IL CAPITALE (IV)
Passando dalla I alla II sezione, Marx mostra la trasformazione del denaro in capitale, ma sarebbe un errore ritenere che un uso “borghese” del denaro -così come è stato delineato nel cap. III- non presupponga già un'accumulazione di tipo capitalistico, per quanto lo stesso Marx affermi a chiare lettere che tutte le particolari forme del denaro, descritte in quel capitolo, non necessitano di una circolazione delle merci molto sviluppata (p.201).
In effetti, solo ora si viene a sapere da Marx che non era per nulla assodato che nel cap. III (ma anche in quelli precedenti) si fosse in presenza di una formazione capitalistica, che -a suo giudizio- nasce anzitutto sul terreno della produzione e non dello scambio: il plusvalore nasce “dietro le spalle della circolazione”, in maniera “invisibile”(p.194).
Tuttavia, nel cap. III non era certo stato descritto l'uso del denaro nella società schiavista o in una qualunque società commerciale pre-capitalistica. Marx ha sempre avuto come punto di riferimento privilegiato il sistema mercantile quale s'è venuto formando a partire dal sec. XVI. Nell'ouverture del Capitale Marx parla esplicitamente di “modo di produzione capitalistico”(p.25) e all'inizio della II sezione di “secolo XVI” come punto di partenza (p.169). Ciò sta appunto a significare che l'uso del denaro descritto nel cap. III è un uso specifico, tipicamente borghese, benché alcune sua modalità possano ritrovarsi in altre società commerciali.
La causa di questa difficoltà è dipesa dal modo astratto e non storico con cui Marx ha trattato l'argomento. In ogni caso s'egli avesse parlato dell'uso del denaro di una qualunque società commerciale, ora non avremmo, al cap. IV, la sua trasformazione in capitale, poiché questa è specifica del modo di produzione capitalistico.
Esiste quindi nella II sezione una contraddizione latente, che solo ora viene alla luce, ed è la seguente: da un lato, nessuna forma fenomenica del denaro può portare, di per sé, al capitale che si autovalorizza, la cui nascita avviene nel campo della produzione; dall'altro, senza il grande sviluppo commerciale del sec. XVI non si sarebbe formato alcun capitale.
Dunque, come mai solo adesso si parla della trasformazione del denaro in capitale, visto e considerato ch'essa in realtà è un presupposto di un uso borghese del denaro? Risposta (plausibile): perché per Marx la società borghese non va rifiutata come società mercantile, ma solo come società capitalistica (si badi: non come società industriale, ma come società che forma un capitale privato). Per Marx non è in discussione il primato del mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ma il primato del capitale, il quale presuppone lo sfruttamento della forza-lavoro. L'idea “rivoluzionaria” del Marx del Capitale è semplicemente quella di abolire il capitale per abolire lo sfruttamento del proletariato, conservando tutto il resto.
Rivediamo meglio in cosa consiste questa contraddizione di Marx. Egli parla di “nascita del capitale” in seguito alla “produzione delle merci” e soprattutto alla loro “circolazione sviluppata, ossia il commercio”(ib.). Il capitale si forma solo “a un certo grado di sviluppo”(ib.) della società mercantile, quando la divisione del lavoro ha già separato il valore d'uso da quello di scambio (p.200). Nel senso che se è vero che il capitalismo nasce sul terreno della produzione, è anche vero ch'esso ha bisogno di un considerevole sviluppo del commercio. “E' impossibile che il capitale derivi dalla circolazione [altrimenti si sarebbe formato anche nel mondo greco-romano o bizantino], ma è ugualmente impossibile ch'esso non derivi dalla circolazione”(p.195).
Questa impostazione storica relativa alla nascita del capitalismo è di tipo economicistico e quindi sostanzialmente errata (essa peraltro non sfugge alla tautologia): sia perché il capitale non può sorgere spontaneamente da una società di tipo mercantile, sia perché la società mercantile nata nel sec. XVI era già capitalistica. Marx, in sostanza, non ha saputo spiegare il passaggio dalla società feudale a quella capitalistica perché non l'ha affrontato in termini culturali.
Se l'avesse fatto, avrebbe compreso che la nascita del capitalismo è strettamente legata, da un lato, non solo all'affermazione della libertà individuale, ma anche, dall'altro, alla contemporanea affermazione della “schiavitù” di chi insieme alla libertà individuale non ha una proprietà personale. Perché si affermi la schiavitù occorre che il soggetto da “schiavizzare” sia convinto che può effettivamente diventare “libero”, emancipandosi da una precedente condizione sociale in cui si sentiva asservito. Marx ha saputo spiegare in che modo questo individuo s'è trasformato socialmente o economicamente in lavoratore salariato, ma non ha spiegato il motivo per cui ha accettato di diventarlo. Non è che Marx non si renda conto del problema, è che non può preventivare una soluzione del genere senza rimettere in discussione il primato concesso allo scambio sull'autoconsumo. Non avendo colto il momento della libertà o della scelta, egli è stato costretto ad attribuire allo scambio un ruolo sproporzionato, che nei fatti non poteva avere.
Non a caso egli stesso scrisse, riferendosi alla sua opera, che “il meglio” stava nell'aver attribuito al valore d'uso un'importanza particolare, strettamente legata a quella di valore; e quindi nell'aver saputo distinguere, nell'analisi della merce, i due tipi di lavoro, astratto e concreto. Marx cioè riteneva d'aver superato l'economia classica sul suo stesso terreno, lasciando così credere che, con le sue potenti forze produttive, il capitalismo, se fosse stato regolamentato da un piano (previa la socializzazione dei mezzi produttivi), avrebbe funzionato mille volte meglio di quanto non riuscisse a fare con la borghesia (cfr. Lettera a Engels del 24.08.1867 e Note su Wagner del 1883). L'obiettivo di Marx era semplicemente quello di conciliare il contenuto del valore d'uso con la forma del valore di scambio, eliminando non il profitto in sé ma solo il plusvalore estorto all'operaio con una forza mascherata dal diritto.
In sintesi, nell'analisi di Marx il capitale sorge necessariamente dallo sviluppo della società mercantile non perché questa abbia concesso il primato alla merce, al mercato, al valore di scambio ecc., quanto perché essa ha sviluppato tale primato nell'affermazione della libera proprietà privata, dalla quale è rimasto escluso l'operaio.
Tale forma di proprietà -secondo Marx- ha dovuto necessariamente svilupparsi per superare i limiti della proprietà feudale e della società agricola, ma ora essa stessa rivela i suoi propri limiti, in quanto non è in grado di far sviluppare ulteriormente le forze produttive che ha promosso. L'alternativa sta nella proprietà socializzata, in virtù della quale è possibile realizzare una pianificazione della produzione.
Marx, come non vede alternative -oltre quella borghese- alla crisi della società feudale, così non ne vede alla crisi della società capitalistica, oltre quella della mera socializzazione dei mezzi produttivi. Egli non avrebbe mai accettato che in nome del “piano” scomparisse il “mercato”, come poi è accaduto nei paesi est-europei. Ma l'esperienza di questi paesi ha appunto dimostrato che se si vuole realizzare la pianificazione dell'economia, senza tornare all'autoconsumo, il mercato scompare, almeno quello ufficiale, mentre si sviluppa quello clandestino o “nero”.
L'autoconsumo invece permette la realizzazione di un mercato per i beni necessari, il cui prezzo (o il cui scambio) è liberamente contrattato, in quanto la libertà è data dalla reciproca e sostanziale autonomia economica. Per “autonomia economica” non si deve intendere l'”assoluta autarchia”, la quale non solo non è mai esistita, ma non è neppure auspicabile, in quanto, paradossalmente, sarebbe troppo dispendiosa per le forze produttive in loco.
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Il denaro, per Marx, è il “prodotto ultimo della circolazione delle merci” e insieme “la prima forma fenomenica del capitale”(p.169). Già abbiamo detto che questo modo di vedere le cose è, nel Capitale, di tipo logico non storico. Nessuna circolazione delle merci, per quanto sviluppata sia, porterebbe mai al denaro come “equivalente universale” se a livello culturale non si fosse già affermata la “logica” del capitale. Non è la prima volta che Marx applica al passato criteri di vita del suo presente.
La circolazione delle merci quindi non è “il punto di partenza del capitale”(ib.), più di quanto questo non lo sia di quella. Il limite nell'impostazione metodologica di Marx non dipende tanto da una scarsa storicità degli avvenimenti, quanto da una posizione ideologica che privilegia il momento strutturale (economico) su quello sovrastrutturale (culturale), senza cercare il loro trait d'union.
“Il capitale, considerato storicamente, si contrappone in ogni luogo alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio di denaro, capitale commerciale e capitale usuraio”(p.170). Questa definizione che Marx ha dato del capitale è vera ma generica, irrilevante. Il capitale così come è sorto a partire dal sec. XVI è molto di più del capitale commerciale e usuraio (che sono sempre esistiti): è denaro investito nella forza-lavoro che, formalmente libera, produce plusvalore. Ma attenzione: non è che Marx non si renda conto di questo, è che non riesce a spiegarsi il motivo per cui l'espressione storica determinata del capitale, quella assolutamente originale, cioè senza precedenti, debba essere vincolata alla falsa libertà del lavoratore.
Marx ha perfettamente capito che esiste una forma di ipocrisia tra l'uguaglianza affermata in sede giuridica e la disuguaglianza de facto in sede economica, ma non ha capito quale cultura o ideologia ha fatto nascere questa ipocrisia e in che modo essa s'è rapportata al fattore della struttura.
Decisiva resta la sua critica del formalismo giuridico borghese, che osserva il capitalismo solo dal punto di vista del mercato o dello scambio di merci, ove appare che il borghese imprenditore e l'operaio salariato siano “spinti solo dalla loro libera volontà”(p.209). Marx ha giustamente messo in luce il fatto che è assurdo parlare di “libera volontà” in riferimento a un soggetto -l'operaio- che, non disponendo di proprietà privata, può solo vendere la propria forza-lavoro. E tuttavia Marx non ha afferrato il concetto che l'ideologia della “libera volontà” doveva essersi affermata anche nella coscienza dell'operaio, se questi, invece di ribellarsi politicamente al monopolio della proprietà privata, vi si adeguò o con rassegnazione, pensando che in futuro la “divina provvidenza” avrebbe tutto sistemato, o con l'aspirazione di poter un giorno diventare proprietario di qualcosa che non fosse semplicemente la sua capacità lavorativa.
Qui peraltro sta il senso del superamento di Marx da parte di Lenin, il quale affermò in Che fare? che la coscienza rivoluzionaria all'operaio che non comprende la necessità di superare globalmente il sistema, poteva essere data solo “dall'esterno”, cioè da colui che ha capito che aldilà di questa necessità vi è solo il tentativo di “riformare” il sistema. In tal senso il problema che Lenin dovrà affrontare sarà un altro, quello di come impedire che la trasmissione “esterna” della coscienza rivoluzionaria non si trasformi in una manipolazione ideologica o in una imposizione politica.
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La diretta forma della circolazione delle merci: M-D-M, cioè vendere per acquistare, così come si manifesta nella società mercantile, non avrebbe senso se non esistesse il suo opposto: D-M-D, cioè acquistare per vendere. Marx invece le presenta come due forme parallele, “sostanzialmente diverse”(ib.), la seconda conseguente alla prima, e non strettamente legate, ab ovo. Marx tende a salvare la prima forma e a negare la seconda, poiché quella presuppone la libertà dei produttori privati, questa lo sfruttamento del proletariato. Naturalmente la prima non avrebbe portato alla seconda se i produttori non avessero affermato un monopolio della proprietà privata, ma Marx aggiunge, a tale considerazione, che senza la pretesa proprietà privata non sarebbe crollata l'antiquata comunità agricola.
La formula più esatta della circolazione capitalistica delle merci e del denaro dovrebbe dunque essere la seguente: D-M-D'-M-Dn, dove il primo Denaro è il capitale investito, dove la Merce fondamentale è la forza-lavoro, dove il secondo Denaro è il capitale valorizzato col plusvalore estorto, dove il terzo Denaro è il capitale che si valorizza all'infinito se la forza-lavoro non reagisce politicamente. “Il movimento del capitale infatti non ha limiti”(p.177).
L'altra formula di Marx: M-D-M, se considerata astrattamente, al massimo può andar bene per quelle società pre-capitalistiche che conoscevano l'uso del denaro. D'altronde lo stesso Marx ad un certo punto è costretto ad affermare che il fine ultimo del ciclo M-D-M “è il consumo, appagamento di bisogni, in altri termini è valore d'uso”(p.174). Ciò sebbene Marx abbia descritto tale ciclo, nei precedenti capitoli, facendo esplicitamente riferimento alla società mercantile, ove, per definizione, domina il primato del valore di scambio. Valore che invece qui è la ragion d'essere del ciclo opposto: D-M-D. Se dovessimo accettare questo modo d'impostare le cose, dovremmo anche sostenere che la società mercantile, che Marx fin qui ha descritto, non è mai esistita; è una società “ideale” ch'egli ha voluto contrapporre alla progressiva, inevitabile, degenerazione cui essa stessa va incontro.
Da notare che Marx ancora non ha mostrato che tale infinita “valorizzazione del valore”(p.177) dipende dallo sfruttamento del proletariato. Egli sta semplicemente mostrando la caratteristica fondamentale del capitalista: “il perenne succedersi del guadagnare”(p.178). “Il movente delle sue azioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta”(ib.), astratta perché il fine è in se stessa e non nel consumo. La differenza tra il capitalista e il tesaurizzatore -dice Marx- è che questi accumula togliendo il denaro dalla circolazione, mentre quello, al contrario, accumula reinvestendolo di continuo.
Per Marx -e ciò per un determinista è davvero singolare- si tratta semplicemente di maggiore “furbizia” o “razionalità”(p.179). In realtà, dopo la storia della società agraria (conclusasi in occidente con il crollo del feudalesimo), la possibilità di continuare la logica dello sfruttamento poteva esprimersi solo ad una condizione: quella di far credere al lavoratore che l'unico modo di diventare libero nella comunità agraria non era semplicemente quello di vincere il servaggio, ma quello di vincerlo uscendo dalla comunità. Il capitalista investe il proprio capitale scommettendo che il lavoratore ci crederà. Naturalmente tale scommessa implicava la fiducia indispensabile nel valore di una determinata cultura, quella borghese e protestante.
Marx invece pensa che la produzione del plusvalore, essendo completamente estranea al valore d'uso, dipenda da un “impellente desiderio di arricchimento”(pp.178-9). Di nuovo qui si passa da considerazioni di tipo economico a considerazioni di tipo psicologico. Paradossalmente, proprio mentre ha cercato di dare una definizione storica del capitale, Marx è andato a cercare in autori come Aristotele, A. Genovesi, Th. Chalmers, Mac Culloch ecc., quella definizione astratta di capitale applicabile ad ogni epoca storica. Questo suo atteggiamento è una diretta conseguenza del fatto ch'egli, nel Capitale, non ha immediatamente legato il plusvalore allo sfruttamento della manodopera salariata.
Portando all'estremo l'analisi di Marx si sarebbe costretti ad affermare esattamente il contrario di ciò che lui voleva sostenere, e cioè che il proletariato è, in definitiva, una merce che il capitalista trova casualmente sul mercato e che sfrutta per ottenere plusvalore: cosa che però avrebbe ottenuto ugualmente, anche se non avesse incontrato la forza-lavoro. E questo perché Marx non riesce a trovare le ragioni culturali che fanno nascere il plusvalore proprio nel secolo XVI e non prima.
Il capitalismo quindi non sarebbe nato in questo secolo, ma p.es. ai tempi di Aristotele, il quale lo chiamava col termine di “crematistica”, secondo cui non esiste “alcun limite alla proprietà e alla ricchezza”(p.127 in nota). Se nel sec. XVI si è imposto un volume notevolissimo di plusvalore, ciò è dipeso da fattori contingenti, quali ad es. i commerci mondiali, che ai tempi di Aristotele erano solo mediterranei. La differenza, quindi, fra il capitalismo moderno e quello antico sarebbe solo quantitativa.
E' la stessa lunga citazione di Aristotele che sta a dimostrare come Marx non sia riuscito a cogliere la peculiarità del capitalismo moderno, rispetto a quello antico. L'arricchimento assoluto, illimitato, non rende affatto uguali le due forme di accumulazione, né la loro fondamentale diversità riposa nel modo tecnico, meccanico, di ottenere plusvalore. La somiglianza non dipende dall'atteggiamento psicologico, né la diversità dipende dalle forme dell'accumulazione.
Non avendo collegato subito l'autovalorizzazione del capitale con lo sfruttamento del proletariato, Marx arriva a considerare il valore in modo magico, come un “soggetto automatico”(p.179) che valorizza se stesso anche senza volerlo, semplicemente usando le merci come “mezzi miracolosi per fare più denaro dal denaro”(p.180). Il capitalismo, nell'analisi della II sezione, appare, ad un certo punto, contro le stesse intenzioni di Marx, come l'esito dell'adeguamento di una posizione psicologica individuale a un meccanismo economico oggettivo. Per Marx insomma non vi è differenza, stante la sua definizione astratta di capitale, tra capitale commerciale, industriale e usuraio: tutti e tre possono ottenere plusvalore, acquistando per vendere più caro. Marx -e questa è davvero una novità- non vede nel capitale industriale la modalità principe di estrazione del plusvalore.
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Tutto ciò però va spiegato meglio. Per Marx, nella circolazione semplice delle merci, espressa dalla formula M-D-M, non si forma plusvalore, poiché “il valore delle merci è espresso nei loro prezzi prima che esse si immettano nella circolazione”(p.184). Non c'è “alcun cambiamento della grandezza di valore”(ib.), proprio perché di tratta di uno scambio “allo stato puro”(p.185), “da un punto di vista astratto”(p.184). Nel senso che se alle “leggi immanenti” della circolazione delle merci non si sovrappone un particolare atteggiamento individuale di uno dei due contraenti, lo scambio dovrebbe comportare un vantaggio reciproco.
Inutile qui ricordare come questo modo d'impostare le cose sia, da parte di Marx, “troppo astratto” per essere vero. E la ragione è molto semplice: la società mercantile qui descritta non è mai esistita sul piano storico (e non perché si dia per scontato che lo scambio sia solo tra “equivalenti”, poiché più avanti si parlerà anche di quello tra “non-equivalenti”).
Marx fa “funzionare” il suo modello teorico di società mercantile facendo astrazione dal fatto che la libera proprietà privata dei produttori indipendenti è stata sin dall'inizio il frutto di sanguinose lotte di classe, che hanno portato a una redistribuzione non democratica ma “classista” della proprietà. Il quadro da lui dipinto potrebbe trovare una qualche attendibilità in una società basata sull'autoconsumo, ove la proprietà sia un diritto collettivo acquisito, e il commercio un'esigenza regolamentata dalla comunità. Ma un'eventualità del genere Marx sarebbe il primo a rifiutarla.
Il plusvalore non si forma nella circolazione semplice delle merci perché qui, secondo Marx, tende a prevalere il valore d'uso su quello di scambio. Marx, in sostanza, voleva attribuire a una società mercantile pre-industriale quella facoltà che in realtà possedeva solo la società agricola che sul mercato scambiava il surplus. Egli così non si è reso conto che tale società mercantile, finché il plusvalore non si è formato, non era ancora prevalentemente “mercantile”, e quando il plusvalore si è formato, essa era già prevalentemente “industriale”. La facoltà che il capitale commerciale e usuraio hanno di estorcere plusvalore dipende direttamente, nel capitalismo, da quella che ha il capitale industriale.
La critica di Marx a Condillac risente, in tal senso, del pregiudizio nei confronti della società contadina. Marx non s'accorge che criticandolo d'aver attribuito “a una società a produzione sviluppata di merci una situazione in cui il produttore produce da solo i suoi mezzi di sussistenza e immette nella circolazione solo l'eccedente del suo fabbisogno, il superfluo”(p.186), non s'accorge che questo modello di società è quello stesso che potrebbe far funzionare il modello astratto, “puro”, di società mercantile da lui stesso prima tratteggiato. Solo che Marx non accetterebbe mai il presupposto che l'autoconsumo abbia un primato sullo scambio. Ciò infatti è in netta contraddizione coll'idea di società mercantile sviluppata, la quale, anche nell'analisi di Marx e non solo nell'ideologia borghese, vuole essere un superamento positivo della società agricola. A parte questo, Condillac andava criticato, poiché attribuiva dei criteri borghesi di vita (in primis l'esigenza di ottenere un valore maggiore da uno minore) ad una società pre-borghese.
Anche quando Marx ammette che “in pratica le cose non avvengono allo stato puro”(p.187), nel senso che lo scambio è spesso “tra non equivalenti”(ib.), egli non riesce mai ad uscire dall'astrazione. La posizione ideologica che fa dell'economia il deus ex-machina gli impedisce d'immergersi completamente nella storia.
Non è infatti sufficiente affermare che nella realtà lo scambio è spesso “tra non equivalenti” per dimostrare una maggiore storicità delle cose. Marx ha ragione quando sostiene che non sorge alcun plusvalore “neanche scambiando non-equivalenti”(p.192), ma non riesce a trovare le ragioni culturali per cui ad un certo punto sul piano della produzione sorge il plusvalore. Di qui il suo affidarsi alla realtà del commercio mondiale.
Le ragioni di questo limite metodologico sono a monte, nella concezione stessa che Marx ha della società mercantile, che a sua volta è frutto di un pregiudizio nei confronti della società agraria. Marx parte da un presupposto sbagliato, e cioè che “sul mercato delle merci sono contrapposti solo possessore di merci e possessore di merci; il potere che queste persone possono esercitare reciprocamente è soltanto il potere delle loro merci”(p.187).
In realtà nella società mercantile questa è solo una delle polarizzazioni, e nemmeno la più importante, poiché essa può sussistere solo se contemporaneamente se ne afferma un'altra: quella fra produttore individuale di merci e comunità di autoconsumo (ovvero fra capitalista e contadino-artigiano in via di proletarizzazione). Lo scontro tra queste due realtà si può esprimere secondo diverse modalità: esso p.es. può diventare cruento se il valore della comunità è alto o incruento se basso, ma un valore troppo alto o troppo basso renderebbe inspiegabile la natura dello stesso scontro. Dal quale comunque deve uscire -secondo Marx- la subordinazione del contadino espulso dalla comunità e dell'artigiano espulso dalla corporazione al borghese imprenditore. Marx però non accetta il principio secondo cui non esiste un momento in cui i due produttori di merci si contrappongono senza che nel contempo non vi sia la polarizzazione sociale tra borghesia e proletariato. Il Marx del Manoscritti del '44, in questo senso, era più realista.
Certo, dal punto di vista del mercato il potere di questi due possessori è quello delle “merci”, ma dal punto di vista della produzione il loro potere è quello della proprietà privata dei mezzi produttivi. E questa proprietà sarebbe impensabile senza la distruzione della comunità di autosussistenza e la conseguente proletarizzazione della classe contadino-artigiana. Se non si parte da questo presupposto si finisce col sostenere che dei due possessori di merci ha la meglio quello che, essendo più dotato di “spirito capitalistico”, riesce a ridurre a manodopera salariata gli ex-contadini-artigiani.
Marx parla della “differenza materiale delle merci” quale “causa materiale dello scambio”(p.187), senza rendersi conto che tale causa poteva trovare una ragion d'essere nel sistema basato sull'autoconsumo, e non certo in quello mercantilistico, ove il leit-motiv dello scambio è il profitto.
La reciproca dipendenza dei possessori di merci -di cui parla Marx- è cosa del tutto relativa, che si verifica unicamente sul mercato, poiché sul piano della produzione ogni imprenditore pretende un'indipendenza assoluta da ogni altro produttore (che poi riesca effettivamente ad ottenerla, è un altro discorso). Non a caso l'obiettivo principale del proletariato dev'essere quello di ripristinare la dipendenza del produttore di merci dalle esigenze e dalla volontà della comunità sociale (anzitutto locale).
Il grande merito di Marx, in questa sezione, è stato quello di aver dimostrato che il plusvalore non si può formare nell'ambito della circolazione semplice delle merci. Infatti, sia che i venditori vendano la merce a un valore più alto, sia che gli acquirenti l'acquistino a un valore più basso, non si può pensare che una classe acquisti soltanto senza vendere, ovvero consumi senza produrre. Tuttavia, Marx non ha spiegato il motivo per cui se questa classe avesse acquistato vendendo o consumato producendo, in un'epoca pre-capitalistica, non sarebbe ugualmente nato il plusvalore.
Per Marx il plusvalore non può nascere nella circolazione delle merci non tanto perché se potesse nascere sarebbe nato prima del sec. XVI, quanto perché non può esistere plusvalore là dove esistono solo produttori di merci indipendenti. “L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può sfruttare se stessa”(p.191). Il che, anche come ipotesi, è di per sé assurda, poiché non esiste “capitalista” senza “operaio”.
Marx aggiunge che se i produttori di merci non fossero indipendenti -come ad es. le città dell'Asia Minore che erano tributarie dell'antica Roma-, il plusvalore non si formerebbe ugualmente, poiché al tributo che Roma imponeva con la forza, quelle città rispondevano aumentando i prezzi delle loro merci. Esiste quindi plusvalore solo là dove una classe usa del denaro che estorce col diritto o con la forza a un'altra classe, senza che questa abbia la possibilità di riprenderselo.
Sembra che Marx, a questo punto, abbia dato una definizione convincente di plusvalore: in realtà è entrato in un vicolo cieco. Se il plusvalore è ciò che si ottiene “senza scambio e gratis”(p.190), questa definizione potrebbe applicarsi tranquillamente a qualunque formazione sociale basata sul servaggio o, meglio ancora, sullo schiavismo. Là dove esiste sfruttamento di manodopera (schiava o servile), lì dovrebbe esistere un plusvalore.
In realtà la caratteristica del plusvalore capitalistico è un'altra, che Marx peraltro conosce perfettamente ma che non può mettere al primo posto, altrimenti se ne dovrebbe chiedere la ragione culturale: quella di realizzarsi, da un lato, in virtù della libertà personale del lavoratore, e dall'altro, in virtù del macchinismo. Non dobbiamo infatti dimenticare che la rivoluzione industriale (a partire dalla manifattura) è stata una conseguenza della fine della comunità autarchica. Alle sicurezze che offriva tale comunità, la borghesia ha voluto contrapporre quelle nuove offerte dal macchinismo.
Per un verso quindi Marx sostiene, giustamente, che nel capitale commerciale non si forma plusvalore tra produttori di merci, specie se vige lo scambio degli equivalenti. Il capitale commerciale “appare ricavabile solo dal duplice sopruso fatto ai danni dei produttori di merci che acquistano e vendono da parte del mercante che s'intromette tra di essi come un parassita”(p.193), nel senso che il mercante alza il prezzo della merce all'acquirente e lo abbassa al venditore. Mentre invece nel capitale usuraio “la forma D-M-D' è abbreviata e ridotta ai diretti estremi D-D', denaro che si scambia con più denaro”(ib.).
Un plusvalore realizzato in questi due modi non sarebbe in grado di determinare “l'organizzazione economica della società moderna”(p.192), soprattutto perché “la formazione del capitale [e cioè del plusvalore] deve poter avvenire anche se il prezzo delle merci è uguale al valore delle merci”(p.195 in nota), cioè anche se non c'è frode, dolo, usura ecc.
Per un altro verso invece Marx afferma che il plusvalore dipende dal valore d'uso d'una merce particolare, la forza-lavoro, che è “particolare” perché, pur essendo valore d'uso, essa è anche fonte di valore. La particolarità della formazione del plusvalore è tutta qui. Il possessore di denaro può autovalorizzare il proprio denaro in quanto ha la “fortuna” di trovare, sul mercato, una merce che crea valore.
L'incontro è pressoché casuale, in quanto la forza-lavoro appartiene a un individuo non meno “libero” del possessore di denaro. “Il possessore della forza lavorativa, perché possa venderla come merce, deve poterne disporre, perciò deve essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona”(p.197). “Egli incontra sul mercato il possessore di denaro...”(ib.).
Qui Marx non spiega assolutamente il motivo per cui la forza-lavoro è già forza-lavoro, cioè il motivo per cui essa deve presentarsi sul mercato solo per vendere la propria merce. Marx dice che sul mercato questi due possessori di merci (forza-lavoro e denaro) sono “persone uguali giuridicamente”(ib.). Ma egli non sottolinea con altrettanta precisione che, al di fuori del mercato, queste due persone sono già socialmente diverse.
Sul mercato non avviene un incontro casuale ma obbligato, almeno fintantoché il proletariato non vi si oppone politicamente. E' un incontro “libero” solo nella misura in cui il contadino-artigiano è convinto, entrando nel mercato, di potersi emancipare dal servaggio; ma resta “obbligato” nella misura in cui lo stesso contadino non ha di fronte a sé una forma diversa di alternativa al servaggio.
A Marx non interessa mostrare che il proprietario della forza-lavoro è costretto, a causa della dissoluzione della comunità agricola, a proletarizzarsi. Anzi, ciò che appare nella sua analisi è semplicemente il fatto che la forza-lavoro preferisce alienarsi “soltanto per un tempo stabilito”(p.197), proprio per non doversi trasformare in merce tout-court. Sembra essere una volontà del proletario quella di non diventare come uno schiavo.
Marx naturalmente afferma che il proletariato è costretto a vendere come merce la sua forza-lavoro, non potendo vendere nient'altro, perché privo di mezzi di produzione e di sussistenza. Però è singolare ch'egli consideri come “seconda” questa condizione, quando in realtà essa è la prima.
Marx infatti non ha capito che la forza-lavoro ha accettato l'uguaglianza giuridica, pur essendo alienata economicamente, perché sul piano culturale l'ideologia le prometteva un'emancipazione anche economica. Cioè a dire, il capitalista non ha incontrato sul “mercato-delle-persone-giuridicamente-uguali” quella disuguale sul piano economico, ma, dopo aver creato l'ideologia dell'uguaglianza giuridica, sulla base della propria autonomia economica, se n'è poi servito per ingannare il contadino-artigiano che, uscendo privo di tutto dalla comunità agricola, doveva convincersi sull'effettiva possibilità di emanciparsi economicamente in virtù della libertà “borghese”.
Il ragionamento di Marx invece è capovolto. “Al possessore di denaro, che trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista pratico”(pp.199-200). Il che è sintomatico: Marx, che pur ha capito l'origine sociale della proletarizzazione, finisce coll'approdare a una conclusione che può far comodo alla borghesia, invece di risalire al rapporto genetico e drammatico di quella proletarizzazione con la dissoluzione della comunità agricola. Nell'illusione di poter offrire un giudizio di fatto inconfutabile, Marx ha involontariamente espresso un giudizio di valore chiaramente opinabile.
Egli si è limitato ad affermare che il rapporto tra possessori di merci o denaro da un lato, e possessori di forza lavorativa dall'altro, “non risulta dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i periodi della storia”(p.200). Esso è “il prodotto di molte rivoluzioni economiche...”(ib.). Così dicendo, Marx non riesce a spiegarsi la ragione della nascita del capitalismo. Infatti, stando alla sua ideologia, le “rivoluzioni economiche”, che pur sono “sociali”, cioè essenzialmente frutto della “libertà”, rappresentano unicamente un “processo di storia naturale”, come vien detto nella Prefazione alla I ed. (p.6).
Alla domanda “quando nasce il capitalismo?”, Marx dà questa risposta: “per poter rappresentare il prodotto come merce [in quanto finalizzato unicamente al mercato] occorre una divisione del lavoro all'interno della società che sia così sviluppata da essersi già effettuata la separazione tra valore d'uso e valore di scambio...”(p.200).
Sembra essere questa la ragione di fondo, ma poi Marx aggiunge, rendendosi forse conto d'aver chiamato in causa un fattore semplicemente tecnico: “questo grado di sviluppo è però comune a formazioni sociali economiche le più diverse tra loro”(pp.200-201). Le quali non tutte, anzi nessuna, eccetto una, è diventata capitalistica.
Analogo fattore tecnico è quello del denaro, le cui particolari forme (mezzo di circolazione e di pagamento ecc.) possono coesistere con “una circolazione delle merci relativamente poco sviluppata”(p.201).
Il cerchio quindi si chiude: alla domanda “come ha fatto il capitalismo a nascere?”, Marx non ha saputo trovare una risposta soddisfacente. Egli ha certamente capito, meglio di qualunque economista precedente, che il capitale “sorge solo dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore in veste di venditore della propria forza lavorativa...”(ib.). Ma altre spiegazioni non ne ha date.
Il motivo di ciò sta nel fatto che, essendosi limitato a un'analisi fenomenologica della nascita del plusvalore, Marx non ha saputo affrontare a livello storico né il processo di dissoluzione della comunità agricola, con i suoi drammi e le sue tragedie, né la formazione della cultura vincente, quella borghese e protestante, che ha legittimato quel processo, rendendolo ineluttabile.
Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/