JACOB BURCKHARDT
A cura di Diego Fusaro e Jonathan Fanesi
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Nato a Basilea, in Svizzera, nel 1818, Jacob Burckhardt proveniva da una famiglia di religione evangelica. Egli seguì inizialmente studi teologici, completando la propria formazione nel campo della storia e della storia dell'arte all'università di Berlino dove fu allievo, tra gli altri, di L. von Ranke, J.G. Droysen, A. Boeckh e F. Kluger. Dal 1855 al 1858, Burckhardt ricoprì la cattedra di storia dell'arte al politecnico di Zurigo, quindi quella di storia e di storia dell'arte all'università di Basilea, e dal 1885 in poi insegnò soltanto storia dell'arte, abbinando all'attività didattica frequenti viaggi di studio, soprattutto in Italia. Spirito critico, profondamente pessimista nei confronti della moderna società industriale e in aperto dissenso con le tendenze idealistiche e storicistiche dominanti il mondo accademico dell'epoca, elaborò un autonomo approccio storiografico, noto come Kulturgeschichte (storia della civiltà), inteso a ricomporre le diverse dimensioni del fenomeno storico (politico, spirituale e culturale) entro un quadro unitario. Fu autore di numerose opere, solo in parte pubblicate in vita, tra cui le più importanti furono dedicate ad analizzare periodi di crisi o di trapasso storico. Appartengono a tale filone L'età di Costantino il grande (1852), incentrata sul problema della transizione dalla civiltà ellenistica a quella cristiana e l'ormai classica La civiltà del Rinascimento in Italia. Tra le opere postume (che sono però il prodotto di un lavoro di ricostruzione, e in parte anche di interpolazione, da parte del nipote) si ricorda, oltre alla fondamentale Considerazioni sulla storia universale, l'imponente Storia della civiltà greca (in quattro volumi, 1898-1902), in cui la civiltà greca è vista come il primo esempio storico di sviluppo dell'individualità e spiritualità umane, affrancate dai vincoli naturalistici, ma anche, in polemica con gli storici dell'antichità e le loro visioni edulcorate, come espressione di una società dominata dalla violenza e dalla sete di potere. Storico dell'arte, del Rinascimento italiano e dell'età di Costantino, Burckhardt (1818-1897), proprio nei primi anni del soggiorno di Nietzsche a Basilea, tiene lezioni sulla civiltà greca e sullo studio della storia, lezioni che saranno poi pubblicate postume con i titoli: Storia della civiltà greca e Considerazioni sulla storia mondiale. Morì a Basilea nel 1897. Burckhardt, come Nietzsche, fu assai sensibile all'insegnamento di Arthur Schpenhauer, non condividendo la concezione ottimistica della storia formulata da Hegel nè l'interpretazione del presente come culmine positivo del suo cammino progressivo. Nel mondo moderno, infatti, la libertà dell'individuo é gravemente minacciata dalle tendenze democratiche e socialistiche e dal predominio del mondo degli affari. Questo non vuol dire che la vicenda storica sia caratterizzata da una crescente decadenza; a parere di Burckhardt, si deve piuttosto parlare di ascese e cadute relative. Il passaggio da un'epoca all'altra é segnato da crisi, che portano all'eliminazione di un passato avvertito come oppressivo e all'instaurazione di qualcosa di nuovo; la crisi é dunque segno di vitalità, poichè ogni sviluppo spirituale avviene “a forza di urti e di salti”, sia negli individui sia nelle collettività. Determinanti nell'intervenire o deviare il corso della storia sono i “grandi individui”, unici e insostituibili, ma al tempo stesso portatori di valori universali che vanno oltre gli interessi puramente individuali. Essi non corrispondono, tuttavia, agli individui “storico-universali” di cui aveva detto Hegel: in opposizione al suo “panlogismo”, Burckhardt sostiene che non esiste una “storia universale” e che la filosofia della storia non ha alcun senso. Nella storia il male rimane ineliminabile e la natura umana permane essenzialmente uniforme nonostante l’avanzare della storia. In tutte le epoche storiche operano, infatti, le stesse forze o potenze: la cultura, lo Stato e la religione. Nessuna di esse può essere eliminata, ma tutte si condizionano a vicenda e possono dar luogo a quanto di bello, vero e buono contiene la storia umana. Questo avviene quando esse mantengono un rapporto equilibrato e armonico tra loro e nessuna soffoca la altre; così é stato nel mondo greco e nel Rinascimento, ma ora sussiste il pericolo che la cultura, la quale di per sè é dinamica, libera e spontanea, sia schiacciata dallo Stato e dalla religione, che sono potenze statiche. Burckhardt é avverso allo Stato e alla forza, specialmente ai grandi Stati nazionali che tendono a soffocare le piccole comunità regionali e cittadine, le quali, a suo avviso, offrono maggiori garanzie per lo sviluppo di libere individualità. Nella situazione minacciosa del presente, l'unica consolazione é riposta nella conoscenza storica, che é libera dalle preoccupazioni individuali causate dall'epoca e permette di contemplare in maniera distaccata e senza turbamenti le vicende del passato. L’uomo di cui parla Burckhardt non è quello hegeliano, che compendia lo Spirito: infatti, se nella sua filosofia della storia Hegel muoveva dallo “Spirito del mondo”, Burckhardt parte invece dal patire e dall’agire del singolo individuo, rispetto al quale lo Stato è pura convenzione. Lo stesso individuo, che per Hegel era complice dello Spirito, che lo manovrava come una marionetta attraverso la “astuzia della ragione”, per Burckhardt è libero di fronte al mondo. In particolare, il pensatore svizzero guarda al corso storico con occhi umani, rimuovendo il concetto di felicità e mantenendo esclusivamente quello di infelicità: il male è un fenomeno interno alla storia, che è sempre intessuta di lotte tra uomini che si soverchiano e soffrono sempre nuovi patimenti. Sicché il male è il prezzo della vita storica: un prezzo che si deve scontare e che, con buona pace di Hegel, non può essere giustificato tramite strambi filosofemi. Nella storia, è vero, compaiono anche momenti di felicità; ma essi sono per Burckhardt meri punti nel flusso storico. Anche Kierkegaard porrà al cuore della sua riflessione il singolo individuo, ma prospettando un suo allontanamento dalla storia; al contrario, Burckhardt propone una continuità storica in forza della quale il singolo, pur nella sua individualità, si trova sempre calato in essa. Anche Nietzsche condivide la diagnosi negativa del mondo moderno, formulata da Burckhardt, ma assume un atteggiamento più combattivo e polemico nei confronti di esso. In particolare, Nietzsche vedrà in Burckhardt una sorta di se stesso più anziano, provando nei suoi confronti un’ammirazione sconfinata ma mai corrisposta: per tutto il corso della sua vita, Nietzsche cercherà di entrare nelle grazie del grande studioso svizzero senza raggiungere mai risultati positivi, o addirittura incontrando cocenti delusioni. L’opera nietzscheana in cui si avverte la maggiore presenza di Burckhardt è la seconda considerazione inattuale Sull’ utilità e il danno della storia per la vita. E Giorgio Colli nella prefazione al testo di Burckhardt Sullo studio della Storia ha avanzato la suggestiva ipotesi che non solo Burckhardt abbia influenzato Nietzsche, ma anche il contrario. In particolare, in una conferenza tenuta da Burckhardt, dal titolo A proposito della considerazione storica della poesia, si legge una breve ma intesa parentesi in puro stile nietzscheano:
“Il dramma attico getta squarci di luce su tutta l’ esistenza attica e greca. In primo luogo, la rappresentazione è stata qui una questione sociale di primaria importanza, agonale nel senso più elevato, con i poeti in gara tra loro. Riguardo poi alla maniera e al modo di trattarla: la nascita misteriosa della tragedia ‘dallo spirito della musica’. Il protagonista riecheggia Dioniso e tutto il contenuto è soltanto mito, mentre si evita la storia, che molto spesso incombe da vicino. Ferma volontà di rappresentare l’umano in forme tipiche e non conformi alla realtà; convinzione circa l’inesauribilità dell’epoca arcaica, di quella degli dèi e degli eroi”.
Dalla lettura di questo breve passo, si evince il forte richiamo nietzscheano: il nome di Dioniso riecheggia come fulcro ed origine della tragedia attica, e i personaggi non sono altro che manifestazioni mediante la maschera del Dio–umano greco. Una vera e propria ammirazione per Burckhardt animò anche Karl Löwith, che al pensatore svizzero dedicò un bellissimo libro: Jacob Burkhardt. L'uomo nel mezzo della storia (1936). Per Löwith, Burckhardt rappresenta – in senso radicale – la fine del modo cristiano ed hegeliano di concepire la storia come una linea che avanza verso un obiettivo finale: sicché egli recide il legame tra passato e futuro eliminando il piano finalistico, col che, paradossalmente, Burckhardt è stato – nota Löwith – ben più inattuale di Nietzsche. In The meaning of history (1949), Löwith prenderà in considerazione la continuità storica di cui parla Burckhardt mostrando acutamente come non si tratti più di una connessione forte e teo–teleologica: per “continuità” storica s’intende “l’immagine che ogni epoca storica prende dalle altre epoche per riconoscersi”. Continuità e coscienza storica sono per Löwith i due cardini dell’analisi e del discorso sulla storia di Burckhardt: all’ interno della continuità vi sono – sostiene Burckhardt – tre nodi fondamentali: in primis il processo di ellenizzazione dell’Oriente operato da Alessandro di Macedonia, in secundis la città ed il centro culturale ed economico del mondo antico, e infine il mantenimento del complesso della cultura occidentale mediante l’azione della Chiesa. Burckhardt dà una valutazione positiva del concetto di crisi, di cui la guerra (solo nell’accezione difensiva) è la prima manifestazione che porta alla vivificazione di un popolo. Dopo aver fatto tale analisi generale, Burckhardt sposta la sua attenzione sulla crisi franco–prussiana che nascerebbe dalla Restaurazione e dal principio di legittimità: principio secondo il quale il potere degli stati è tale in quanto é di origine divina e non per consenso popolare. Contro questo principio, si sono mosse i moti rivoluzionari del 1848: Burckhardt non scorge in questi eventi manifestazioni dello spirito di nazionalità, bensì rivoluzioni liberali mediante le quali trionfa la borghesia e il paradigma di “opinione pubblica” espressa mediante la dimensione comunicativa della borghesia. In ogni paese, l’industria aspira al commercio europeo. Si avverte la nostalgia burckhardtiana verso il mondo umanistico–rinascimentale dove si presentava un’aristocrazia dello spirito: il 1848 ha posto in rilievo colui che guadagna, ma la libertà della borghesia è ambigua e rischia di degenerare. Sotto questa prospettiva, la democrazia risulta essere quel governo dello Stato sull’individuo, che tende a superare i confini tra Stato e società, e in ciò Burckhardt prende di mira la prospettiva politico–statale hegeliana. L’avanzamento del capitalismo, grazie alla vittoria della Prussia sulla Francia, porta in auge una rivoluzione di valori e Burckhardt si pone una serie di domande relative a chi si occuperà dell’ arte e della letteratura, a quale fine farà la cultura umanistica. Il grande uomo burckhardtiano è colui che incarna il movimento generale della cultura (artisti e letterati), la sintesi tra particolare ed universale (in maniera simile al processo che si realizza nella facoltà giudicatrice kantiana). La grandezza significa che ciò che noi non abbiamo, e non potremo mai raggiungere definitivamente, una sorta di “Streben” di matrice protoromantica o se si preferisce di fichteana memoria, i “grandi individui” sono definiti tali in virtù del nostro punto di vista particolare, come ogni popolo nel corso della scuola ha celebrato la sua grandezza, senza un grande uomo il mondo risulterebbe ai nostri occhi incompleto. Nell’Ottocento sorge – secondo Burckhardt – il senso storico con la figura di Winckelmann, visto come l’iniziatore del “Neo–umanesimo” tedesco poi conclusosi con Humboldt. La poesia è creazione e potenza e si fonda sul principio della trasfigurazione: essa ha un ruolo superiore al resto delle arti ed alla filosofia, e Burckhardt cita a proposito una lettera di Schiller a Goethe, dove si dice che il filosofo non è altro che la caricatura del poeta. Nel suo celebre scritto La civiltà del Rinascimento in Italia, pubblicato nel 1860, Burckhardt sostiene la tesi, destinata a godere di lunga fortuna, secondo cui il mondo moderno sarebbe sorto nel XV secolo, con una vera e propria frattura rispetto alla buia età medioevale. Nel 1919, lo storico e filosofo olandese Johann Huizinga sottoporrà a critica questa teoria che ha tracciato “con troppa sicurezza” la linea di separazione tra Medioevo e Rinascimento, senza vedere gli aspetti di continuità tra le due epoche: ne L’autunno del Medioevo, Huizinga provava a capovolgere la prospettiva fatta valere da Burckhardt, guardando al Medioevo non come a un’epoca buia rispetto alla quale la modernità sarebbe un ritorno alla luce, ma piuttosto come un’età fondamentale per capire la modernità, che da essa deriva.