (quello “fisico” e quello “metafisico”) e l’introduzione di un Dio trascendente e creatore ex nihilo non solo sarebbe l’ammissione di un ente creatore dell’assurdo, ma non sarebbe neppure in grado di operare la riconciliazione fra i due mondi.
Ogni singola determinazione dell’essere (questa casa, questo albero, questo pezzo di carta) esiste eternamente; ciò che varia non sono dunque gli enti, ma è l’apparire di essi (poiché quando qualcosa appare, per esempio la cenere, qualcos’altro non appare più, per esempio il pezzo di carta). Il senso comune e la ragione alienata, invece, permeati dalla concezione nichilistica dell’essere, credono di constatare il divenire degli enti, cioè il loro passaggio dall’essere al non essere. E il linguaggio occidentale ha elaborato dei termini specifici per descrivere (inautenticamente) sia quelle situazioni in cui un ente (che non era mai comparso prima) compare per la prima volta, sia quelle situazioni in cui ente (che prima compariva) si suppone che non debba comparire più: tali termini sono appunto “nascita” e “morte”.
Siamo qui di fronte al nucleo vero e proprio del dibattito: l’interpretazione del divenire. Questo nucleo ci sembra anche essere il luogo concreto da cui si dipanano tutte le successive argomentazioni dei due filosofi e, al contempo, l’occasione in cui la controversia si è imbattuta in quell’impasse di cui si parlava all’inizio. Il confronto fra Severino e Bontadini, naturalmente, non può essere circoscritto a questo argomento, giacchè tale confronto comprende tutta una serie di argomentazioni che spaziano dall’analisi del principio di non contraddizione alla definizione del pensiero contraddittorio, che in questa sede non è possibile ripercorrere in dettaglio. Tuttavia, il senso complessivo di tutte queste analisi, dell’uno e dell’altro pensatore, ci pare scaturisca da questo medesimo nucleo problematico, che è appunto l’interpretazione del divenire. E’ in base a tale interpretazione, infatti, che è possibile comprendere, dei due interlocutori, le istanze fondamentali coinvolte nel dibattito. Inoltre, è sempre a partire da questa problematica, e dai suoi successivi sviluppi, che si può rintracciare il senso di quel “certo cambiamento cambiamento di rotta” che alcuni addetti ai lavori (primo fra tutti proprio Severino) avrebbero riscontrato nella speculazione bontadiniana.
Abbiamo visto che le repliche di Severino alle obiezioni del maestro acquistano una valida potenza argomentativa allorchè venga dimostrato che, nel referto fenomenologico puro, non si dà alcuna attestazione del divenire in senso nichilistico. Tuttavia, a difesa di Bontadini, dobbiamo dire che solamente a partire dal Poscritto Severino fornisce un’adeguata spiegazione del mondo del divenire, in termini di apparire-scomparire. Infatti, se ci limitassimo alla sola lettura di Ritornare a Parmenide, noteremmo che l’autore, in alcuni passi, sembra lasciare spazio proprio a quell’interpretazione in base a cui egli, una volta affermata l’immutabilità dell’essere e l’impossibilità del divenire, non abbia spiegato come mai il divenire ci appare nell’esperienza. Naturalmente, il divenire di cui ora si discorre è quello inteso in senso nichilistico, ossia il processo in cui l’essere trapassa nel non essere (e viceversa). Dando modo di pensare che anch’egli intenda il divenire in base a questo significato, si comprende perché le obiezioni di Bontadini risultino ragionevoli e convincenti. Per confermare quanto si è appena detto, riportiamo alcune righe tratte dalle ultime battute di Ritornare a Parmenide:
“Obiettare a questo punto che la negazione che l’essere non sia resta smentita dal mondo, in cui l’essere sopraggiunge e dilegua, e cioè in cui l’essere non è, significa, né più né meno, non tener conto del discorso che è stato fatto. Questo albero è un positivo, e come tale è e non gli può accadere di non essere, e quindi è eterno, e come eterno dimora nella casa ospitale dell’essere: tutta la sua positività è già da sempre e per sempre tratta in salvo laggiù. Se a questo punto si obietta che quest’albero nasce e perisce, e quindi non è, e quindi c’è un essere di cui si può e si deve dire che non è, onde è manifesta nell’apparire la falsità della negazione che l’essere che non sia: se così si obietta, si dimentica che il positivo – ogni positivo -, che appare sottoposto alle vicissitudini del tempo, è già stato tratto in salvo (appunto mediante il rilevamento dell’impossibilità che esso, come tutto l’essere, non sia); si che non rimane una qualche porzione o dimensione del positivo, la quale non sia così salvata e resti abbandonata al tempo: ciò che resta nel tempo non è qualcosa che non sia posseduto dall’eterno (appunto perché di tutto, e quindi anche dell’essere che appare nel tempo, si deve dire che è eternamente); sì che il non essere dell’essere che è nel tempo non smentisce ciò che, per altro, non può essere in alcun modo smentito: che l’essere è e non può non essere.”
Se teniamo presente il brano appena riportato e le considerazioni fatte poco prima, ci pare che Bontadini abbia ragione nell’affermare che Severino non tenga in alcun modo conto del problema del divenire che riscontriamo nell’esperienza, e nel ritenere “strano” questo suo discorso conclusivo:
“Strana, dico, questa Tua protesta, perché, eadem ratione, un tale, il quale avesse scritto dei grossi volumi, oppure un opuscoletto, sulla caducità delle cose umane e mondane, potrebbe, alla fine, lui pure protestare, contro chi gli obiettasse che ‘l’essere è e non può non essere’, che con ciò non si terrebbe conto di tutte le sue considerazioni. La verità è che entrambe le proteste sono ingiuste, in quanto è necessario tener conto di entrambe le istanze: salvare l’incontraddittorietà dell’essere, e, insieme, salvare i fenomeni.”
Soltanto a partire dall’esplicitazione severiniana dell’autentico senso del divenire esposta nel Poscritto, dunque, è possibile interpretare Ritornare a Parmenide, e conseguenzialmente anche Sozein ta fainomena, sotto una luce diversa. E, dunque, come dicevamo, il nocciolo della controversia non sarà più incentrato sulla riconciliazione tra la sfera dell’immutabile e la sfera del diveniente, bensì sull’interpretazione del divenire, cioè sulla possibilità di accettare o meno la tesi di Severino in base a cui il divenire, inteso in senso nichilistico, non solo è assurdo, ma non è neppure attestato dall’esperienza.
Questa tesi è, come era abbastanza facile prevedere, respinta da Bontadini nell’articolo che costituisce la risposta al Poscritto e che egli intitola Postilla. Le argomentazioni che portano Severino a sostenere che, nell’autentico referto del phainesthai, non si dà alcun elemento per affermare la nascita o l’annichilimento dell’essere, non sembrano per Bontadini essere convincenti. Anche ammettendo, infatti, che quel famoso pezzo di carta, che la “ragione alienata” afferma non esistere più, in quanto ha visto bruciare, esiste invece ancora (e eternamente) nella casa dell’essere; anche ammettendo questo, non si riesce però ad eliminare quel certo residuo di divenire, cioè il divenire dell’apparire della carta, che è attestato dall’esperienza. Eccoci qui di fronte alla famosa impasse! Ma per comprendere pienamente il senso di questa impasse, è necessario riportare, sinteticamente ma con precisione, alcuni passaggi chiave del pensiero severiniano, che sono stati in parte equivocati da Bontadini. Ciò che potremmo dire, dopo queste riflessioni, si allinea sostanzialmente con quanto è affermato nel saggio di Leonardo Messinese intitolato Essere e divenire nel pensiero di E. Severino:
“La critica di Bontadini non riesce a togliere la tesi di Severino che l’autentica fenomenologia non attesta il divenire in senso nichilistico. Eppure, occorre aggiungere che Bontadini ha delle ragioni per continuare a restare insoddisfatto della soluzione severiniana. Infatti, fermo restando che anche il divenire dell’apparire non può essere immediatamente identificato al suo ‘annullamento’, resta pur vero che Severino non è riuscito a fornire un’adeguata spiegazione del variare dell’apparire.”
Prendendo in considerazione alcune pagine fondamentali del Poscritto, ci accorgiamo che lo stesso Severino si era già in parte cautelato dalle possibili obiezioni che poi gli saranno effettivamente rivolte nella Postilla. Dopo aver esposto accuramente le sue considerazioni in merito al senso autentico del divenire, che andrebbe appunto inteso come un processo in cui non ne va dell’essere bensì dell’apparire, il pensatore bresciano osserva che questa soluzione potrebbe essere vista come un semplice spostamento dell’aporia; l’entrata nell’apparire, infatti, è essa stessa un positivo, cosicchè, prima che qualcosa appaia, e dopo che qualcosa scompare, questo positivo (che è l’essere dell’apparire) non è. (E’, come si vede, l’obiezione di Bontadini).
La base di questa obiezione, tuttavia, è anch’essa pregna, secondo Severino, di presupposti nichilistici. Per risolvere questa aporia, il nostro filosofo elabora una argomentazione per la verità alquanto complessa, sostenendo la seguente tesi: qualcosa può apparire soltanto se appare il suo apparire. Di solito, invece, si ritiene che l’apparire sia qualcosa cui sia consentito di non avere come contenuto sé medesimo, e quindi si pensa che l’apparire sia soltanto l’apparire delle cose, senza essere anche apparire del loro apparire. Ma questo, osserva Severino, è errato. Infatti, se un ente appare (ad esempio una lampada), ma non appare l’apparire di questa lampada, allora questa lampada non può apparire; se, quando questa lampada appare, appare anche il suo apparire, allora –se questa lampada incomincia ad apparire- incomincia ad apparire anche il suo apparire; e se questa lampada non appare più, non appare più nemmeno il suo apparire.
La base dell’obiezione fatta prima, dunque, non può essere una constatazione (ossia non può essere l’apparire dell’annullamento dell’apparire), perché il discorso che si era fatto più sopra sul pezzo di carta (o sulla lampada) vale anche per l’apparire di questo pezzo di carta (o di questa lampada). Come non appare che il pezzo di carta, bruciandosi, divenga nulla, così non appare nemmeno che l’apparire del pezzo di carta, svanendo, divenga nulla. Quando si obietta nel modo di cui sopra, si afferma (nichilisticamente) il non essere di ciò che è già stato posto come un non apparire. Pertanto, Severino può dichiarare che:
“E’ solo perché non ci si rende conto che il comparire e lo scomparire di qualcosa è insieme il comparire e lo scomparire dell’apparire di qualcosa, è solo per questo motivo che, in relazione alla posizione del divenire come comparire e sparire dell’essere, ci si sente autorizzati ad inferire che, dunque, se qualcosa compare e scompare, allora il suo apparire non è”.
Il divenire che appare è sempre il divenire di una determinazione particolare o empirica del contenuto che appare, e in ciò si distingue dall’apparire inteso come evento trascendentale, ossia come l’orizzonte della totalità di ciò che appare. Inoltre, come ogni altro positivo, l’evento trascendentale è eterno e immutabile: l’unico senso secondo il quale si può affermare il divenire dell’evento trascendentale è dato dunque dal divenire del suo contenuto empirico. Infine, si può supporre che delle determinazioni particolari del contenuto dell’apparire sarebbero potute non apparire, o che non appaiano più; ma non si può supporre che non sarebbe potuto non apparire nulla, o che potrebbe non apparire più nulla, perché in tal modo si supporrebbe che quel positivo, che è l’orizzonte totale dell’apparire, sarebbe potuto o potrebbe essere un niente.
A questo punto, possiamo rimetterci sott’occhio la critica di Bontadini che precedentemente avevamo iniziato ad esporre; la prima parte di questa, come si ricorderà, consisteva nel rilevamento che, se anche il divenire di un ente non poteva essere fenomenologicamente attestato dall’esperienza, tuttavia rimeneva una sorta di residuo di divenire (perciò di non essere) costituito dal divenire dell’apparire di quell’ente. Questa prima parte dell’obiezione, non potrebbe forse già essere tolta a partire dalle considerazioni di Severino appena riportate? Non siamo qui di fronte a quei passaggi chiave che il filosofo milanese ha in parte equivocato? Ma la critica di Bontadini non si arresta qui; infatti, proseguendo immediatamente il suo discorso, egli fa notare che: nonostante sia possibile in qualche modo disgiungere un ente dal suo apparire (in quanto si afferma che tale ente esiste anche fuori dell’apparire), tuttavia non è possibile disgiungere l’apparire da sé medesimo (affermando che l’apparire dell’ente esiste anche fuori dell’apparire, cioè fuori di sé stesso!). Facciamo parlare l’autore stesso:
Quando Severino assevera che, come la carta è eterna, così è anche eterno, eadem ratione, l’apparire della carta, si deve osservare che, codesto eterno e immutabile apparire (chiamiamolo S, in omaggio al suo scopritore) non è lo stesso di quell’apparire (chiamiamolo A) in cui si verifica che, scomparendo la carta, vien meno, con ciò stesso, l’apparire della carta. Se, infatti, S e A fossero lo stesso, allora, essendo eterno l’apparire della carta in S, lo sarebbe anche in A. Perciò si deve ammettere che almeno questo residuo –“l’apparire della carta in A”, o, che è lo stesso, “l’apparire A della carta”- è soggetto al divenire (in senso classico, cioè come implicante il non essere dell’essere).
Oramai, ci sembra essere giunti proprio in quel punto nevralgico in cui la controversia si arena perché, se anche la critica di Bontadini non riesce a cogliere pienamente il senso del discorso severiniano (discorso che, lo ripetiamo, è tutto incentrato sulla considerazione che ogni divenire, quindi anche quello dell’apparire, deve essere pensato in base alle categorie dell’apparire-non apparire, e non in termini di essere-non essere); se anche avviene ciò, sembra che, per quanto siano pienamente coerenti con il suo sistema, le argomentazioni di Severino non riescano in fin dei conti a togliere quel fastidioso “prurito” causato dalla legittima domanda: perché accade che in un determinato momento mi appare qualcosa e nel momento successivo quel qualcosa non mi appare più? Vedremo più avanti che questo discorso ci porterà a svolgere alcune riflessioni intorno a quel particolare ente che comunemente chiamiamo “coscienza”, giacchè è proprio in questo elemento che si può riscontrare quel “residuo” di divenire di cui parla Bontadini.
Finora abbiamo preso in considerazione, dei due autori, soltanto quattro opere: Ritornare a Parmenide e Poscritto di Severino, e Sozein ta fainomena e Postilla di Bontadini. Le risposte di Severino alle ultime critiche di Bontadini di cui si è poco anzi parlato, apparse nella Postilla, sono esposte in un altro breve articolo, intitolato appunto Risposta ai critici. In particolare, all’obiezione bontadiniana per cui non era possibile disgiungere l’apparire da sé medesimo, Severino replica che il vecchio maestro, nella sua critica, non aveva tenuto in alcun modo presente la distinzione essenziale tra l’apparire empirico e l’apparire trascendentale; in base a tale distinzione, dunque, non si intende affatto negare che l’apparire empirico “venga meno”, ma il suo “venir meno” è il suo sparire, il suo uscire dall’apparire trascendentale, e non (come si era voluto sostenere) un divenire in senso classico (implicante il non essere dell’essere). Per la verità dell’essere, infatti, ciò che diviene è appunto l’eterno; l’eterno, che non può divenire in senso nichilistico, è appunto ciò che diviene in senso non nichilistico, e cioè si rivela storicamente, processualmente.
Per comprendere meglio il punto che è stato frainteso da Bontadini, è opportuno rilevare che, quando Severino si serve di espressioni come “entrare” o “uscire” dall’apparire, egli utilizza questi verbi di “movimento” in un senso fondamentalmente metaforico, e non per esprimere un qualche movimento reale; “entrare nell’apparire” significa semplicemente: l’apparire è attestato; così come “uscire dall’apparire” significa che l’apparire non è attestato. Ma, pur non essendo attestato, l’apparire comunque è, ed è eternamente. Una volta compreso questo, possiamo notare che:
Contrariamente a quanto sostiene Bontadini, si deve dire che l’apparire immutabile della carta (=S) è lo stesso apparire che entra ed esce dall’apparire ed è altro dall’apparire in cui esso appare, cioè l’apparire trascendentale, laddove il filosofo milanese, identificando “l’apparire della carta in A” con “l’apparire della carta” simpliciter, pone l’eguaglianza tra un’espressione che comprende l’apparire empirico e quello trascendentale, con un’altra che esprime il mero apparire empirico.
Ma, come abbiamo già detto in precedenza, anche se Bontadini non riesce a cogliere appieno il senso dell’apparire severiniano, resta pur vero che un qualche “residuo” di divenire rimane ineliminabile, perché, anche laddove volessimo intendere il divenire come il rivelarsi progressivo e processuale dell’eterno, tuttavia ci sembra di poter dire che qualcosa “varia”, si “muove”, perlomeno all’interno della coscienza. E dunque bisognerà fare alcune riflessioni intorno a questo particolare ente (che è l’ente che attesta l’apparire degli enti).
Severino, dunque, rimprovera il suo maestro di non aver tenuto conto della differenza tra apparire empirico e apparire trascendentale; Bontadini, dal canto suo, replicherà all’ex allievo che la sua critica era proprio basata su tale distinzione (che egli non accettava). A questo punto, ci troviamo di fronte ad una semplice domanda: ha senso dire che qualcosa appare, ma che non appare il suo apparire (e, quindi, non appare)? Per Severino, ciò che appare, appare eternamente; quindi, se qualcosa ora non appare più (per esempio il pezzo di carta che è andato bruciato), è semplicemente scomparso il suo apparire (e cioè il suo apparire non è più attestato): ma da ciò non si può inferire che il suo apparire non è più. Se questo pezzo di carta, ora, mi appare, ciò significa che non solo mi appare il pezzo di carta, ma che mi appare anche il suo apparire; e se il pezzo di carta non mi appare più, ciò significa semplicemente che non mi appare più il suo apparire, anche se in realtà il pezzo di carta continua eternamente ad apparire (solo che tale apparire non è più attestato). Per Bontadini, invece, tutto questo discorso è errato, giacchè non ha senso dire che un ente, che non appare più, appare eternamente. Se in un momento x mi appare la carta, e nel momento x’ la carta non mi appare più, allora essa simpliciter non appare più.
Si è già notato che Bontadini, affermando che l’apparire eterno della carta S non coincide con l’apparire empirico della carta A, commette un errore, in quanto, nella prospettiva severiniana, l’apparire S è lo stesso dell’apparire A; l’apparire A significa che l’apparire S è attestato (o, che è uguale, che nell’apparire di A, ciò che appare è S).
Per meglio comprendere il concetto severiniano di “apparire dell’apparire” si può fare un esempio molto banale. Supponiamo di avere davanti a noi una penna; questa penna ci appare, e ciò significa che l’apparire è strutturalmente connesso a questo ente, che è appunto la penna. Ebbene, se noi ora prendessimo questa penna e la chiudessimo dentro un cassetto, in modo tale che non la vediamo più, potremmo sostenere –secondo la logica severiniana- che la penna appare ancora, solo che non ci appare il suo apparire. La penna, che ha come sua proprietà quella di apparire, appare anche quando è chiusa nel cassetto; ma, dal momento che noi non riusciamo a vedere che cosa c’è dentro il cassetto, avviene che il suo apparire non ci appare (cioè non è attestato, è uscito dall’ “apparire trascendentale”).
Tale considerazione, tuttavia, porta a spostare l’attenzione sull’elemento della coscienza (cui qualcosa appare). Se è la coscienza ciò a cui appare l’apparire, cioè se è la coscienza ciò che compie l’attestazione dell’apparire; e se, d’altra parte, “entrare” ed “uscire” dall’apparire trascendentale significano, rispettivamente, che la coscienza attesta oppure non attesta l’apparire; e se, infine, dire che il pezzo di carta non appare più significa che la coscienza non attesta più il suo apparire (eterno); in base a tutte queste premesse, possiamo fare due supposizioni:
a) O la stessa coscienza presenta nel “tempo” due determinazioni diverse, cioè (1)la coscienza che ha come contenuto l’apparire della carta e (2)la coscienza che non ha tale contenuto (cioè avviene che “prima” essa attesta l’apparire dell’ente, e dopo essa non l’attesta più); in tal modo è possibile recuperare l’obiezione bontadiniana in quanto quel positivo, costituito dalla mia coscienza che ha come contenuto 1 si annulla (diviene) per far posto a quell’altro positivo (che di quel primo costituisce il negativo, il non essere) costituito dalla mia coscienza che ha come contenuto (2).
b) Oppure, anche per la coscienza, vale il medesimo discorso che Severino ha fatto per gli altri enti. Se ogni determinazione dell’essere è eterna e immutabile, allora gli enti non divengono; il divenire degli enti sarebbe il semplice susseguirsi di tanti enti diversi. Prendiamo come esempio il solito pezzo di carta che brucia e consideriamo, per comodità, soltanto quattro momenti: 1) il pezzo di carta è integro; 2) il pezzo di carta inizia a prendere fuoco; 3) il pezzo di carta è bruciato a metà; 4) il pezzo di carta è tutto ridotto in cenere. Ebbene, laddove (secondo Severino) il senso comune e la ragione alienata sostengono che, ciò che si è visto nel susseguirsi di 1, 2, 3 e 4, è lo stesso pezzo di carta che si modifica e diviene, fino addirittura a diventare nulla; la verità del logos e l’autentico referto fenomenologico impongono invece di pensare che 1, 2, 3 e 4 sono tutte eterne determinazioni dell’essere che, semplicemente, appaiono in successione. 1 è eterno, così come eterni sono 2, 3 e 4. Ciò significa che la carta che appare in1 non è la stessa carta che appare in 2, e che la carta che appare in 2 non è la stessa carta che appare in 3, e così via. E così ci sarebbero tanti pezzi di carta, ognuno dei quali eterno e immutabile, che appaiono in successione. Ebbene, tale discorso, seguendo la logica severiniana, va applicato anche a quell’essere che è la coscienza; in tal modo, certamente, non saremmo più obbligati a pensare ad una coscienza in divenire (in quanto diviene il suo contenuto), ma dovremmo pensare che “la coscienza che attesta l’apparire della carta” non è lo stesso de “la coscienza che non attesta l’apparire della carta”. Entrambe le coscienze, coi rispettivi contenuti, sono eterne e immutabili e, semplicemente, si susseguono nell’apparire (in questo caso nel loro auto-apparire). Dovremmo allora discutere anche su questo aspetto, cercando di capire in che modo sia possibile una qualche unità della coscienza: giacchè, se anche di un pezzo di carta in divenire possiamo pensare che, in realtà, siano tanti pezzi di carta eterni e immutabili, il discorso sembra risultare un po’ più problematico per quanto riguarda la coscienza, sulla cui unità crediamo di avere maggiori certezze.
Le considerazioni che abbiamo appena svolto ci portano dunque a rivolgere la nostra attenzione su di un altro aspetto della controversia, che finora è stato discusso solo parzialmente. Ogni teoria filosofica, infatti, (ma in generale ogni teoria), non solo si può distinguere dalle altre per ciò che riguarda i presupposti da cui essa parte e per il modo in cui tali presupposti vengono sviluppati per costituire un “sistema”; ma anche in base alle conseguenze che tale teoria implica. Una teoria materialistica, per esempio, non solo differisce da una teoria creazionistica religiosa per ciò che concerne l’origine dell’uomo o del mondo; ma è anche evidente che essa avrà, come coerente conseguenza, il toglimento di categorie quali “bene” o “male” intese in senso “assoluto”, e pertanto queste categorie verranno concepite in base ad un’accezione convenzionalistica o utilitaristica. E’ chiaro che queste conseguenze, poi, non sono riducibili a meri fatti; esse hanno invece un peso specifico per la condotta dell’uomo. Esse non solo rispondono alla domanda: come stanno le cose? Ma anche alla domanda: come ci dobbiamo comportare?
L’aspetto della controversia su cui ora vogliamo discutere è appunto quello basato sulle conseguenze che sono implicate nelle tesi di Severino, perché anche su di esse Bontadini si è fermato a riflettere. Queste conseguenze sono chiamate da Bontadini “inconvenienti”, e vengono esposte dall’autore nella seconda parte della Postilla. Il primo di questi “inconvenienti” è la cosiddetta proliferazione degli enti. Se, infatti, eliminiamo la concezione “volgare” dell’unico pezzo di carta che, bruciandosi, diviene, e, infine, diventa un nulla (concezione nichilistica del divenire), allora, dato che dobbiamo ammettere l’esistenza di un numero infinito di momenti in cui avviene questo bruciarsi della carta, dovremmo anche ammettere un numero infinito di pezzi di carta (tutti eterni e immutabili) per ognuno di questi momenti. E Bontadini osserva che questa è una “strana concezione del reale mondano”. Inoltre, se consideriamo valida tale concezione, sorge (sempre secondo Bontadini) un altro paradosso: non si comprende come mai al fenomeno “uomo con barba a1” debba succedere il fenomeno “uomo con barba a2”, e non piuttosto un’altra cosa (ad esempio un tubo di stufa!), dato che l’uomo con barba a1 è tutta un’altra cosa dall’uomo con barba a2.
Ma questo non è tutto; scorrendo infatti questo “elenco di inconvenienti”, ci troviamo a dover fare i conti con quel problema cui abbiamo accennato più sopra, cioè la questione dell’unità della coscienza. Di fronte a tale problema, infatti, gli aspetti paradossali della filosofia di Severino, diventano per Bontadini addirittura aporetici, giacchè quando si parla dell’io, si “tira di mezzo” l’autocoscienza: ovvero, rileva Bontadini, l’io è io perchè si riconosce come tale (e cioè perché si percepisce come unità, e come unità che diviene). Se invece eliminiamo questo aspetto, ci troviamo di fronte ad una serie di conseguenze inconcepibili, e per esempio dovremmo supporre che colui che fa una promessa non sia lo stesso che è tenuto a mantenerla, e che colui che pecca non sia lo stesso che si pente (di un peccato pertanto non suo). Ed è anche in questo aspetto che Severino opera una “deformazione del mondo umano”, in quanto elimina ogni unità del molteplice.
Anche a questo secondo gruppo di obiezioni, che consiste nel rilevamento dei principali “inconvenienti” che scaturiscono dal pensiero di Severino, il filosofo bresciano ha dato la sua risposta (in Risposta ai critici). E’ interessante notare che in un suo lavoro precedente, intitolato Sull’aspetto dialettico della dimostrazione dell’esistenza di Dio (su cui torneremo in seguito per accennare alla cosiddetta “svolta”), Bontadini aveva affermato che, qualora nel mondo intelligibile esistesse eternamente ogni singola determinazione che appare nel sensibile, allora Socrate dovrebbe essere eternamente seduto ed eternamente in piedi; ma questi positivi sarebbero tra di loro incompatibili, giacchè solo nel tempo è possibile che il medesimo assuma atteggiamenti contraddittori.
Nella Postilla invece, come ha osservato Severino, l’autore milanese definisce tale molteplicità (lo abbiamo visto) una “strana concezione del reale mondano” e non più –si badi bene- come un concetto contraddittorio (come aveva fatto in precedenza), e così può pensare che Socrate in piedi e Socrate seduto esistono eternamente e incontraddittoriamente. Tuttavia, come si è rilevato prima, ammettendo questo si toglie di mezzo ogni unità del molteplice: Socrate seduto non sarebbe lo stesso che Socrate in piedi, e non si comprende nememno in che modo sia possibile l’ordine delle successioni.
Unità del molteplice e ordine delle successioni: questi, in sintesi, i concetti su cui si articola la risposta di Severino che andremo ora ad analizzare. E a questi due problemi egli risponde facendo due diversi rilievi.
Per quanto riguarda il problema dell’unità del molteplice, che secondo Bontadini sarebbe stata “tolta di mezzo”, Severino replica che in realtà tale unità continua ad esistere. Ogni molteplice, infatti, costituito per esempio da Socrate in piedi, Socrate seduto, Socrate giovane e Socrate vecchio, rimane comunque sotteso da una identità: l’essere Socrate, appunto. Questa unità è da Severino definita essenza, e tale essenza è ciò che comunemente viene chiamato “individuo” oppure “cosa”, e che si rapporta ad una molteplicità.
Ma come si spiega, a questo punto, che certe essenze coappaiono nel medesimo contenuto (dell’apparire), mentre altre essenze appaiono soltanto in successione? Perché, in poche parole, accade che l’essenza “uomo” si rapporta ad una molteplicità non successiva (cioè, per esempio, appaiono insieme e contemporaneamente Socrate e Alcibiade), mentre l’essenza “Socrate” si rapporta sempre ad una molteplicità successiva (di modo che non appaiono mai –nell’apparire trascendentale- Socrate seduto e Socrate in piedi contemporaneamente)? Per comprendere bene la risposta di Severino è fondamentale tenere presente la sua definizione di “necessità”; la necessità è, per il pensatore bresciano, ciò la cui negazione è contraddittoria. Che un triangolo abbia tre lati è quindi necessario, perché la negazione di tale affermazione è una contraddizione. Ora, al concetto di “necessità” si oppone quello di “fatto”; il fatto è, per Severino, ciò che non è determinato dalla struttura della necessità. Un fatto è dunque qualcosa che accade, o che si mostra, o che si presenta in un determinato modo ma la cui negazione non costituisce affatto una contraddizione (così è avvenuto, ma poteva anche avvenire diversamente). Tornando al nostro discorso, dunque, alla luce di quanto adesso abbiamo detto, comprendiamo perché Severino può rispondere alla domanda precedente in questo modo:che Socrate e Alcibiade coappaiano, mentre Socrate in piedi e Socrate seduto no, è un fatto. In quanto fatto, dunque, questo diverso modo di rapportarsi alla molteplicità da parte di alcune essenze (cioè in modo successivo o in modo non successivo) è un semplice accadere, ovvero non soggiace ad alcuna necessità. Infatti, Severino non ha problemi ad ammettere che:
Socrate eterno è pertanto una certa essenza, eternamente reale in una molteplicità di determinazioni eterne (e dove la stessa successione del loro apparire appartiene al loro eterno determinarsi). Nell’apparire ruota il ventaglio di questa eterna molteplicità, mostrando successivamente gli elementi che la compongono (ed è innanzitutto l’esperienza a dire di quali elementi sia composto). Ma la successione è un fatto, e il ventaglio potrebbe tutto insieme comparire, il passato insieme al presente e al futuro.
Non solo: anche l’ordine delle successioni è, per Severino, un semplice fatto. E così, alla domanda di Bontadini che chiedeva perché al fenomeno “uomo con barba a1” dovesse succedere il fenomeno “uomo con barba a2”, (e non piuttosto un tubo di stufa), dal momento che si era eliminata la concezione “volgare” dell’unico uomo con barba in divenire, Severino risponde facendo due osservazioni: in primo luogo, come abbiamo già detto, anche l’ordine della successione è un mero fatto; in secondo luogo, secondo il filosofo bresciano, nemmeno la concezione “volgare” dell’unico uomo con barba in divenire sarebbe in grado di sostituire il fatto con una necessità.
Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un problema che non è di poco conto. Il discorso severiniano, infatti, introducendo il concetto di “essenza” (che sarebbe ciò che si rapporta ad una certa molteplicità) ci spinge a chiederci quale sia, in definitiva, il valore di tale essenza. Anche se volessimo prescindere da tutte quelle essenze che il linguaggio comune chiama “cose”, ci dovremmo comunque interrogare sul significato di quelle particolari essenze che il linguaggio comune chiama “individui”. Severino nega che esistano “individui in divenire” (cioè prima giovani e poi vecchi, prima seduti e poi in piedi), affermando che con questa espressione si intende in realtà un’essenza che si rapporta ad un certo molteplice, e che appare –come semplice fatto- in una successione ordinata. Ma non si ha qui l’impressione che il concetto di “individuo (che diviene)” stia qui, una volta cacciato fuori dalla porta, rientrando dalla finestra? Lo stesso Severino, infatti, riconosce che un’essenza, ad esempio l’essenza di Socrate, si rapporta ad un determinato molteplice omogeneo, rilevando che Socrate seduto e Socrate in piedi sono tra loro meno eterogenei di quanto non lo siano Socrate seduto e Alcibiade. L’essenza “Socrate”, dunque, è un’unità di molteplici omogenei, e questa omogeneità costituisce appunto l’individuo. Sarebbe interessante capire quale siano la natura di questa “essenza” e di questa molteplicità omogenea.
Bontadini, dal canto suo, rileverà che l’errore di Severino è dato in questo caso dal fatto che egli utilizza il termine “essenza” sia per indicare l’individuo, sia per indicare l’universale:
Altro è che due individui, che abbiano caratteri contraddittori (uno dotto e l’altro indotto) convengano nella stessa specie e/o nello stesso genere, altro è che lo stesso individuo abbia determinazioni contraddittorie (fuori del tempo). La praedicatio recta è “Socrate è uomo” e non “l’uomo è Socrate”; ma anche adottando questa ultima predicazione, non è contraddittorio affermare che “l’uomo è Socrate” e insieme che “l’uomo è Alcibiade” (= non Socrate), perché l’essenza uomo riceve i predicati contraddittori (se pure si vuol considerarli tali; giacchè non-Socrate significa diverso da Socrate e non la negazione di Socrate) in due zone diverse (le due individualità distinte). (Così come questa carta è bianca dove non è scritta e nera dove è scritta). La cosa va diversamente nel caso di Socrate dotto e indotto. E’ contraddittorio, cioè, che lo stesso soggetto abbia e non abbia (insuccessivamente) lo stesso predicato. La “proliferazione” degli enti è inevitabile.
Che Socrate e Alcibiade siano uomini, prosegue Bontadini in una nota dello stesso scritto, è un dato dell’esperienza, per cui la distinzione tra individuo e universale è necessaria per evitare la contraddizione (giacchè in tal modo è possibile pensare che l’universale “uomo” abbia predicati contraddittori, come dotto e ignorante, attribuiti a diversi individui). Ma che lo stesso individuo sia, contemporaneamente, dotto e ignorante, questa è una contraddizione insanabile. Ora, secondo Bontadini, la contemporaneità è un’espressione che riguarda il mondo empirico, sensibile; il suo analogo, nel mondo intelligibile è dato dalla eternità. Severino aveva sostenuto che è contraddittorio che “Socrate seduto” sia in piedi (così come è contraddittorio che Socrate sia Alcibiade), ma non è contraddittorio che l’essenza Socrate si realizzi, eternamente, come Socrate seduto e insieme Socrate in piedi. Ma, secondo Bontadini, è proprio il termine “insieme” che qui indica la contraddizione; com’è possibile, infatti, che chi è seduto sia insieme non seduto? Se è impossibile che Socrate-che-è-in-piedi sia seduto, è altresì impossibile che Socrate si realizzi eternamente come Socrate seduto e insieme come Socrate in piedi.
Prima di passare alla parte finale del nostro lavoro, nella quale faremo qualche considerazione personale in merito a questioni non soltanto teoretiche (ma anche metodologiche e antropologiche), è opportuno fare adesso una breve incursione in quella questione di cui si è parlato all’inizio: il cosiddetto “cambiamento di rotta” da parte di Bontadini. Con questa espressione si è voluto alludere ad una specie di “ripensamento” che, dopo la lettura di Ritornare a Parmenide, Bontadini avrebbe operato nella sua filosofia; tale ripensamento non è stato osservato soltanto da Severino, ma pure da molti critici ed amici del pensatore milanese. Tuttavia è opportuno rilevare che, mentre Bontadini ha sempre considerato la sua “svolta” una mera esplicitazione di quanto, peraltro, egli aveva sempre sostenuto (e pertanto egli parla di “continuità” tra le sue prime e le sue ultime riflessioni, negando che contrastino le une con le altre); Severino, da parte sua, sostiene che l’unica continuità tra il primo e il secondo pensiero bontadiniano, radicalmente diversi, sia data unicamente dall’atteggiamento nichilistico.
Se, infatti, (osserva Severino), prima della comparsa di Ritornare a Parmenide, Bontadini aveva sostenuto, nella sua impostazione metafisica, l’impensabilità del divenire originario (e, quindi, non l’impensabilità del divenire in quanto tale) dimostrando di non avere nulla in contrario a sostenere che almeno un certo tipo di essere (quello che si incontra nell’esperienza) diviene; ora, dopo l’articolo del ’64, egli si rende conto che il divenire in quanto tale risulta contraddittorio (cioè è contraddittorio pensare che l’ente non sia), ma utilizza questa affermazione per costruire una “nuova dimostrazione dell’esistenza di Dio”. (Ricordiamo che le dimostrazioni metafisiche dell’esistenza di Dio, che troviamo ad esempio nella scolastica medievale, sono per Severino la massima espressione del nichilismo, in quanto esse suppongono che non l’ente in quanto tale, ma soltanto un certo tipo di ente, divino, privilegiato, abbia come proprietà quella di non poter non essere). E in tal modo Bontadini si sarebbe servito di un’istanza non nichilistica (l’affermazione che l’ente non può diventare un niente) per iscriverla all’interno di una prospettiva nichilistica (la dimostrazione dell’esistenza di Dio).
Questa dimostrazione dell’esistenza di Dio è contenuta in un brevissimo articolo di Bontadini, intitolato Sull’aspetto dialettico dell’esistenza di Dio, che appare negli Atti del “Sesto congresso internazionale tomista”, del 1965. All’inizio dell’articolo troviamo scritto:
La dimostrazione dell’esistenza di Dio si istituisce nell’incontro tra un’istanza razionale ed una empirica; la prima corrispondendo all’affermazione della immutabilità, e la seconda al riconoscimento della mutevolezza del reale. Sta in questo incontro la radice del suo carattere dialettico.
Se prendessimo in esame soltanto questo brano, potremmo affermare la sua sostanziale continuità con quanto si dice in Sozein ta fainomena, poiché anche lì si prospettava la necessità di tenere presente sia la verità del logos (che parla dell’immutabilità dell’essere), sia il referto dell’esperienza (in cui si attesta il divenire). Proseguendo nella lettura dell’articolo del ’65, tuttavia, troviamo scritto poco dopo quanto segue:
L’essere è. Questa suprema identità, di cui il divenire è la suprema smentita, riguarda ogni essere [corsivo nostro]. Riguarda perciò ogni essere di cui abbiamo contezza. L’essere di cui abbiamo originariamente contezza, prima di ogni dimostrazione o mediazione, è l’esperienza. Ora l’esperienza stessa ci informa che ogni essere –ogni essere di cui essa è l’attestazione- non è. Contraddizione tra l’esperienza e la ragione. Contraddizione tra la contraddizione del divenire (che significa la sua impossibilità) e la sua realtà. (…) La metafisica è la conciliazione di tale suprema ed originaria contraddizione.
Come abbiamo messo in evidenza in questo breve estratto, Bontadini sta ora affermando, categoricamente, l’impossibilità del divenire in quanto tale (la contraddittorietà di ogni atteggiamento nichilistico, l’assurdità che qualsiasi ente trapassi nel non essere). Ed è proprio in tale affermazione che, secondo Severino, il vecchio maestro avrebbe accolto l’eredità di Ritornare a Parmenide. Eppure, nonostante il filosofo milanese abbia colto il primo grande aspetto della verità dell’essere, contenuto nell’articolo suddetto, il suo atteggiamento nichilistico non gli avrebbe permesso, stando a quanto dice Severino, di cogliere l’altra istanza fondamentale di quello scritto: l’autentica interpretazione dell’esperienza (cioè il fatto che nell’esperienza il divenire non è attestato, bensì frutto di interpretazione nichilistica). E così, sempre secondo il suo vecchio discepolo, Bontadini si verrebbe a trovare adesso in un vicolo cieco, in quanto –da un lato- egli afferma l’impossibilità che ogni ente si annulli e –dall’altro- sostiene di vedere l’annullamento dell’ente. Infatti, nella seconda parte del brano che abbiamo riportato, l’autore afferma esplicitamente che, nell’esperienza, avviene che ogni ente non è (in quanto appunto diviene).
Siamo tornati, come si vede, ancora una volta a quel punto nevralgico della discussione, costituito dall’interpretazione del divenire. Infatti, mentre Severino continua a sostenere che, non riconoscendo l’autentica configurazione dell’esperienza (in cui non si dà il divenire), Bontadini è ancora affetto dall’infezione nichilistica, e non riesce pertanto –come invece vorrebbe- a salvare i fenomeni, perché la loro natura sarebbe irreparabilmente contraddittoria e la loro creazione da parte di un Dio non riuscirebbe a toglierne l’assurdità; Bontadini continua ad affermare che, dal momento che il divenire è attestato dall’esperienza, il compito della metafisica è quello di risolvere l’apparente contraddizione tra l’istanza empirica e quella razionale, e tale soluzione è data dalla postulazione di un Dio trascendente e creatore della realtà diveniente, e quindi dall’affermazione che il divenire non può essere originario.
Il “cambiamento di rotta” nella posizione bontadiniana risiederebbe nel fatto che, dopo Ritornare a Parmenide, l’autore milanese avrebbe riconosciuto la contraddittorietà logica di ogni divenire in quanto tale. Tale riconoscimento implica che, se ogni divenire è contraddittorio, allora è contraddittorio pensare che un qualsiasi ente divenga o si annulli. Ma Bontadini stesso rileva che ciò era già implicito nella sua affermazione precedente alla comparsa dello scritto severiniano: il divenire è contraddittorio se assolutizzato. Questa affermazione sarebbe dunque il risultato dell’incontro e della soluzione fra l’istanza logica dell’immutabilità ed il riscontro empirico del divenire.
In fin dei conti, come abbiamo più volte rilevato, e come anche lo stesso Bontadini ebbe a sottolineare in uno scritto (anch’esso rivolto a Severino) intitolato Dialogo di metafisica, la differenza fondamentale tra il pensiero del maestro e il pensiero dell’allievo è tutta qui: “nell’ammettere o no che l’esperienza attesti il divenire”.
Che si vogliano intepretare o meno come un “ripensamento” le istanze presentate da Bontadini nel periodo successivo alla comparsa di Ritornare a Parmenide, è pur vero che i due autori protagonisti della controversia non hanno modificato in modo rilevante le rispettive posizioni di partenza; e in tal modo, noi oggi ci troviamo non soltanto di fronte a due diverse “visioni del mondo” ma, in fin dei conti, anche a due differenti modi di intendere la filosofia. Forse, a parer nostro, quando si affronta il problema della controversia tra Severino e Bontadini, bisognerebbe prestare maggiore attenzione ad alcuni aspetti che, nonostante possano essere successivamente inclusi e rielaborati all’interno dei rispettivi sistemi, segnano tuttavia il punto di partenza dei sistemi stessi e, conseguenzialmente, determinano il valore e il metodo di ciascuna filosofia.
Negli scritti che abbiamo analizzato (che, lo ricordiamo, sono quelli espressamente coinvolti nel dibattito tra i due), questo punto di partenza è accennato, sia dall’uno che dall’altro autore; ma è accennato quasi di sfuggita, proprio perché esso non fa parte della struttura dell’argomentazione filosofica, bensì è (azzardiamo a dire) una scelta iniziale, un presupposto. Stiamo parlando, ovviamente, dell’adesione ad una Fede, la quale adesione può determinare il presupposto originario di tutto un approccio metodologico, rispondendo sostanzialmente a questa fondamentale domanda: qual è il luogo privilegiato in cui si mostra la Verità? In Ritornare a Parmenide troviamo scritto quanto segue:
La filosofia è il luogo, la custode della verità. Il disvelamento originario e assoluto dell’essere –la verità dell’essere, appunto- accade non altrove che nel filosofare. E nel filosofare autentico. Altrove –in ogni attività o dimensione che non sia la stessa apertura originaria della verità dell’essere- esiste la non-verità (che è pur sempre la non-verità dell’essere, il suo aprirsi non veritativo). Alla filosofia, intesa come il solo pensiero dell’essere (‘pensiero’ in senso forte, cioè come sapere assoluto e incontrovertibile), spetta inoltre di stabilire in che rapporto stiano con l’essere tutte le altre attività dell’uomo, e le trova tutte eccentriche rispetto alla verità dell’essere, le trova tutte decadute rispetto a sé: l’uomo che le vive non vive nella verità, vive nella doxa (nella non-verità). […] In altri termini, le convinzioni e forme di coscienza diverse da quella convinzione e coscienza assoluta, in cui consiste l’atto del filosofare autentico, possono trovare il loro fondamento (nel filosofare) solo in quanto siano sussunte nel filosofare e non in quanto siano vissute come tali.
Risulta evidente, da questo brano, come per Severino sia soltanto la filosofia il luogo dell’apertura della verità dell’essere; tutte le altre attività umane, come ad esempio l’arte o la religione, non solo si trovano al di fuori della verità dell’essere, ma necessitano anche di essere dedotte e interpretate in base alle strutture della filosofia, perché essa sola ne può mostrare l’infondatezza e la mancata apertura alla verità. La filosofia e la fede, dunque, non possono entrare in contrasto tra di loro, giacchè esse non si trovano, per così dire, sullo stesso piano. La fede deve essere sussunta nella filosofia.
Leggiamo invece ora un brevissimo passo tratto da Sozein ta fainomena, di Bontadini:
Certo questo Tuo evangelo, secondo cui tutto l’essere è già salvo da sempre e per sempre presso di sé, sicuro da ogni insidia del divenire, “sottratto alla rapina del nulla”, come Tu sempre bellamente dici, stava per sedurmi […] Poi mi sovvenni che, purtroppo, ero impegnato, fin dalla puerizia, a mettermi in salvo, e che, per questa salvezza, mi ero affidato più alla parola di Cristo che non a quella della metafisica. E che non mi riusciva di cambiare parere.
Se analizzassimo questa diversità di vedute alla luce del classico problema del rapporto tra ragione e fede, probabilmente ci troveremmo di fronte ad un vicolo cieco; in effetti, prendendo in considerazione le due differenti impostazioni sistematiche di ciascun autore, si può notare che, all’interno di ciascun sistema, questo contrasto tra ragione e fede non esiste. Da un lato, infatti, troviamo l’approccio di Severino, secondo il quale, partendo dal presupposto che soltanto nella filosofia si dà l’apertura autentica della verità, tutte le forme di conoscenza non-filosofiche devono essere dedotte e spiegate a partire dalla filosofia. La fede, pertanto, non essendo un sapere autonomo (in quanto non trova in se stessa il proprio fondamento) non può entrare in contrasto con la ragione, poiché queste due forme di conoscenza non hanno la stessa validità. Questa concezione è ulteriormente sviluppata da Severino in altri scritti che non abbiamo preso in considerazione, in cui l’autore affronta il problema dell’incompatibilità della sua filosofia con i dogmi della Chiesa Cattolica; tale incompatibilità, in ultima analisi, sorge a causa dell’adesione (da parte della Chiesa) alla metafisica classica, quindi della sua apertura al senso alienato e nichilistico dell’essere. Non si vuole in questa sede discorrere di quanto Severino afferma in merito al contrasto tra la sua filosofia ed il pensiero religioso (in particolare quello cristiano-cattolico); ciò che qui interessa rilevare è semplicemente il fatto che, per il filosofo bresciano, ogni forma di conoscenza diversa dalla filosofia è, di per sé, non veritativa e può (anzi deve) essere dedotta ed interpretata (qualora se ne voglia conoscere il valore) dall’unico strumento valido in grado di mostrarci la verità dell’essere: la filosofia, appunto. Il valore della filosofia è, pertanto, onnicomprensivo. Nessun contrasto, dunque, può sorgere tra fede e ragione: perché si abbia contrasto, infatti, è necessario che due tesi contrapposte, egualmente fondate, forniscano entrambe delle valide motivazioni per essere considerate come assolutamente vere. Ma la fede non fornisce tali motivazioni: esse si trovano solo nella filosofia.
D’altro canto, neppure Bontadini, strettamente legato ad una concezione tomistica, può parlare di contrasto tra ragione e fede. Se, infatti, sia la ragione che la fede hanno il loro fondamento in Dio, il quale è autore di entrambe, allora non è possibile che tra le due ci sia un contrasto reale. Se vi è contrasto, se cioè la ragione produce un pensiero che è in disaccordo con una verità di fede, ciò avviene a causa della naturale imperfezione umana; giacchè, se è lecito supporre che l’intelletto umano nei propri ragionamenti possa sbagliare e non sia in grado di attingere la verità del tutto, non è invece lecito pensare che la Parola di Dio sia falsa. Ed è per questo che, per la sua salvezza, il nostro autore ha dichiarato di fidarsi più della Parola di Cristo, che di quella della metafisica!
Non v’è alcuna intenzione, qui, di analizzare il problema del rapporto tre fede e ragione nella sua impostazione tomistica; il nostro intento, invece, è quello di offrire qualche spunto, affrontando la questione sotto una luce leggermente diversa, guardandola (per quanto è possibile) dall’ “esterno”.
Si è parlato prima dei presupposti che, in un modo o nell’altro, stanno alla base dei due differenti sistemi proposti da Severino e da Bontadini. Ebbene, che cosa implicano tali presupposti? Quali scelte metodologiche ne derivano? Sembra che sia possibile, sulla base delle istanze di questi due autori, ricavare due differenti concezioni dell’uomo e della filosofia. Se prendiamo in considerazione l’impostazione severiniana, in base alla quale (lo ricordiamo) la filosofia è l’unica custode della verità, ne deriva che questa (la filosofia) non può essere considerata, in senso proprio, come un’attività umana, perlomeno non come un’attività simile alle altre. La filosofia, in questa prospettiva, non è un’atteggiamento dell’uomo in base al quale egli si mette in cerca della verità adoperando diversi strumenti (primo fra tutti quello razionale); non esiste più l’uomo che filosofa, nel senso “socratico” del termine. Esiste, invece, “La Filosofia”, appunto come il luogo unico ed esclusivo nel quale si dà l’autentica verità dell’essere; e le altre forme di conoscenza devono essere sottoposte al suo veritiero giudizio. Ma questo è l’unico modo possibile di intendere la filosofia?
In effetti, ci sembra che sia possibile inquadrare la filosofia secondo un approccio diverso, dando maggior rilievo, anziché all’aspetto logico, all’aspetto antropologico di questa. Potremmo pensare, infatti, che all’origine di tutte le attività umane (e di tutte le sue forme di conoscenza ad esse connesse) ci sia, appunto, l’uomo. In tal modo, ci troveremmo di fronte ad un ente che, per sua natura, si rapporta all’essere seguendo differenti approcci; e così potremmo definire la filosofia come la tendenza dell’uomo a comprendere se stesso e la realtà di cui è parte attraverso lo strumento della ragione; e, allo stesso modo, potremmo definire la religione come la tendenza, sempre dell’uomo, ad istaurare un qualche tipo di rapporto con una realtà soprannaturale. Queste caratteristiche dell’essere umano, poi, allorchè si voglia aderire ad una fede (in particolare la fede cristiana), ricevono una giusta luce in virtù di una Rivelazione, intesa come l’irruzione della Parola divina all’interno della storia dell’uomo. L’evento della rivelazione, dunque, sarebbe quel particolare accadimento storico in base al quale ogni tensione dell’uomo riceve il senso che le è più proprio. La filosofia e la religione (intese rispettivamente come aspirazione alla conoscenza razionale e alla comunione col divino) non sarebbero in tal modo negate dalla fede (cioè dall’accoglimento della Parola rivelata) ma, al contrario, perfezionate da essa.
Questa concezione, tuttavia, è possibile soltanto se si riconosce, in primo luogo, che l’uomo ha una sua propria natura a cui sono legate tutte le sue tensioni e, in secondo luogo, che tale natura è imperfetta; dunque, neppure la filosofia (che è un’attività dell’uomo) può raggiungere un sapere incontrovertibile. Severino, lo sappiamo bene, non sarebbe d’accordo. L’istanza antropologica non è per lui alcunchè di rilevante giacchè essa non ha in sé il proprio fondamento. Egli, non partendo dall’anthropos nella sua totalità, bensì dal logos, dalla verità logica dell’essere, non può che relegare su di un piano secondario e derivato tutti gli altri aspetti dell’essere, compreso l’essere umano. La scelta, naturalmente, è legittima. Ma noi, personalmente, ci sentiamo più vicini alla considerazione di Bontadini, con la quale egli chiude il suo Dialogo di metafisica, e con cui anche noi vorremmo concludere il nostro articolo: “C’è infatti un certo primato dell’antropologico sul logico; ed è giusto che tale primato si faccia luce nel dialogo, soprattutto nel dialogo”.