Kant, Burke e l'estetica
Di Piero Giordanetti
1.
Nel corso di antropologia che svolse a partire dal 1772-73 sulla base della terza parte della Metaphysica di Baumgarten, la Psychologia empirica, Kant riserva un interesse del tutto particolare ai problemi estetici. La fase immediatamente successiva alla dissertazione del 1770 sulla Forma e i princìpi del mondo sensibile ed intelligibile ruota intorno al problema della validità del giudizio. È il giudizio sul bello destinato a valere solo per il singolo soggetto che lo enuncia, in un determinato luogo ed in un determinato momento temporale, oppure può aspirare ad essere considerato valido da tutti gli esseri umani? E quale status si deve assegnare alla valutazione del sublime? Gli appunti dalle lezioni di logica e di antropologia del semestre invernale 1772-73 rispondono a questi interrogativi cruciali per l'estetica avvalendosi di una distinzione: il concetto di "rapporto" [Verhältnis] viene delimitato e separato da quello di "impressione" [Eindruck]. Il sublime, considerato quale impressione isolata, singola sensazione avulsa da rapporti formali, non implica universalità; la bellezza, rappresentando l'oggetto di un giudizio che prescinde dal mutevole della sensazione empirica, si offre quale realtà formale che non colpisce il soggetto dall'esterno rendendolo passivo. Laddove il bello presuppone forma, proporzione, e misura, il sublime è riconducibile alla grandezza senza limiti e colpisce direttamente i sensi. All'origine del piacere per il bello si situa così una qualità oggettiva, fondata sulle leggi della sensibilità; leggi che Kant, intorno al 1770, ravvisa nello spazio e nel tempo in quanto intuizioni pure; alle sorgenti del sublime non vi sono invece dati oggettivi. "Il sublime", si legge nelle Lezioni di antropologia, "non ha un nesso con la proporzione. Rocce audacemente sporgenti, nelle quali non si trova alcuna misura, ma solo grandezza, sono sublimi. Qui non è importante tanto il piacere", conclude Kant, "quanto piuttosto la grandezza dell'affetto" (Kant's gesammelte Schriften, a cura della Accademia delle Scienze di Berlino, Berlino 1900 sgg, XXV, p. 198. D'ora in poi quest'edizione verrà indicata con la sigla AA).
Quale la fonte di queste considerazioni sulla differenza fra bello e sublime? Opera qui Kant nella più completa autonomia teoretica oppure la sua caratterizzazione risente anche del dibattito a lui contemporaneo?
Consideriamo innanzitutto una serie di dati, che forniranno un supporto al discorso successivo. Nel 1765 è disponibile in lingua francese l'opera di Edmund Burke sul bello e sul sublime, che nella Critica del Giudizio verrà citata espressamente e discussa nelle sue tesi fondamentali. Herder ne dà notizia a Kant nel novembre del 1767: sul bello ed il sublime, scrive, "leggo ora con molto piacere l'opera di un britannico che filosofa molto, che Lei può trovare anche in francese. Questo il titolo dell'opera che sta proprio qui davanti ai miei occhi Recherches philosophiques sur l'origine des Idées, que nous avons du Beau et du Sublime" (AA X, prima edizione, p. 74). È verosimile che Kant abbia potuto accedere a questa versione, se si tien conto del fatto che, sebbene egli non parlasse la lingua francese, era comunque in grado di comprenderla; e non è neppure da escludersi che a Burke egli sia arrivato attraverso l'amicizia con Joseph Green, il commerciante inglese con il quale già nel 1766 era in stretto rapporto.
Il filosofo di Königsberg riceve, inoltre, da Markus Herz una segnalazione epistolare datata 9 luglio 1771 riguardo alla seconda edizione della Rhapsodie di Mendelssohn, opera in cui il nome e le teorie di Burke sono riferite ed analizzate: "Lei", scrive Herz, "avrà probabilmente letto la Rapsodia del sig. Mendelssohn, egli ha considerevolmente accresciuto la nuova edizione e ha scoperto una nuova idea nel campo delle sensazioni miste" (AA X, I edizione, p. 121.). Nel 1773, infine, Friedrich Christian Garve traduce in tedesco lo scritto di Burke con il titolo Philosophische Untersuchungen über den Ursprung unsrer Begriffe vom Erhabnen und Schönen. Nach der fünften englischen Ausgabe, e la traduzione è recensita nella "Bibliothek der schönen Wissenschaften und der freyen Künste" (16 (1774), pp. 53-68).
Grazie alla pubblicazione nell'ottobre del 1997 del volume XXV, contenente le Lezioni di antropologia, dell'edizione completa delle opere di Kant, si dispone di documenti rimasti sinora inediti che permettono di mostrare come aspetti rilevanti della riflessione estetica kantiana siano legati alla diffusione in area di lingua tedesca dell'Inchiesta sul bello e sul sublime di Edmund Burke. Dà testimonianza della presenza di Burke intorno al 1770 innanzi tutto il fatto che Kant assuma un atteggiamento polemico nei confronti di Georg Friedrich Meier, il quale si era limitato all'identificazione del concetto di "estetico" con il concetto di "bello". L'ambito dell'"estetico", nota Kant richiamando uno dei concetti fondamentali delle sue Osservazioni del 1764, è più vasto di quello del bello e comprende al suo interno anche il sublime. "È erroneo che l'autore", afferma Kant in polemica con Meier, "ritenga che bello ed estetico siano una cosa sola, poiché all'estetica appartiene anche il sublime" (AA XXIV, p. 47). Il riferimento a Burke diviene poi esplicito negli appunti dalle lezioni di antropologia del semestre invernale 1772-73: "Tutti i giudizi sul sublime appartengono quindi a ciò che è soggettivo. Un inglese dice: una lunga linea, una vasta estensione, ad esempio l'Oceano, è sublime, una grande altezza, una roccia è ancora più sublime. La profondità risveglia in noi un terrore; tutte le rocce sporgenti sul mare ci spaventano. Riguardo alle rocce non abbiamo a che fare con un rapporto, ma con l'effetto ultimo che ne riceviamo" (AA XXV, p. 199). Il passo burkeano corrispondente compare nella sezione VII della parte seconda delle Philosophische Untersuchungen: la vastità [Ausdehnung] è una delle fonti del sublime e comprende in sé lunghezza, altezza e profondità [Lange, Höhe und Tiefe]. Fra le tre dimensioni è la lunghezza a suscitare il minore effetto [die kleinste Wirkung]; cento piedi [hundert Ellen], esemplifica Burke, su di una superficie piana [auf ebnem Boden] non generano la medesima impressione [Eindruck] di una torre, di una roccia o di una montagna alta cento piedi. L'altezza, dal canto suo, sembra meno grande della profondità, e noi veniamo commossi [gerührt] in misura maggiore se sprofondiamo il nostro sguardo in un abisso [Abgrund], che non se lo innalziamo verso un'altezza della medesima dimensione. Nello stesso capitolo Burke estende queste sue considerazioni dal grado estremo della grandezza a quello estremo della piccolezza ed anche in quest'ultima scorge una fonte del sublime per l'impressione che essa suscita nell'uomo, impressione [Eindruck] che non si distingue da quella della grandezza, poiché anch'essa genera stupore [Erstaunen] e l'immaginazione ed i sensi vi si perdono completamente [die Einbildungskraft eben sowohl als die Sinne].
Questa descrizione del sublime conferma, agli occhi di Kant, che esso concerne unicamente la singola impressione [Eindruck], la materia della conoscenza, producendo "commozione" [Rührung] e non vertendo su rapporti formali riconducibili alle intuizioni pure di spazio e tempo. In questa fase egli non tenta un'elaborazione positiva ed autonoma, ma accetta la caratterizzazione dell'"autore inglese". Nella traduzione di Garve i termini Eindruck e Rührung vengono utilizzati ad indicare il particolare "effetto" [Wirkung] del sublime. Per Kant come per Burke il sublime si identifica infatti con tutto ciò che suscita terrore [Schrecken] nel soggetto che lo osserva. Ma proprio in ciò risiede al tempo stesso il suo limite per Kant. Mentre per il Verhältnis (rapporto), per la bellezza, si può parlare di un elemento formale, per lo Eindruck si è invece di fronte ad una singola sensazione, e all'effetto che essa produce sui sensi. Nel primo caso è possibile fondare un giudizio universale, nel secondo ci si trova in presenza di giudizi che possono al più esprimersi su ciò che è piacevole.
Le ricerche di Kant sul sublime sono contrassegnate in questa fase dalla convinzione che esso può senza dubbio costituire, come il bello, l'oggetto di una disciplina empirica quale l'antropologia; ma, a differenza del bello, neppure all'interno di quest'ultima può venire enunciato sul sublime alcun giudizio dotato di qualsiasi tipo di universalità o di necessità, sia esso anche soltanto empirico. Fra le "qualità secondarie" della tradizione filosofica moderna ed il sublime non sussiste alcuna differenza: entrambi sono meramente soggettivi ed individuali.
Sin qui la posizione di Kant è emersa grazie all'approfondimento di un riferimento esplicito. Ora passeremo all'esame di alcuni passi che suonano sulle prime come citazioni implicite, al fine di comprendere se esse siano effettivamente tali.
Il saggio di Burke è percorso dalla convinzione che esista un nesso molto stretto ed inscindibile fra anima [Seele] e corpo e che questo legame non possa essere trascurato da chi si interroghi sulla natura del piacere e del dolore, né da chi si prefigga l'osservazione empirica degli effetti del bello e del sublime. Il dolore e il piacere non possono essere neppure pensati, se si prescinde dalla loro natura corporea. I due fenomeni sono radicalmente diversi: il sublime, abbiamo visto fin qui, deve la sua origine ad un sentimento iniziale di dolore cui, solo in un secondo momento, subentra un sentimento di piacere. Quest'ultimo, allora, meriterà la qualifica di piacere negativo e relativo, di piacere misto a terrore e sarà radicalmente altro rispetto al piacere positivo donde trae origine la bellezza. A questa differenza a livello del sentimento corrisponde una diversità sotto il riguardo corporeo: il sublime conduce le fibre del corpo ad uno stato di tensione, il bello induce in esse rilassamento. Dolore e tensione da un lato, piacere e rilassamento dall'altro sono quindi le vere e proprie fonti corporee del sublime e del bello. "La nostra mente e il nostro corpo", scrive l'autore, "sono così strettamente e intimamente connessi, che l'uno senza l'altro è incapace di provare dolore o piacere" (E. Burke, Inchiesta sul bello e il sublime, Palermo 1992, p. 144). La capacità di Tommaso Campanella sia di astrarre durante la tortura dal legame con il corpo, eliminando così il dolore, sia di giungere all'imitazione delle passioni e della mente di altri individui attraverso l'assunzione dei loro atteggiamenti corporei non possono se non offrire una valida conferma a queste considerazioni. Burke nota come Campanella, per penetrare nell'intimo delle persone atteggiasse "il suo volto, i gesti e tutta la persona […] in modo da assomigliare esattamente a colui che intendeva esaminare" ed osservasse poi "quale mutamento di pensiero gli sembrava [in tal modo] di acquistare" (Burke p. 144). Ed inoltre, Campanella, "sapeva così astrarre l'attenzione da ogni sofferenza del corpo, che era capace di sopportare perfino la tortura della ruota senza grande pena" (Burke, p. 144).
Ritorniamo ora a Kant. Non si potrà passare sotto silenzio come anche in lui ricompaia la figura di Campanella e come questo riaffiorare sia legato ai medesimi temi ed alle medesime motivazioni addotti da Burke.
Le considerazioni fisiologiche sulla tensione e il rilassamento dei nervi vengono da Kant ricondotte entro la concezione del sentimento vitale [Gefühl des Lebens im Ganzen] che, a partire dal 1777, acquisirà in lui il nome di Vitalsinn (senso vitale). Quest'ultimo è essenzialmente di natura corporea, riguarda il sistema nervoso nel suo complesso, e, così inteso, non può concernere se non il rapporto fra l'anima ed il corpo. Kant ne discorre laddove affronta il tema del Vergnügen, di quel genere di piacere che, come voleva Epicuro, non può essere provato qualora si prescinda dal corpo. Nel tema del sentimento totale della nostra vita deve essere letto un elemento antropologico-empirico che accoglie al suo interno i suggerimenti ricavati da Burke e si pone sul suo medesimo piano. Si potrà, dunque, leggere non come una reminiscenza, ma come un effettivo debito nei confronti di Burke ciò che Kant insegna ai suoi studenti, sull'attrattiva e la commozione: "Tutti questi movimenti, come il bello ed il sublime, sfociano in qualcosa di meccanico. Tutta questa attività incrementa la nostra vita nel suo insieme" (AA XXV, p. 389). Una conferma all'interpretazione di questi riferimenti empirici e fisiologici come debiti burkeani ci può derivare dalla lettura delle Annotazioni redatte da Kant sulle proprie Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime del 1764. Le Annotazioni, che risalgono agli anni 1764-1766 ribadiscono la netta distinzione fra bello e sublime e colgono nella tensione che causa stanchezza l'effetto del sublime e in una sensazione di rilassamento dei nervi quello del bello.
Le Osservazioni furono recensite nel 1764 nelle "Königsbergische gelehrte und politische Zeitungen" da Johann Georg Hamann (J.G. Hamann, Sämtliche Werke, historisch-kritische Ausgabe von J. Nadler, Wien 1952, vol. 4, p. 289 sgg). In una lettera a Herder del 1769 Hamann, che era in possesso dell'edizione del 1757, attribuisce ancora la paternità dello scritto di Burke a Hume; Herder corresse di lì a poco il suo errore. Poco soddisfacente è per Hamann la determinazione dei diversi oggetti dei sentimenti del bello e del sublime sviluppata nel primo capitolo delle Osservazioni: sin dalle prime righe del suo scritto Kant avrebbe presupposto l'indipendenza delle nostre sensazioni dalla costituzione degli oggetti ed avrebbe sottolineato con eccessivo vigore la soggettività delle sensazioni estetiche. Inoltre, ed in ciò sarebbe da ravvisare secondo Hamann un'ulteriore lacuna, i sentimenti del bello e del sublime verrebbero considerati né troppo raffinati, né troppo rozzi ed il giudizio estetico risulterebbe ridotto al concetto di un gusto medio la cui definizione non sarebbe determinata in modo più specifico, ma rimarrebbe nel vago. A Kant sarebbe mancata "l'indifferenza di un analista e di uno spirito forte", imprescindibile per un osservatore, e per questo motivo egli avrebbe lasciato del tutto inosservati i limiti estremi del sentimento del bello e del sublime.
Significativo per una ricerca sulla ricezione di Burke da parte di Kant è che Hamann, esposte le sue riserve, proponga integrazioni alle lacune da lui ravvisate nelle Osservazioni ricorrendo proprio alla teoria di Burke. Nella quarta parte della Enquiry l'istinto dell'autoconservazione e la tensione delle fibre connessa con ogni tipo di dolore sono individuati come causa del fenomeno del sublime, che presenta notevoli analogie con il dolore. Questa caratterizzazione dell'effetto soggettivo del sublime è però ancorata, nota Hamann, in una ben determinata struttura oggettiva, poiché Burke colloca determinate qualità all'origine del sublime. Ed anche la spiegazione del bello presenta sia un aspetto soggettivo, con la sua riconduzione all'effetto fisiologico sui nervi, sia un aspetto oggettivo: esso risulta dall'istinto alla socialità e produce un rilassamento delle fibre ed anche qui Burke enumera le qualità degli oggetti che possono causare le reazioni da lui analizzate sull'anima e sul corpo. Due sono quindi, secondo la recensione di Hamann, i meriti di Burke: innanzitutto egli sviluppa una caratterizzazione oggettiva del bello e del sublime, ed inoltre riserva attenzione anche al nesso con il corpo e con le regioni inferiori del mondo dei sensi analizzandone il ruolo nell'esperienza estetica. È ipotizzabile che Kant abbia letto questa recensione e che egli ne abbia tratto in parte insegnamenti utili, inserendoli nelle sue ulteriori riflessioni sul bello e sul sublime.
Al contempo, però, già in questa fase è chiaro a Kant che il sentimento di piacere e dispiacere [Gefühl der Lust und Unlust] presenta una complessità che sfugge completamente al discorso di Burke e che racchiude sotto di sé tre diverse specie: il piacere puramente animale [tierische Lust] e corporeo, il piacere più propriamente umano [menschliche Lust], ed infine il piacere di natura spirituale [geistige Lust]. Kant concorda con Burke nell'assegnare il sublime e la commozione che ne deriva alla prima sfera, ma quando passa all'esame del bello ritiene necessario apportare una modifica: è infatti dell'avviso che il sentimento del bello abbia diritto di cittadinanza propriamente nella "vita umana", non in quella "animale" e che a quest'ultima si possa ricondurre solo l'effetto soggettivo della bellezza, la sua "attrattiva" [Reiz]. Separazione questa che vale appunto solo per l'oggettivo e universale sentimento del bello, ma non si può applicare al soggettivo ed individuale sentimento del sublime.
Passiamo ora ad un'altra citazione implicita che si rivela di fondamentale importanza in quanto offre la possibilità di addentrarsi nella riflessione di Kant sulla parte V delle Philosophische Untersuchungen, riflessione, anch'essa, rimasta consegnata finora a documenti inediti. Nel capitolo Von den eigentlichen Sinnbildern oder Symbolis delle Lezioni di antropologia il nome di Burke non compare. Kant elabora alcune osservazioni sulla differenza fra conoscenza simbolica e conoscenza intuitiva, che parrebbero sulle prime rientrare nell'orizzonte della tradizione leibniziana, e si occupa successivamente del problema se anche le semplici parole siano in grado di suscitare sensazioni e, soprattutto, se ad esse si accompagni un sentimento di commozione. Indagine questa, di fondamentale importanza per la comprensione della teoria del sublime.
È l'oggetto, l'immagine di esso, oppure sono le parole con le quali lo si esprime, senza riferimento all'immagine a produrre in noi un sentimento? Anche le parole, nota Kant, possono produrre sensazioni ed impressioni, ad esempio la sensazione del terrore, senza che sia necessario che ad esse corrispondano immagini o idee precise. Quale spiegazione dare di questo fenomeno? "Poiché è consuetudine utilizzare determinate parole quando ci si rappresenta oggetti terribili, queste parole suscitano terrore in noi" (XXV 131). Le parole che vengono associate ad oggetti terribili possono dunque suscitare in noi il sentimento del terrore anche in assenza di quegli oggetti e senza rinviare ad idee o immagini di essi, solo in base al principio empirico e soggettivo dell'abitudine e della simpatia. Fra gli esempi addotti a conferma di questa tesi ci imbattiamo innanzitutto nella figura e nell'opera Saunderson, nato cieco e professore di matematica a Cambridge: "Si deve ammirare come alcuni parlino di cose che né capiscono, né sentono e però vengono capite da altri. Saunderson, professore a Cambridge e successore di Newton era cieco dalla nascita e tuttavia insegnava la matematica e l'ottica in modo molto chiaro, aveva udito da altri i diversi modi del calcolo dei raggi luminosi e dimostrava quindi che il colore rosso è il colore più forte e più chiaro, senza che però si sappia che concetto egli potesse avere della luce e del colore. La forza della luce egli se la immaginava come fosse la forza dell'impressione che riceviamo dal suono" (XXV 130). Il testo prosegue adducendo un esempio tratto dalla poesia: "Quando ad esempio si legge in uno scrittore inglese che Vulcano forgia la saetta di Giove mescolando fulmine, grandine e tuono e fitte tenebre, qui le semplici parole suscitano commozione". In un "autore inglese" Kant legge, dunque, la descrizione sublime della caverna di Vulcano e dei Ciclopi in cui vengono forgiati fulmini e saette per Giove; Kant rivela anche la fonte remota di questo "autore inglese", ovvero l'Eneide di Virgilio, il quale scriveva: "Vi avevano aggiunto tre raggi di grandine, tre di gravido nembo, tre di rutilo fuoco e tre di austro impetuoso. Ora mischiavano all'opera terribili folgori, fragore e paura, e ire con avide fiamme" (citato in Burke, pp. 184-185, nota 116).
Quale è, dunque, "l'autore inglese" dal quale Kant riprende l'esempio di Saunderson, quale la fonte alla quale attinge il passo, contenente la descrizione sublime e mitologica dell'attività di Vulcano, che risale all'Eneide di Virgilio? Un confronto con la parte V delle Philosophische Untersuchungen rivela come le osservazioni sull'effetto delle mere parole siano un ulteriore debito nei confronti di Burke; a quest'ultimo pensa Kant, quando nelle sue lezioni espone agli studenti il risultato della sua lettura di "un autore inglese". Anche in questo caso il discorso di Burke viene ripreso da Kant senza modificazioni sotto il profilo del contenuto; identici sono gli esempi, identico il ricorso al principio dell'abitudine e della simpatia per giustificare il sublime causato dalle parole.
In qual modo, si chiede Burke, la poesia e l'eloquenza suscitano le idee del bello e del sublime? Per comprendere quale sia l'origine della loro efficacia nel generare impressioni si consideri che le parole possono produrre nella mente dell'ascoltatore tre effetti: il suono, l'immagine della cosa rappresentata dal suono, il sentimento dell'animo originato o dal suono soltanto o dall'immagine soltanto oppure da suono ed immagine contemporaneamente. Vi sono però casi in cui le parole possono agire sulla mente unicamente grazie al loro suono, senza risvegliare alcuna immagine corrispondente. Saunderson può confermare questa teoria: "Il secondo esempio", scrive Burke, "è quello di Saunderson, professore di matematica all'Università di Cambridge. Questo dotto era molto erudito nella filosofia naturale, nell'astronomia e in tutte le scienze connesse con la matematica. La cosa più straordinaria e di maggiore importanza per il mio assunto è che egli tenne insigni conferenze sulla luce e sul colore, ed insegnò agli altri la teoria delle idee che essi avevano e che egli indubbiamente non aveva. ma è probabile che le parole rosso, azzurro, verde agissero su di lui come le idee dei colori stessi, poiché, essendo possibile applicare a queste parole le idee di gradi maggiori o minore di rifrangibilità, e sapendo il cieco sotto quali rispetti i colori s'accordassero o no, era tanto facile per lui ragionare sulle parole, come se fosse stato padrone assoluto delle idee" (Burke, p. 172).
Anche Burke si avvale, poi, della descrizione tenebrosa e grandiosa della caverna di Vulcano data da Virgilio ad illustrazione della propria concezione del bello e del sublime che derivano dalle parole. Burke muove, infatti, dalla considerazione che al di là degli oggetti naturali, e oltre agli oggetti della pittura e dell'architettura, anche agli oggetti dell'eloquenza e della poesia, ovvero alle parole, non possa essere disconosciuta la capacità di suscitare le idee della bellezza e del sublime e che, anzi, debba essere ascritta loro una particolare efficacia, superiore a quella della natura e delle altre arti a questo proposito. L'effetto della poesia sull'animo è completamente indipendente dalla capacità di suscitare immagini; si fonda interamente sulle sole parole e sul loro suono. È l'Eneide, come in Kant, a darci una prova di questo fatto: "Non v'è forse in tutta l'Eneide un passo più grandioso e più elaborato della descrizione della caverna di Vulcano nell'Etna e delle opere che quivi vengono eseguite. Virgilio s'indugia in particolar modo sulla forgiatura del tuono, che egli descrive modellato dai martelli dei Ciclopi. Ma quali sono gli elementi di questa straordinaria composizione? "Tres imbris torti radios, tres nubis aquosae/addiderant; rutili tres ignis et alitis austri;/fulgores nunc terrificos, sonitumque, metumque/miscebant operi/flammisque sequacibus iras". Questo mi sembra meravigliosamente sublime" (Burke, p. 173).
Burke e Kant danno però una valutazione differente del fenomeno descritto. Per il primo poesia e retorica si fondano non sul principio dell'imitazione, che regola la pittura, ma sulla simpatia, e il loro compito consiste nel suscitare impressione ed effetto sulla mente del lettore e dell'ascoltatore, e non è certo quello di presentare una descrizione ed un'idea chiara delle cose di cui discorrono. Su questa conclusione Kant non può dichiararsi all'unisono. Proprio perché le parole, nella loro autonomia, possono imporsi alla mente del lettore o dell'ascoltatore come sorgenti del sublime, proprio in quanto esse generano un sentimento di commozione sia il poeta, sia il retore debbono prestare notevole attenzione al modo in cui le usano. E, parimenti, il lettore o l'ascoltatore debbono procedere con cautela quando sono in presenza di una poesia, di un'orazione o di una predica. Il fatto che le parole diano origine a quel movimento dell'animo che è la commozione implica che da esse scaturisca un piacere di natura individuale e soggettiva, il piacere appunto per il sublime, per il quale è impossibile vi siano giudizi oggettivi, universali, validi per tutti i soggetti. Questa caratterizzazione del sublime generato dalle parole deve quindi essere ricondotta entro la concezione del Kant dell'inizio degli anni Settanta, che scorge nel sublime un sentimento meramente empirico.
2.
Sono emerse sin qui le tematiche sulle quali avviene il confronto esplicito o implicito, ma pur sempre documentabile, di Kant con Burke: la definizione del sublime e l'analogia con il terrore, gli effetti fisiologici del bello e del sublime, il nesso fra il sublime e la parola. Mentre lo sviluppo della seconda tematica dopo il 1773 può essere difficilmente ricostruito attenendosi ai documenti di cui siamo finora in possesso, gli altri due riaffiorano fino alla Critica del Giudizio.
Soffermiamoci dapprima sulla definizione, accettata da Kant in un primo momento, del sublime come di ciò che suscita terrore ed agisce sul sentimento individuale. A partire dalla metà degli anni Ottanta l'estetica di Kant è sottoposta ad un processo di trasformazione che dovrà condurre il filosofo alla scoperta definitiva di principi a priori sia del bello sia del sublime. Ora il sublime non è più una semplice impressione soggettiva ma rivela piuttosto un fondamento a priori. Il giudizio sul sublime della natura, sia esso matematico o dinamico in base alla distinzione della Critica del Giudizio, si qualifica sempre come un giudizio la cui validità non si limita al singolo soggetto empirico in un determinato momento temporale ed in un determinato luogo, ma solleva piuttosto una pretesa all'universalità e alla necessità che lo colloca sullo stesso piano del sentimento del bello. Il documento fondamentale a questo riguardo è offerto da una Riflessione autografa, la numero 992, che pare risalire agli anni 1785-1789. Vi si prospetta una "deduzione", una fondazione a priori della validità del "Giudizio estetico" sul sublime della natura, il sublime viene presentato quale preparazione al sentimento morale, e il complesso concetto trascendentale ed a priori della "finalità" viene usato per indicare il contenuto del giudizio sul sublime, un giudizio che risulta "comunicabile", e quindi di validità intersoggettiva (cfr. XV, p. 437).
Non sorprende, quindi, che anche la presenza di Burke assuma in questo decennio un significato ed un rilievo ben diversi rispetto alle fasi sin qui tratteggiate e non è errato parlare di una nuova fase della ricezione kantiana di quell'autore. Ciò è reso ben visibile dagli appunti dalle lezioni di antropologia che riportano il contenuto di un corso di lezioni successivo al 1780: vi compare sia una discussione esplicita della definizione burkeana del sublime come fonte di terrore, sia il fondamento sotteso a questo atteggiamento critico. Burke aveva sostenuto che tutto ciò che è atto a suscitare le rappresentazioni [Vorstellungen] di dolore [Schmerz] e pericolo [Gefahr] e tutto ciò che è in qualche modo spaventoso [schrecklich] o che presenta un'affinità con oggetti spaventosi o agisce sull'anima [Seele] in modo analogo al terrore è fonte di sublime. Kant considera questa definizione, a differenza della fase precedente, insufficiente; il terrore, la paura non sono gli unici elementi del sublime. Se lo si identifica con essi lo si impoverisce e lo si affida alla sfera del meramente soggettivo ed individuale. Il sublime, obietta, è correlato con un sentimento morale, sentimento che coincide con la possibilità di pensare un oggetto che supera per la sua grandezza qualsiasi misura sensibile. Nella Anthropologie-Gotthold questo atteggiamento di distacco critico emerge con chiarezza: "L'inglese Burg dice che il sublime suscita terrore, questo è sbagliato. Il sentimento del sublime è morale e consiste nella possibilità di pensare un oggetto che per grandezza supera qualsiasi misura sensibile". A conferma del contenuto di questo passo, che risale non alla penna di Kant, ma a quella dei suoi studenti, si può addurre la Reflexion 993, testo autografo del filosofo di Königsberg. Anche qui non si nega che il sublime abbia a che fare con la paura che ne rimane, anzi, elemento costitutivo. Se in Burke è però il fattore originario e fondamentale, in Kant diventa un dato secondario e derivato da una dimensione morale. Come sentimento, il sublime scaturisce dalla scoperta di un abisso che, nella nostra stessa natura, si estende oltre i confini dei sensi. Il sublime viene qui inteso come ciò nella cui rappresentazione l'animo sente la propria destinazione o disposizione ad estendersi fino a superare ogni misura dei sensi. La paura, continua Kant, viene sospinta indietro e moderata dalla considerazione della propria sicurezza, e dell'impulso ad estendersi che è troppo grande per la nostra capacità di comprensione. La Einbildungskraft viene qui contrapposta alla Fassungskraft. Ed è dalla loro contrapposizione che ha origine il sublime.
La medesima concezione si riscontra nella Anthropologie-Dohna. Mentre per il bello è possibile indicare una facoltà in grado coglierlo che si può anche connotare con un nome preciso, "gusto", per il sublime, nota Kant, "non disponiamo di una analoga denominazione atta a caratterizzarlo". Esso "indica una comparazione", che ci conduce ben al di là della "misura abituale delle grandezze" e l'immaginazione subisce alla vista di esso un'estensione tale che la misura abituale non è più sufficiente a comprendere l'oggetto. Centrale è anche qui il concetto di immaginazione e la sua netta differenza rispetto alla misura abituale delle grandezze. Ed è proprio alla luce di questa definizione del sublime che Kant ha raggiunto autonomamente ed indipendentemente da Burke, e le sue stesse parole lo testimoniano, che Kant valuta l'identificazione fra sublime e terrore. Dapprima egli così ne parafrasa il pensiero: "Burg, una mente illuminata, ha scritto sul bello ed il sublime, e dice: sublime è ciò la cui rappresentazione ci incute terrore e timore, ad esempio, altezze solitudini profonde, ed in esse il luogo di soggiorno terrificante e solo degli eremiti, ed infine la notte è sublime, ma il giorno è bello". E soggiunge immediatamente con atteggiamento critico: "Ma Burg non ha del tutto ragione; poiché ciò che suscita in noi terrore, non sempre lo troviamo sublime, ed al contrario mostriamo avversione di fronte a ciò che ci riempie di timore". L'esperienza, infatti, mostra come non sempre vi sia una coincidenza fra il terrore e il sorgere in noi dell'idea di sublime e testimonia, anzi, che spesso, nei confronti di ciò che suscita terrore, assumiamo un atteggiamento di ripulsa. "Migliore" - afferma Kant - "sarebbe la seguente definizione: sublime è ciò in cui l'immaginazione viene a tal punto estesa dall'oggetto, che la misura usuale non è più sufficiente a comprenderlo. Con questo non vogliamo negare che alcune cose sublimi possano suscitare in noi un sacro terrore, ad esempio un mostruoso castello le cui rovine in parte crollate ci mostrano la triste antichità".
Quanto alla connessione fra bello e sublime da un lato e sentimento vitale dall'altro, essa rimane immutata sotto il profilo del contenuto, con l'unica differenza che il sentimento vitale viene ora indicato sotto il profilo terminologico come Vitalsinn, come senso vitale. La descrizione dell'effetto del bello e del sublime su quest'ultimo non viene però sottoposta a trasformazioni.
3.1.
La critica a Burke
Nell'ambito di una ricerca che si propone di fondarsi su riferimenti espliciti, determinare il significato di Burke per la Critica del Giudizio sembra sulle prime un'impresa destinata all'insuccesso. Il giudizio sulle Philosophische Untersuchungen è altrettanto chiaro quanto energico: esse incarnano un tipo di indagine, quella empirica, che contrasta radicalmente con la ricerca di un principio a priori del giudizio di gusto, ricerca che si impone come l'intento fondamentale della terza Critica. Già nel capitolo X della cosiddetta Prima introduzione alla Critica del Giudizio, non pubblicata da Kant, si affronta il problema "della ricerca d'un principio del Giudizio tecnico", e si cerca di stabilire, sebbene il termine "deduzione" non compaia, un principio del Giudizio capace di giustificare la pretesa alla validità necessaria del giudizio di gusto. Ora, è proprio l'assenza di una simile "deduzione" che contraddistingue Burke e tutta una schiera di "pretesi psicologi". "Così", scrive Kant, "esiste una schiera di pretesi psicologi che dicono di saper precisare le cause d'ogni modificazione o moto dell'animo suscitato da tragedie, rappresentazioni poetiche ed oggetti naturali, e danno perfino il nome di filosofia a questa loro ingegnosità, mentre sembra che manchi loro non solo la conoscenza sufficiente a spiegare scientificamente i più comuni eventi naturali del mondo corporeo, ma fors'anche, addiritttura completamente, la capacità di avere tale conoscenza" (I. Kant, Prima Introduzione alla Critica del Giudizo, tr.it. Roma-Bari 1969, 1984 2, p. 100.). Il metodo adottato da Burke contraddistingue le ricerche di tutta una "schiera" di autori, che mirano a dare una spiegazione dei movimenti dell'animo determinati da tragedie, rappresentazioni poetiche e oggetti naturali; esso, però, non ha alcuna dignità scientifica in quanto consiste in osservazioni di natura psicologica. "Osservare psicologicamente (come Burke nel suo scritto sul bello e il sublime), ossia raccogliere materiale per future regole dell'esperienza da connettere sistematicamente, senza però pretendere di capirle, è probabilmente l'unico reale compito spettante alla psicologia empirica, la quale difficilmente potrà mai aspirare al rango di scienza filosofica" (Kant, Prima Introduzione, p. 122). Burke ha sì raccolto materiale sulla base del quale sarebbe possibile rintracciare regole che valgono empiricamente, ma di queste regole egli non ha inteso indicare i principi; le regole non vengono quindi "dedotte", né giustificate a priori, ma ricavate dall'esperienza. Poiché "i giudizi estetici della riflessione (che analizzeremo più avanti con il nome di giudizi di gusto) [...] pretendono necessità", essi non possono limitarsi a constatare che i diversi individui giudicano in un determinato modo, poiché in tal modo si ricadrebbe entro l'orizzonte della psicologia empirica. I giudizi estetici "dicono che ognuno deve giudicare in quel modo: e ciò vuol significare che essi hanno per se stessi un principio a priori" (Kant, Prima Introduzione, pp. 122-123). Se si accettasse il metodo empirico-psicologico, "dal fatto che ognuno giudica in un certo modo, seguirebbe che costui deve necessariamente giudicare in tal modo: ma questa è un'evidente assurdità" (Kant, Prima Introduzione, p. 123). La Prima Introduzione, che risale al 1789, costituisce così il primo documento nel quale il confronto con Burke viene svolto da un punto di vista ed entro un contesto radicalmente nuovo rispetto a quello delle lezioni di antropologia: ora anche per i giudizi estetici è possibile svolgere un tipo di analisi trascendentale della cui possibilità, almeno fino alla metà degli anni Ottanta, Kant aveva radicalmente dubitato.
La struttura di questa polemica si snoda secondo modalità di cui già la Critica della ragion pura offre una chiara dimostrazione. Già quell'opera aveva dovuto prender posizione, non certo relativamente al bello ed al sublime, ma piuttosto alla conoscenza, nei confronti di un'indagine di carattere empirico: il Saggio sull'intelletto umano di John Locke. Il giudizio generale su Locke non era certo lusinghiero; egli vi figurava come un pensatore "incoerente" e tale giudizio veniva integrato da un'ulteriore, radicale critica al suo metodo, critica che rappresenta il parallelo rispetto a quella mossa a Burke nella Prima Introduzione alla Critica del Giudizio e probabilmente il modello cui Kant si è ispirato tra il 1787 ed il 1790. Il § 13 della "Deduzione dei concetti puri dell'intelletto" si richiama all'uso giuridico dei termini quid juris e quid facti ed asserisce che solo relativamente alla soluzione della prima, "che deve dimostrare la legittimità o anche la pretesa giuridica" si può usare in modo appropriato il termine "deduzione". "Quando parlano di legittimità e pretese, i giuristi distinguono in ogni dibattito giuridico la questione concernente ciò che è di diritto [quid juris] dalla questione di fatto [quid facti], ed esigendo la dimostrazione per l'uno e per l'altro punto, chiamano la relativa al primo - quella cioé che deve dimostrare la legittimità o anche la pretesa giuridica - deduzione" (I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. Torino 1967, p. 152). Se ora abbandoniamo il diritto ed applichiamo tale precisazione all'analisi della conoscenza, ne risulta che anche in quest'ultima si possono distinguere due compiti completamente diversi l'uno dall'altro: la deduzione anche qui non si risolve nell'analisi di una pura e semplice questione di fatto. Qui non si tratta di mostrare quale sia l'origine e la genesi di un concetto quale essa avviene di fatto nella mente umana; lo scopo dell'analisi della conoscenza non coincide con l'esame di come essa sia venuta in possesso, muovendo dai dati offerti dall'esperienza, dalla sensazione e dalla riflessione dei concetti di cui è costituita. Questo tipo di spiegazione è di natura empirica e non merita in realtà il titolo di deduzione se non in modo improprio: la deduzione empirica "fa vedere come un concetto sia acquisito mediante l'esperienza e la riflessione su di essa, e riguarda pertanto non la legittimità, ma il fatto da cui risulta il possesso" (Critica della ragion pura, p. 153). Attraverso un "reperimento dei primi moti della nostra facoltà conoscitiva, per ascendere dalle singole percezioni ai concetti generali", ammonisce Kant "non si dà mai luogo a una deduzione dei concetti puri a priori, perché essa non si trova assolutamente lungo questo cammino..." . Ad essa deve essere contrapposta la vera e propria deduzione, che consiste nella "spiegazione del come i concetti a priori si possano riferire a oggetti": "Ma fra i concetti di diversa specie che costituiscono il così vario tessuto della conoscenza umana, ce ne sono alcuni che sono determinati anche per l'uso puro a priori (del tutto indipendente da ogni esperienza), e questa loro legittimità abbisogna sempre di una deduzione; infatti, per la giustificazione di un tale uso, le prove ricavate dall'esperienza non sono sufficienti, essendo necessario sapere come questi concetti possano riferirsi a oggetti che non traggono la loro origine da alcuna esperienza" (Critica della ragion pura, 153).
Anche nella Critica del Giudizio è inserito in tutto un contesto a lui omogeneo: le Philosophische Untersuchungen vengono scelte come l'esemplificazione perfetta di un modo particolare di accostarsi al bello ed al sublime che Kant designa come "esposizione fisiologica" e che a lui pare accomunare Burke e "molti uomini d'ingegno" dell'area tedesca, sotto la qual formula si possono comprendere sia Sulzer sia Mendelssohn. Lo scritto di Burke, questa l'interpretazione kantiana, è, valutato sotto il profilo metodico e relativamente ai risultati cui esso conduce, ben difficilmente distinguibile da quelli di Mendelssohn e Sulzer. Qui si sorvola sulle notevoli differenze esistenti fra questi autori e se ne coglie quello che, in base a principi filosofici a loro estranei, pare configurarsi come l'elemento che li accomuna: una determinazione empirica dei caratteri del bello e del sublime. Kant ora cita direttamente la sua fonte dalla traduzione tedesca dell'Enquiry, apparsa nel 1773 e tradotta da Garve. "Per vedere a che cosa conduce un'esposizione puramente empirica del sublime e del bello - nota Kant - si può paragonare con la precedente esposizione trascendentale dei giudizi estetici quella fisiologica, come l'hanno elaborata Burke, e, presso di noi, molti uomini d'ingegno" (Critica del giudizio, p. 131).
Dapprima vengono riassunti i risultati contenuti nella parte quarta dell'opera, in cui sulla base della preliminare assunzione del nesso mente-corpo vengono individuati gli effetti del sublime e del bello rispettivamente nella liberazione di vasi sottili o grossi da ingorghi pericolosi e nel rilassamento delle fibre del corpo e ne vengono riportati i passi dalla traduzione del Garve: "Burke, che merita di essere considerato come l'autore più importante di questo genere di ricerche, arriva per tale via al seguente risultato (p. 223 della sua opera): 'il sentimento del sublime si fonda sulla tendenza alla propria conservazione e sul timore, vale a dire su di un dolore, il quale, poiché non arriva allo sconcerto reale delle parti del corpo, produce dei movimenti, che, liberando i vasi sottili o grossi da ingorghi pericolosi e molesti, son capaci di suscitare emozioni piacevoli, non un vero piacere, ma una specie di orrore piacevole, una certa calma mista allo spavento'. Il bello, che egli fonda sull'amore (da cui però vuole esclusi i desideri), lo riconduce a (pp. 251-252): 'l'allentamento e rilassamento delle fibre del corpo, e quindi, un intenerimento, una dissoluzione, un illanguidimento, un soggiacere, un morire, uno struggersi dal piacere" (Critica del giudizio, p. 131).
Si può qui rilevare una prima annotazione critica: quella che Burke offre non è una vera definizione del sublime e del bello, ma solo una "specie di definizione", che inoltre, ed in ciò si rivela un suo ulteriore difetto teorico, viene confermata da un esame di casi in cui le fonti del bello e del sublime, unificati con il "piacere" [Vergnügen] ed il "dolore", vengono scorte indifferentemente tanto nel rapporto fra immaginazione ed intelletto quanto nella sensazione, facoltà che, però, per il filosofo di Königsberg, si trovano a livelli completamente diversi: né il bello, né il sublime devono infatti la loro origine alla sensazione. Così scrive Kant: "E [Burke] conferma questa specie di definizione non soltanto coi casi in cui il sentimento del bello o del sublime può esser suscitato in noi dall'immaginazione congiunta con l'intelletto, ma anche con quelli in cui la causa determinante è una sensazione" (Critica del giudizio, p. 131). La critica decisiva all'"esposizione fisiologica" promossa da Burke si appunta ora sulla conseguenza cui potrebbe condurre l'accettazione dei suoi principi metodici. "Ma se il piacere, per un oggetto, si fa dipendere del tutto dal fatto che questo diletta per via di attrattive od emozioni, non si può esigere da nessun altro il consenso nel giudizio estetico che noi pronunziamo; perché allora ciascuno consulta a buon diritto il suo sentimento particolare" (Critica del giudizio, p. 132). Se si accetta la soluzione di Burke, e qui Kant enuclea il motivo profondo della sua critica, "cessa anche interamente ogni disputa sul gusto; l'esempio, che danno gli altri con l'accordo accidentale dei loro giudizii, dovrebbe diventare un precetto pel nostro consenso, e contro questo principio noi probabilmente resisteremmo, facendo appello al naturale diritto di sottoporre al nostro proprio sentimento, e non a quello degli altri, un giudizio che riposa sul sentimento immediato del proprio benessere" (Critica del giudizio, pp. 132-133). L'universalità empirica e non necessaria del giudizio estetico cui conduce la definizione del bello e del sublime come attrattiva e commozione vengono, in un'analisi di questo tipo, elevate a "precetto", in accordo con la metodologia empiristica che dall'osservazione di come si giudica di fatto ricava le norme su come si deve giudicare. Tale precetto, però, ben lungi dal suscitare il nostro consenso, ci ricondurrebbe entro la sfera del sentimento immediato del nostro benessere, cui sottoporremmo il precetto ricavato empiricamente. L'obiettivo polemico della Critica del Giudizio riguardo all'esclusione di Reiz e Rührung è senza dubbio, fra gli altri autori, anche Burke. Burke è accusato di far dipendere il piacere per un oggetto dal fatto che questo "diletta [vergnügt] per via di attrattive od emozioni". Con questa accusa mossa a Burke di aver di mira solamente il Reiz si connette anche la negazione kantiana della bellezza del singolo suono e del singolo colore. Anche qui Burke costituisce senza dubbio uno degli obiettivi polemici: "Un semplice colore, per esempio il verde di un prato, un semplice suono (a differenza del rumore e del frastuono), come quello di un violino, in generale son dichiarati belli per se stessi; sebbene entrambi mostrino di aver a fondamento la semplice materia della rappresentazione, cioè unicamente la sensazione, e perciò meritino di esser chiamati soltanto piacevoli" (Critica del giudizio, p. 68).
L'obiezione ad una tesi che Burke ha senza dubbio propugnato ed un riferimento implicito ad essa sono contenuti anche nel § 9 della Critica del Giudizio: "Che il poter comunicare il proprio stato d'animo anche solo riguardo alle facoltà di conoscere, porti con sé un piacere, si potrebbe dimostrare facilmente (in modo empirico o psicologico) con la naturale tendenza dell'uomo alla socievolezza. Ma ciò non è sufficiente pel nostro scopo. Il piacere che noi sentiamo, lo esigiamo come necessario da ognuno nel giudizio di gusto" (Critica del giudizio, p. 61). Il fatto che la comunicabilità del proprio stato d'animo nel fenomeno del bello sia connessa con un piacere non costituisce il punto di arrivo dell'indagine, ma deve essere anch'esso sottoposto ad esame. Ricondurre però tale connessione, sulla base di premesse empiriche e psicologiche, alla naturale tendenza alla socievolezza, come fra gli altri aveva fatto Burke, è per Kant completamente insufficiente a giustificarne la validità oggettiva.
Siamo ora in possesso degli elementi necessari per affrontare il quesito se Burke possa avere esercitato sulla Critica del Giudizio un influsso considerevole relativamente al concetto di gusto come "facoltà di giudicare un oggetto o un tipo di rappresentazione mediante un piacere, o un dispiacere, senza alcun interesse" (Critica del giudizio, p. 52), questione che ricorre costantemente nella Kantforschung e che è stata per lo più risolta riconoscendo in Burke un antesignano della concezione kantiana del piacere disinteressato. È senz'altro vero che all'inizio della parte terza, nella sezione che analizza "la bellezza", Burke compie una distinzione che non può non richiamare immediatamente alla mente la contrapposizione kantiana fra attrattiva e bellezza. All'"amore" [Liebe], che coincide con quel piacere [Vergnügen] che l'anima [Seele] ricava dalla contemplazione della bellezza [Schönheit] Burke contrappone il "desiderio o lussuria" [Begierde oder sinnliche Lust]. Quest'ultimo mira costantemente al possesso della cosa che di per sé non è bella per l'anima, ma semplicemente le procura piacere per motivi del tutto diversi. A Kant questa definizione non è certo sfuggita ed anzi la richiama proprio nella Critica del Giudizio: "Il bello, che egli fonda sull'amore (da cui però vuole esclusi i desideri..." (Critica del giudizio, p. 132). Il suo giudizio non è però favorevole; al contrario, ben conoscendola ed essendovisi soffermato, Kant rimprovera a Burke di non aver saputo prescindere dall'attrattiva e dalla commozione nella spiegazione del bello. Sulla base di questo passo diviene difficile vedere in Burke la fonte del concetto kantiano del piacere disinteressato. E complesso è anche interpretare il suo saggio come origine della dottrina kantiana secondo la quale il sublime ci libererebbe, attraverso il nesso con il sentimento morale del rispetto, dai nostri moventi sensibili, e ci allontanerebbe anch'esso, come il bello, da ogni commistione con qualsivoglia interesse dei sensi (Così vuole, ad esempio, il recente studio di E. Tschurenev, op. cit., p. 72). Se ci atteniamo alle parole di Kant, è infatti proprio questo il punto debole della teoria di Burke: che non sia riuscita ad offrire una trattazione del bello e del sublime indipendente dall'attrattiva e dalla commozione. Dalla lettura dei documenti della genesi emerge come Kant abbia voluto esplicitamente connettere la propria distinzione fra "bellezza" e "attrattiva" non già con la tradizione filosofica dell'empirismo, quanto piuttosto con la tradizione culturale tedesca. Sulla definizione in negativo del bello egli apprezza esplicitamente Winckelmann, non Burke. È senza dubbio corretto asserire che la teoria kantiana del disinteresse non è solo frutto di autonome ed indipendenti speculazioni, ma deva la sua origine anche alla lettura di altri autori Questi influssi esterni debbono però, a mio avviso, essere ricondotti più all'area tedesca che a quella britannica: quando Kant vuole indicare un altro pensatore che gli pare avere insistito con eguale forza sul fatto che il piacere per il bello non si possa ricondurre alla sola attrattiva egli ci propone già a partire dal 1770 circa il nome di Winckelmann. Questi ha colto una differenza fra bellezza ed attrattiva non solo in generale, ma anche relativamente ai due sessi: solo il corpo maschile può essere infatti ritenuto degno di essere chiamato bello, a quello femminile non si può estendere questa qualifica, dal momento che esso suscita immediatamente un'attrattiva in chi lo contempla (Cfr. ad esempio AA XXIV 350, 492, AA XV 280-281).
3.2. I meriti di Burke.
Le considerazioni sin qui svolte paiono escludere qualsiasi debito della Critica del Giudizio nei confronti di Burke. Se però lo si indaga più da vicino, emerge non solo come essa lasci trapelare l'adesione ad alcune sue dottrine specifiche, ma anche come Kant esprima con chiarezza quali ne siano i meriti; il confronto fra le due teorie conduce, così, ben oltre quel risultato negativo che sembra imporsi a prima vista. La critica all'esposizione ed alla deduzione meramente fisiologica dei giudizi estetici pare mostrarci sulle prime la distanza incolmabile che separa le due teorie; eppure Kant afferma esplicitamente di condividere in toto alcune delle tesi della sua fonte. Con chiarezza non minore rispetto a quella di cui si avvale nel muovere obiezioni radicali, egli mette in evidenza anche la propria adesione ad alcune delle sue idee fondamentali. La discussione di questi punti permette così di correggere e di integrare l'impressione che lo scritto di Burke abbia solo un significato negativo per Kant e costituisca per lui semplicemente un termine di paragone antitetico. Al contrario, il contenuto della teoria burkeana viene inserito nella Critica del Giudizio nel contesto di una complessa teoria antropologico-empirica del sentimento del piacere che attraversa lo scritto nel suo insieme e ne costituisce parte integrante.
"Come osservazioni psicologiche", scrive Kant, "queste analisi dei fenomeni del nostro animo sono straordinariamente belle e forniscono ricca materia alle più gradite ricerche dell'antropologia empirica" (Critica del giudizio, p. 132). Paul Menzer ha affermato che in questa frase verrebbe espresso un atteggiamento di rifiuto: "Kant ha più tardi rifiutato queste idee, nella sua critica a Burke, come osservazioni psicologiche" (P. Menzer, Kants Ästhetik in ihrer Entwicklung, Berlin 1952, p. 91). In realtà l'osservazione di Menzer, condivisa da molti studiosi, coglie senz'altro con esattezza solo un aspetto della questione: le tesi di Burke non hanno valore, né possono mostrare alcuna utilità quando si tratti di fondare l'apriorità del bello e del sublime sotto il profilo trascendentale. Questa prima considerazione deve però essere integrata con una seconda: le ricerche di Burke acquistano rilievo quando la riflessione sui fenomeni del bello e del sublime si muova in ambito antropologico; e l'antropologia è ben lungi dal rappresentare per Kant un sapere da disprezzare o da rifiutare. La Critica del Giudizio offre un chiarimento sulla prospettiva del Kant antropologo nel 1790 ed integra così la lacuna derivante dall'assenza di Nachschriften (appunti degli studenti dalle lezioni), che risalgano agli anni successivi al 1788.
L'apprezzamento di Kant per Burke riguarda in primo luogo la tesi della non-indifferenza delle rappresentazioni che si riferiscano al sentimento del piacere [Vergnügen] e del dolore [Schmerz]: "non si può negare [...]", scrive, "che tutte le nostre rappresentazioni, siano esse oggettivamente soltanto sensibili, o interamente intellettuali, possono essere soggettivamente congiunte col piacere e col dolore, per quanto anche l'uno e l'altro siano inavvertiti (perché tutte quante affettano il sentimento della vita, e nessuna, in quanto è una modificazione del soggetto, può essere indifferente)" (Critica del giudizio, p. 132).
Con Burke Kant concorda nell'affermare che non vi è alcuna rappresentazione, non solo dei sensi, ma anche intellettuale che, una volta che abbia colpito il nostro sentimento vitale, non sia connessa con il piacere e il dolore. Dopo aver ricondotto il bello al "rilassamento" ed il sublime ad una "tensione" delle fibre del corpo, Burke "conferma questa specie di definizione non soltanto coi casi in cui" quello che per Burke è il sentimento del bello o del sublime, "può esser suscitato in noi dall'immaginazione congiunta con l'intelletto, ma anche con quelli in cui la causa determinante è una sensazione" (Critica del giudizio, p. 132). Se nel ricondurre il sublime ed il bello al rilassamento ed alla tensione delle fibre del corpo e nel farli consistere in essi soltanto, quindi in sentimenti di natura empirica connessi con il piacere e con il dolore Kant scorge l'errore fondamentale di Burke, egli però concorda con il pensatore irlandese sul fatto che tutte le rappresentazioni, in quanto colpiscono il soggetto e sono modificazioni di esso, in quanto appartengono al piacevole o allo spiacevole, sono congiunte con il piacere o il dolore e possono quindi essere considerate nel loro rapporto con il sentimento vitale. Kant vuole qui escludere la possibilità di uno stadio intermedio fra piacere e dolore una volta che una rappresentazione abbia colpito il nostro sentimento. E la stessa dottrina gli pare di ravvisare in Burke. Per Kant non sono però il bello ed il sublime a dover essere presi in considerazione qui, ma piacere e dolore. Se riferite a questi ultimi, se riferite a stati che colpiscono il sentimento vitale e lo rendono passivo, le tesi di Burke sono corrette. In sintesi: Reiz e Rührung, attrattiva e commozione possono essere descritte nei termini in cui Burke descrive il bello ed il sublime.
Ma vi è di più: sottesa alle argomentazioni di Burke è la tesi, che risale ad Epicuro, della corporeità di Vergnügen e Schmerz: "Così pure, come affermava Epicuro, il piacere e il dolore, infine, sono sempre corporei anche se provengano dall'immaginazione o perfino da rappresentazioni intellettuali" (Critica del giudizio, p. 132). Kant opera qui una distinzione tra la vita come coscienza dell'esistenza e il legame dell'animo col corpo che è connesso con il sentimento di benessere e di malessere. L'animo [Gemüt] per sé solo è tutto vita; in questo primo caso si può sì parlare di Gefühl des Lebens, ma a questo livello non abbiamo ancora a che fare né con il piacere, né con il dolore. Questi ultimi presuppongono, infatti, il legame dell'animo con il corpo. Neppure relativamente a questa concezione la terza Critica presenta novità se comparata con le Lezioni di antropologia, ma anzi si situa nel loro stesso solco ed ancora una volta si richiama ad Epicuro, il quale compare in altri due passi analoghi a quello della "Osservazione generale sull'esposizione dei giudizi estetici riflettenti": "Tra ciò che piace semplicemente nel giudizio, e ciò che diletta (piace nella sensazione), vi è, come abbiamo mostrato spesso, una differenza essenziale. In quest'ultimo caso non si può, come nel primo, esigere il piacere da ognuno. Il diletto (anche quando la sua causa stia nelle idee), pare che consista sempre in un sentimento dello svolgimento, più facile di tutta la vita dell'uomo, e quindi anche del benessere corporeo, cioè della salute; sicché Epicuro, che considerava ogni diletto come, in fondo, una sensazione corporea, in ciò forse, non aveva torto, e s'ingannava soltanto quando poneva tra i diletti il piacere intellettuale e perfino il piacere pratico" (Critica del giudizio, p. 192). Ed ancora poco più avanti: "Sicché, mi pare, si può concedere ad Epicuro che ogni diletto, anche quando sia occasionato da concetti che suscitano idee estetiche, è una sensazione animale cioè corporea; senza che perciò si faccia minimamente torto al sentimento spirituale della stima per le idee morali, che non è un diletto, ma una stima di sé (dell'umanità in noi), che ci eleva al di sopra del bisogno del diletto; e senza che si faccia torto neppure al sentimento meno nobile del gusto" (Critica del giudizio, p. 197). Epicuro avrebbe "mal compreso se stesso" [sich selbst mißverstand] quando inserì fra i "diletti" il piacere intellettuale ed il piacere pratico. Questa precisazione è di fondamentale importanza sotto un duplice profilo: da un lato rappresenta un'applicazione del principio fondamentale della teoria storiografica kantiana secondo la quale si può comprendere un autore meglio di quanto egli stesso si sia potuto comprendere; dall'altro permette a Kant di inserire quella dottrina entro la sua Critica del Giudizio e di conciliarla con la propria definizione del piacere per il bello e per il sublime. Kant interpreta come un fraintendimento operato da Epicuro dei principi della sua stessa filosofia, il fatto che quest'ultimo si sia riferito ai piaceri intellettuali e pratici come ad un tipo particolare di diletto [Vergnügen]. La dottrina di Epicuro può essere accettata solo quando la si comprenda in modo corretto, solo quando si tenga presente che neppure per lui il Vergnügen si può identificare con il Geschmack e con il geistiges Gefühl. Anche in questo caso Kant legge nel principio epicureo non tanto quello che il suo autore vi ha detto, quanto piuttosto quello che, a suo avviso, egli vi ha voluto dire. La novità della Critica del Giudizio, rispetto alle fasi precedenti, consiste nell'avere stabilito expressis verbis una connessione fra la quarta parte delle Philosophische Untersuchungen ed il principio epicureo, secondo il quale piacere e dolore hanno una connotazione inevitabilmente corporea. Kant vede la presenza di Epicuro nella riconduzione del piacere e del dolore al legame fra la mente ed il corpo. Se dovessimo esporre in una formula chiara il senso complessivo delle riflessioni di Kant, dovremmo allora affermare che a suo avviso l'Enquiry di Burke getterebbe le sue radici, almeno relativamente al punto di cui si tratta, nell'epicureismo.
Già la Critica della ragion pratica, nella quale sono presenti come nella terza Critica teorie di carattere empirico-antropologico, aveva espresso parere favorevole sulla dottrina epicurea del piacere. Quando il nostro scopo non sia quello di rintracciare il criterio ed il principio della moralità, ma quello di svolgere un'analisi empirica ed antropologica della natura del sentimento del piacere, le osservazioni di Epicuro possiedono un loro rigore ed una loro cogenza. Epicuro ha perfettamente ragione, se ci manteniamo su di un piano antropologico, ad asserire che il piacere [Vergnügen], quale che ne sia l’origine, è sempre identico a se stesso, e che non è possibile stabilire una differenza qualitativa fra i diversi tipi di piacere; si parli del piacere intellettuale oppure di quello empirico si dovrà sempre constatare l’analogia che regna fra essi. "Se con Epicuro noi stabiliamo che nella virtù ciò che determina la volontà sia il semplice piacere che essa promette, non possiamo poi disapprovarlo perché egli ritiene questo piacere omogeneo con quello dei sensi più grossolani; non si ha infatti motivo di fargli carico di aver attribuito unicamente ai sensi corporali le rappresentazioni mediante le quali vien prodotto in noi questo piacere. Per quanto si può indovinare, di molte di queste rappresentazioni egli ricercò l'origine appunto nell'uso della facoltà superiore della conoscenza; ma ciò non gl'impedì, e non gli poteva impedire di ritenere, secondo il principio citato, affatto omogeneo con gli altri il piacere stesso che quelle rappresentazioni magari intellettuali ci procurano, e per il quale soltanto essi possono essere motivi determinanti della volontà" (I. Kant, Critica della ragion pratica, pp. 47-48).
3.3. Riferimenti impliciti
Sebbene il nome di Burke non vi sia esplicitamente richiamato alcuni passi ed alcune dottrine della Critica del Giudizio si configurano come discussione critica d'analoghe teorie burkiane. Sublime, afferma Burke, è ogni oggetto che suscita terrore. Se inizialmente Kant non aveva preso le distanze dalla formula del suo ispiratore, ma anzi se n'era servito onde confermare la propria idea della soggettività del sublime, già negli anni precedenti la stesura e la pubblicazione della Critica del Giudizio le Riflessioni autografe e le Lezioni di antropologia testimoniano come tale posizione sia completamente mutata. Kant non condivide più la convinzione che il sentimento del sublime si possa risolvere nel terrore, ed intraprende anzi il tentativo di separarli l'uno dall'altro. Il § 28 della Critica del Giudizio, che, all'interno della trattazione del sublime dinamico della natura, si occupa "Della natura in quanto potenza", mantiene questa posizione critica, ma al tempo stesso vi aggiunge una fondamentale precisazione, che permette di coglierne anche i lati che, secondo Kant, ne fanno una definizione accettabile. È vero che il giudizio che assegna alla natura il sublime dinamico è inscindibile dalla sua rappresentazione come potenza che causa timore; e non v'è dubbio sul fatto che la nostra superiorità rispetto alla natura, come ostacolo che si oppone alla nostra sensibilità, può essere da noi sentita solo se presupponiamo la potenza e solo se la nostra inadeguatezza genera in noi timore. "Perché nel giudizio estetico (senza concetto) la superiorità sugli ostacoli non può essere giudicata se non dalla grandezza della resistenza. Ora, ciò cui noi siamo spinti ad opporci è un male, e, quando sentiamo che il nostro potere non è adeguato, è un oggetto di timore [Furcht]. Perciò la natura, pel Giudizio estetico, non può essere una potenza, e quindi dinamicamente sublime, se non è considerata come oggetto di timore [Furcht]" (Critica del giudizio, p. 111). L'identificazione del sublime con il timore [Furcht] deve essere però corretta ed integrata rispetto al modo in cui la intendeva Burke, alla cui concezione è da porsi una limitazione. Non è, infatti, vera "la reciproca": "che, cioè, ogni oggetto che suscita timore debba esser trovato sublime nel giudizio estetico". Il suscitare timore non è insomma una condizione sufficiente per il sublime e non ne determina le caratteristiche essenziali. Pochi anni prima Kant si era appoggiato alla considerazione empirica che vi sono oggetti che suscitano timore e che tuttavia non si possono considerare sublimi. Questa motivazione non viene ripresa dalla Critica del Giudizio, in cui permane unicamente la connessione con la dimensione morale. "Colui che teme non può giudicare del sublime della natura, come non può giudicare del bello chi è dominato dall'inclinazione e dall'appetito. Egli fugge la vista dell'oggetto, che gli incute timore [Scheu]; ed è impossibile trovar piacere [Wohlgefallen] in uno spavento [Schrecken], che è seriamente sentito. Perciò quel piacere, che sentiamo al cessar di qualcosa che ci opprime, è una gioia [Frohsein]. Ma è una gioia per la liberazione da un pericolo, accompagnata dal proposito di non esporvisi mai più; ben lungi dal cercare l'occasione di ripensare alla sensazione provata, non possiamo neppure ricordarla senza fastidio" (Critica del giudizio, p. 111). L'unico tipo di piacere che può provare colui che viene sopraffatto dal timore consiste per Kant nella "gioia". Ma il termine Frohsein da lui usato, si deve ricordare, non è nient'altro che la traduzione tedesca del termine Delight che Mendelssohn aveva proposto nella sua recensione a Burke del 1758: "Ad un tedesco questo neologismo potrebbe essere risparmiato, poiché non disponiamo nella nostra lingua di un termine che esprime questa sensazione. Noi diciamo, ich bin froh, daß es einmal vorüber ist, e simili, con la quale formula esprimiamo il piacere che scaturisce dalla liberazione da un dispiacere" (M. Mendelssohn, rez. zu E. Burke, A Philosophical Enquiry into the Origin of Our Ideas of the Beautiful and Sublime, in JA, Bd. IV, p. 218). La medesima definizione si ritrova in Wolff al § 855 della Psychologia empirica ed in Baumgarten al § 682 della Metaphysica alle quali Mendelssohn stesso rinvia, proponendo al tempo stesso una correzione a Wolff: "Il sostantivo dovrebbe essere Frohseyn, non, come Wolff crede, Fröhlichkeit" (ivi). Non è forse ingiustificato formulare l'ipotesi che il referente storico ed il bersaglio polemico concreto di questa separazione fra sublime e "gioia" [Frohsein] possa essere Burke e che Kant possa avere avuto in mente qui non tanto la traduzione di Garve del termine Delight, che viene reso con Beruhigung, quanto proprio la recensione di Mendelssohn.
E veniamo ad un'ultima tematica nella quale è possibile ravvisare un'implicita critica a Burke. Ora Kant si pone un problema che investe da vicino la concezione della religione e del rapporto con la divinità. Come è possibile, si domanda, conciliare la concezione del sublime in quanto potenza, il sublime dinamico, con il fatto che nei fenomeni naturali che risvegliano in noi tale sentimento siamo soliti rappresentarci Dio in collera? In tal modo, infatti, vengono ad essere contrapposti l'uno all'altro due elementi costitutivi del sublime: da un lato il sentimento della nostra superiorità sugli effetti naturali, dall'altro il sentimento della nostra sottomissione a Dio. Il sentimento del sublime non rischia di diventare allora sentimento di superiorità nei confronti di Dio stesso? "Con questa spiegazione del concetto del sublime, che lo attribuisce alla potenza, pare contrastare il fatto che noi siamo soliti rappresentarci Dio come in collera nelle tempeste, negli uragani, nei terremoti e via discorrendo; ma nel tempo stesso come rivelante la sua sublimità, in modo tale che sarebbe stoltezza e follia l'immaginare una superiorità del nostro animo sugli effetti, e, a quanto pare, anche sui fini di una tale potenza" (Critica del giudizio, p. 114).
La soluzione di questo problema risiede per Kant nella differenziazione fra timore e religione. Il primo non è inscindibilmente connesso con la seconda, anzi, dove esso è presente, all'uomo risulta impossibile "ammirare la grandezza divina". A questa si può giungere solo attraverso una "disposizione alla contemplazione calma e un giudizio interamente libero". Solo quando riesca ad avere in sé questa disposizione l'uomo è anche in grado di ammirare la divinità come oggetto sublime, "perché allora egli trova in se stesso una sublimità di sentire conforme alla volontà di lui, e si eleva al disopra della paura davanti a questi avvenimenti naturali, che non considera più come sfoghi della sua collera" (Critica del giudizio, p. 115). Considerare un oggetto temibile, come la divinità, non significa, infatti, averne timore. "Così l'uomo virtuoso teme Iddio, senza aver paura davanti a lui, perché non immagina il terribile caso in cui volesse opporsi a lui e ai suoi ordini" (Critica del giudizio, p. 111). Solo sulla base della distinzione fra il timore ed il sublime si può giungere ad una corretta distinzione fra religione e superstizione. La superstizione non fa sorgere nell'animo il rispetto per il sublime, poiché è intimamente connessa con la paura e l'angoscia che sorgono di fronte all'onnipotenza divina. La sottomissione alla volontà divina non coincide qui con il rispetto per il sublime, ma con il timore. "Solo così la religione si distingue intimamente dalla superstizione; questa non induce nell'animo il rispetto pel sublime, ma la paura e l'angoscia davanti all'essere onnipotente, alla cui volontà l'uomo spaventato si vede sottomesso, senza però rispettarlo; da che non possono nascere, invece di una religione della condotta buona, se non pratiche propiziatrici ed adulatorie" (Critica del giudizio, p. 115). Ed è proprio qui che deve essere colto un altro rimprovero kantiano, seppur implicito, a Burke: quest'ultimo aveva, infatti, fondato la vera religione su di un "miscuglio di salutare timore". Nella traduzione del Garve Kant poteva leggere che, non appena abbiamo un'idea di Dio, sorge in noi un'immagine sensibile nella quale sono compresenti tutte le proprietà che connettiamo con quell'idea. Nessuna fra queste ultime ha il sopravvento sulle altre nella nostra mente eccetto una che maggiormente ci colpisce ed è più viva delle altre: la sua potenza [Macht]. Mentre per giungere alla convinzione della saggezza, della giustizia e della bontà di Dio sono necessarie una certa riflessione ed un'attività di comparazione, per provare il sentimento della sua potenza non abbiamo che da aprire gli occhi: esso s'imporrà subito. A questo sentimento fa da corrispettivo quello della piccolezza e della limitatezza del nostro proprio essere che si sente annientato dalla potenza divina. Né la considerazione della giustizia, né quella della bontà di Dio ci possono sottrarre all'impressione di terrore, suscitata da quella potenza cui nulla si può opporre. L'idea autentica della divinità presuppone così per Burke il riferimento al concetto di timore. "Sebbene una considerazione degli altri suoi attributi possa alleviare in certo senso le nostre apprensioni, pure nessuna convinzione della giustizia con cui è esercitata, né della misericordia da cui è mitigata, può completamente allontanare il terrore che nasce naturalmente dalla considerazione di una forza a cui nulla può resistere. Se noi gioiamo, gioiamo con tremore, e persino nel momento in cui riceviamo un beneficio, non possiamo fare a meno di rabbrividire dinanzi a una potenza che può distribuire benefici di tanta importanza" (Burke, op. cit., p. 94).