CARLO CATTANEO

Notizie naturali e civili su la Lombardia



[da Notizie naturali e civili su la Lombardia, Tip. G. Bernardoni, Milano 1844, che si pubblicò in occasione del VI Congresso degli scienziati italiani tenuto a Milano nel 1844.]

AVVISO AL LETTORE

Gli studiosi delle scienze naturali, convenuti in Pisa nell'anno 1839, èbbero in dono una descrizione istòrica e artìsttca di quella città e de' suoi contorni, che per avventura trovàvasi publicata in quegli anni da un incisore, a corredo d'una sua raccolta di vedute.

Pel Congresso scientìfico di Torino parve il caso d'apprestare una sìmile operetta; e forse per darle pure alcun colore d'opportunità, vi s'introdusse una notarella di fòssili e un catàlogo di piante, con alcune righe su l'agricultura.

Il ripetuto esempio del volume donato prescrisse quasi un dovere alle città che dovèvano accògliere le successive adunanze. A Firenze, di più, si pose inanzi al volume una descrizione naturale della valle dell'Arno: nel che si ebbe forse l'ànimo di far cosa particolarmente intesa a quell'òrdine di persone che volèvasi onorare. I Padovani, con più cortese e savio consiglio, descrìssero agli òspiti le terre e le aque di tutta la loro provincia, e i vari aspetti che l'agricultura vi prende; e dièdero loro in appendice la flora dei Colli Euganei. Lucca non si curò per verità di piacere agli amatori della botànica e della geologìa, ma pur descrisse le diverse condizioni del suo territorio alla marina, alla pianura e al monte.

Se nelle sedi dei futuri Congressi prevalesse sempre l'esempio di Pàdova a quello di Pisa e di Torino, altri potrebbe forse pensare che il continuato circùito di queste adunanze potesse d'anno in anno approssimarci a possedere infine un'accurata descrizione di tutta l'Italia. Ma l'Agro Padovano non è vasto; il Lucchese, meno ancora. il Padovano è forse la 150a parte della terra d'Italia; il Lucchese, la 300a. E se d'anno in anno l'ospitalità municipale non ci consente uno spazio di terra alquanto maggiore, codesta speranza della finale descrizione d'Italia discenderà in fedecommesso ai figli dei nostri figli.

Inoltre queste divisioni di paese così anguste e minute invòlgono troppe simiglianze e infinite ripetizioni. E poche sono poi le provincie che nel loro giro comprèndano le precipue fonti delle loro condizioni naturali e civili, in modo che per darne ragionata contezza non si dèbbano invàdere ad ogni momento i confini delle terre circostanti.

Queste considerazioni destàrono in alcuni studiosi di Milano il pensiero d'inoltrarsi d'un altro passo, come a Firenze si fece in paragone di Pisa, e a Padova in paragone di Firenze. In luogo di fare ogni anno qua e là per l'Italia un volume su la centèsima o la trecentèsima partìcola del bel paese, parve convenisse prèndere risolutamente un'intera regione, purchè potesse considerarsi sotto una certa unità di concetto, la Venezia, a modo d'esempio, o la Toscana È il principio da cui mosse il nostro lavoro.

È questa adunque una raccolta di notizie su quella regione d'Italia, naturalmente e civilmente dalle altre distinta, a cui per singolari circostanze rimase circoscritto il nome già sì vasto e variàbile di Lombardìa. E intendemmo adombrarvi, quanto per noi si poteva, l'aspetto geològico, il clima, le aque, la flora, la fàuna, lo stato della popolazione e l'ordinamento sanitario, i diversi òrdini agrarj, il commercio, l'industria, il linguaggio, le orìgini prime e la successiva cultura. Ciascuna parte dell'òpera venne conferita da persone specialmente dèdite a quel gènere di studj. Aggiungeremo inoltre che il nostro libro, qualunque egli sia, non è fatto coi libri; le notizie geològiche hanno per corredo una speciale collezione di rocce e di fòssili; le notizie sul clima, e più ancora quelle sulle aque, compèndiano alcune migliaja d'osservazioni, continuate per lunga serie d'anni; la nostra flora è tratta dagli erbarj raccolti di nostra mano dalle paludi del Mincio alla cima delle Alpi Rètiche; la nostra fàuna annòvera gli animali che ad uno ad uno possediamo.

Ma siccome codesti studj non èrano certamente intrapresi nel mero propòsito d'un libro d'occasione, così non potèvano facilmente accozzarsi in un compiuto e armònico edificio; ma dovèvano riescire piuttosto come pietre, che ognuno aveva scavate e dirozzate, e che ora stanno qui deposte l'una accanto dell'altra, materia prima d'una più vasta costruzione; intorno alla quale diremo quali sìano i nostri pensieri.

Noi vorremmo che, dietro l'esempio nostro, e con quei miglioramenti che il fatto venisse additando, in ogni regione d'Italia s'intraprendesse una sìmile raccolta di Notizie, le quali incominciate nella pròssima occasione o nella remota aspettazione d'un Congresso scientifico, venìssero poi proseguite per Supplementi annui anche di minor mole, in modo che, avviato una volta il lavoro nelle sìngole parti d'Italia, ogni anno dovesse arrecarci da ciascuna di esse altretanti manìpoli di studiose fatiche. Le lacune del primo lavoro, anzichè difetto, sarèbbero quasi addentellato che invita all'òpera successiva. Non è un libro, nè più d'un libro che noi vogliamo aggiùngere alla congerie scientìfica; è un'istituzione che vorremmo fondare.

I fini suoi sarèbbero grandi e molti. Recare alla scienza una perenne dote d'accurati e sicuri fatti recare alle sìngole patrie municipali e alla patria commune quell'ìntima e verace cognizione di sè medèsime, per la quale il pùblico bene si pensa e si òpera entro i confini del possìbile e dell'opportuno, e senza mistura di mali; aggiùngere a molti un impulso perpetuo al lavoro, coll'allettamento d'una vasta publicità data al più minuto studio locale indurre gli studiosi a rivòlgere le loro fatiche a un oggetto determinato e arrivàbile, non logorando l'ingegno in vasti e vani sforzi risparmiare la ripetizione delle stesse fatiche in diversi luoghi, di modo che il giòvane, bramoso di farsi mèrito, sappia sempre dove è un campo da coltivare e una lacuna da rièmpiere infòndere agli studj nazionali quell'unità e quell'efficacia che non deriva da vìncoli importuni o sospetti, ma surge spontanea dalla natura stessa delle cose di fatto, le quali, essendo parti d'uno stesso òrdine universale, rièscono spontaneamente coordinate e concordi.

Non è assurdo il pensare che in quel modo in cui l'istituzione dei Congressi scientìfici venne dalle altre nazioni alla nostra, così questa istituzione delle Raccolte perpetue possa da noi propagarsi alle altre nazioni. Se così fosse, e se in ogni distinta regione della Germania, della Francia, della Scandinavia, uno stuolo di studiosi intraprendesse una collezione ordinata sopra un medèsimo disegno, e ognuna di queste nazioni offrisse annualmente il frutto di venti o trenta raccolte, ciascuna delle quali fosse fatta da venti o trenta speciali persone, è impossibile a dirsi qual tesoro di studj si potrebbe in breve tempo accumulare. Mentre nella più parte delle società scientìfiche gli studiosi vanno a riposare ed oziare, agli onori di questa vasta ma lìbera collaborazione avrebbe parte solo chi fosse operoso, e a misura della sua operosità. Migliaja di studiosi, tranquillamente e senza alcun lontano o malagèvole accordo, potrèbbero dar mano a un edificio, la cui base sarebbe l'Europa.

Questo pensiero, che nella sua vastità è pur tanto sèmplice e fàcile, dovrebbe raccomandarsi per sè medèsimo di promotori e fondatori di codesta bella consuetùdine delle annue adunanze; i quali non potranno dissimulare a sè medèsimi che l'opinione publica non se ne mostra peranco sodisfatta; poichè vede grande e frondoso l'àrbore, e non conosce i frutti; epperò giustamente sospetta che la nuova istituzione non apra tanto un campo alle fatiche quanto un teatro alla inoperosa vanità.

Per parte nostra, non ci faremo inanzi a prèndere il posto dovuto ai migliori; ma procureremo di giustificare nella mente dei nostri concittadini la nuova istituzione, col provar loro che può èssere veramente occasione di studj ùtili e laboriosi. Dobbiamo aggiùngere che il nostro pensiero venne alquanto tardi; che trovò inaspettate contrarietà, che la cosa essendo nuova e indeterminata anche nella mente di quelli che pur volèvano condurla a qualche effetto, doveva produrre molte esitanze; che ci fu necessario pur troppo d'accertar prima se l'opinione pùblica avrebbe assecondato i nostri sforzi, poichè non era giusto che alla fatica si aggiungesse anche altro più materiale nostro sacrificio; e per tutte queste cose, solo alla metà dello scorso maggio fummo in grado di por mano alla stampa.

Nel coordinare i manoscritti si mirò principalmente a rimòvere tutte le ripetizioni della medèsima cosa sotto diversi capitoli, collocàndola a preferenza in quello a cui la cosa più specialmente apparteneva. Ogni memoria venne ridutta alla più semplice espressione; e in ciò, i collaboratori mostràrono la più generosa fiducia e compiacenza all'amico, al quale avevano commesso questo delicato incàrico, persuasi che l'òpera dovesse riescire, per quanto si poteva, una concisa e disadorna collezione di fatti.

Paghi del mèrito d'aver dato l'esempio d'un'impresa che speriamo non finirà con noi, se i nostri successori con più bell'òrdine e più profondi studj oscureranno questo dèbole e frettoloso nostro lavoro, noi ci rallegreremo sempre nel vedere tanto più feconda la semente che avremo sparsa.

INTRODUZIONE

 

I.

Le Alpi Rètiche, che divìdono la nostra valle adriàtica da quelle dell'Inn e del Reno versanti a più lontani mari, sono un ammasso di rocce serpentinose e granìtiche, le quali emèrsero squarciando e sollevando con iterate eruzioni il fondo del primiero ocèano, in quelle remote età geològiche, che sèmbrano ancora un sogno dell'imaginazìone. – Fu quello il primo rudimento della terra d'Italia.

Gli antichi sedimenti del mare, parte s'inabissàrono e confùsero in quelle voràgini roventi, aggiungendo mole a mole; parte riarsi e trasformati, ma pure serbando traccia delle native stratificazioni, copèrsero i fianchi e i dorsi delle emersioni consolidate. Il tòrbido mare accumulò successivamente altri depòsiti, che si collocàvano in giacitura orizontale presso ai sedimenti anteriori già sollevati e contorti; e mano mano che la vasta òpera delle emersioni si andava inoltrando e dilatando, sollevati e raddrizzati anch'essi, si atteggiàvano in tutte le discordi inclinazioni, che ci attèstano la successiva serie di quei rivolgimenti. Nelle masse così deposte dominava, secondo la successiva natura delle aque, ora la sustanza silicea, ora l'argillosa cementata di poca calce, ora la calcare.

Così fu costrutta la trìplice regione dei nostri monti; nella quale i serpentini verdastri e negreggianti compòsero insieme ai graniti silicei la gran catena delle Alpi Rètiche; le roccie trasformate e le arenarie rosse, rivestite al piede dalle ardesie, formàrono, a guisa d'alto antemurale, la catena delle Prealpi Orobie; nelle cui propàgini più meridionali i sedimenti calcari e dolòmici costituìrono un altro òrdine di monti, d'altezza poco meno che alpina.

A perturbarne e rialzarne le estreme falde, sopravenne in era meno lontana una seconda serie di moti sotterranei, sìmili a quelli che avèvano sollevato le interne regioni. E prodùssero quella interrotta zona d'emersioni pirossèniche e porfìriche che, come più flùide e meno silicee, sospìnsero a minore altezza le masse delle stratificazioni, fra le quali si apèrsero il varco.

Nel corso dei sècoli le aque travòlsero per il declivio dei monti alle pròssime parti del piano i frammenti delle varie rocce. A poco a poco si colmò il golfo che aveva deposto lo strato cretaceo, e che in màrgine a quello accumulava i varj conglomerati e le argille e marne subapennine. Le aque si ritràssero dall'altopiano; e lungo il cammino dell'ùltimo loro soggiorno, il tardo osservatore raccolse interi schèletri di balene e delfini, e gli ossami degli elefanti che vagavano per le circostanti maremme.

Le estreme convulsioni della volta terrestre sempre più sòlida e potente, nel dar leva alle grandi moli dei monti calcari, prodùssero le profonde squarciature dei laghi; torturàrono ed erèssero le stratificazioni degli ìnfimi colli; e qua e là sollevàrono a miràbili altezze i frammenti erràtici, sparsi sulle spalle dei minori monti.

Per òpera d'altre emersioni surgèvano intanto a levante, a ponente, a mezzodì le terre della Venezia, della Liguria, del Piemonte. Il sublime arco delle Alpi era proteso fra i due golfi, che l'Apennino aveva poscia divisi, sollevando in più tarda età le sue pendici ingombre dai sedimenti cretacei. Allora le onde del Mediterraneo non percòssero più le falde delle nostre montagne; e la frapposta regione fu un'ampia valle, aperta all'oriente, e cinta di continui gioghi nelle altre parti.

Così èrano preparati i lontani destini del pòpolo che doveva abitarla. – Le gèlide Alpi la dividèvano dalle terre boreali e occidentali; l'ùmile Apennino ligùstico appena la dipartiva dalle riviere del Mediterraneo; il corso delle aque confluenti in poderoso fiume la collegava all'Adriàtico; e ambo i mari la congiungèvano alla bella penìsola che tèngono in grembo. – Anche la nostra patria era Italia.

 

II.

Ma nel seno stesso della valle cisalpina, quella parte che noi descriviamo sortiva forme sue proprie, per le quali si distinse e dalla parte subapennina, e dalla Venezia, e dal Piemonte. La catena delle Alpi, partendo dal M. Stelvio, scorre a occidente fino al Gottardo; e quivi con sùbito àngolo si volge poco meno che a mezzodì fino al M. Rosa. Con altro simil àngolo si dirama dallo Stelvio un'altra catena, che si spinge ben avanti nella pianura, separando dalla valle dell'Adige i nostri fiumi tributarj del Po. Laonde, se a ponente giganteggia il M. Rosa, a levante sùrgono a pròssima altezza il Cristallo e l'Adamo. Questa Catena Camonia non è alpe: non circonda l'Italia: solo divide l'interno e domèstico dominio dei due primieri suoi fiumi: ma nella maggior sua mole è costrutta delle stesse emersioni serpentinose e granìtiche; ed è ammantata di larghi ghiacciaj, e così eccelsi, che, tranne il Monte Bianco e poche altre vette delle Alpi occidentali, ella oltrepassa tutte le altre sommità dell'Europa. – Per tal modo, dalle Alpi Pennine alle Prealpi Camonie, un ampio semicerchio chiude a settentrione, e sèpara dal dominio non solo dell'Inn e del Reno, ma della Sesia, del Ròdano e dell'Adige, quella parte della regione cisalpina onde il Ticino, l'Adda, l'Ollio e il Mincio discèndono al Po.

 

III.

Una zona di grandi e profondi laghi, che forma corda all'arco delle suddescritte montagne, accoglie alle loro falde le piene precipitose, che i digeli e le piogge chiàmano dalle riposte valli; e porge le aque rallentate e chiare ai successivi fiumi; le cui lìmpide correnti, quasi nulla apportando e sempre togliendo, potèrono incavarsi il letto sotto al livello della pianura. E il màrgine estremo di questa, elevàndosi alquanto anche su le pròssime campagne, è durèvole monumento delle alluvioni che quei fiumi diffondèvano lungo le loro sponde, allorchè, scendendo da valli ancora senza lago, scorrèvano tòrbidi e superficiali, come vediamo i fiumi alpini del Piemonte e i torrenti dell'Apennino, che ingòmbrano di continue ghiare il letto del Po.

Benchè codeste alluvioni fluviali ascèndano a enorme congerie, pure da tempo immemoràbile il gran fiume non elevò il suo letto, come fu sì communemente supposto e ripetuto. Le tòrbide fiumane dell'Apennino arrìvano in poco d'ora al Po; solo quando esse vanno già declinando, si fanno minacciose le piene delle interne aque del Piemonte; ùltimi sopragiùngono il Ticino, il Mincio e gli altri nostri fiumi, rattenuti e riposati nei laghi; e corrodendo con aque più gonfie che tòrbide le recenti alluvioni, le sospìngono a poco a poco per l'alveo del fiume a colmare le sue marine. – La stessa miràbile successione di movimenti che conserva stàbile e lìbero il letto del Po, ne mòdera eziandìo le aque; e anche solo a colmarne il vasto alveo si spèndono già parecchi giorni di piena impetuosa.

La geografìa dei fiumi, nascente ancora, si ristringe quasi solo a compararne le lunghezze, e a dir maggiore il fiume le cui fonti sono più lontane dalle foci e più spazioso il bacino, mentre anche per essi, come nei regni umani, la vastità non è misura della potenza. Il corso del Reno è lungo il doppio di quello del Po, ma il volume d'aqua del fiume itàlico sùpera quello del Reno, anche dove il fiume germànico, raccolti tutti i suoi tributarj e non per anco diviso, spiega il sommo della sua pompa. – Ora, questo paragone dei fiumi simboleggia in breve fòrmula tutte le circostanze fondamentali d'un paese.

Il corso continuo dell'Adda rappresenta uno strato aqueo, il quale coprisse a notèvole altezza tutta la superficie del suo bacino; ma le aque che còlano annualmente nella Senna, diffuse su tutta la superficie del suo bacino, appena giungerèbbero alla sèttima parte di quell'altezza. Che avviene dunque delle piogge che discèndono sotto quel cielo tanto men sereno del nostro? – Nel bacino della Senna cade veramente men aqua che fra noi; e cade poi dispersa in minute e frequenti pioggie, che anche nell'estate fanno tetro il cielo e fangosa la tetra, svaporando largamente prima di giùngere al fiume, il quale appena riscuote dalla vasta campagna un terzo della pioggia che vi scende. Nella nostra valle, la stagione più piovosa è l'autunno; men piovosa è la primavera, meno ancora l'estate; anche nella parte più bassa e aquidosa della pianura, il sereno regna la metà dei giorni dell'anno; nella zona media, più della metà; sull'altopiano, più ancora; e il maggior nùmero di questi lìmpidi giorni è nell'estate. Le aque scèndono adunque in generose piogge; poca parte si sperde in vapori; il più scorre impetuoso ai fiumi; onde il Po riceve la maggior parte delle aque pioventi nel suo bacino, e l'Adda più ancora.

L'Adda non segue col suo deflusso l'andamento delle piogge, perchè queste prèndono piuttosto forma di nevi, riservate ad alimentarla solo fra gli ardori della successiva estate; cosicchè, pòvera nelle due stagioni piovose, si gonfia costantemente in giugno e luglio. Il Po, che aggiunge allo stillicidio delle Alpi il tributo meno glaciale degli Apennini, corrisponde all'andamento delle piogge, gonfiàndosi in primavera e in autunno, e rallentàndosi fra gli ardori dell'agosto. – Ma la Senna serba un tenore affatto inverso a quello dei nostri fiumi, poichè s'ingrossa solo nella stagione invernale; quindi nella Sciampagna e nell'Isola di Francia regna un òrdine fondamentale ben diverso da quello che vediamo nelle nostre pianure.

Colà l'agricultura è raccomandata alla frequente e parca aspèrgine delle piogge estive, e poco potrà mai valersi delle aque fluviali, poichè vèngono meno a misura che cresce il bisogno delle irrigazioni. Da noi l'estate è costante e àrida; e la pianura erràtica e silicea potrebbe per sè inaridirsi, come le steppe del Volga, che pur giàciono sotto questa medèsima latitùdine, se nei recessi della regione montana non avèssimo il tesoro dei ghiacci e delle nevi, onde le vene dei fiumi si fanno più larghe col crèscere dell'arsura. Ma poi le aque estive sarèbbero un dono inùtile, se accanto alle loro correnti non giacèssero vaste campagne, atteggiate a mite e uniforme declivio, non formate di materie argillose e tenaci, ma sciolte e àvide d'irrigazione; e infine sarèbbero men preziose ed efficaci, se fòssero più frequenti e sparse le piogge, e meno assidua la luce del sole estivo.

Finalmente i laghi nostri non hanno solamente uno specchio di superficie senza profondità, come il vasto Bàlaton; ma discèndono sino a centinaja di metri sotto il livello del mare; e giacendo appiè d'alti e continui monti che devìano i venti boreali, e sull'orlo d'un piano che s'inclina alle tèpide influenze dell'Adriàtico, non gèlano mai. L'interna circolazione, promossa d'inverno dalla specìfica gravità degli strati più freddi, e rallentata nella stagione estiva dalla comparativa leggerezza degli strati più caldi, mòdera talmente la loro temperie, che a mediocre profondità si serba perenne e immutàbile. Queste masse d'aqua, incassate lungo il màrgine superiore d'una landa uniforme di materie erràtiche e incoerenti, non solo si effòndono in fiumi, ma sèmbrano penetrare interne e sotterranee, stendendo fra le alterne ghiare quegli strati aquei, che le annue nevi e piogge rèndono più o meno copiosi, e che per la successiva inclinazione del piano si fanno sempre più pròssimi alla superficie. E forse nei primitivi tempi, quando l'arte non li esauriva avidamente a sussidio dell'agricultura, riempièvano di limpidi stagni le pianure, non ancora spianate da secolari fatiche. Era questa dunque in orìgine una larga zona di terre palustri, non per impedimento recato da suolo argìlloso o còncavo al corso d'aque fluviali, ma per inesàusto afflusso d'interne vene, che, sgorgando dalla profonda terra, non risèntono i geli del verno, se non dopo lungo soggiorno sulle aperte campagne.

Per tal modo le alpi eccelse e gli abissi dei laghi, i fiumi incassati e l'uniforme pianura silicea, le correnti sotterranee e le aque tèpide nel verno, gli aquiloni intercetti e le influenze marine, le generose piogge e l'estate lùcida e serena, èrano come le parti d'una vasta màchina agraria, alla quale mancava solo un pòpolo, che compiendo il voto della natura, ordinasse gli sparsi elementi a un perseverante pensiero. Altre miràbili attitùdini delle terre, delle aque e del cielo si collegàvano a preparare le riviere del Benaco a un pòpolo di giardinieri, che le abbellisse d'olivi e di cedri; e chiamava un pòpolo di vignajuoli a tender di viti le balze su cui pèndono i ghiacci della Rezia. Il progresso dell'incivilimento dimostrerà con fatto posteriore, che in ogni regione del globo giàciono così predisposti gli elementi di qualche gran compàgine, che attende solo il soffio dell'intelligenza nazionale. Da ben poche generazioni si accorse il pòpolo britànnico di vivere in mezzo ai mari chiamato dalla natura a navigarli vastamente, e d'aver sotto i piedi i sotterranei tesori della forza motrice. – Perlochè può forse avvenire che più d'un pòpolo che largheggia con noi di superbi vaniloquj, non abbia per avventura inteso ancora il verbo de' suoi proprj destini.

 

IV.

I primi uòmini che si spàrsero per questa terra transpadana, vi si avvènnero in due ben dissìmili regioni di pari ampiezza, l'una montuosa, l'altra campestre. Le Alpi sublimi, nevose, inaccesse, abbracciàvano un labirinto d'altre catene di poco minore altitùdine ed asprezza, entro cui stàvano alte e recòndite valli, fra loro disparate, chiuse al piede da laghi o da passi angusti, che nei tempi primitivi, quando non v'era arte di capitani, opponèvano impenetràbile serraglio alle orde vaganti. – La regione campestre, àrida e sassosa nella parte superiore, più sotto era piena di scaturìgini e di ghiare aquidose, interrotta da dorsi di bosco, asciutta ed aprica lungo gli alti greti dei maggiori fiumi, ma in preda alle lìbere inondazioni nelle basse règone, e fra le curve dei loro serpeggiamenti.

Come vediamo tuttavìa nelle sparse reliquie della vegetazione virgìnea, surgèvano nude le vette alpine, ammantati di pàscoli naturali i larghi dorsi della regione calcare, irte di selve conìfere le somme pendici, più sotto frondose di faggi e di betule, poi di quercie, d'àceri e d'olmi, che ampiamente scendendo unìvano i monti ai colli e all'altipiano, vestito d'èriche e sparso di rara selva. La campagna uliginosa e le pingui golene dei fiumi dovèvano esser dense di sàlici e d'alni; lungo le tèpide scaturìgini delle correnti sotterranee, doveva qua e là verdeggiare, e fors'anche nel verno, qualche spontaneo lembo di prato. Ma sui clivi eretti al vivo sole, sulle miti riviere dei laghi ignare quasi di nebbie e di geli, fra le suavità d'una flora naturalmente australe, poteva facilmente mitigarsi anche la fiera vita del selvaggio. – Folte turme di cervi, d'uri e d'alci dovèvano pàscere la pianura, lungo i plàcidi stagni ai quali il castoro lasciò il nome di Bèvera e Beverara; le generazioni, ora fra noi quasi estinte, de' dàini e de' camosci dovèvano animare il silenzio dei recessi montani. Ma solo l'amor della caccia, o il timore dei nemici, poteva incalzare le prime tribù di rupe in rupe sino a piè di quegli òrridi precipizj, ove le vallanghe e la tormenta e il notturno rintrono de' ghiacciaj atterrìvano le menti superstiziose, e dove il forte alpigiano, che ha cuore d'inseguir veloce le pedate dell'orso, anche oggidì non sa, in faccia alla taciturna natura, difèndersi da quella tetra e arcana ansietà ch'egli chiama il solengo.

 

V.

Chi fùrono i primi abitatori dell'Insubria?

È vano il crèdere che l'Europa ne' suoi sècoli selvaggi fosse altrimenti dalle terre che tali rimàngono fino ai nostri giorni. L'Europèo trovò l'Amèrica e l'Australia in quello stato in cui pare che l'Asiàtico trovasse l'Europa. Qui pure, prima delle grandi nazioni dovèvano èssere i pìccoli pòpoli, e prima dei pòpoli le divise tribù. E ogni tribù, che abitava una valle appartata e una landa cinta di paludi e interrotta di fiumi, ebbe a vìvere primamente solitaria di lingua e di costume, nell'angusto cerchio che le segnàvano intorno le tribù nemiche. L'indagare a quale appartenesse delle grandi nazioni che si svòlsero poi nel seno dei sècoli e delle lente preparazioni istòriche, è propòsito falso e inverso; è come investigare da qual fiume derìvino i ruscelli, che al contrario càdono dai monti a nutrire i fiumi. Quindi sarebbe tempo ora mai, che non si andasse fantasticando se provènnero dai Celti, o dagli Illirj, o dai Traci quelle primitive genti, le quali fùrono lungo tempo avanti che l'incivilimento orientale, penetrando colle sue colonie, coi sacerdozj, coi commercj, colle armi della conquista e colle miserie degli esilj e della servitù, propagasse lungo tutti i mari e i fiumi d'Europa quell'arcana unità linguistica, che con meraviglia nostra ci annoda all'India e alla Persia; la quale, con inferiori òrdini d'unità sempre più divergenti, costituì nel corso del tempo ciò che noi chiamiamo la stirpe cèltica, la germànica, la slava. Se v'è in Europa un elemento uniforme, il quale certo ebbe radice nell'Asia, madre antica dei sacerdozj, degli imperj, delle scritture e delle arti, v'ha pur anco un elemento vario; e costituisce il principio delle singole nazionalità; e rappresenta ciò che i pòpoli indìgeni ritènnero di sè medèsimi, anche nell'aggregarsi e conformarsi ai centri civili, disseminati dall'asiàtica influenza. Le varie combinazioni fra l'avventizia unità e la varietà nativa si svòlsero sulla terra d'Europa; non approdàrono già compiute dall'Asia. Le grandi lingue si dilàtano in ampiezza sempre maggiore di paese; e danno a pòpoli di diversa e spesso inimica orìgine il mendace aspetto d'una discendenza commune. La Francia, terra pur d'unità e di centralità quant'altra mai, non cancellò ancora nel suo seno le vestigia delle quattro lingue che Cèsare vi udì tra l'Adour e il Reno, ciascuna delle quali aveva già forse sommerse e spente più favelle di primigenie tribù. In Haiti, la favella dei Bianchi e il volto dei Neri dimòstrano quanto sia grande il moderno errore di classare le stirpi per lingue. In Germania sono evidenti reliquie di Celti, di Lettj, di Slavi; la Germania non può spiegare, con ciò ch'ella crede sua prisca lingua, i nomi de' suoi fiumi, e rare volte quello delle sue più illustri città. Quanto più si risale la corrente del tempo, ogni nazionalità si risolve ne' suoi nativi elementi; e rimosso tuttociò che vi è d'uniforme, cioè di straniero e fattizio, i fiochi dialetti si ravvìvano in lingue assolute e indipendenti, quali fùrono nelle native condizioni del genere umano.

 

VI.

Tutti gli scrittori, mentre pàrlano di colonie approdate in Italia dall'Oriente, e di tribù venturiere discese tratto tratto dalle Alpi, dìcono pur sempre che l'Italia ebbe più antichi abitatori. E per dinotare che parlàvano lingue proprie, e non riferìvano l'orìgine ad alcuna delle grandi nazioni allora fiorenti o fiorite prima, li dissero aborìgeni (Italiæ cultores primi aborigenes fuere. Just.); li dìssero abitatori di monti, frugali, forti, agresti, duri all'armi, duri come le ròveri delle selve native (durum in armis genus. Liv.; – duro de robore nati. Virg.). Nè quelle stirpi fùrono mai spente, nè cacciate altrove; e più volte ristauràrono la popolazione del paese aperto, esterminata da ràpide calamità. E tuttavìa le vediamo discèndere ogni anno ad assìsterla nelle fatiche dei campi, e tenerla a nùmero nelle arti delle città; – fondamento e nervo della nazione; – principio sempre redivivo di quella varietà d'ìndole e d'ingegno, che ammiriamo nei sìngoli pòpoli d'Italia, e che alcuni vanamente deplòrano. Codesta progenie fu la materia prima, che l'influenza orientale improntò solo della sua forma.

 

VII.

Le rive del Po èrano note ai navigatori fin da quei tempi in cui prèsero forma le poètiche legende della fàvola greca; e pare che sotto il nome d'Erìdano fosse uno dei fiumi di quell'angusto orbe che la poesìa popolò de' suoi sogni. Ivi presso era approdato Antènore, fuggendo l'Asia desolata; qui le Elìadi si èrano consunte in làcrime; qui la tradita Manto celava il suo nato nell'ìsola del lago etrusco; qui Cigno regnava sul fiume dei Lìguri; qui Ercole, il sìmbolo della potenza fenicia, nella sua via verso occidente, aveva incontrato "nella terra palustre (x Ç r o w m a l y a k ñ w ) sparsa di sassi caduti dal cielo, l'esèrcito impertèrrito dei Lìguri, contro cui gli era vano il valore e l'arco" (Eschilo ap. Str.); questa era la terra dove i Greci compràvano l'elettro del Bàltico, e i cavalli che dovèvano vìncere le palme d'Olimpia. – Per tal modo il nome della nostra patria s'intesse ai primordj dell'arti belle ed ai sìmboli dell'intelligenza nascente.

Quegli antichi Orobj, Leponti, Isarci, Vennj, Camuni. Trumplini, che si ascrìvono alle nostre valli, sono ombre senza persona; gli scrittori nulla aggiùnsero al nudo nome. Dissero solo che avèvano fondato la città di Barra, madre di Como e Bèrgamo e da lungo tempo perita. Forse era all'uso itàlico sovra ameni colli, presso Baravico e Bartesate, appiè del Monte Baro, tra l'Adda e il Lago Eupili; e la prisca Como era forse intorno al poggio del Baradello; e Bèrgamo, pur sovra un colle, se non trasse il nome dalla madre patria, lo trasse forse da quel Dio Bèrgimo, al quale nelle sue valli si pòsero tante iscrizioni votive. Ma quali pur si fòssero quelle vetuste genti, giova notare, con quali pòpoli si pòsero in successiva ìntima connessione, nel trapasso che fècero dallo stato d'isolate tribù a quella vasta orditura di cose, che le rese membra d'una gloriosa nazione. Solo dopochè sìasi annoverato quanto in esse penetrò d'adottivo e straniero, potrà forse per eliminazione chiarirsi in qualche modo ciò che vi rimase di proprio e di nativo.

 

VIII.

Abbiamo già visto come il nome dei lìguri si nasconda nella notte dei tempi. Quei poggi dell'Apennino lìgure, che noi chiamiamo la Collina, si strìngono ben presso la riva del Po, contro la foce della nostra Olona; ambo le rive del Ticino èrano popolate ab antico da un pòpolo lìgure (antiquam gentem Lævos Ligures incolentes circa Ticinum amnem. Liv.); antica stirpe lìgure si dìssero i Taurini e gli altri Piemontesi (In alterâ parte montanorum... Taurini ligustica gens aliique Ligures. Strab.); il nome dei Liguri nei Fasti consolari si stende fino ai pòpoli del lago d'Idro (Liguribus Stonis); si stende nelle valli del Taro e della Scultenna, lungo il confine toscano; in una parola, pare diffòndersi dapprima in tutta la valle del Po, il cui più antico nome (Bodinco) è nella lingua dei Lìguri, e a poco a poco ristrìngersi all'Apennino, come di popolo che da vaghe conquiste si raccolga per infortunio di guerra all'asilo nativo. Perciò non diremo che gli aborìgeni dell'Apennino e delle Alpi fòssero d'un'ùnica stirpe o d'un'ùnica lingua; questo nome poteva indicare un nodo posteriore di religione, di conquista o di federazione; poteva aver cominciato da loro; poteva aver cominciato da noi. Un decreto del Senato Romano, scritto 117 anni avanti l'era nostra, nel comporre una controversia di confini nella Liguria, annovera certi fiumi, che sèmbrano nella stessa lingua in cui sono molti nomi di luoghi del nostro paese: (fluvius Neviasca, Veraglasca, Tutelasca, Venelasca). Poco sappiamo di quelle antiche genti, non illustri in arti e in lèttere; ma pare che avèssero lontane relazioni nell'Iberia e con varj luoghi del Mediterraneo; pare che sin d'allora coltivàssero a ronchi le pendici dei monti, che munìssero di mura le loro castella, in ciò mostràndosi al tutto diversi dai Germani e dai Celti. Erano robusti, onde si diceva che gràcile Lìgure valeva più che fortìssimo Gallo; erano valenti frombolieri; portavano scudi di rame; onde alcuni li giudicàrono Greci (Quia æreis scutis utuntur Græcos eos esse ratiocinantur. Strab.); onoràvano un Dio Pennino, e gli intitolàvano i più alti monti; ma questo nume era commune ai popoli cèltici, come il Dio Camulo e il Dio Bèrgimo, il Dio Tillino e il Dio Nottulio; commune coi Celti era in alcuni di loro il costume dei lunghi capelli (Ligures capillati); Walckenaer nota una naturale loro alleanza con quelle nazioni. E finalmente i dialetti della Liguria vivente hanno la proprietà commune ai nostri dialetti e ai piemontesi, e a nessun altro d'Italia, dei due suoni gàllici dell'u e dell'œu. – Diremo adunque che il più antico vìncolo di lingua e di costumi fu tra il nostro paese e la Liguria; e che sembra già invòlgere un più lontano nodo coi Celti.

Se verso il Ticino i nostri aborìgeni si collegàvano ai Lìguri, verso le valli dell'Ollio e dell'Adige, il nome degli Orobj trapassava confusamente in quello degli euganei, gente antica (præstantes genere Euganeos. Plin.), fondatrice di molte pìccole città (quorum oppida xxxiv enumerat Cato. Plin.), e aveva tutto il paese che si stende fino al mare.

Lungo il basso Po fiorìvano anche gli umbri, aborìgeni pure, e tenuti i più antichi d'Italia (Umbrorum gens antiquissima Italiæ. Plin.); e avevano empito di città (trecenta eorum oppida. Plin.) le valli del Tebro, e i gioghi dell'Apennino, e la marina ove discende il Po, sino al Monte Gargano. Èbbero arti e lèttere e monumenti; e l'ìndole loro era tale che potèrono intrinsecarsi coi pòpoli d'ambo le estremità d'Italia; onde ad alcuni pàrvero congèneri ai Latini ed agli Etruschi, ad altri pàrvero Pelasghi, ad altri Galli, non ostante l'uso non gàllico di murare le città mìnime; e si volle che ne venisse ai pòpoli della nostra pianura il nome d'Isombri o di Symbri, dato dai Greci, non però dagli Italiani, agli Insùbri. Ma questi scrittori, fra i quali Amedeo Thierry, non conoscèvano quella radicale differenza di dialetti che distingue l'Umbria Tiberina dalla Marìtima; nella quale soltanto, e per posteriore influenza dei Senoni, rimàsero vestigia di Celti. Onde se uno scrittore antico, ripetuto poi da tutti, li disse propàgine di Galli, dinotò forse solo il nesso loro coi pòpoli dell'alta Italia.

Ma i veneti approdati dall'Asia si èrano annidati nei porti della Laguna. Avèvano lingua propria (sermone diverso utentes. Polyb.); e questa, nel trasmutarsi in dialetto latino, conservò quella mìnima varietà e somma dolcezza d'articolazioni, per cui fa quasi un'isola linguistica fra gli aspri dialetti che si pàrlano lungo il semicerchio delle Alpi. Il che palesa assurda l'opinione che i Vèneti fòssero un ramo divelto dall'àrbore slavo (ein abgerissener Zweig der grossen Volkstammes der Slawen. Mannert); poichè la stirpe slava, al contrario, spiega in tutte le sue favelle la màssima attitùdine a moltiplicare e variare i suoi orali, sicchè si potrebbe ben appellarla, fra tutte, la nazione pronunciatrice.

Una colonia orientale, sotto il nome di pelasghi approdata alle foci del Po, vi aveva fondato Spina; poi si era insinuata fra gli Umbri; e quindi per tutta l'Italia meridionale, propagando istituzioni religiose e civili, e stringendo forse quel nesso linguistico che congiunge il latino al greco, ed entrambo alle riposte orìgini indo-perse.

 

IX.

Gli etruschi, le cui memorie cominciàvano milleducento anni avanti l'era nostra, si dicèvano venuti dalla Lidia; ma Dionisio, nato in quelle parti, li giudicò diversi da qualunque altra gente per lingua e costume. Onde, forse non venne dall'Asia il pòpolo etrusco, ma solo il consorzio sacerdotale, che ammaestrò le ingegnose tribù aborìgene, e piegò ad uso loro le forme indubiamente orientali della scrittura etrusca, lasciando sopravìvere dei costumi nativi tuttociò che non ripugnava alle grandi iniziazioni sociali. Compiuto l'ordinamento delle dòdici repùbliche di Toscana, la lega etrusca, progressiva allora come vediamo oggidì le nazioni che rièmpiono di loro colonie l'Amèrica e l'Africa, spinse le armi al di qua dell'Apennino fino all'Adige e alle Alpi, fondando altre dòdici città. – Ma se ciò è vero, non si può spiegare come la terra toscana dischiuda tanto tesoro di sculture, di pitture e d'iscrizioni, e nulla di ciò si scopra fra noi. Forse il dominio etrusco fu qui poco più che mercantile e fluviale; onde Adria, ìsola delle lagune e città più marina che terrestre, ha bensì qualche reliquia di vera città etrusca; ma Màntova e Fèlsina e le altre, per opposizione degli aborìgeni o per altrui rivalità, non vènnero a quella cultura ed eleganza onde fiorìrono le interne sedi della toscana potenza. E in vero, pare istoria di rivalità moderne quella ove leggiamo: "E se l'un pòpolo (l'etrusco) tentava spedizioni verso qualche gente, l'altro (l'umbro) si studiava impedirla; onde avvenne che i Tirreni avendo mandato un esèrcito contro i Bàrbari litorani del Po, e avendo vinto, e dopo essèndosi nell'abondanza rilassati, gli Umbri li assalìrono. Dal che avvenne che in quei luoghi si stabilìrono colonie tirrene ed umbre, delle quali maggiori fùrono le umbre, per la vicinanza maggiore di questi pòpoli".

Niebuhr, nel derivare il pòpolo toscano dalle Alpi, non osservò che i monti, su cui la lega etrusca pose le sue mura suntuose (jugis insedit etruscis, Virg.), hanno mediocre altezza, e i loro continui gioghi fanno quasi un'alta via tra valle e valle. Al contrario i nostri monti prealpini hanno cime alte, fredde, inabitàbili, che divìdono le terre e non le collègano; e le valli appartate, anguste, non consèntono grandi aggregazioni di pòpoli, e molto meno in tempi senz'agricultura e commercio. Non sono questi i luoghi ove le menti potèvano avvicinarsi e scaldarsi, e inventar leggi senza esempio e arti senza modello, così lungi dal mare e dalle vie degli altri pòpoli civili. Se anche fosse vero che gli Etruschi fòssero venuti dai nostri monti, il che non è avvalorato da monumento alcuno, nè dall'aspetto e dall'ìndole dei pòpoli, nè dal testimonio delle lingue, ancora sarebbe solo una materiale derivazione dei corpi, e non delle idèe, delle leggi, della società; ossìa di ciò appunto che giova sapere.

Ma da qualunque punto si fosse mossa, codesta lega anseàtica dell'evo antico teneva tutti i punti dell'Italia e delle ìsole, e involgeva co' suoi commercj, co' suoi riti, col suo diritto delle genti le tribù aborìgene, in tempi anteriori all'era ìtalo-greca. Anzi pare che intraprendesse grandi òpere alle foci del Po, e costruisse i primi àrgini sulle sue rive.

 

X.

La civiltà era dunque surta per noi tremila anni sono, fra il commercio dei Liguri, deli Umbri, dei Pelasghi, degli Etruschi. L'arte di murare, ignota allora oltralpe, la pittura, la modellatura, l'uso di convìvere nelle città con gentili costumi e pompe eleganti e spettàcoli ingegnosi, di contrasegnare con monumenti le vicende della vita pùblica e privata, di decorare con veste religiosa i provedimenti intesi al progresso dei pòpoli, avrèbbero in poche generazioni elevato a quasi moderna cultura il nostro paese; e la navigazione tirrena l'avrebbe congiunto a tutte le genti civili. La cultura del frumento era diffusa tra noi col culto di Saturno; i colli èrano adorni di viti; e già il commercio recava ai bàrbari d'oltremonte questi dolci frutti della civiltà. Ben altra sarebbe l'istoria d'Europa, e tanti sècoli non sarebbero trascorsi stèrili e ciechi alle genti del settentrione, se gli Etruschi avèssero propagate sin d'allora lungo il Reno e il Danubio quel loro vivajo di città, generatrici di città. Il principio etrusco era diverso dal romano, perchè federativo e moltìplice poteva ammansare la barbarie senza estìnguere l'indipendenza; e non tendeva a ingigantire un'ùnica città, che il suo stesso incremento doveva snaturare, e render sede materiale d'un dominio senza nazionalità.

 

XI.

Èrano già corsi seicento anni dai primordj dell'era etrusca, e mancàvano ancora altretanti ai primordj dell'era cristiana, quando una grave e durèvole calamità fermò il corso del nostro incivilimento, e differì di quattro sècoli lo sviluppo dell'intelligenza umana fra noi. Prima che la consuetùdine colle città etrusche avesse terminato d'ingentilire i circostanti aborìgeni, cominciò ad inoltrarsi fra noi un altro principio sacerdotale, che dalle arcane sue sedi nell'Armòrica e nelle Isole Britànniche dominava vastamente una famiglia di nazioni, varie di lingue e d'orìgine, ma tutte simili nell'inculto costume, e comprese dagli antichi sotto il nome di Celti.

I Drùidi non ergèvano, come gli Etruschi, i loro altari in suntuosi recinti di città consacrate, ma nei recessi di vietate selve; e non volgèvano la religione a sollievo ed ammaestramento della vita, ma col terrore di secrete dottrine tramandate da bocca a bocca, e con riti crudeli, incatenàvano i pòpoli a una prima forma d'improgressiva civiltà. Immolàvano vìttime umane; ora ardendo vivi i proscritti e i prigionieri entro masse di fieno e di legna, disposte a qualche forma di simulacri colossali (fœni colosso... defixo ligno. Strab.), ora consegnàndoli a furibonde sacerdotesse, che li scannàvano sopra certe caldaie di rame, e ne raccoglièvano in nefande pàtere il sangue. Altre maghe, tutte dipinte di nero, scapigliate, nude, con faci in mano, celebràvano riti notturni; altre, che si chiamavano le Sene, facèvano vita solitaria sugli scogli del mare, pronunciando nel furore delle tempeste temuti oràcoli. Le vite si redimèvano col sacrificio d'altre vite; e i Drùidi ne facèvano mercato coi guerrieri arricchiti dalla vittoria; onde nelle selve sacre si accumulàvano grandi tesori, che giacèvano all'aperto custoditi dal terrore del luogo o sommersi nelle temute aque dei sacri stagni (¤ n ß e r a Ý w l Û m n a i w . Strab.). Tutta la dottrina druìdica instillava il disprezzo della morte; e teneva le menti così fisse nel pensiero d'un'altra vita in tutto sìmile alla terrena, che alcuni dàvano a prèstito, con patto d'èssere pagati nell'altro mondo. Alla morte dei capitani si abbruciàvano col cadàvere i cavalli; e talora i seguaci prediletti (servi et clientes quos ab iis dilectos esse constabat, unâ cremabantur. Cæs.); talora le spose, per affettato sospetto di veleno. Ne tenèvano anche più d'una; e avèvano sovr'esse e sulla prole diritto di vita e di morte (In uxores... in liberos vitæ necisque... potestatem. Cæs.), e per provare la loro fedeltà, i gelosi e fanàtici guerrieri talora legàvano l'infante a una tàvola, e lo gettàvano tra i gorghi d'un fiume; e se periva, lo avèvano per giudizio divino di non legìtima origine, e pugnalàvano la novella madre; la quale giaceva, durante la stolta prova, nella più tremenda angoscia. Il padre non si curava altrimenti dei figli, nè si degnava ammètterli al suo cospetto, finchè non avèssero età da comparirgli inanzi armati; onde era quello un vìvere senza alcuna domèstica dolcezza.

I combattenti decapitàvano sul campo i nemici caduti, e ne ostentàvano i teschj confitti sulle lance, o appesi al petto dei cavalli. Ogni casa nòbile li serbava in un'arca, nè a peso d'oro ne consentiva mai il riscatto (neque si quis auri pondus offerret. Strab.); e ogni generazione si pregiava di recare altri crani ad ingrossare quel tesoro di barbara gloria. I teschj più illustri, legati in oro, stàvano nei templi ad uso delle sacre bevande. Alle porte delle case s'inchiodàvano teste di lupi e d'altre belve; onde agli Itali e ai Greci, i quali solèvano rimòvere religiosamente dalle città ogni avanzo di morte, se ponèvano il piede in un casale di Celti, pareva d'entrare in uno squàllido ossario.

Vivèvano di pastorizia o d'instàbile agricultura, senza città, senza privato possesso, in clani, o communanze di famiglie, ripartite numericamente sulle terre, come un esèrcito sotto le insegne, col dèbito di conferire certe misure di grano e di birra e certo nùmero di montoni e di porci alla mensa del brenno, ossìa prìncipe. Dimoràvano all'aperta, e per lo più lungo le aque, in tugurj rotondi, costrutti di tàvole e graticci e terra pesta e con acuto tetto di strame; non si curàvano di supellèttili, dormìvano sulla paglia; mangiàvano a tàvole rotonde assài basse, sedendo sopra manìpoli di fieno, coi loro scudieri seduti in altro cìrcolo dietro ai signori; bevèvano in giro a pìccole e frequenti riprese, in una sola conca di terra o di metallo; appena conoscèvano il pane; mangiàvano molta carne; e ciascuno "ne prendeva a due mani un gran pezzo, e lo addentava come un leone" (l e o n t v d Ç w t a Ý w x e r s Ü n Ž m f o t ¡ r a i w a à r o n t e w ÷ l a m ¡ l h , k a Ü Ž p o d k n o n t e w . Posid. ap. Ath.); dopo il convito si provàvano in duelli, che spesso èrano mortali, nè altra pare l'orìgine dei gladiatori che tardi s'introdùssero fra i Romani. Sulle persone loro facèvano pompa d'armi dorate, di collane e braccialetti d'oro, di tracolle lavorate in argento e in corallo, strascinando al fianco destro lunghe sciàbole, talvolta di rame temprato; portàvano saj vergati di splèndidi colori, e grandi scudi quadrilunghi con imprese gentilizie, rozzamente dipinte o intagliate; e sopra gli elmi affiggèvano figure d'augelli o di fiere, o alte corna di bùfali o di cervi, e grandi pennacchj ondeggianti; nutrìvano lunghi mustacchi e lunghe chiome tinte in rosso; e alcune nazioni si dipingèvano d'azzurro le braccia e il petto; combattèvano più sui carri che sui cavalli. Talora nelle battaglie, per insultare il nemico, o per brutale audacia, o per disperazione, gettàvano l'elmo e il sajo, e combattèvano nudi; tanta era l'esaltazione cavalleresca, nutrita in quelle rozze menti dalle memorie dei feroci antenati, ripetute dai bardi adulatori, che coll'arpa in collo erràvano di casale in casale. – Tutte queste usanze di tàvole rotonde, di scudi blasonati, di cimieri, di trovatori, di duelli, e di prove dell'aqua e del foco, non estinte nelle Isole Britànniche e non obliate mai del tutto nelle Gallie, ripullulàrono nella nuova barbarie del medio evo; e ne scaturì quella poesìa romanzesca, che i freddi poeti legàrono in rima.

I Drùidi, paghi di tener sotto il terrore dei loro misterj e delle formidàbili loro maledizioni molte bàrbare tribù, e di tesoreggiarne le lontane prede, non si curàrono mai di partecipar loro quella qualunque scienza che avèvano; nè sapèvano tampoco tenerle in pace, onde tutta la terra cèltica era un campo di discordia, di rapina e di sangue (In omni Galliâ factiones. Cæs.). Uscìvano tratto tratto da quel perpetuo tumulto le tribù più mìsere o le più audaci, e andàvano altrove in cerca di preda o di terre, ove pasturar bestiami, o spàrgere le passeggere sèmine d'un'agricultura vagabonda. Pare che la mano arcana dei Drùidi reggesse quelle lontane spedizioni; poichè dalla sede dei loro collegj le turbe conquistatrici si èrano precipitate in Ispagna, in Italia, sul Bàltico, in Boemia, lungo il Danubio, insultàvano agli Dei della Grecia in Delfi, s'accampàvano sull'Ellesponto, e preludendo alle crociate dei loro pòsteri, fondàvano un regno gàllico nell'Asia Minore.

 

XII.

Ma se i Celti non amàvano chiùdersi nelle città, non si può dire che le odiàssero e distruggèssero con quello stolto furore che mille anni più tardi si vide nei Vàndali e negli Unni Scorrendo velocemente fra città e città, forse perchè non sapèvano come espugnare quei ricinti di pietra (Gens ad oppugnandarum urbium artes rudis... segnis intactis assideret muris. Liv.), andàvano a sorprèndere genti lontane, e tornàvano onusti di preda. Quando poi le terre giacèvano desolate e derelitte, allora qualche tribù dimandava di potersi accasare con patti di pace su quegli spazi, che altri inutilmente possedeva (egentibus agro quem latius possideant quam colant... partem finium concedant. Liv.). E così le antiche città itàliche rimanèvano come ìsole solitarie in mezzo a lande, sparse di bàrbari casali; e potèvano udir senza spavento dalle mura le strane voci e i càntici di guerra. Laonde, quando gli Etruschi, dopo aver lungamente conteso ai Galli le nostre pianure (cum Etruscis... inter Apenninum Alpesque sæpe exercitus gallici pugnavere. Liv.), si ritràssero nelle castella alpine, non solo Màntova, Adria, Ravenna, Arìmino rimàsero salve, ma forse lìbere, o per noncuranza cavalleresca dei bàrbari, o per condizione di pace, o per qualche antico nodo di religione o di sangue che i nostri aborìgeni avèssero già con quelli dell'altro declivio delle Alpi. Màntova si conservò divisa in tre stirpi, tra le quali la più potente rimase quella degli Etruschi (Mantua tres habuit populi tribus, et robur omne de Lucumonibus. Serv.). Melpo fu distrutta, ma solo due sècoli dopo. E in poca distanza delle antiche città mercantili, i Galli elèssero le sedi dei loro brenni e delle loro adunanze militari; cioè Beloveso, poche miglia a ponente di Melpo, in un casale posto là dove il torrente Sèveso, giunto sul piano palustre, prendeva forma di continuo e plàcido fiume; e gli diede il nome di Mediolano, commune a diversi altri luoghi delle Gallie e della Britannia (Mediolanum, pagus olim; nam per pagos habitabant. Strab.), e il nome di Breno rimase a una terra presso la città di Bèrgamo, e ad un'altra presso la città dei Camuni (Cividate), e ad altri luoghi del nostro paese. – È uno stato di cose che si vede tuttodì nell'Asia Minore, nell'Armenia, nella Persia, dove le città dei mercanti o degli artèfici hanno diversa lingua, e spesso diversa religione dalle orde pastorali dei Turcomanni o dei Beduini, che si attèndano nelle circostanti campagne. – Così si visse tra noi per quattrocento anni.

 

XIII.

Le orde gàlliche, varcato con zàttere il Po, stabilite le tribù dei Boi e dei Senoni intorno a Bononia e Sena Gàllica, còrsero lungo l'Adriàtico, spogliàrono persino le città Italogreche, penetrarono pei monti in Etruria; colla stranezza delle armi e la furia degli assalti abbagliàrono le legioni; e accampate nelle vie deserte di Roma e sui monti d'Alba e di Tìbure, e andando e venendo per la via gàllica, devastarono il Lazio per diecisette anni. Ma nel calpestare quell'angusta striscia di terra non sapèvano che vi avesse radice quell'irresistibile principio, che dilatàndosi avrebbe in poche generazioni divorato in Europa e in Asia la potenza e la gloria de' Celti.

Roma ben presto si agguerrì a nuovi modi di vittoria. I Cisalpini, inferociti nei disastri, si collegàrono con tutti i suoi nemici, Etruschi, Umbri, Sanniti; ma sempre soccumbèvano alla disciplina delle legioni e alle arti del Senato. Fra le discordie gàlliche i Romani si apèrsero il varco del Po; coll'aiuto degli Anàmani tragittárono sulla nostra pianura (223 a. C.); ma non potèrono farsi strada, nè tener fermo; patteggiàrono e retrocèssero. Poi tosto, per accordo coi Cenòmani, aperti i passi del Mincio, dell'Ollio, dell'Adda, irrùppero repentini nell'alta Insubria, trucidàrono le genti disperse ne' campi. I pòpoli sùrsero in armi; tràssero dal tempio della Vèrgine gl'immòbili vessilli d'oro (aureis vexillis quæ immobilia nuncupant. Polyb.); sostènnero con forze non intere un'aspra battaglia. L'anno seguente, il brenno Virdumaro e il cònsole Marcello s'incontràrono sul campo di Clastidio; si riconòbbero allo splendor delle divise; il cònsole trucidò il re nemico; passò il Po; sottomise Mediolano; portò in trionfo l'armatura dell'ucciso. Roma pose due colonie di veterani in Piacenza e Cremona; ma fùrono tosto fieramente combattute.

Comparve in quel mezzo Annìbale a piè dell'Alpi; si vìdero tra le foreste del Ticino le seminegre tribù del deserto. A quell'annunzio duemila Cisalpini, che costretti militàvano nel campo de' Romani, si lèvano notturni, ne fanno strage, pòrtano ad Annìbale i teschj sanguinosi. Su la Trebia, gl'Insubri combattèvano per Cartàgine; i Cenòmani, per Roma. Sessantamila guerrieri, accorsi in pochi giorni al grido della vittoria, sèguono Annìbale in Toscana. Al Trasimeno, l'insubre Ducario getta di sella e uccide il cònsole Flaminio. A Canne, fra cinquantamila soldati d'Annìbale, trentamila èrano Galli; e deliberati di far disperata prova, vènnero nudi sul campo (Galli super umbilicum erant nudi. Liv.); quattromila vi lasciàrono la vita; ma i cadàveri dei Romani, in quell'orrenda giornata, fùrono sessantamila. – Quando Amìlcare venne in Italia, altri Cisalpini lo seguìrono; altri seguìrono Magone sbarcato a Gènova; altri seguìrono Annìbale in Africa, e morìrono a Zama. Venuta la pace, ancora un venturiero africano adunava sul Po quarantamila guerrieri, distruggeva Piacenza, assediava Cremona, cadeva con tutti i suoi. Un'altra battaglia si perdeva sul Mincio per nemicizia dei Cenòmani; in un'altra perìvano più di quarantamila Insubri; restàvano sul campo centinaja di bandiere, centinaja di carri da battaglia, splèndide collane d'oro (Liv.); Como era presa con ventotto castella de' suoi monti; un'altra giornata si combatteva sotto Milano; tre esèrciti romani insanguinàvano ad un tempo la valle del Po; la resistenza era indòmita; più volte le legioni vènnero conquise e trucidate; ma parèvano risurgere dai sepolcri; e omài rimanèvano agli esàusti Cisalpini solo i vecchj e i fanciulli. Ma quando Scipione entrò, con insegne spiegate, a mèttere i coloni romani in possesso delle divise campagne, i supèrstiti delle 112 tribù de' Boi non rèssero all'amaro cordoglio, si mòssero in turba, e varcate le Alpi Nòriche, si dispèrsero nelle selve del Danubio. Fra l'eccidio dei Senoni e la dispersione de' Boi, la stirpe degli Insubri sopravisse (Senones... deleverunt... Boios ejecerunt... Insubres etiam nunc existunt. Strab.).

La guerra arse ancora negli Apennini Lìguri; la conquista di quel palmo di terra costò più di quella dell'Asia; Roma, non sapendo come mutar l'ànimo di quegli uòmini indòmiti, ne trasportò quarantamila in Apulia. – Più lunga arse la guerra nelle nostre valli alpine, sulle quali i pròfugi Etruschi avèvano diffuso il nome commune dei Reti. Anche dopo la sommissione della pianura, si difèsero per un sècolo e mezzo, dalle pòvere montagne scendendo a depredare la pianura (Lepontii, Tridentini, Stoni et aliæ complures exiguæ gentes latrociniis deditæ et pauperes. Strab.). Nel 164 (a. C.) un Tiberio penetrò in Val-Camònica; nel 128 un Marzio vinse gli Stoni; nell'85 i Reti incendiàrono la colonia romana di Como; nel 42 fùrono sconfitti da Planco; nel 16 Silio domò del tutto i Camuni e i Vennj; i Trumplini furono venduti all'asta e dispersi in catena; l'anno seguente i due fratelli Nerone e Druso compìrono il loro trionfo sui Reti. La via dei laghi e delle alpi era aperta per sempre (Iter supra montes... otim superatu difficile... nunc tutum et expeditum... latronum excidio, viarum structurâ. Strab.).

Fino a quel tempo le invasioni cèltiche e anche quella dei Cimbri e dei Tèutoni, se non giungèvano a farsi strada per le Alpi occidentali, giràvano pel Reno e per l'Inn fino alle fonti dell'Adige o alle Alpi Nòriche; la doppia fossa dei laghi nostri e degli elvètici e la fierezza dei pòpoli chiudèvano le alpi a noi vicine. Già fin d'allora i Reti èrano nelle valli dell'Inn, e gli aborìgeni tèutoni in quelle del Ròdano e del Reno (Obsepta gentibus semigermanis... Veragri incolæ. Liv.).

 

XIV.

Ma molto avanti quell'ùltima conquista, già le nostre pianure èrano comprese nel nome e nella legge d'Italia; nelle città nuove, in Placentia, Hostilia, Laude Pompeja, Ticino, tutto era romano; le antiche, o come colonie o come municipj, èrano ascritte alle tribù del generoso pòpolo, alla Fabia, all'Ufentina, alla Voltinia, alla Sabatina; suntuose vie militari, tratte a immensi rettilinei, le congiùnsero tra loro e con Roma. – Cèsare aveva atterrato l'imperio dei Drùidi, disperse le caldaje insanguinate e le fanàtiche sacerdotesse; le sacre selve dell'ìsola di Man, ov'era il gran collegio, fùrono incendiate da Paulino. Le colonie romane intorno al Reno, Còira, Costanza, Augusta, Basilèa, Strasburgo, Spira, Vormazia, Magonza, Trèveri, Aquisgrana, e quella che per eccellenza si chiamò Colonia e divenne poi la madre delle città anseàtiche, fùrono le fondamenta al tutto itàliche di quella nuova Germania, che dopo la linea del Reno s'inoltrò successivamente a quelle dell'Elba e dell'Oder e della Vìstula, apportando a quei pòpoli la vita della civiltà, e il retaggio dell'intelligenza, non bramato nè conosciuto dai loro padri. I canali di Druso e di Corbulone insegnàrono ai Bàtavi come crearsi una terra fra le acque del mare. – Allora l'Insubria, che nell'era etrusca era la favolosa frontiera del mondo civile, si trovò co' suoi laghi e i suoi fiumi su la gran via delle nazioni, potè stèndere i suoi commercj alle Isole Britànniche e all'Egitto, a Càdice e al Mar Nero.

I Romani risuscitàrono il principio etrusco, dièdero ai municipj un'autorità su le campagne; le famiglie opulente non vìssero più in solitarj casali, ma in città piene di commercj e di studj. "Quanta sia la bontà di quella regione si può giudicare dalla frequenza degli abitatori, e dalla ampiezza e opulenza delle città; nelle quali cose i Romani di quelle parti sovràstano a tutti gli Italiani" (Strab.). Troviamo ancora nelle làpidi di quel tempo, i nomi delle famiglie insùbriche, scritti con romano costume; Albucio figlio di Vindillo, Banuca figlia di Magìaco, Surica di Dunone, vestigia d'un passato che si va dileguando. La legge romana sostituì all'incerta communanza cèltica il diritto di piena proprietà; e così propose alle famiglie le grandi aspettative del futuro, le animò alle grandi òpere territoriali, alle irrigazioni, agli scoli. Le antiche arginature etrusche si prolungàrono lungo l'alveo del Po; già Lucano le descrive. L'Insubria, già vastamente irrigua (ob aquæ copiam, milii feracissima. Strab.), si coperse di ubertosi poderi, che consèrvano ancora i nomi delle famiglie innovatrici: Campagne-Valerie, Villa-Pompejana, Isola-Balba, Balbiano, Corneliano, Albuzzano. Represso l'uso delle prede, gli armenti celati nelle Alpi scèndono al piano; la palude abitata da feroci cignali diviene plàcida praterìa, dove i garzoni di Virgilio àprono e chiùdono i rivi. I colli fioriscono d'àrbori fruttìferi (planities felix... collibus fructiferis. Strab.); la vite delle Alpi Rètiche acquista grido; il ciriegio, il pèrsico, il cotogno, il pomo d'Armenia sono propagati dai giardinieri romani; il castagno dell'Asia Minore sale a nutrire i pòpoli fin sulle cime dei monti; l'olivo, che ai tempi di Beloveso era ignoto in tutta l'Italia, fa molle contorno ai laghi, coltivato forse dagli agricultori greci che Cèsare chiama sul Lario, e che ripétono nei nostri villaggi i nomi di Corippo, di Plesio, di Picra, di Lenno, di Delfo, dei Corinti e dei Dori.

Ma più ìntima e più durèvole fu la mutazione che la legge romana introdusse nella vita domèstica, annunciando alle bàrbare stirpi i sacri diritti delle spose e della prole, i doveri dell'educazione, la providenza delle tutele, la libertà dei testamenti, limitata dalle aspettative delle legìtime eredità. L'ideale della matrona romana non uscì dai serragli dell'Oriente, nè dai ginecèi della Grecia, nè dalla càmera servile e dalla turpe morganàtica dei Celti e dei Goti; per esso la donna di Virgilio si eleva ad immensa altezza sulle ancelle degli eròi d'Omero; in esso sta il principio che distingue il contubernio dei bàrbari dalla famiglia europèa; è una vasta emancipazione che comprende d'un tratto la metà degli èsseri viventi.

La Cisalpina ebbe adunque leggi, famiglie, municipj, strade, ponti, aquedutti, àrgini, irrigazioni, magnìfici templi de' suoi marmi, terme, pòrtici, ville, delizie d'arti e di fontane, teatri, librerìe pùbliche, grandi scuole, scuole ove imparò un Virgilio. Nè questo è il solo dei grandi Latini che nacque tra il Po e le Alpi; ma Catullo, Cecilio, Tito Livio, Cornelio, i due Plinj. Insigni giureconsulti, molti capitani e magistrati, alcuni imperatori dièdero lustro alle nostre città. Ma lo splendore più puro e più durèvole è quello che le lèttere diffòndono intorno alle sacre dimore dei grandi ingegni. È un dolce e caro orgoglio quello d'incontrare negli scritti ammirati dai sècoli i nomi dei nostri fiumi e dei nostri laghi, del curvo Mella, e del plàcido Mincio, dell'Eupili e di Sirmione, ancora oggidì non bene ìsola, nè penìsola, ma dilettosa selva d'olivi. Nelle valli dell'Adda troviamo ancora i vini rètici, il mele nutrito dalla flora virginea delle alpi; i vasi della verde pietra comense sul torno dell'alpigiano. Possiamo assìderci accanto alla fonte ammirata dal giòvine Plinio, il quale descrive le delizie del suo Lario con quella mano che fu la prima a difèndere, non per senso di propria salvezza, ma di lìbera e generosa giustizia, l'innocenza del costume cristiano.

Tuttociò scaturiva da quel principio municipale in cui presso l'interesse al bene stava l'immediata facultà d'operarlo. Il gran municipio di Roma porgeva agli altri l'esempio d'ogni splèndida cosa. Nè per certo avvenne mai che un pòpolo possessore di sì vasto dominio avesse tanta brama d'immortalarsi con òpere d'universale utilità, nè che la potenza andasse congiunta a tali e sì culte menti, quali si vìdero in Catone, in Cèsare, in Tullio, in Tàcito; nè che uòmini, quali furono i giureconsulti romani, conservàssero per una serie di sècoli dottrina di sapienti e autorità di legislatori.

 

XV.

Ma s'era quella una prosperità nuova e grande per questa estrema parte d'Italia, trattenuta in barbarie dai Celti, non così poteva dirsi della rimanente penìsola. La guerra sociale aveva abbattuto le bellicose contadinanze della prisca Italia. L'intera patria d'un pòpolo forte vedèvasi talora mutata in una squàllida possessione d'un solo patrizio, che non poteva sfruttarla se non colle braccia degli schiavi.

I Cèsari, come capitani del pòpolo e promotori dell'emancipazione, si èrano recati in mano il comando delle armi, il pontificato, il tribunato e altre dignità divise una volta fra molte famiglie; ma per non alienare l'opinione che aveva dato loro quella potenza, esercitàvano le sìngole parti di quell'accumulata autorità, giusta le antiche fòrmule consacrate dalla religione e dal tempo. – Pur tuttavìa non era confidata loro dai senatori e commisurata, come quella dei moderni dogi; sotto nome e modi di magistrato, era conquista di vittorioso nemico. Nel secreto delle menti patrizie stava una profonda riprovazione, un indelèbile giudizio di illegalità, una ferma memoria dell'antica eguaglianza; epperò tra l'affettata popolarità e le parentele cittadine, il prìncipe confidava sopratutto nelle armi, e viveva nel sospetto. Quindi tutto mirava a inspirare in quelle superbe famiglie uno spìrito togato; i patrizj non dovèvano frequentare gli esèrciti; gli esèrciti èrano relegati lungo remote frontiere, dovèvano conòscere solo i loro capitani; la milizia diuturna, perchè l'Italia non s'empisse di veterani pericolosi; dura e pòvera, per la natura ancor selvaggia dei luoghi; molesta al cittadino, perchè cresciuto alle largizioni, agli anfiteatri, alla lìbera garrulità del foro. Di 120 Milioni di sùdditi che pare avesse l'imperio dei Cèsari, si vuole che soli sette avèssero diritto di Romani; e questi non potèvano dar mezzo milione di combattenti, come si richiedeva a sì disparate frontiere, e a tanti presidj terrestri e marìtimi. Fu necessità ricèvere soldati d'altre genti, la cui mescolanza era nauseosa all'altiero romano. Il moderno principio britànnico di fare una nazione d'officiali e un'altra di gregarj, sarebbe stata più nell'interesse dei patrizj che dei Cèsari. L'esèrcito adunque in poche generazioni non conosceva pòpolo, nè senato; non era più romano; e dopochè qualche conduttiere ambizioso seppe valèrsene per giùngere al soglio, si vide troppo aperto che in tutto l'imperio non vi era altra forza e altra legge che la spada del soldato. In meno d'un sècolo più d'ottanta generali perirono, o nel tentare l'acquisto del regno, o nel difènderne il fugace possedimento.

Allora Severo potè insegnare a' suoi figli che il secreto unico della potenza e della vita era il favor degli esèrciti; e in questa voràgine i suoi successori precipitàrono le finanze dello stato. Dopo il 200 dell'era nostra l'arte di regnare in Roma fu quella sola di trar denaro dagli inermi per saziare gli armati. Le grandi famiglie senatorie si estinguevano; la plebe romana si era sommersa fra più milioni di venturieri, venuti dal Reno e dal Nilo, dal Tago e dall'Eufrate. Bastò un còmputo di finanza, perchè Caracalla accomunasse a tutto l'imperio la condizione di cittadino, e rivelasse al mondo attònito che quel pòpolo non era più; ch'era sparito colla sua favella e colla sua religione, lasciando sotto al suo nome una colluvie d'ogni gente e d'ogni cosa.

Trascinati dal principio fiscale, gl'imperatori del sècolo III non curàrono più le strade e i porti, che avèvano dato un'insòlita vita alle nazioni; le provincie aggravate non èbbero forza di supplirvi; il commercio si arenò; le derrate giacquero inùtili sui campi d'una provincia, mentre in un'altra si moriva di fame. Perìvano i pòveri, impoverìvano i ricchi; àvidi usuraj e magistrati impuni spogliàvano migliaja di famiglie, e per semplicità d'azienda inondàvano i latifondi con turbe di schiavi; gli arati divenìvano inculta pastura; le reliquie dei lìberi agricultori riservate a rinovare in migliori sècoli la nazione, appena si salvàvano nei recessi degli alti monti, che non si ponno coltivare con braccia di servi; le fami, le pestilenze, le fiamme dei bàrbari, le rapine dei masnadieri diradàrono rapidamente l'umana generazione.

 

XVI.

Intanto nella città si faceva sempre più ardua l'esazione dei tributi; e colla miseria cresceva il frèmito degli esèrciti affamati, e l'acerbità e la disperazione del fisco. I magistrati municipali èbbero a rispòndere del proprio pei cittadini insolventi; fùrono armati di tutti i diritti del fisco, ma occupàvano terre deserte e case cadenti; si ostentò povertà per fuggire i gravosi onori. Allora il fisco li conferiva per forza; prendeva i beni dei magistrati, poi quelli delle mogli, poi citava gli eredi; un collega doveva pagare per l'altro; chi si recava in altra città, veniva cerco e ricondutto. Alcuni si facèvano soldati, e il fisco lo vietò. In poche generazioni quelle magnìfiche signorìe, che ripetèvano con decorosa moderazione nei teatri e nei palazzi dei municipj le lautezze di Roma, èrano un branco di pezzenti gabellieri.

Intanto nelle campagne si numerava e si tassava ogni àrbore fruttìfero, ogni tralcio di vite; la tassa delle piante che perivano, ricadeva sulle supèrstiti; allora il contadino, per sottrarsi alle esazioni, estirpava i frutteti e le vigne; e la legge, che inseguiva l'ombra della fugitiva agricultura, puniva di morte la morte d'una pianta. Se le tribolate famiglie si disperdèvano, la mano della legge le riconduceva in catena; ogni contadino si registrava servo della sua gleba; e surgeva un nuovo modo di servitù, che forse nell'Europa orientale era più antico, e oggidì non vi è peranco estinto. Il demanio, possessore d'intere provincie, le offriva indarno al primo occupante; vi trascinava dal confine i prigionieri bàrbari, che condannati ad un'arte ignota nelle loro patrie, si spargèvano ladroneggiando, e vessando le reliquie dei veri agricultori.

Anche le arti delle città si spegnèvano ogni giorno. Sul principio del IV sècolo, Costantino trovò necessario che ogni uomo salvasse l'arte sua tramandàndola a' suoi figli. Nessuno doveva adunque mutarla, nessuno scèglierla a piacimento; e come il discendente degli antichi signori era assegnato al servigio municipale, e il contadino alla gleba, gli artèfici furono ascritti alla paterna officina, e i nocchieri alla paterna nave; a tutti venne interdetta la milizia; e l'uomo che nasceva per esser soldato si bollava sulla mano; la popolazione fu smembrata in caste; le minute discipline, le aspre pene, gli usi, gli abusi, stabilìrono una generale servitù. Questi èrano gli infelici sùdditi che i moderni istòrici chiàmano ancora i Romani, per dilettarsi a dire ch'erano i vinti. E chi era dunque stato il vincitore?

Intanto i Sàrmati tenèvano presidio nelle inermi città dell'Italia e della Gallia; i Franchi avèvano in guardia, o piuttosto in preda, le frontiere del Reno; i Goti, quelle del Danubio. Gli Alani del Càucaso erano custodi del palazzo imperiale, e gli òrridi Unni della Mongolìa si pascèvano di carne cruda sotto i pòrtici di marmo. I capitani di queste genti, Stilicone vàndalo, Arbogasto franco, Allobego alano, Fràvita goto, Ricimero, Aspare, Ardaburo, èrano i veri signori dell'imperio, perchè il dominio consiste nelle armi, e l'autorità nella consuetùdine e nella fiducia dei prìncipi. Essi facèvano gl'imperatori, li disfacèvano, li uccidèvano. L'ùltimo di quei simulacri di regnanti fu Ròmulo Augùstulo, figlio d'un Oreste, venuto non si sa di qual nazione, e scriba d'Attila. – Infine le truppe mercenarie, morendo di fame ai confini, cominciàrono a internarsi; si confùsero colle orde che dovèvano respìngere, e colle quali avèvano communanza di sangue e d'interesse; si prèsero, in luogo d'imposta prediale, una parte delle terre cogli schiavi e col bestiame che rimaneva. E poichè la milizia si era così proveduta da sè, i tributi fùrono inùtili; l'òpera della distruzione era compiuta.

Già fin dal 400 i nostri municipj èrano a tale che S. Ambrogio li disse cadàveri di città. – Eppure il gran flagello di Dio non era ancora venuto.

Ancora dopo il passaggio d'Attila, la nostra Insubria nutriva qualche favilla di studj; e in Pavìa nasceva Boezio che i Goti uccidèvano. Milano, sola forse tra tutte le città dell'impero, si levò in armi contro i Goti, per vana speranza ch'ebbe di soccorso da Costantinòpoli, la quale a difènderla inviava il goto Mùndila. E il traditore spariva nel momento del perìcolo; e i Goti, ingrossati dai Burgundi, trucidàvano tutti quelli che non si salvàrono nei monti e nelle paludi. La città nostra giacque smantellata, le vigne, gli orti, i broli, persino i paschi si dilatàrono fra le sue ruine, e lasciàrono nomi di dolorosa memoria alle piazze e alle vie; e rimàsero intorno alla squallida cerchia le sole basìliche, fondate sugli antichi sepolcreti, e risparmiate dai distruttori bàrbari, più forse che non dai pòsteri ristauratori.

Sette sècoli dopochè la nostra terra era sottratta alla communanza cèltica, e consegnata ai municipj romani, tutta quell'òpera di civiltà pareva distrutta. Ancora Bèrgamo stava solitaria sul suo monte, e Màntova fra le sue paludi; e in mezzo alla campagna derelitta, si accampava in un recinto di legno qualche squadra d'Èruli e di Goti, a cui la sorte (lot, loos) aveva assegnato i pochi rùstici e i pochi bestiami, che sopravivèvano su la vicina gleba. – Nei tempi anteriori, il Celta viveva cogli uòmini della sua discendenza e del suo nome, aveva nel clano una mòbile patria; e infine per ancorarsi a questa feconda terra aveva confitto in luogo sacro gli immòbili vessilli. Ma Ricimero, Stilicone, Odovacre, Clodovèo, Hastingo, Rollo, Guglielmo, Tancredi, erano venturieri senza patria, che o giuràndosi a fortùiti capitani, o traendo seco fortùiti seguaci, pronti a difèndere qualsìasi padrone, a parlare qualunque lingua, a onorare qualunque Dio, non altra legge seguìvano che quella della privata fortuna. Così, dopo che la fiscalità bizantina aveva annientato ogni umana libertà e dignità, quei lacci venìvano rotti dall'opposto principio d'un ferino egoismo, che sprezzava ogni vestigio di civile convivenza, e riduceva tutti i doveri dell'uomo a un patto di preda fra un capitano e i suoi compagni.

 

XVII.

Ma in quelle città disfatte stava il germe d'una nuova e più ìntima associazione, che nel nome d'un solo Dio e nella parola d'un solo libro aspirava a ricongiùngere tutte le nazioni d'Europa. Quando l'antico patriziato fu estinto, e fu tronca la tradizione dei riti familiari, confiscata la terra sacra, gettato alla fornace il bronzo dei simulacri e il marmo dei templi, sola rimase fra quella spaventèvole dissoluzione la società dei Cristiani, che in Occidente era pìccola e oscura, e ristretta a pochi borghesi, forse di patria orientale e i più di greco nome. L'antica sapienza civile in mezzo a tanta miseria pùblica doveva smarrirsi; non poteva più dire come nel mondo vi fosse un principio regolatore delle umane cose. Ma nella contemplazione d'un òrdine sovrumano, le sventure divenìvano prove e occasioni di virtù; e un'intera vita d'indegno dolore diveniva parte e condizione d'un'immortale esistenza. Si dièdero intieramente a questi pensieri tutti i più fèrvidi intelletti. Milano, sede imperiale, e fino all'arrivo d'Attila meno mìsera delle altre città d'Italia, albergava Augustino nativo dell'Africa, e Ambrosio nativo delle Gallie; i quali, e per dottrina, e per nome, e per virtù, appena si accostàrono alla società dei Cristiani, ne divènnero i più autorèvoli capi. Felice, Bassiano, Stèfano, Filastrio reggèvano la nuova fratellanza in Como, in Lodi, in Cremona, in Brescia; le famiglie fuggitive la disseminàrono fra i palustri ricòveri della pianura e nelle interne montagne. Ma fu mestieri di quattrocento anni per troncare del tutto le tradizioni aborìgene; alla fine del secolo VIII il culto di Saturno sopraviveva ancora nell'estrema Val-Camònica (in curte Hedulio); e le tribù dell'etrusca Màntova èbbero una propria congregazione episcopale solo al principio del secolo IX.

 

XVIII.

La religione cèltica aveva le sue sedi nelle foreste, la romana nelle mura dei municipj; e nei municipj le successe la cristiana; il vìncolo morale fra le campagne e le città si conservò adunque ad onta dell'occupazione barbàrica. Al risùrgere della civiltà tutti i pòpoli, i cui sacerdoti erano ordinati a Milano, a Brescia, a Pavìa, divènnero i Milanesi, i Bresciani, i Pavesi. Queste minute nazionalità cancellàrono ogni vestigio delle più antiche divisioni; nè più l'alpigiano si segregò dalla pianura, come al tempo degli Orobj e dei Reti. Pavìa divenne capo delle popolazioni che dal basso Ticino salìvano sino ai gioghi degli Apennini; Milano, dalle campagne del Po sparse il suo rito ambrosiano fino ai ghiacci del Gottardo; Como penetrò vastamente per le valli, dalle fonti del Ròdano fino a quelle dell'Adige; e quivi si trovò in confine con Brescia, ch'ebbe le valli dell'Ollio, del Clisio e del Mella. Bèrgamo seguiva tutto il corso del Brembo e del Serio fin presso Cremona; e i suoi confini s'intrecciàvano intorno a Crema con quelli di Piacenza e di Lodi. I dialetti che prima esprimèvano la sola origine dei pòpoli, si risentìrono di questi riparti municipali. Presiedeva alle chiese delle città minori il vèscovo della maggiore; e perciò Milano ebbe primato in tutta la Liguria e la Rezia, da Gènova fino a Còira, e forse a Costanza; ma le successive calamità e poi le inimicizie municipali rùppero quei vìncoli; e Como, per sottrarsi quanto poteva alla prepotente vicina, preferì di sottostare al lontano patriarca d'Aquileja.

Perlochè queste nostre città, piuttosto che cadàveri, erano corpi tramortiti. Tutte le preci, tutte le scritture èrano nella lingua che i Romani avèvano dato all'Europa; il nostro vulgo colla sua proferenza cèltica mutilava le voci latine; ma in quel dialetto poteva intèndersi col vulgo vicino; e da plebe a plebe v'era in potenza una lingua commune a tutte; le favelle della penìsola non èrano più così disparate come l'etrusca, la latina, la greca. V'èrano case e chiese, e avanzi ed esempli di strade, di ponti, di mura; la vite era salita fino alle Alpi; l'olivo aveva posto nido sulle riviere; il castagno pareva già un àrbore spontaneo dei nostri monti; l'irrigazione non poteva cadere in oblìo. Le famiglie mercantili, e nelle città, e nei rifugi dei monti e delle paludi, non perdèttero le loro tradizioni; e anche nel medio evo sèppero trovare per la via delle Alpi le rive del Reno, continuarvi l'oscuro loro tràffico, prestar l'ingegno e le braccia a edificarvi chiese e castella, che a que' pòpoli pàrvero fatte per opera d'incanto.

 

XIX.

Molti dìssero che i Romani ammolliti dovèvano coll'innesto dei bàrbari rifòndersi a nuova virilità. Ma quando vènnero i bàrbari, nessuno poteva più dire d'esser Romano; ogni lusso era estinto, e la gente indurita al disagio. E la forza militare d'un pòpolo non risiede nei mùscoli, ma nel consenso, nelle tradizioni, nella disciplina; al che la presenza dei bàrbari nulla giovava, essendochè la milizia rimaneva privilegio dei pochi, e i molti non potèvano dunque agguerrirsi. E i Goti fuggiaschi inanzi alla ferocia degli Unni, divènnero àrbitri dei nostri destini, perchè la legge bizantina faceva privilegio di stranieri la milizia, onde non si sapeva più come un uomo potesse divenire un soldato. I Goti, padroni dell'Italia e delle cento sue fortezze, non sèppero conservarla, e in sessant'anni il loro nome era estinto; in Gallia soggiàcquero ai Franchi; in Ispagna fugìrono inanzi agli Arabi, e perdèttero ogni cosa in un giorno. – I Longobardi entràrono chiamati: e tuttavìa non èbbero mai forza d'occupar le marine, e di superare le nascenti difese di Venezia e le mura inermi di Roma; e il loro dominio che cominciò col cranio di Cunimundo, ebbe fine con una mìsera scena di viltà.

Oltralpe i duchi prèsero nome dai pòpoli o dalle vaste terre; ma i capitani longobardi s'intitolàrono dalle città; duchi di Spoleto, di Verona, di Brescia; il che fa crèdere che vivèssero entro le mura urbane; soggiorno che doveva ammansare il costume, e contribuiva, come le sedi episcopali, a conservare importanza ai municipj. E questi sulle nostre pianure èrano così vicini che appena v'era alcun luogo, che a distanza di quìndici miglia non avesse una città; e perciò gli òrdini feudali non si radicàrono così assoluti, come là dove le popolazioni rimanèvano senza moderatori o testimonj della loro oppressione.

Dopo Carlomagno, le famiglie longobarde fùrono guardate con sospetto; e il predominio passò nel sacerdozio, che, oltre al potere dell'opinione, acquistò quello d'una possidenza, di cui nessuna legge limitava l'incremento. I conti e i capitani dei Carolingi, o con voci moderne, i delegati provinciali e i commissarj distrettuali, dopo l'editto di Kiersy divènnero ereditarj; e verso il novecento, l'abuso vincolava alle famiglie anche i beneficj ecclesiastici, sotto colore di patronato. In mezzo a questi due òrdini di nuovi proprietarj, le discendenze longobarde smarrìvano il nome e i possessi; e dopo il secolo XI è raro vedere nei documenti chi dichiari di vìvere con quella legge. Nelle diete che si celebràrono sotto i Carolingi, la maggioranza era dei conti e dei vèscovi, e presiedeva il vèscovo di Milano.

L'imperio romano si era sciolto per la cessazione dei tributi e l'occupazione delle terre fatta dalle milizie federate. L'imperio carolino non si stabilì veramente mai, perchè non potè instituire stàbili finanze. Cominciò con un'invasione per sè transitoria, che distrusse un regno senza fondarne un altro; ma la Chiesa adottò e perpetuò gli effetti dell'invasione, valèndosi dell'imperatore eletto e coronato, come d'un capo della sua milizia; onde fu quello veramente, come sonava il suo nome, un Imperio Sacro. I suoi luogotenenti, quando non èrano prìncipi potenti per forza propria, èbbero nelle diete e nelle città quel solo potere che i prelati consentìvano, e ch'era pur necessario per conciliare al clero l'ossequio della moltitùdine feudale.

L'irruzione degli Ungari fu la prima occasione di risurgimento. Ogni abitato si cinse di mura, ogni casato alzò una torre; l'Europa divenne una selva di fortezze. Il vèscovo Ansperto ristaurò le mura di Milano alla fine del secolo IX; pochi anni dopo, il vèscovo Ariberto devastava il territorio di Lodi. Quando i suoi cavalieri feudali gli negàrono obedienza, egli armò la plebe cittadina, e combattè a Campo Malo la prima battaglia popolare. – Corrado il Sàlico, geloso di quelle insòlite armi, lo imprigiona; ma egli fugge, gli chiude in faccia le porte della città; sostiene un primo assedio; chiama dalla vasta sua provincia tutti gli uòmini atti alle armi; e per dare a quella che fu la prima di tutte le moderne fanterie un principio d'òrdine e di stabilità, pianta un altare sopra un carro, e uno stendardo sopra l'altare. Quello stuolo di divoti, che colla picca in mano si stringe intorno al carroccio consacrato, è il primo rudimento della moderna società.

 

XX.

Un barone, ucciso un plebèo, si offerse a pagar la multa dell'omicidio, giusta il prezzo che il sangue dell'ucciso aveva nella tariffa della giustizia feudale. Ma il pòpolo fremendo si armò, e uccise tutti i signori che incontrò per via; trovò un capo in Lanzone, che lo condusse a diroccare le torri delle case feudali, fra gli orti dell'ampia città. – Ariberto, meravigliato e dolente che l'uso delle armi avesse tanto inalzati gli spìriti della plebe, le tenne fronte; i suoi capitani armàrono contro la città tutti i servi del contado; e così, senza avvedersi, preparàrono quelli pure ad armìgera e lìbera condizione. Inesperti degli assedj, nella barbàrica loro inettezza fècero un ridutto di legnami di fronte ad ogni porta della città, stàndovi a campo tre anni, e aspettando che la penuria domasse i sediziosi; ma Lanzone corse in Germania a invocare presso l'imperatore il soccorso delle leggi; onde già si palesava quella verità così perpetua nelle istorie, che gli interessi naturali del principato e dei pòpoli sono in concorde opposizione alla licenza feudale. – Irritato il pòpolo dall'ostilità non paterna d'Ariberto, passò di ragionamento in ragionamento; volle che le famiglie prelatizie, le quali nel loro seno eleggèvano il vèscovo, rendèssero conto dei beni sacri che possedèvano per eredità e simonìa; chiamò concubine le mogli dei beneficiati; li strappò dagli altari; li espulse dalla città; l'omicidio e l'incendio si spàrsero di villa in villa; Arialdo Alciato e i fratelli Cotta versàrono il sangue in nome della chiesa; Ildebrando gli ànimava da Roma al combattimento. – La contessa Matilde, la doviziosa erede dei Longobardi di Toscana, divenne ardente nemica dell'ordine feudale; le sue vaste donazioni ai Benedettini nella valle del Po divènnero asilo di schiavi fuggiaschi, che ristaurati gli avanzi degli àrgini etruschi e romani, le mutàrono in ubertose possessioni. Così dissipato il patrimonio feudale, cresciute di popolazione e di ricchezza, e redente dai patrizj le terre della chiesa, cominciò quella gran mutazione dei servi in lìberi contadini, che per otto sècoli si estese in Europa. – La prima onda di questa corrente si mosse dalla nostra patria, poco dopo il mille.

 

XXI.

In quel sècolo le città d'Italia tòrnano ad èssere stanza di pòpolo armato. L'uso delle armi ravviva il senso dell'onore, soffocato dall'oppressione bizantina e longobarda; l'onore gènera tutte le virtù; gli uòmini sèntono di poter còmpiere un pensiero; e hanno l'audacia di concepirlo; le menti aspìrano a tutto ciò ch'è bello e grande. Già Venezia colle ricchezze del suo commercio fonda San Marco; il milanese Anselmo Baggio, vèscovo di Lucca e poi pontèfice, edìfica in dieci anni quel duomo. Pisa più gloriosamente fonda il suo, colle spoglie degli Arabi che ha cacciati da Palermo. Tutto ciò avvenne una generazione prima delle Crociate, le quali non fùrono dunque la càusa del risurgimento europèo, come la turba dei ripetitori va tuttora scrivendo, ma ben piuttosto uno dei più pronti effetti, e il primo esercizio d'una forza che si espande. – Il principio vero del risurgimento fu nel legìtimo possesso della milizia popolare.

Nel 1075 Urbano II adunò sui nostri confini il concilio di Piacenza, e al cospetto di duecento vèscovi e di quattromila sacerdoti fece giurare la crociata a trentamila guerrieri. La canzone del passaggio, il grido d'ultreja, risonò per le nostre città. – L'anno seguente egli raccolse in Arvernia il concilio di Clermonte. Già in quella prima crociata (1096) si vìdero le famiglie milanesi dei Selvàtici e dei Ro, e quella dei Rocj d'antico nome ricordato nelle làpidi romane; Ottone Visconti conquistò allora in Oriente lo scudo della serpe, che divenne la gloriosa insegna dello Stato.

Nel 1106 Milano si elesse con nome antico due cònsoli, e prese forma di stato con un Consiglio maggiore e un Consiglio secreto o Credenza.

I primi cònsoli dello Stato fùrono dell'ordine dei capitani, che aveva in eredità le antiche magistrature caroline, epperò grandi fèudi e numerose contadinanze. Avvenne dunque che anco i minori gentiluòmini, o valvassori, a propria difesa rendèssero stàbile la loro adunanza feudale o Motta (Gemote, Meeting), e la trasformàssero in un magistrato di cònsoli. E parimenti i mercanti e gli altri cittadini non compresi nell'orditura feudale, èbbero un consiglio delle parochie urbane, che si chiamò Credenza di Sant'Ambrogio. Questa giurisdizione consolare, proteggendo abbastanza gli industrianti, rese inùtili le corporazioni e le maestranze; e con ciò mantenne il foco sacro della lìbera concorrenza. Si svolse così il nuovo diritto commerciale; e per l'universalità delle sue forme e la irresistìbile rapidità della sua procedura, si divise affatto e dal diritto feudale e dal canònico e dal romano, il quale non poteva districarsi dalla lentezza delle ambagi forensi. I mercanti lombardi, stabiliti oltremonte, tràssero seco i cònsoli di città in città, e propagàrono il nuovo diritto per tutta l'Europa. – Le tre credenze consolari presiedèvano a tre consigli, l'uno di quattrocento, l'altro di trecento, l'altro di cento; e l'adunanza generale si chiamò degli ottocento. Ma èrano sempre tre pòpoli con diverso principio di vita, di leggi e di governo; l'uno rappresentava la potenza territoriale, l'altro la forza militare, il terzo la mercantile; e a parte rimaneva ancora il diritto canònico con tutte le giurisdizioni ed immunità ecclesiàstiche. E non essèndovi un prìncipe, in cui potèssero far capo i tre poteri civili, si cercò al di fuori un giùdice supremo, che fosse patrizio d'un'altra repùblica; e lo si chiamò podestà, perchè appunto rappresentava la mano regia, e colla forza di tutti sanciva la commune volontà.

Cominciò un'era d'esaltazione bellicosa. In un castello del Lago Ceresio alcuni Comensi avèano ucciso due fratelli Càrcano di Milano; le vèdove e i congiunti vèngono sulla piazza del Duomo, mostrano al pòpolo le vesti sanguinose degli uccisi, implorando vendetta. Il vèscovo Giordano esce dal tempio, e pronuncia l'interdizione dei sacri riti, finchè il pòpolo non abbia lavato quel sangue nel sangue degli uccisori. La moltitùdine armata assale Como; gli abitanti, abbandonando a quel subitaneo furore la città, si rifùgiano sulla rupe del Baradello; poi, vedendo le fiamme accese dalla vendetta, si pèntono della loro debolezza; discèndono impetuosi; còlgono i nemici fra la confusione della vittoria, e li dispèrdono. Al ritorno, gli umiliati guerrieri giùrano sull'altare di non deporre le armi, se prima Como non è distrutta. Como arma tutti i suoi montanari, dai confini del Vallese a quei del Tirolo; i Milanesi tràggono seco una lega di dòdici città; navi armate combàttono sui laghi; artèfici genovesi fanno castelli da guerra, e altre màchine della romana milizia, obliate nell'abbrutimento dell'era gòtica. I Comensi, ridutti all'estremo, sàlvano su le navi le mogli e i figli, si chiùdono nel castello di Vico; e infine, dopo dieci anni di guerra, cèdono vinti, e inàlzano intorno all'atterrata patria le capanne dell'esilio. – Si direbbe che queste città inferocite còrrano alla loro distruzione; eppure, fra quelle battaglie il pòpolo cresce; fra quelle depredazioni si svolge un'insòlita prosperità; e dai sècoli precedenti a quel sècolo v'è un trapasso come dalla putrèdine del sepolcro al fermento della vita.

 

XXII.

Quando Federico I, fatto re di Germania nel 1152, ebbe adunata la Dieta in Costanza, due cittadini lodigiani si fècero nel mezzo con una croce di legno su le spalle, e gettàndosi a' suoi piedi, invocarono giustizia contro Milano, la quale, dopo avere omài da quarantadùe anni distrutta la loro città, opprimeva i cittadini dispersi nella campagna. Federico desideroso di ridurre a obedienza Milano, quando venne a convocare la Dieta Itàlica, sul piano di Roncalia alla foce della Nura nel Po, fece umilianti comandi ai cònsoli milanesi Oberto Dell'Orto e Gerardo Negro, i due famosi autori dei libri del diritto feudale. Con quelle altiere intimazioni e colle più altiere risposte si accese una guerra di trent'anni. – Tortona fu presa per sete; i pàllidi e consunti guerrieri vènnero accolti in Milano, che mandò le milizie di quattro porte a rialzare a sue spese la smantellata città. Nel mezzo dell'òpera gli alleati imperiali assaltàrono i lavoratori; alcuni capitani si rifugìrono dal combattimento in una chiesa. I cònsoli milanesi impòsero loro una nobil pena, affiggendo i loro nomi disonorati alle porte del duomo. – La piccola Crema arrestò tutta la potenza dei feudatarj Germani e Itàlicì per sei mesi; e cadde con tutti gli onori dei prodi sventurati. – Sotto il castello di Càrcano, nel Piano d'Erba, Federico rovesciò e prese lo stendardo sacro dei Milanesi; ma prima di sera era fugitivo in Como, le sue tende èrano prese; i suoi alleati, prigionieri. – Intanto un incendio distrusse i vìveri, accumulati in Milano per resìstere all'assedio; Federico con centomila combattenti girò vastamente tutta la campagna, troncando gli àrbori, ardendo le case, mutilando chiunque apportasse vìveri alla città, ch'era divorata dalla più aspra fame. Alla fine i cittadini domati uscìrono dalle mura; s'avviàrono al campo di Federico, che, ritràttosi a venti miglia di distanza, aveva lasciato fra l'esèrcito e la città il vuoto spazio della desolata campagna. Prima trecento cavalieri depòngono al suo piede le spade e le insegne; poi viene lo stuolo dei personaggi consolari; poi il carro del sacro stendardo; poi tutti i combattenti, emunti dal lungo digiuno, colla croce su le spalle. Al suono delle trombe municipali, il vinto stendardo cade, lo sventurato pòpolo si atterra; i capitani vincitori rèstano attòniti e commossi al pianto. Il solo Federico non si muta; comanda che i vinti colle loro mani abbàttano ampiamente le mura, perchè vuole entrarvi con tutto l'esèrcito in òrdine di battaglia. Avventa le soldatesche contro la vuota città; e salve solo le chiese di Dio, fa di tuttociò che appartiene agli uòmini un cùmulo di ruine. I cittadini si spàrgono pei campi in tugurj di paglia.

Dopo che per cinque anni èbbero sofferto i più gravi disagi, apparve un giorno fra i loro pòveri tugurj un frate del convento di Pontida, seguito da squadre d'armati delle vicine città. Veniva a ricondurli entro le mura e a rialzarle. – Tre anni dopo, la potenza e la perseveranza di Federico èrano finalmente domate sul campo di Legnano; era seminata di cadàveri tutta la landa tra l'Olona e il Ticino; ed ei lasciando in mezzo alla strage le sue armi e il suo cavallo, andava fuggitivo a celarsi, come la tradizione narra, in una caverna. – Alla vittoria successe più tardi la famosa pace di Costanza (an. 1183), che compose le ragioni dell'imperio colle necessità della guerra, in un modo che rammenta l'antico stato dei municipj romani, accresciuto solo da un troppo largo arbitrio di pace e di guerra. Nell'anno seguente Federico venne òspite a Milano; allora si vide risplèndere la cavalleresca cortesìa dei tempi, e nel pòpolo che lo accolse festoso, e nel prìncipe che consentì a rialzare le mura di Crema, che aveva smantellate. Così dal seno della distruzione surgèvano più forti e più belle, Milano, Crema, Como, Asti e Tortona; il circùito di Milano era dilatato sino alla fossa che ora è navigàbile; Lodi fioriva nella nuova sua sede sull'Adda; e la colonia municipale d'Alessandria segnava sul Tànaro il lìmite della feudalità subalpina, ferma ancora nelle terre del Monferrato e del Piemonte. Sulla nostra pianura era già tracciato il Naviglio del Ticino, ancora studiato oggidì fra le meraviglie dell'arte moderna; pochi anni dopo, il gran canale della Muzza faceva della pianura lodigiana un modello d'agricultura, mentre al principio della guerra, tutto lo spazio fra Milano Lodi e Pavìa era una così erma solitùdine, che quando vi fu condutto Federico coll'esèrcito, credè d'esser vìttima d'un tradimento.

 

XXIII.

Negli anni seguenti, le famiglie tribunizie dei Marcellini e dei Cotta continuàrono ad estirpare la feudalità; abolìrono le tariffe che sembràvano vèndere la licenza dell'omicidio; persuàsero ai valvassori di rinunciare i loro squàllidi fèudi ai capitani, per farsi lìberi uòmini del commune; invàsero i fèudi del Monferrato e della Savoja; e nel mezzo di quelli, costruìrono la rocca di Cuneo, asilo ai fuggitivi. Federico II riaccese la guerra contro le città lombarde; trasse in Lombardia le tribù àrabe della Sicilia e dell'Apulia. I nostri intrèpidi padri le affrontàrono a Camporgnano; allagarono di notte il campo nemico; lo avviluppàrono fra un labirinto di fossi. – In quegli anni si vìdero generosi fatti. Il pòpolo milanese, dolente dei soprusi feudali non peranco estinti, ricusava di prèndere le armi contro i Pavesi, che devastàvano i poderi dei capitani. I giòvani cavalieri escìrono senza il pòpolo e respìnsero i predatori; ma nell'ebbrezza della vittoria non serbando gli òrdini della prudenza militare, fùrono raggiunti dai nemici nel ritorno, e messi alle strette. A quell'annunzio il pòpolo, immèmore d'ogni altra cosa, corse alle armi, e giunse in tempo a salvarli (an. 1242). – Panera Bruzzano, il più alto e più forte dei nostri campioni, sfidato sul campo a singolar tenzone dal re Enzo, figlio di Federico, lo vinse e lo fece prigione. Ma i Milanesi, senza far vendetta dei prigionieri slealmente uccisi, lo lasciàrono lìbero, a patto che non portasse le armi contro la loro città. – Voleva il pòpolo abolita la legge che stabiliva a sette lire e dòdici soldi il valore della vita d'un plebèo ucciso da un feudatario. Uno dei signori da Landriano aveva ucciso a tradimento il suo creditore Guglielmo Salvo. Il cadàvere sanguinoso, scoperto sotto un mucchio di paglia, portato a Milano, ed esposto sulle piazze, accese di furore il pòpolo, che cacciò tutti i capitani; quindi andò di terra in terra ad espugnare le castella rurali. Si fècero molte paci; quella che fu detta di S. Ambrogio riconobbe nelle famiglie dei cavalieri e dei cittadini egual diritto a tutti gli onori consolari. Ma la legge bàrbara delle campagne, e la legge romana delle città non potèvano stare in pace sullo stesso terreno; la guerra era nella natura delle cose. Il pòpolo cacciò di nuovo i capitani; rifugiati in Como, li perseguitò e li espulse; ma nell'incàuto ritorno venne circondato fra le paludi di Prato Pagano, e ridutto a dure condizioni. Vinse di nuovo, e cacciò i capitani, che invocàrono il braccio del terribile Ezzelino. Questi passa l'Ollio, l'Adda, giunge fino a Vimercato; ma le milizie di tutte le città lo accèrchiano; ripassa l'Adda, è raggiunto, un giòvine bresciano lo ferisce e lo atterra; condutto prigione nel castello di Soncino, si squarcia le ferite e muore. Con lui cade la feudalità nella Venezia, per frutto di battaglie combattute sul nostro terreno.

 

XXIV.

Correva la metà incirca del sècolo XIII. Spuntava l'era moderna; èrano i tempi in cui nacque Dante; omai la nazione italiana era adulta e cominciava un nuovo òrdine di cose. Il pòpolo colle armi alla mano aveva tratto dalla feudale ineguaglianza un viver civile; ma la guerra, fra il risurgimento di tutte le industrie, tornava a farsi arte; e i cittadini non potèvano nello stesso tempo attèndere ai mestieri della pace, e pareggiare i giòvani delle famiglie militari nel maneggio delle armi e dei cavalli. I magistrati avrèbbero potuto agguerrire a spesa commune il fiore della gioventù cittadina; pensàrono invece con fatale consiglio d'assoldare cavalieri d'altro paese, non imbevuti d'odj cìvili. Il primo capitano del pòpolo fu Oberto Pallavicino, condutto per cinque anni. Col carroccio d'Ariberto era cominciata un'era d'esaltazione morale; collo stipendio d'Oberto Pallavicino ricominciò un'era di morale debolezza. D'allora in poi si vide un pòpolo di pazienti e ingegnosi lavoratori in lana, in seta, in armi di famosa tempra, in metalli preziosi, esinanirsi nella fatica, in pòvere case, sotto crescenti gabelle, colle quali i suoi capitani, ora guelfi ora ghibellini, pascèvano squadre di mercenarj d'ogni parte d'Italia e sopratutto Romani e Romagnoli, ma più spesso stranieri, Catalani, Tedeschi, Guasconi, Bretoni, Inglesi, stradiotti d'Albanìa. In ogni città v'era una o più fortezze; nel cui secreto le famiglie dominatrici conducèvano una vita impopolare, spesso nelle crudeltà e nelle dissolutezze, nutrendo migliaja di cani e di falconi e sollazzàndosi con nani e menestrelli. Questa vita di sospetti senza pensiero e di splendore senza dignità, durava finchè un vicino più vìgile o più pèrfido, o infine un invasore straniero, collo sproporzionato peso delle forze d'un regno, li snidasse da quelle tristi delizie, e li precipitasse nell'antica oscurità. "Tal fortezza fu a danno e non a sicurtà de' suoi eredi, perchè giudicando mediante quella viver sicuri, e poter offèndere i cittadini e sùdditi loro, non perdonàrono ad alcuna generazione di violenza, talchè perdèrono quello stato come prima il nemico gli assaltò..." (Macchiavelli).

 

XXV.

A domar l'ànimo bellicoso delle nostre plebi contribuì un'istituzione che cangiava le arti in esercizio di penitenza. Prima ancora d'Ariberto (an. 1014), alcuni cavalieri milanesi andati in Germania prigionieri d'Enrico I, e nel tedio dell'esilio dàtisi a vita laboriosa, fècero voto di perseverarvi anche rèduci in patria. Il pòpolo li rivide con meraviglia nelle vie della città con ampie vesti pelose e berretti di straniera forma; si chiamàvano gli umiliati; e attèsero all'arte della lana. In breve èbbero trenta case d'uòmini e trenta di donne; si trapiantàrono in tutte le città d'Italia; Firenze deve loro quell'arte, che tanto conferì alla sua potenza. Fondàrono ricòveri nei passi delle Alpi; e d'ospizio in ospizio, difendèndosi col nome della religione dai rapaci castellani che intercettàvano le strade, contribuìrono a collegare l'industria di Milano colle piazze del settentrione e del mezzodì.

Ma le austere opinioni insinuate per tempo nel nostro pòpolo fermentàrono in sette religiose, che annunciàvano la riforma della chiesa, del sacerdozio, della magistratura, delle pompe cavalleresche. Il più formidàbile tra i riformatori fu Arnaldo da Brescia, discèpolo prima in Parigi d'Abailardo, poi suo difensore. La contrita e rìgida sua vita faceva meraviglia anche ai santi (Homo est neque manducans neque bibens... habens formam pietatis... Cujus conversatio mel... cui caput columbæ. S. Bern.). – Quando il vèscovo di Brescia diede a un garzone di dòdici anni una ricca parochia, Arnaldo rinovò le querele che Arialdo Alciato aveva levate in Milano; inveì contro le famiglie, che vendèvano, infeudàvano, donàvano come cosa propria i beni della chiesa: contro il pastore, che dava in fèudo a cavalieri le regalìe della sacra mensa, per fàrseli vassalli, e adoperarli in imprese profane e crudeli: contro i beneficiati, che vivèvano con lusso mondano, e si tenèvano con tìtolo di spose le figlie dei potenti. Voleva che i beni della chiesa fòssero governati da un consesso di popolani, i quali, distribuito ai sacerdoti un ùmile alimento, e compiuti i sacri riti, largìssero il resto ai poverelli di Dio. Ma i violenti consigli accèsero la guerra civile; Arnaldo fu costretto a fuggire sotto il peso di capitale accusa; sparse in Zurigo le sue dottrine; errò per la Francia; e perì miseramente in Roma, consegnato da Federico I a' suoi nemici. Nell'intervallo tra i due Federici, il nostro pòpolo si ordinava in sette di vario nome. L'inquisizione romana le represse col ferro e col foco; ma i cavalieri ghibellini, nemici della chiesa, le ricettàrono nelle loro castella, le protèssero armata mano, e cogli omicidj vendicàrono i supplicj. L'inquisitore Pietro da Verona venne trucidato nelle selve del Sèveso, un altro sul ponte di Brera, un altro nella Valtellina.

Finchè il potere ondeggiò tra i cittadini guelfi capitanati dai Torriani e i feudatarj ghibellini capitanati dai Visconti, la lutta delle opinioni durò dubiosa. Ma dopochè la fortuna dei Visconti prevalse, essi mìsero ogni loro fiducia nelle armi stipendiate e nelle fortezze, deprimendo con mano di ferro tutte le parti, minacciando di morte chi solo di guelfì e ghibellini proferisse il nome. Quindi, con industria poderosa e con vasto commercio di derrate e di banco, le città lombarde non conòbbero quella lìbera cultura letteraria, che il governo popolare per tre sècoli fomentò in Firenze; sicchè parve che per fatto di natura l'ingegno fosse più potente in Toscana che fra noi.

 

XXVI.

Verso i principj del dominio dei Visconti (an. 1311), troviamo fatta la più antica menzione dell'uso delle bombarde, ossia delle artiglierìe, colle quali i Bresciani si difèsero contro l'imperatore Enrico di Lussemburgo. Nel 1331 se ne fece uso all'assedio di Forlì; nel 1334 in quello di Bologna, la più antica memoria presso i Francesi è del 1340; presso gli Inglesi, del 1343, alla battaglia di Crécy; presso gli Anseàtici, del 1360. Circa 65 anni dopo l'assedio di Brescia, l'artiglierìa prende a nuova perfezione dalla mano di Bertoldo Schwartz, che ne fu poi detto inventore.

Dei Visconti i più fùrono d'ànimo grande; alcuni pochi fùrono d'abjetta e quasi delira crudeltà. Ottone e Mattèo, fondatori di quella potenza, fùrono perseveranti e destri nelle avversità delle guerre e degli esili. Marco, prode cavaliero, vinse gli Angioini sotto Gènova, il catalano Cardona sul Po, Enrico di Fiandra sull'Adda. Azzone, signore di dieci città, e in aspetto omài di regnante, favorì le arti, chiamò Giotto a dipìngere il suo palazzo, fece il ponte di Lecco, forse il maggiore che allora fosse, coperse le cloache, inalzò la torre delle Ore. – Quando un poderoso esèrcito di mercenari, congedato dal Signor di Verona, si prese a condottiero il ribelle Lodrisio Visconti, e venne devastando orribilmente il paese fino a Parabiago sull'Olona; colà, quasi su le medèsime campagne ov'era caduta la potenza di Federico imperatore, si combattè sulle nevi una delle più sanguinose battaglie del medio evo. Gli stranieri avèvano già ucciso uno dei generali milanesi, e preso l'altro, ch'era Luchino Visconti, quando la cittadinanza, agitata dal perìcolo di cader preda a gente senza legge e senza pietà, sopragiunse in soccorso; strappò Luchino di mano ai vincitori; fece prigione il vincitore Lodrisio, al quale il clemente Azzone concesse la vita. Le menti infervorate nella mischia vìdero il patrono del pòpolo S. Ambrogio, il cui stendardo si portava nelle battaglie, scèndere dal cielo, dispèrdere i bàrbari a colpi di sferza; e da quel giorno su le monete e le insegne popolari il mansueto pastore si dipinse sempre in atto d'impugnare quello strumento della vittoria.

I fratelli Luchino e Giovanni fùrono gentili òspiti al Petrarca. Fùrono signori in Gènova; e la loro insegna sventolò sulle navi che in Morèa trionfàrono di Nicolò Pisani. – Bernabò era l'ideale del ghibellino; non temeva nè gli uòmini nè Dio. Quando i legati pontificj gli si fècero incontro sul ponte del Lambro per intimargli una bolla nimichèvole, egli impose loro di mangiar la bolla e i sigilli; ed era uomo sì terrìbile che il suo comando fu obedito. Si compiaceva di taglieggiare i poderi degli ecciesiàstici; e forse fu il primo che pareggiasse i càrichi di tutti i beni, come ben tardi fece la rimanente Europa. Mentre a Trezzo sull'Adda faceva gettare un meraviglioso ponte d'un arco solo, suo fratello Galeazzo, ornando d'aque il parco di Pavìa, dava l'esempio d'un gran giardino a paese; fondava l'università di Pavìa; mandava ambasciatore il Petrarca in Germania e in Francia; e lo induceva ad abitar lungamente. ora in romita parte della città, ora fra i solitarj prati di Linterno.

Galeazzo assediava Pavìa. L'austero agostiniano Jàcopo de' Bussolati esortò i cittadini a non lasciarsi cadere in dominio d'un prìncipe. Quando li ebbe accesi delle sue calde parole, aperte le porte da terra e dal fiume, li guidò ad assalir le bastite nemiche, e le navi sul Ticino e sul Po. Vincitore, rivolse la voce contro i Beccarìa, troppo più potenti che non la legge in quella città; i cittadini gli si strìnsero intorno armati; egli elesse venti tribuni; e quando ogni tribuno gli ebbe condutto cento armati, intimò l'esilio ai Beccarìa, distrusse le loro case. – In un nuovo assedio, colle gioje offerte in sacrificio da tutte le donne, comprò i soccorsi dal Monferrato, liberò la città. – Ma in un terzo assedio, involto fra la pestilenza e il tradimento, infine si arrese; assicurò il destino altrùi, solo per sè nulla stipulando; ma Galeazzo perdonò i suoi errori alla purità de' suoi costumi, e generosamente gli impose di ritirarsi in un convento.

 

XXVII.

Il più grande dei Visconti fu quel Gian Galeazzo, che primo si chiamò Duca, ed ebbe l'ànimo di porre le fondamenta del nuovo Duomo, la più miràbile delle costruzioni cristiane; nè pago di ciò, vi aggiunse quell'altra meraviglia della Certosa di Pavìa. – Il venturiero Giovanni d'Armagnac comparve a quei tempi sotto Alessandria con diecimila cavalli e molte fanterìe, e insultò Jàcopo dal Verme chiuso nella fortezza. Ma il valoroso capitano lo avviluppò, lo disfece, e in pochi giorni prese l'esèrcito e il condottiero, che ferito, e accorato di tanta ignominia, morì. Galeazzo pervenne a dominare trentadùe città, fra cui Gènova, Pisa, Siena, Perugia, Assisi, Nocera, Spoleto, Bologna, Parma e Piacenza, la Terraferma Vèneta fino a Feltre e Cividale, tutte le pianure del Piemonte; era quasi il regno dei Longobardi, ma pieno di ricchezze e di vita. Infine egli intraprese a stringere del tutto la repùblica fiorentina, occupando con dòdici mila cavalli e diciottomila fanti tutti i passi dell'Apennino e dell'Arno. Voleva dopo la vittoria comparire ei medèsimo in Firenze, inco