Vicino in un
primo tempo alle posizioni di Karl Barth, il tedesco Rudolf Bultmann
(1884-1976), autore di " Credere e comprendere " (in quattro volumi,
1933-1965), si discosta ben presto dalla teologia dialettica nell'intento di
ripensare quanto di positivo aveva comunque espresso quella liberale. Egli muove
dal fondamentale postulato barthiano, quello dell'assoluta trascendenza di Dio
rispetto al mondo e all'uomo, ma la domanda che regge tutta la sua riflessione
teologica verte su come, in tale condizione, l'uomo possa recepire e far propria
la parola di Dio donatagli nella rivelazione. La risposta di Bultmann poggia
sugli strumenti concettuali tratti dall'esistenzialismo e, soprattutto,
dall'analitica esistenziale di Heidegger: l'uomo può comprendere la parola di
Dio poiché vi è in lui una " precomprensione
dell'esistenza " che costituisce la base della sua apertura al Dio
che lo interpella e, quindi, all'esperienza di fede. Però, affinchè ciò sia
possibile, è necessario, secondo Bultmann, che la parola di Dio sia liberata
dalle concezioni mitologiche risalenti all'epoca in cui essa è stata fissata per
iscritto, in modo da poter essere presentata nella sua genuinità all'uomo di
oggi, per il quale l'elemento mitologico è divenuto estraneo e incomprensibile.
E' questo il metodo della demitizzazione , che intende
liberare il messaggio cristiano dalle forme di cui è esteriormente rivestito
nelle Sacre Scritture, non per smentire queste ultime, ma per far emergere il
significato universale che sottende le rappresentazioni contingenti e relative
alla determinata civiltà che le ha espresse. Si tratta di recuperare la
dimensione autentica ed essenziale della Scrittura, accessibile ad ogni uomo
nella chiarificazione della sua esistenza, in modo da poter accedere a una fede
criticamente depurata e indipendente dalla sua particolare collocazione
spazio-temporale. Occorre perciò, in primo luogo, operare una distinzione tra il
vero contenuto della fede e i simboli attraverso cui essa è stata tramandata,
sia nelle prime comunità cristiane (con i relativi influssi di marca
ellenistica), sia nelle epoche successive, come durante il Medioevo; si deve
cioè riconoscere come mitica (e quindi spuria) ogni rappresentazione che
costringa il divino in categorie umane e mondane immanentizzando la trascendenza
e abbassando a fatto puramente umano la redenzione di Cristo. Lo stesso vale per
la tradizionale concezione del miracolo come azione del
sovrannaturale nella storia, per le visioni apocalittiche della fine del mondo o
del giudizio finale (comuni, del resto, a molte religioni non cristiane), o
anche per molte verità dogmatiche espresse in forme che ne velano il genuino
contenuto di fede. Per cogliere quest'ultimo è necessario che l'uomo,
rivolgendosi ai testi sacri, sia animato da un'attiva precomprensione del
problema di Dio, la cui mancanza rende muto il rapporto e impossibile la
relazione tra la domanda dell'uomo e la risposta dei testi: " la
demitizzazione vuol mettere in risalto l'autentica intenzione del mito, cioè
quella di parlare dell'esistenza umana, del suo essere fondata e limitata da una
potenza dell'aldilà non mondana, una potenza che non è percepibile dal pensiero
oggettivamente. In senso negativo, quindi, la demitizzazione è una critica
dell'immagine del mondo propria del mito, nella misura in cui essa nasconde la
vera intenzione del mito stesso. In senso positivo è un'interpretazione
esistenziale, con cui si vuol chiarificare l'intenzione del mito, che è
precisamente quella di parlare dell'esistenza dell'uomo " ("Nuovo Testamento
e mitologia", app. I). Ciò riporta in piena luce il legame tra teologia e
filosofia, nelle norme che Bultmann considera più atta a illuminare il problema
della precomprensione, cioè l'esistenzialismo di Heidegger, soprattutto laddove
egli esamina le nozioni di "esistenza inautentica" e "esistenza autentica": la
prima è per Bultmann la via del peccato, giacchè in essa l'uomo si appiattisce
sull'oggettività e sulla manipolazione dell'essere, e non è aperto a una realtà
suprema che lo interpella; mentre nella seconda si dà l'apertura
all'inoggettivabile, all'appello dell'Altro, all'evento dell'incontro con Dio. E
così l'esistenza autentica può accedere al significato più proprio (e quindi
autentico) della predicazione di Gesù, che è appunto un richiamo a mantenersi
aperti alla rivelazione di Dio in ciascuno. Ma perché l'uomo possa passare
dall'esistenza inautentica a quella autentica (ed è questo ciò che la teologia
aggiunge alla semplice analitica esistenziale) la filosofia non è sufficiente e
le forze umane non bastano, dal momento che si tratta di una "
conversione " che può essere operata soltanto dall'amore di Dio
attraverso Cristo. La piena realizzazione dell'esistenza autentica è dunque
l'incontro con Cristo, che non avviene sulla base di una conoscenza meramente
storica, che è sempre di tipo oggettivante, bensì solamente nell'esperienza
esistenziale della fede. Il "Gesù storico" è infinitamente meno importante del
"Cristo della fede", che non ha alcun bisogno di essere "ricostruito" nella sua
realtà mondana e temporale, giacchè si rivela nell'interiorità di ciascuno a cui
voglia manifestarsi. Sulla base di tutto questo si comprende la netta preferenza
di Bultmann per il quarto Vangelo, quello più libero da elementi mitologici e
più aperto ad una comprensione universalmente filosofica della figura di Cristo:
la dottrina del Logos " che brilla nelle tenebre " può fruttuosamente
incontrarsi con l'idea della precomprensione del divino, con l'istanza
esistenziale della decisione di accoglierlo o negarlo, e quindi di accettare o
di rifiutare il senso della nostra esistenza.