COMMENTO AL CAPITOLO VI DEL LIBRO I DEL “CAPITALE”

K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984

(Il “Commento” avrà come scopo soltanto quello di verificare la fondatezza di alcune tesi espresse nell'analisi del I libro del Capitale).

Sin dall'inizio del capitolo, Marx cade nel circulus vitiosus secondo cui la merce va considerata come “presupposto per la genesi del capitale” e nel contempo come suo “prodotto”(p.49). Questa tautologia si rifletterà più avanti, nel modo di vedere il rapporto tra capitalista e salariato nell'ambito della circolazione del capitale. “Nella circolazione il capitalista e l'operaio stanno l'uno di fronte all'altro solo come venditori di merci...”(p.93): la merce dell'operaio è -come noto- la sua stessa forza-lavoro. E si rifletterà anche nella differenza che Marx pone tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale (cfr pp.125ss.).

Marx si rende conto che esiste una certa diversità fra la merce come “presupposto” e la merce come “prodotto”, ma non riesce a spiegarsene la ragione culturale. E' questa la tesi che vogliamo dimostrare.

Egli afferma: “in precedenti stadi di produzione i prodotti assumono parzialmente la forma della merce. Invece il capitale produce necessariamente il suo prodotto come merce”(p.50). Detto altrimenti: i due presupposti fondamentali per la nascita del capitalismo sono, secondo Marx: 1) “che i membri concorrenti della società si fronteggino come persone che si stanno davanti solo in quanto possessori di merci e che solo in quanto tali entrano reciprocamente in contatto (ciò esclude la schiavitù, ecc.)”; 2) “che il prodotto sociale sia prodotto come merce. (Ciò esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d'uso è lo scopo principale, e tutt'al più si trasforma in merce l'eccedenza del prodotto, ecc.)”(p.81).

Come si può notare, la differenza, fra un sistema e l'altro, è per Marx meramente quantitativa, anche se ciò comporta, ad un certo punto, una diversa qualità delle cose. Infatti, nessun sistema pre-capitalistico è in grado di produrre necessariamente delle merci. Marx lo dice esplicitamente a p.129: “ciò in cui il processo lavorativo sussunto anche solo formalmente sotto il capitale si differenzia sin da principio...pur sulla base del vecchio modo di lavoro tramandato, è la scala sulla quale questo processo lavorativo viene eseguito; quindi, da una parte, la massa dei mezzi di produzione anticipati, dall'altra il numero dei lavoratori comandati dallo stesso imprenditore”.

Per Marx dunque il passaggio da un sistema pre-capitalistico a uno capitalistico avviene secondo i parametri dell'evoluzionismo, secondo la logica hegeliana della necessità storica. “L'autovalorizzazione del capitale... -dice Marx- è soltanto impulso e scopo razionalizzati del tesaurizzatore”(p.95). Il “modo di produzione specificamente capitalistico...si sviluppa...con il progredire della produzione capitalistica...”(p.128).

Questo naturalmente non significa ch'egli non abbia compreso la natura antagonistica del sistema capitalistico, ovvero l'ingiustizia di un'appropriazione privata del plusvalore. Ciò che dell'analisi marxiana si mette in discussione è l'affermazione secondo cui il capitale che all'inizio esiste solo come denaro, debba inevitabilmente valorizzarsi in direzione del capitalismo (cfr p.79).

Marx spiega questo “destino” riferendosi alla grandezza, in perenne crescita, del capitale (cfr p.80), nel senso che non si potrebbe accumulare del denaro se non si avesse intenzione di accumularne sempre più. Ma, come si può facilmente notare, questa spiegazione, che dovrebbe giustificare la genesi del capitalismo, è di tipo psicologico, certo non culturale. Essa non ha un fondamento propriamente storico e pertanto ha scarso valore epistemologico. Stando ad essa infatti il capitalismo è nato casualmente in Europa occidentale, e altrettanto casualmente esso poteva nascere in qualunque altra regione del mondo ove i commerci fossero discretamente sviluppati.

In pratica Marx non solo non vede “rotture” o “salti” da un sistema all'altro, ma vede persino “evoluzione” dal comunismo primitivo (che per lui coincide, almeno in questi anni, con la “comunità naturale” dell'India classica) al sistema schiavistico. “I momenti generali del processo lavorativo...sono determinazioni indipendenti da ogni carattere storico e specificamente sociale del processo di produzione, e determinazioni che rimangono ugualmente valide per tutte le sue possibili forme di sviluppo; di fatto, condizioni naturali immutabili del lavoro umano...non appena questo si sia spogliato del suo carattere puramente animale”(p.128).

Naturalmente, essendo un economista, Marx cerca di spiegare la differenza fra un sistema e l'altro anche dal punto di vista fenomenologico (che è anzi quello da lui privilegiato). In tal senso la sua osservazione è giusta: “la trasformazione del denaro in capitale...può aver luogo soltanto quando la capacità di lavoro sia trasformata, per l'operaio stesso, in una merce...”(p.50), cioè quando l'operaio stesso, con la sua forza-lavoro, si trasforma in una merce.

In nessun sistema pre-capitalistico s'era mai visto un potere economico che usa la libertà giuridica del lavoratore per farlo diventare socialmente schiavo lasciandolo libero! Su questo Marx avrà sempre una ragione in più rispetto agli economisti borghesi. Tuttavia, ciò ch'egli non riesce a spiegare è il motivo per cui il lavoratore ha accettato questa mistificazione, ovverosia qual è stata l'ideologia che ha indotto il lavoratore, illudendolo, ad accettare la mistificazione (quali sono stati gli argomenti persuasivi). Qui il lavoro da fare era nell'ambito della sovrastruttura, la cui importanza è sempre stata sottovalutata da Marx.

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Per Marx “la produzione capitalistica supera la base della produzione di merci, la produzione isolata e indipendente e lo scambio tra possessori di merci o lo scambio di equivalenti”(p.52). Questo significa che il capitalismo, in quanto sistema produttivo finalizzato anzitutto al valore di scambio, va considerato superiore a qualunque altro sistema ove la produzione di merci avvenga in maniera “isolata e indipendente”, tanto più dove si produce “per l'immediato consumo personale”(ib.).

Pur senza dirlo (ma è probabile che lo faccia inconsciamente), Marx tende sempre a confrontare due forme di capitalismo: quella commerciale e quella industriale. La forma commerciale -come noto- si trova anche nel sistema schiavistico. Qui la divisione del lavoro è “casuale”(p.51) e l'agricoltura non è interamente dominata dal capitale. “La trasformazione dei prodotti in merci si verifica solo in singoli punti, si estende solo all'eccedenza della produzione, o solo a sue singole sfere (prodotti manifatturieri) ecc.”(p.54). “Il capitale mercantile -dice a p.130-...è la forma dalla quale si è sviluppato il moderno rapporto capitalistico, e che qui e là costituisce tuttora la transizione al vero e proprio rapporto capitalistico”.

Ora, guardando le cose dal punto di vista dell'efficienza produttiva, Marx non ha difficoltà nel ritenere il moderno capitalismo di molto superiore a ogni altro sistema produttivo. Una società basata sull'”immediato consumo personale” è -per Marx- quasi sinonimo di barbarie o quanto meno di primitivismo semi-animalesco. Marx è stato così affascinato dalla potenza del capitalismo che non ha avuto nemmeno l'accortezza di precisare, in questo capitolo, che quando si parla di “lavoro produttivo” bisogna sempre mettersi nei panni del capitalista, per il quale qualunque lavoro finalizzato al “valore d'uso” è necessariamente “improduttivo”; ed evitare di dire che ogniqualvolta il lavoro “è consumato per il suo valore d'uso, non in quanto generatore di valore di scambio, è consumato improduttivamente...”(p.148). Si può forse definire “produttivo” un lavoro finalizzato al plusvalore e non al benessere della società? Anche solo dal punto di vista capitalistico: si può veramente considerare “improduttivo” un lavoro che produce “servizi” invece che beni materiali?

Certo Marx non ha la pretesa di dire, come gli economisti borghesi, che “il capitale è un momento necessario del processo lavorativo umano in generale, a prescindere da ogni forma storica di questo processo; il capitale è qualcosa di eterno, qualcosa di condizionato dalla natura del lavoro umano”(p.86). Né che “il processo lavorativo in quanto tale, in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale”(ib.). Egli sa bene che “la logica che conclude: poiché il denaro è oro, l'oro è di per sé denaro; poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato”(ib.), è una logica antistorica. Tuttavia, Marx non è mai riuscito a dimostrare sul piano storico-culturale come questa logica sia antistorica.

Persino sul piano strettamente economico, Marx non ha preso in sufficiente considerazione il fatto che fino a quando non s'è imposto il capitalismo industriale, il ramo in cui s'è esercitato, in prevalenza, il lavoro umano è stato quello dell'agricoltura - anche nella fase del capitalismo commerciale. I suoi studi sulla rendita fondiaria sono limitati a un singolo aspetto del sistema feudale, quello che non a caso mette più in luce i limiti del feudalesimo. Paradossalmente il Marx “evoluzionista” non è mai stato in grado di spiegare il motivo per cui l'autarchico feudalesimo va considerato un “progresso” rispetto allo schiavismo commerciale del mondo greco-romano.

Ora, sostenere -come lui sostiene- che nei sistemi pre-capitalistici la produzione era “isolata e indipendente”, può avere un senso solo se ci si riferisce all'attività commerciale del mercanti di città, ma, in tal caso, si sarebbe dovuto specificare che si trattava di una minoranza di lavoratori. Infatti, la stragrande maggioranza (anche, p.es., nell'Italia comunale) continuava a svolgere un'attività in agricoltura, in forma né “isolata” né “indipendente”.

Nel settore agricolo la produzione “isolata e indipendente” era patrimonio di poche unità familiari (patriarcali), in quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva “associata” (nelle comunità di villaggio) e “dipendente”, in un modo o nell'altro, dalla forma economica del servaggio.

Persino l'artigianato urbano non è mai stato, per tutto il Medioevo, un'attività condotta in maniera “isolata e indipendente”. Se tale è divenuto, ciò è dipeso dal condizionamento del capitalismo commerciale, il quale, in seguito, ha approfittato dell'indipendenza dell'artigiano sempre più isolato e debole per trasformarlo in operaio salariato.

Si badi, qui non si mette in discussione il fatto -come vuole Marx- che il rapporto di capitalista e operaio salariato sia subentrato “al posto di una precedente autonomia nel processo di produzione, come p.es. nel caso di tutti i contadini autosufficienti, dei farmers che dovevano pagare solo una rendita in profitti vuoi allo Stato vuoi al proprietario fondiario, oppure al posto dell'industria sussidiaria rurale-domestica o dell'artigianato autonomo...[ovvero] al posto del maestro delle corporazioni, dei suoi lavoranti e apprendisti”(p.135).

Qui si mette in discussione: 1) l'assolutezza di questa autonomia, in quanto nel sistema pre-capitalistico essa era piuttosto relativa. Marx stesso ricorda come nei “modi di produzione antichi, precedenti, i magistrati cittadini, ecc., proibivano p.es. delle invenzioni per non ridurre alla fame i lavoratori, perché il lavoratore in quanto tale valeva come scopo a sé, e la sua occupazione aveva il valore di un privilegio al cui mantenimento era interessato l'intero ordinamento tradizionale”(p.157); 2) la naturalezza del passaggio da questa autonomia al “rapporto di sovraordinazione e subordinazione” tra capitalista e salariato, in quanto senza “rivoluzione culturale” è impossibile una transizione a un sistema così violento come quello capitalista, il cui carattere antagonistico -come dice Marx- “appare ad esso immanente”(p.166).

Nessuna contraddizione, per quanto macroscopica fosse, di alcun sistema pre-capitalistico avrebbe potuto portare naturalmente, cioè per via diretta, senza un radicale rivolgimento nei modi di pensare e di agire, alla formazione capitalistica, che è quanto di più disumano gli uomini abbiano potuto inventare, dove lo “svuotamento” del lavoratore e la “pienezza” del capitalista “si corrispondono, vanno di pari passo”(p.169).

Per giustificare la transizione al capitalismo industriale, Marx s'è sentito indotto a delineare i contorni socio-economici di un sistema pre-capitalistico che in realtà non è mai esistito. Il suo modo di vedere l'evoluzione del capitale è analogo al modo hegeliano di vedere la formazione dell'idea. In origine vi è il “denaro”, ovvero il capitale “in potenza”; poi, in virtù del valore di scambio e della produzione commerciale che si allarga sempre di più, nasce il lavoro salariato: il denaro così si nega trasformandosi in capitale, che si autovalorizza producendo plusvalore; infine il capitale si riproduce in un moto circolare praticamente perfetto, infinito, dove il plusvalore non è altro che un aspetto di un sistema molto più complesso.

La realtà invece è questa -dal nostro punto di vista-, che nessun lavoratore libero si può porre davanti al capitalista con l'obbligo (non giuridico, ma sociale) di vendergli la propria forza-lavoro, se già il capitalismo (manifatturiero) non s'è affermato come sistema. Ciò significa che il capitalismo vero e proprio non nasce anzitutto quando un lavoratore libero si trasforma in operaio, ma quando l'operaio che già lavora in fabbrica (e che in precedenza faceva il servo della gleba o il garzone a vita) obbliga, indirettamente, anche il lavoratore libero a seguire la stessa strada, proprio a causa del rapporto di sfruttamento ch'egli operaio ha col capitalista.

In altre parole, il libero incontrarsi sul mercato del capitalista coll'operaio -quale fattore di realizzazione del capitale produttivo-, in realtà non è mai avvenuto all'inizio del capitalismo. Esso non presuppone altro che un capitalismo già realizzato. Un capitalista in potenza non potrebbe mai diventare effettivo, tramite il suddetto rapporto “libero”, se nella società non ci fossero già altri capitalisti effettivi. Questo per dire che la scelta della società di acconsentire ai metodi capitalistici deve necessariamente precedere la possibilità di continuare tali metodi attraverso un rapporto libero sul mercato.

In questo senso si può tranquillamente affermare che per il servo della gleba c'è stato, nell'illusione ovviamente di migliorare la propria condizione, un passaggio meno traumatico da un padrone all'altro, di quanto non sia avvenuto per il lavoratore libero, il quale, non senza drammi interiori (poiché l'alternativa avrebbe potuto essere un'altra), deve essersi deciso a rinunciare alla propria libertà personale, quella libertà che appunto poggiava sulla proprietà dei mezzi produttivi.

Qui si potrebbe citare una frase di T.R. Edmonds, ripresa da Marx in nota: “il motivo che spinge un uomo libero al lavoro è molto più violento di quello che spinge uno schiavo: un uomo libero deve scegliere tra il duro lavoro e l'inedia per sé e la sua famiglia; uno schiavo deve scegliere tra il duro lavoro e una buona frustata”(p.134). Edmonds però, e con lui Marx, non s'è accorto che: 1) la coscienza della libertà è stata possibile in virtù del cristianesimo (anche se il cristianesimo ha vissuto la libertà in maniera parziale e riduttiva); 2) sulla base di questa libertà, l'alternativa, per il cittadino “obbligato” a lavorare come schiavo, poteva anche essere un'altra (p.es. il superamento democratico, a livello politico e sociale, del servaggio); 3) il carattere “violento” dello schiavismo era più “fisico” che “morale”, proprio perché l'ideologia dominante (religiosa e/o politica) era scarsamente democratica, e poco rilevanti erano le alternative a questa ideologia. Viceversa, il carattere “violento” del capitalismo è sia “fisico” che “morale”, benché esso appaia assai più mistificato, in quanto, per doversi imporre, ha dovuto fare i conti con un'ideologia, quella cristiana, che, almeno sul piano dei princìpi, pretendeva d'essere molto democratica.

Per Marx “l'operaio risulta costretto a vendere, al posto di una merce, la sua propria capacità di lavoro come merce, appunto perché tutti i mezzi di produzione, tutte le condizioni oggettive del lavoro, e parimenti tutti i mezzi di sussistenza, gli stanno di fronte come proprietà estranea... Si presuppone ch'egli lavori come non-proprietario...”(p.108).

Ma in queste condizioni non c'è bisogno di un vero e proprio mercato del lavoro: è sufficiente che con un provvedimento legislativo le autorità politico-civili liberino giuridicamente dal servaggio i contadini per costringerli, in maniera indotta, a trasferirsi nelle fabbriche capitalistiche. Se le autorità hanno questo potere, il capitalismo c'è già; se invece non l'hanno, il capitalismo non può formarsi a partire dalla sfera della “circolazione delle merci”, almeno non può farlo automaticamente.

Su questo però Marx non transige: “è solo in quanto possessore delle condizioni lavorative che il compratore porta qui il venditore alla sua dipendenza economica; non sussiste alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione”(p.132). Questo è il tipico modo ingenuo di vedere le cose di chi subordina la politica all'economia. Marx ha sempre considerato -a torto- i rapporti economici come più “immediati”, più “diretti”, più “evidenti” di quelli che avvengono nella sfera politica o ideologica. Questo gli impedito di scorgere le influenze della sovrastruttura sulla struttura.

In realtà, nei confronti di un “nullatenente” non è necessario, da parte del capitale, dare l'impressione che “le condizioni materiali necessarie per la realizzazione del lavoro...si presentino come feticci dotati di propria anima e volontà”(p.108). Questa illusione è necessaria per il lavoratore libero, proprietario dei suoi mezzi produttivi, che però non riesce a fronteggiare la concorrenza del grande capitale. E' appunto lui che deve credere nella realtà di questi feticci, e non-credere nella sua capacità di distruggerli.

Insomma, un vero “scambio di equivalenti” può essere percepito da entrambi i contraenti (compratore e venditore) solo in una società dove esiste il primato del valore d'uso e quindi l'esigenza di commerciare il surplus rimasto dopo l'autoconsumo. Al di fuori di questo contesto lo “scambio degli equivalenti” è solo un'illusione propinata dal capitale che il lavoratore libero non può che cogliere immediatamente come tale. Il problema, per questo lavoratore, semmai è un altro: come reagire all'illusione.

Marx ha tutte le ragioni di questo mondo quando sostiene che non ci sarebbe capitalismo se l'operaio non fosse costretto a vendere la sua forza-lavoro per vivere, ma non può sostenere che la compravendita della forza-lavoro “costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico”(p.110). E' un “fondamento assoluto” dal punto di vista fenomenologico, ma da quello ontologico il fondamento va ricercato nell'ideologia, e in particolare in quella religiosa. Finché non si individua questo “fondamento” non si uscirà mai dal circolo vizioso che considera come “cause” ciò che in realtà non sono che ulteriori “effetti”.

* * *

Quando Marx delinea, con la maestria che gli è solita, il passaggio dal rapporto corporativo medievale al rapporto capitalistico, non v'è dubbio che se ci si limitasse, fenomenologicamente, ad esso, le cose non avrebbero potuto che seguire quella direzione. Val la pena anzi riprendere in dettaglio quella descrizione per mostrare meglio le incongruenze dell'analisi marxiana.

Marx dice che “il rapporto corporativo medievale...si è sviluppato, in forma analoga, anche in Atene e Roma, e che in Europa risultò d'importanza così decisiva da un lato per la formazione dei capitalisti, dall'altro per quella di un libero ceto operaio...”(pp.135-6). Si noti subito come Marx non riesca a spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato già nelle grandi civiltà schiavistiche del mondo greco-romano, pur avendo esse analoghe forme di corporazioni artigiane.

Ma procediamo. Tale rapporto corporativo, per Marx, “è una forma limitata, non ancora adeguata, del rapporto di capitale e lavoro salariato”(p.136). I motivi di questo li vediamo dopo. Qui si noti soltanto come Marx osservi il feudalesimo o, se si vuole, lo sviluppo artigianale nei Comuni europei più avanzati, non con gli occhi dello storico che considera il Medioevo dall'interno, ma con quelli dell'economista che si serve di alcune caratteristiche del Medioevo per dimostrare il valore delle proprie tesi sul capitalismo. Il Medioevo cioè viene visto dall'esterno, a partire dalla “verità” di ciò che lo ha superato: il capitalismo. In tal modo la deformazione della realtà, viziata da un'interpretazione fortemente ideologizzata, è inevitabile.

Marx non solo sbaglia nel considerare il corporativismo artigianale un'anticipazione limitata del capitalismo, ma sbaglia anche nel considerare tale anticipazione come quella che assolutamente avrebbe portato, prima o poi, al capitalismo. Già si è detto che la sua importanza viene ritenuta “decisiva”. “Il modo di produzione capitalistico ha inizio con la libera impresa artigiano-corporativa”(p.141).

In realtà il corporativismo artigianale può anche essere stato una prefigurazione del capitalismo, ma non fu certamente solo questo, anzi non fu anzitutto questo quand'esso nacque, anche se, bisogna ammetterlo, nel modo in cui viene descritto da Marx, esso non poteva che portare al capitalismo.

Vediamo ora in che senso la prefigurazione è “limitata”. L'impresa artigiana medievale -secondo Marx- nasce con lo “spirito capitalistico”, perché essa ha come fine il profitto individuale del maestro, il quale è proprietario delle condizioni lavorative e paga un salario a persone “libere”, o comunque ha come fine il profitto dei maestri associati in una corporazione di arte e mestiere.

L'impresa va considerata “limitata”, rispetto al capitalismo, perché il garzone e l'apprendista hanno col maestro un rapporto di subordinazione gerarchica, in forza della sua specifica competenza professionale: nel senso che il maestro può vendere il prodotto solo quando l'apprendista produce un “capolavoro”, cioè un ottimo “valore d'uso”. Quando poi l'apprendista diventa maestro, egli può realizzare dei profitti -come il suo maestro precedente- solo nel ramo professionale in cui s'è specializzato.

Al maestro è vietato “andare aldilà di un certo numero di lavoranti, in quanto la corporazione deve garantire a tutti i maestri un'aliquota di guadagno del loro mestiere”(p.137). I prodotti, che devono rispettare determinati criteri di qualità, non possono essere venduti a prezzi concorrenziali, perché la corporazione va difesa in quanto tale. Tutti i metodi di lavoro sono stabiliti non solo dall'esperienza del maestro, ma anche dalle regole della corporazione di appartenenza. L'ampiezza di valore del capitale impiegato, in sintesi, non può andare mai aldilà di un certo livello.

Marx dice che “la trasformazione puramente formale dell'impresa artigiana in impresa capitalistica, dove inizialmente il processo tecnologico rimane ancora lo stesso, consiste nell'abolizione di tutti questi limiti...”(p.137). Marx vede dei “limiti” là dove esistevano dei “vantaggi” per tutta la collettività. Egli non s'è accorto che la suddetta trasformazione presuppone la fine di regole stabilite in maniera collettiva, presuppone cioè l'affermazione di un arbitrio individuale in contrasto con una prassi sociale che, seppur entrata in crisi, poggiava su fondamenti teorici socialmente rilevanti e pubblicamente riconosciuti.

Per Marx il “passaggio” da un sistema all'altro è avvenuto semplicemente perché è bastata una “repentina espansione del commercio e quindi della domanda di merci da parte del ceto mercantile...”(p.138). In altre parole esso è avvenuto perché risultava essere una contraddizione insostenibile il fatto che da un lato si mirasse al profitto e dall'altro non si riuscisse a realizzarlo (in quanto si dovevano produrre valori d'uso, la produzione era determinata dal consumo ecc.). Lo “spirito capitalistico” dell'impresa artigiana aveva bisogno di darsi delle forme più libere per esprimersi al meglio.

In sostanza, Marx non vede l'artigianato in simbiosi con l'agricoltura, ma in antagonismo, sin dal suo sorgere; ed anche quando tale antagonismo è reale, egli non riesce a scorgere le motivazioni ideologiche che lo supportano. Il “passaggio”, per Marx, è stato necessario non solo dal punto di vista del mastro artigiano, ma anche da quello dell'apprendista. Singolare, tuttavia, che qui Marx dimentichi la possibilità che l'apprendista aveva di diventare maestro, e che paragoni l'operaio salariato dell'impresa capitalistica non all'apprendista artigiano bensì allo “schiavo”! Certo, rispetto allo schiavo il lavoro diventa “più produttivo, perché più intenso, dal momento che lo schiavo lavora soltanto dietro la spinta di una paura esterna, ma non per la sua esistenza, che non gli appartiene e che comunque è garantita”(p.138).

Sul piano dell'efficienza produttiva, a dir il vero, il lavoro dell'operaio salariato è superiore anche a quello dell'apprendista artigiano (se si lega la “superiorità” alla mera “quantità” e al “macchinismo”): non c'era bisogno di risalire allo schiavo romano (per quanto oggi non poche persone sarebbero disposte a dubitare, dopo aver visto le ricadute del progresso scientifico e industriale sull'ambiente e sugli stessi rapporti umani, che il capitalismo sia sicuramente un sistema migliore di quello schiavistico o feudale).

Ma la domanda qui è un'altra: perché Marx ha messo a confronto l'operaio salariato con lo schiavo nel mentre parlava dei limiti della corporazione artigiana? Risposta: proprio perché se avesse messo a confronto l'operaio salariato con l'apprendista artigiano non avrebbe trovato motivazioni sufficienti per legittimare in modo assoluto la transizione al capitalismo. Questa transizione è stata voluta, fra gli altri soggetti, da singoli mastri artigiani che volevano arbitrariamente superare i limiti imposti dalla corporazione d'appartenenza. Ma resta singolare che Marx non abbia sottolineato quante battaglie abbiano dovuto sostenere garzoni e apprendisti per non diventare salariati a vita!

“Il libero lavoratore -dice Marx- è spinto dai suoi bisogni. La coscienza (o piuttosto la rappresentazione) della libera autodeterminazione, della libertà, e il connesso sentimento (consapevolezza) di responsabilità...”(p.138), fanno del salariato un individuo migliore dello schiavo. Qui Marx fa completa astrazione dalla storia e usa la dialettica alla maniera hegeliana. Stando infatti alla sua analisi, pare addirittura che garzoni e apprendisti abbiano acconsentito volontariamente a diventare salariati dell'impresa capitalistica! Solo perché potevano aspirare a un salario maggiore! Solo perché potevano dimostrare la loro professionalità individuale! Solo perché avevano la possibilità di cambiare continuamente lavoro, o meglio la possibilità di scegliersi il capitalista al quale sottomettersi! Solo perché, a forza di risparmiare sul salario, potevano illudersi di diventare un giorno come il loro imprenditore! (cfr pp.138-141)

In un certo senso è incredibile che uno storico dell'economia come Marx ritenga che “la trasformazione di servi della gleba o di schiavi in liberi operai salariati [costituisca] un'elevazione nel grado sociale”(p.140), quando nello schiavo un'emancipazione del genere sarebbe stata impossibile senza una forte consapevolezza della libertà (che solo il cristianesimo poteva dargli); quando nel servo della gleba un'emancipazione del genere ha comportato un peggioramento sensibile e irreversibile delle sue condizioni di vita.

Significativo è anche il fatto che Marx metta sullo stesso piano “schiavo” e “servo della gleba”, senza rendersi conto che se la condizione del “libero” operaio salariato è evidentemente migliore di quello dello schiavo (per quanto una libertà “giuridica” senza una libertà “sociale” alla fine diventi un peso insopportabile), non la stessa cosa si può dire mettendo a confronto il salariato capitalistico col contadino medievale (rovinato, quest'ultimo, più che dal servaggio, dalla penetrazione del capitalismo nelle campagne).

Tuttavia, la cosa che Marx non ha assolutamente capito è che lo schiavismo risulta, tra i sistemi economici di sfruttamento, di gran lunga quello più immediato, più spontaneo e naturale: in un certo senso il più efficace, non tanto per la produzione quanto piuttosto per la “coscienza”, proprio perché con esso si evita alla radice di tener conto di qualunque ideologia umanistica. Non a caso a partire dal colonialismo, gli europei lo ripristinarono, diffondendolo subito su vasta scala, nelle regioni ignare del cristianesimo, rinunciando, in un primo momento, non solo al servaggio ma anche al rapporto salariato, che è indiscutibilmente più vantaggioso per il capitalista.

Ciò comunque significa che nel passaggio dallo schiavismo al servaggio e dal servaggio al capitalismo, il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo, al punto che nei territori segnati dalla presenza di questa religione, un semplice ritorno ai vecchi metodi di produzione sarebbe stato impossibile. Il capitalismo riflette dunque una sofisticazione culturale, un approfondimento qualitativo -seppure in negativo- della religione cristiana. L'approfondimento in positivo è costituito dal socialismo democratico.

* * *

Correlata a questo modo di vedere le cose è l'idea, da Marx sempre ribadita, che “inizialmente la sottomissione del processo lavorativo al capitale non cambia nulla nel modo di produzione effettivamente reale”(p.116). La rivoluzione tecnologica vera e propria avviene solo quando si ha “sussunzione reale del lavoro sotto il capitale”. Marx deve per forza affermare un principio del genere, poiché ha posto la compravendita della forza-lavoro come presupposto assoluto del capitalismo. S'egli ammettesse che il capitalismo si afferma anzitutto come modo di produzione diverso dal precedente, la legge che regola lo scambio delle merci assumerebbe un'importanza relativa.

Cioè il lavoratore non penserebbe mai di essere libero nel mercato delle merci e schiavo nel mercato del lavoro. Il capitalismo non è giusto nella circolazione delle merci e ingiusto nella produzione di plusvalore. Il suo carattere antagonistico si esprime a tutti i livelli, seppur in modo più o meno mascherato. D'altra parte lo dice anche Marx: “con ciò svanisce anche l'apparenza..., secondo cui nella circolazione, nel mercato delle merci, si fronteggiano possessori di merci, dotati di eguali diritti, che si distinguono l'uno dall'altro, come tutti gli altri possessori di merci, solo per il contenuto materiale delle loro merci...”(p.169). Solo che Marx non arriva mai a chiedersi come si sia potuta formare un'apparenza del genere: di qui i suoi limiti nell'analisi storica e culturale del capitalismo. (L'ultima parte del cap.VI è quella da cui bisognerebbe partire per approfondire il marxismo sul versante culturale).

In tal senso è da escludere categoricamente che lo sviluppo del capitalismo abbia potuto favorire “una maggiore continuità e intensità del lavoro e una maggiore economia nell'impiego delle condizioni lavorative”(p.133), senza mutare, contemporaneamente, le condizioni tecnologiche della produzione. Dire che “considerato tecnologicamente, il processo lavorativo si svolge esattamente come prima, solo che adesso si svolge in quanto processo lavorativo subordinato al capitale”(ib.), è dire una frase senza senso, poiché o con essa ci si riferisce al capitalismo mercantile, e allora non è il caso di parlare di passaggio “automatico” al capitalismo industriale (in ogni caso Marx intende riferirsi alla “sussunzione formale del lavoro sotto il capitale”, e quindi non al capitalismo mercantile), oppure con essa ci si riferisce al capitalismo industriale (o manifatturiero che dir si voglia), e allora bisogna ammettere che senza progresso tecnologico tale capitalismo non sarebbe mai nato, o non si sarebbe mai sviluppato come poi ha fatto. In altre parole, Marx, evitando l'esame sovrastrutturale delle cause che hanno generato il capitalismo, non è stato in grado di determinare le ragioni culturali che hanno portato l'uomo del XVI sec. a modificare completamente il proprio apparato tecnologico, ovvero il proprio rapporto con la natura e con l'ambiente sociale.

Con gli occhi del “fenomenologo”, Marx ha saputo cogliere la contraddizione antagonistica del sistema capitalistico, ma non l'origine culturale del formarsi di tale contraddizione. E' vero, il capitalismo “risolve il rapporto tra il possessore delle condizioni lavorative e il lavoratore stesso in un puro e semplice rapporto di compravendita, o rapporto monetario, e separa il rapporto di sfruttamento da ogni mistione patriarcale e politica o anche religiosa”(p.133). Ma questa “separazione”, in realtà, è solo formale, in quanto, nella sostanza, è stata proprio la religione (specie quella protestante) a offrire alle forze produttive il pretesto, la giustificazione teorica per originare una nuova formazione sociale.

Quando le condizioni di lavoro stanno “di fronte all'operaio come persone autonome, poiché il capitalista in quanto possessore di esse è soltanto la loro personificazione...”(p.123), ciò significa che, nei suoi fondamenti, il capitalismo s'è già compiutamente realizzato. L'operaio non scopre questa “personificazione” solo nel momento in cui entra in fabbrica, ma già nel momento in cui vende la propria forza-lavoro, ed è tanto più convinto di questa “personificazione” quanto più, prima di diventare operaio, svolgeva un lavoro servile.

In pratica Marx ha equiparato arbitrariamente l'economico col sociale, togliendo a questa dimensione la ricchezza della valenza culturale e la profondità delle scelte esistenziali, assiologiche che gli uomini possono compiere. Dal punto di vista “sociale” si sarebbe dovuto sostenere che, fino a quando il capitalismo non modifica il modo di produzione tradizionale, non è neanche il caso di parlare di “capitalismo”, ma solo di attività mercantile, ovvero di attività artigianale (o anche agricola) intaccata dall'esigenza di un mero profitto commerciale: un'attività che di per sé non è affatto in grado di creare un “libero mercato delle merci” e che in presenza di una forte volontà politica democratica potrebbe essere facilmente smantellata. Il capitalismo, per potersi imporre, ha avuto bisogno di una rivoluzione culturale, quella del protestantesimo, e anche di una rivoluzione tecnologica, quella del macchinismo. Senza il macchinismo il protestantesimo ha prodotto, nella Germania di Lutero e di Hegel, una grande libertà di pensiero, ma non ha saputo generare il capitalismo. Il capitalismo nasce quando, fra le altre cose, “le condizioni del lavoro -come dice Marx-, con lo sviluppo del macchinario, si presentano anche tecnologicamente come dominatrici del lavoro e, nello stesso tempo, lo sostituiscono, lo schiacciano e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome”(p.163).

Dunque i primati della quantità sulla qualità, del lavoro astratto su quello concreto, del lavoro morto su quello vivo, dello scambio sull'uso e così via, potevano essere affermati sul mercato e nella società civile solo dopo che si fossero imposti (anche tecnologicamente) nella produzione e nella...coscienza religiosa!

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Paradossalmente Marx ha creduto di ravvisare nel capitalismo industriale (che è il sistema più individualistico della storia, e lo può essere in virtù della tecnologia) un carattere di “socialità” assai superiore a tutti i modi di produzione pre-capitalistici. Ma è forse un segno di “socialità” il fatto che la merce capitalistica faccia “comparire come qualcosa di completamente casuale, indifferente ed inessenziale la sua relazione immediata, in quanto valore d'uso, con il soddisfacimento del bisogno del produttore”(p.53)? Il primato assoluto del valore di scambio non è forse indice di un assoluto individualismo?

Certo, se si mette a confronto il capitalismo individualistico del mercante medievale (o dell'usuraio o della singola corporazione artigiana) con il capitalismo “sociale” dell'imprenditore privato, che impiega quanti più operai possibile (salvo poi decidere che un certo, esiguo, numero di operai è sufficiente per realizzare un determinato plusvalore...), nessuno può dubitare che il capitalismo industriale sia, nello sviluppo non solo delle forze produttive ma anche dell'antagonismo sociale, un passo avanti rispetto al capitalismo mercantile. Tuttavia, Marx dimentica di dire che i guasti che ha procurato il mercantilismo all'insieme della società feudale sono stati minori rispetto a quelli dell'industrialismo, semplicemente perché allora esisteva un'economia agricola che, essendo basata sull'autoconsumo, sapeva (naturalmente fino a un certo punto) attutire il peso di certe contraddizioni e di certi conflitti sociali. Viceversa, il capitalismo avanzato oggi ha ancora bisogno di sfruttare l'80% dell'umanità per poter sopravvivere.

Naturalmente Marx sa bene che il “sociale” del lavoro “si contrappone all'operaio in modo non solo estraneo, ma ostile e antagonistico, e come oggettivato e personificato nel capitale”(p.131). Persino “il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai isolati, quali che siano le combinazioni sociali in cui questi operai entrano nel processo di produzione”(p.164). Tuttavia, è singolare come Marx non si sia accorto che un individualismo del genere poteva essere affermato solo in contrapposizione a un'esperienza di socializzazione entrata in crisi, a un'esperienza cioè il cui lato “sociale”, peraltro indubitabile, non era stato politicamente usato per risolvere le contraddizioni antagonistiche del sistema feudale (o lo era stato solo in maniera insufficiente).

Ancora più paradossale è il fatto che proprio nel momento in cui Marx si avvicina a comprendere la natura antagonistica del sistema capitalistico, con la medesima intensità egli si allontana da una reale comprensione della sua genesi storica. Si legga ad es. questo significativo passo: “il dominio del capitalista sull'operaio è il dominio della cosa sull'uomo, del lavoro morto sul lavoro vivo, del prodotto sul produttore... Storicamente considerata, questa inversione si presenta come il punto di passaggio necessario [!] per promuovere coercitivamente, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, lo sviluppo inesorabile [!] di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono costituire la base materiale di una libera [!] società umana. E' necessario [!] passare attraverso questa forma antagonista proprio come è necessario [!] che, inizialmente, l'uomo si raffiguri in modo religioso, di fronte a sé, le sue forze intellettuali come potenze indipendenti. E' il processo di estraneazione del suo proprio lavoro”(p.94). Il lato “positivo” del capitalismo -dice Marx- è il fatto che i “limiti della produzione” vengono costantemente oltrepassati (p.144).

Qui Marx riprende i temi giovanili già delineati nei Manoscritti del '44, inclusa la critica di Feuerbach alla religione. Ma la dipendenza dall'hegelismo è netta, forse più adesso che allora, seppure qui l'hegelismo sia stato trasformato radicalmente in chiave fenomenologica. La dipendenza la si nota soprattutto laddove Marx considera il capitalismo come una formazione “necessaria”, “inesorabile”, per la creazione della ricchezza. Infatti non ci può essere “libera società umana” -dice Marx- senza sviluppo delle forze produttive, che ne costituiscono la base materiale. Qui, sinteticamente, è concentrata tutta la filosofia dell'economia di Marx, la quintessenza della sua visione deterministica della storia (che è filo-hegeliana proprio per l'uso della categoria della necessità, non, ovviamente, per aver considerato “necessario” il capitalismo. Hegel -come noto- era un conservatore del sistema feudale).

Il parallelo che Marx fa con l'alienazione religiosa non viene approfondito, né qui né altrove, semplicemente perché Marx ha sempre considerato l'alienazione religiosa un riflesso di quella economica. Marx pensò di superare l'antropologismo psicologistico di Feuerbach dal punto di vista storico, ma vi riuscì, in parte, solo fino a quando assegnò un certo primato alla politica (in pratica sino al Manifesto): quando invece cominciò a subordinare la politica all'economia, la sua dipendenza da Feuerbach nell'analisi della religione fu netta. In sostanza a Marx è mancato il momento dell'analisi culturale del fenomeno religioso: quello che gli avrebbe permesso: 1) di vivere la politica rivoluzionaria in maniera più democratica e non settaria; 2) di dare un vero senso storico agli studi di economia; 3) di superare non solo Feuerbach ma anche Hegel.

In altre parole Marx non è riuscito a cogliere la reciproca influenza che caratterizza i rapporti tra economia e religione, né, tanto meno, il fatto che la religione sia, sul piano culturale, una delle cause storiche in grado di giustificare determinati processi socio-economici.

Marx supera certamente l'hegelismo quando afferma, diversamente dalla dialettica servo/padrone, che “fin da principio l'operaio si trova in una posizione superiore rispetto al capitalista, perché quest'ultimo affonda le sue radici in quel processo di estraneazione e vi trova il suo assoluto soddisfacimento, mentre l'operaio, in quanto vittima di quel processo, rimane da sempre in un rapporto di ribellione verso di esso e lo esperimenta come processo di asservimento”(p.94).

Tuttavia Marx ricade nell'hegelismo proprio quando considera come “inevitabile” questo “processo di asservimento”, ovvero quando non assegna esplicitamente al “rapporto di ribellione” il compito di por fine, con la rivoluzione politica, allo sfruttamento capitalistico, ancor prima che il sistema abbia esaurito tutte le proprie potenzialità produttive.

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Marx era così influenzato dal metodo della Logica hegeliana che ne usava, anche durante la stesura del Capitale, taluni concetti, come ad es., in questo caso, quello di “sussunzione”.

Parlando della “sussunzione formale” del lavoro sotto il capitale -che è quella decisiva, in quanto “condizione e presupposto della sussunzione reale”(p.133)- Marx ribadisce il suo punto di vista deterministico ed evoluzionistico, che già abbiamo visto nelle considerazioni su esposte. “E' nella natura delle cose [!] -egli afferma- che la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale subentri proprio sulla base di un processo lavorativo esistente, sorto prima di questa sussunzione...e configuratosi sulla base di precedenti e differenti processi produttivi...p.es., il lavoro artigiano o il tipo di agricoltura corrispondente alla piccola, autonoma economia contadina”(p.127).

Infatti, “se il rapporto di sovraordinazione e subordinazione [tra capitalista e operaio salariato] subentra al posto della schiavitù, servitù della gleba, vassallaggio, di forme patriarcali ecc., di subordinazione, si verifica solo un cambiamento nella sua forma. La forma diviene più libera, poiché essa rimane soltanto di naturale materiale, formalmente volontaria, puramente economica”(p.135).

Marx rifiuta categoricamente l'idea che in questo passaggio vi siano dei mutamenti, già all'inizio, di tipo sostanziale. Considerando il presente migliore del passato e il futuro migliore del presente, Marx non può che vedere le cose in maniera naturalistica: la differenza dall'ideologia borghese sta nel fatto che la sua considera “naturali” i drammi e le tragedie connesse allo sfruttamento capitalistico, perché proprio essi hanno permesso -a suo giudizio- di rendere più evidenti le contraddizioni del sistema e più pressante la necessità di superarle.

In ogni caso Marx non si rende conto che la “naturalità” della transizione al capitalismo avrebbe potuto verificarsi ben prima del sec. XVI (come, in effetti, accadde nell'Italia comunale, senza che però si verificasse il passaggio del capitalismo da “mercantile” a “industriale”). Oppure avrebbe potuto verificarsi, nello stesso secolo XVI, in altre regioni del globo, certo non meno avanzate, sul piano commerciale, dell'Europa occidentale: si pensi p.es. alla Cina o al mondo arabo che dominava i traffici nel Mediterraneo e nell'oceano Indiano. Perché qui il capitalismo non è mai nato spontaneamente, ma solo come sistema imposto dall'esterno o comunque importato contro le tradizioni nazionali delle popolazioni?

Perché l'India, nonostante la presenza di “interessi colossali” tratti dal “capitale usuraio” -come dice Marx- non ha sperimentato “la sussunzione formale del lavoro sotto il capitale”? In India il capitalismo è stato imposto dalla potenza coloniale inglese e, dopo la liberazione politica, esso continua a restare un corpo estraneo nel complesso della società civile para-feudale: perché? E' solo un “limite” dell'India o piuttosto un segno della sua “forza morale”?

La produzione per la produzione - produzione come scopo a sé...”(p.144), ovvero la capacità che gli euroccidentali hanno avuto di passare dal possesso di schiavi a quello della terra (il feudo), sino a quello di capitali (il plusvalore), è stato davvero un segno di “progresso”? nel bene o nel male? Non è forse il caso di dire che queste forme sempre più sofisticate di sfruttamento dell'uomo sono in realtà dei tentativi di reagire, negativamente, alla domanda di libertà, di verità e di autenticità che il cristianesimo ha introdotto nella civiltà europea? E che laddove questi tentativi non sono nati spontaneamente, lì esisteva anche una consapevolezza limitata della grandezza dell'uomo, ossia di ciò che l'uomo è in grado di fare? Considerare il capitale “come personificazione e rappresentante, figura cosalizzata delle forze produttive sociali del lavoro o delle forze produttive del lavoro sociale”(p.164), sarebbe stato possibile senza il cristianesimo?

Se Marx avesse puntato l'attenzione sui processi ideologici e culturali che portano una determinata formazione sociale a trasformarsi in un'altra, spesso di segno opposto, avrebbe evitato di parlare di “naturalità delle cose” o almeno l'avrebbe considerata in modo relativo. Non è “naturale” che la scala della produzione venga determinata non sulla base di “bisogni reali”, ma sulla base del modo di produzione stesso, finalizzato unicamente al profitto (p.144). E' evidente, infatti, che qualsiasi modo di produzione nasce sulle fondamenta di quello precedente, a meno che non siano avvenute delle catastrofi di tipo naturale o degli eventi di natura politico-militare così sconvolgenti da obbligare gli uomini a ripensare totalmente la loro esistenza.

In questo senso si può affermare che mentre in Europa occidentale la nascita del capitalismo non è stata particolarmente ostacolata dal feudalesimo (se non nel momento in cui le forze borghesi, consolidatesi sul piano economico, cominciavano a rivendicare un potere politico), nell'Europa orientale invece (specie in quella di religione ortodossa), il capitalismo, anche sul piano economico, ha sempre incontrato una forte resistenza da parte delle forze feudali (comunità di villaggio ecc.). E quando esso, approfittando delle contraddizioni feudali, ha cercato d'imporsi sul piano economico, sono nate più o meno immediatamente, nuove forze sociali che vi si sono opposte in maniera politica, costringendo il capitalismo a operare subito la transizione verso il socialismo.

In questo tentativo, purtroppo, tali forze hanno fatto affidamento più che in loro stesse, sulle teorie socialiste (marxiste in particolare) elaborate in Europa occidentale, cioè su quelle teorie che hanno sempre tenuto in scarsa considerazione il feudalesimo, il mondo contadino, le comunità di villaggio ecc. Sicché l'Europa dell'est ha sperimentato su di sé tutti gli effetti negativi della realizzazione delle teorie marxiste, risparmiandoli così all'Occidente, il quale, però, dal canto suo, continua a sperimentare su di sé (e a far sperimentare soprattutto sul Terzo Mondo) tutti gli effetti negativi delle teorie borghesi del capitalismo.

Ora, se da un lato l'Europa dell'est ha capito gli errori del marxismo, dall'altro l'Europa dell'ovest non ha ancora capito gli errori del liberalismo borghese. La democrazia occidentale oscilla continuamente fra due poli opposti: il laissez-faire e il Welfare State, e non s'accorge che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, quella appunto del capitalismo.

Enrico Galavotti galarico@inwind.it http://www.homolaicus.com/