CARTESIO E L’ESISTENZA DI DIO
Realizzato da Antonio Triestino Taddeo
Consideriamo, innanzitutto, la prima delle prove dell’esistenza di Dio di Cartesio. Egli dice: "Col nome di Dio intendo una sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, dalla quale sia io stesso, sia ogni altra cosa esistente — se pure c'è qualcos'altro — siamo stati creati.Sebbene certo vi sia in me l'idea di una sostanza per il fatto stesso che sono una sostanza, tuttavia non potrebbe esserci l'idea di una sostanza infinita, dal momento che sono finito, se non derivasse da qualche sostanza realmente infinita". Però, soffermiamoci un attimo sull’ "infinito" di Leopardi:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Dopo essersi soffermato sul limite costituito dalla siepe, "che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude",il poeta immagina "interminati spazi" e "sovrumani silenzi" al di là di essa, ed è così che incomincia a naufragare nel dolce mare dell’eternità.Egli perviene all’idea d’infinito, proprio partendo dall’idea di finito rappresentata dalla siepe. Cartesio, invece, afferma: "Né debbo ritenere di concepire l'infinito non per mezzo della sua vera idea, ma soltanto dalla negazione del finito, come percepisco la quiete e le tenebre attraverso la negazione del moto e della luce; al contrario, comprendo chiaramente che vi è più realtà nella sostanza infinita che in quella finita, e quindi in un certo senso la comprensione dell'infinito in me viene prima del finito, cioè quella di Dio prima di quella di me stesso. In quale modo infatti potrei comprendere di dubitare, di desiderare, cioè avvertire che mi manca qualcosa, e capire che io non sono del tutto perfetto, se non ci fosse in me l'idea di un ente più perfetto, dal cui confronto potrei avvertire i miei difetti?"Quando lo sguardo dell’uomo urta amaramente contro la siepe dei suoi limiti, egli incomincia ad immaginare che cosa si possa celare dietro di essa, ed è in quel momento che gli "sovvien l’eterno".Si può ipotizzare che lo stesso filosofo non sia rimasto pienamente soddisfatto dopo questa prima prova,infatti, afferma:"Sicuramente non vi è qualcosa in tutte queste cose che,per chi le esamini diligentemente, non sia manifesto per lume naturale;ma poiché, quando sono meno attento, e le immagini delle cose sensibili rendono cieco l’acume della mente,non mi ricordo così facilmente perché l’idea di un ente più perfetto di me necessariamente proceda da qualche ente che sia realmente più perfetto e mi piace ricercare più in profondità se io stesso che ho quell’idea potrei esistere, anche se non esistesse in alcun modo tale ente". Innanzitutto, dice che, se si fosse creato da solo, certamente si sarebbe dato tutte le perfezioni presenti nell’idea di Dio, perché creare dal nulla una sostanza pensante è certamente più difficile che farle avere tutte le qualità che la separano dalla perfezione, le quali sarebbero solo degli accidenti della sostanza. Inoltre, se risultasse più difficile darle tutte le perfezioni di Dio, sicuramente sarebbe cosciente di ciò, giacchè costituirebbe il limite alla sua potenza.In ogni caso, anche se Cartesio avesse ragione, avrebbe comunque solo dimostrato che egli non è autore di se stesso. Poi, dato che per il momento sa solo che esiste e che è dotato di alcune facoltà come, ad esempio, il pensiero,chi gli dice che il suo essere non sia solo una goccia di luce filtrata da un pezzo di vetro ed il suo io cosciente non sia solo uno dei raggi in cui essa è divisa, solo una delle sue sfaccettature?Non contento, dopo aver addotto già due delle sue prove, afferma:"E non sfuggo la forza di questi ragionamenti, se suppongo di essere sempre stato come sono ora, come se da questo ne conseguisse che non si deve ricercare nessun autore della mia esistenza".
Supponiamo per un momento che il tempo non sia una grandezza soggettiva, ma sia una grandezza oggettiva,una sorta di orologio che si trova fuori dell’uomo ed immaginiamo che io(ho ormai dimostrato la mia esistenza)sia sempre esistito.Se le cose stessero veramente così,non dovrebbe esserci necessariamente un autore della mia esistenza.
Immagina che da piccolo andassi a giocare di frequente con i tuoi amici su un ampio prato verde e che, dopo qualche anno, ritornando in quello stesso posto, ti accorga della presenza di uno splendido albero fiorito, uno di quelli che madre natura ci regala in primavera. Naturalmente,dato che prima non c’era, tu ti chiederai chi abbia causato quella meraviglia. Però, se quell’albero si fosse trovato da sempre su quel prato, certamente non ti saresti stupito della sua presenza.E’ proprio questo che Cartesio ha voluto dire.Subito dopo, egli risponde:"Ogni tempo della vita può essere diviso in parti innumerevoli, delle quali ciascuna non dipende in nessun modo dalle altre. Quindi dal fatto che poco fa io sia esistito non ne consegue che debba esistere ora".In precedenza, avevamo ipotizzato che il tempo fosse una grandezza oggettiva, però ciò non risulta corrispondente alla realtà dei fatti.Supponiamo di disporre di un’infinità di anelli senza peso, né estensione;se li unissimo e formassimo una catena, otterremmo ciò che viene chiamato tempo. Immanuel Kant, nella sua "Critica alla ragion pura", affermerà che "la simultaneità o la successione non si presenterebbe neppure alla percezione, se come fondamento non si trovasse a priori la rappresentazione del tempo".Pertanto, l’esistenza del tempo non è indipendente dall’esistenza dell’uomo,perché è proprio quest’ultimo che, filtrando l’universo per mezzo dell’idea di tempo,fa di tanti istanti,posti come anelli disordinati sul tavolo della natura,una catena a cui vorrebbe dare il nome di realtà.Da ciò si deduce che,pur ammettendo l’esistenza di un mondo al di fuori dell’io pensante,i suoi istanti dovrebbero essere slegati l’uno dall’altro, e cioè dovrebbero essere come i flesh di quei sogni che facciamo nelle prime ore della notte e di cui ovviamente non ricordiamo nulla la mattina successiva. Quindi, l’esistenza del nostro albero in un dato istante non ne implica l’esistenza nell’istante immediatamente successivo,anche se non interviene nessuna causa distruttrice. C’è chi paragona l’universo al nostro albero e dice: "se prima non c’era ed ora c’è, chi l’ ha creato?" Giunti a questo punto, è facile opporsi a questa posizione,poichè,come si è visto in precedenza, quando ci si riferisce all’universo come ipotetica entità che esiste fuori di noi, bisogna spogliarla della grandezza tempo.La domanda che si pone Cartesio,però, è diversa.Egli si chiede:"In che modo io riesco ad esistere in quest’istante? Che cos’è che permette la mia esistenza?"Allora, afferma:"Per chi sta attento alla natura del tempo, è chiarissimo che c'è bisogno assolutamente della stessa forza e azione per conservare qualsiasi sostanza per i singoli momenti nei quali dura, che sarebbe necessaria per crearla di nuovo, se non esistesse ancora; in maniera tale che il fatto che la conservazione differisca dalla creazione solo in base al nostro modo di pensare, è anche una delle cose che sono manifeste secondo il lume naturale".
Consideriamo una certa entità che in un istante A crea una sostanza. Innanzitutto, diciamo che essa crea la sostanza perché nell’istante C immediatamente precedente ad A questa non esisteva.Sempre dall’idea di creazione, si deduce che l’entità creatrice fa in modo che nell’istante A la sostanza esista. Inoltre, se ci trovassimo di fronte ad un qualcosa che fa in modo che in un certo istante una sostanza esista e, nell’istante immediatamente precedente, la sostanza non esisteva, certamente daremmo a questo qualcosa il nome di entità creatrice. Quindi, in base all’idea di creazione che abbiamo nella nostra mente,definiamo una certa sostanza entità creatrice se e solo se fa in modo che in un certo istante una sostanza esista e questa nell’istante immediatamente precedente non esisteva. Ora, immaginiamo che la nostra entità creatrice, nell’istante B immediatamente successivo ad A, faccia in modo di conservare la sostanza. In base all’idea di conservazione, definiamo una certa sostanza entità conservatrice se e solo se in un certo istante fa in modo che un’altra sostanza esista e, nell’istante immediatamente precedente, questa esisteva. Pertanto, se slegassimo gli istanti A, B e C e facessimo cadere il velo del tempo che avvolge la nostra mente, non vedremmo più nessuna differenza tra l’idea di conservazione e l’idea di creazione, tra l’idea di entità conservatrice e quella di entità creatrice.
Cartesio sostiene che l’autore della sua esistenza deve essere o lui stesso, o un’entità diversa da lui. E’ qui che sta il difetto del suo ragionamento. Abbandoniamoci per un momento al meraviglioso sogno che ci regalano i nostri occhi e soffermiamoci su un fiore che, quasi per magia, quando gli uccelli incominciano ad intonare i loro canti d’amore, sgorga dalla terra.Chi è stato a dare vita a quel fiore?
Galileo ci risponderebbe che esso si deve all’ordine necessario della natura, a cui ogni atomo di questo splendido sogno tende. Cartesio non si sarebbe dovuto chiedere chi gli permetta di restare in vita, ma "come" faccia a restare in vita. In base a che cosa esclude che alla base della sua esistenza ci possa essere un ordine necessario simile a quello che si esplica in ciò che i suoi sensi gli proiettano nella mente?
Nel seguito dell’argomentazione, afferma: "E non si può immaginare che per caso delle cause parziali abbiano concorso a produrmi, e dall'una abbia preso l'idea di una delle perfezioni che attribuisco a Dio, da un'altra l'idea di un'altra, cosicché certo tutte quelle perfezioni si trovino in qualche altro luogo dell'universo, ma non tutte congiunte insieme in un solo essere, che sia Dio. Infatti al contrario l'unità, la semplicità, o piuttosto la inseparabilità di tutte quelle cose che sono in Dio, è una delle massime perfezioni che considero essere in lui".Però, solo per il fatto che nell’idea di Dio egli ci appare come l’essere che racchiude in sé ogni perfezione, non si possono proiettare tali perfezioni al di fuori della nostra testa e saldarle in un unico ente realmente esistente,perché sarebbe come dire che,in realtà, Babbo Natale ha davvero la barba bianca. Quando nel linguaggio corrente diciamo ciò, non ci riferiamo ad un essere realmente esistente, ma solo alla sua idea: se non sappiamo nemmeno se esiste o meno, non vedo proprio come potremmo dire che ha la barba bianca.Allo stesso modo si può smontare la terza prova:Cartesio sostiene che Dio, avendo in sé ogni perfezione, non può non esistere, perché questo sarebbe motivo d’imperfezione.
Innanzitutto, non si può dire che la non esistenza è motivo d’imperfezione, perché non vedo proprio come si può attribuire ad un non essere l’aggettivo di perfetto o imperfetto. Inoltre, quando il filosofo enumera le perfezioni di Dio, si riferisce semplicemente all’idea di Dio che è presente nella sua testa, ma niente ci consente di dire che l’essere Dio ha in sé ogni perfezione, in quanto in questo modo partiremmo dal presupposto che egli esiste. Quindi, mentre è vero che in ogni triangolo la somma degli angoli interni è uguale ad un angolo piatto(nell’argomentare ciò, non spostiamo la nostra attenzione su un ente che esiste al di fuori della nostra testa, ma restiamo ancorati all’idea di triangolo), non possiamo affermare con certezza che Dio esista veramente.Dopo aver fatto notare che la differenza tra conservazione e creazione dipende solo dal nostro modo di pensare, continua il suo dialogo interiore verso la verità dicendo: "Ora devo interrogare me stesso, se io abbia una qualche forza per la quale possa fare in modo che tra poco possa essere quello che sono già ora; infatti dal momento che non sono altro che una cosa che pensa, o almeno poiché ora tratto soltanto di quella parte di me che è una cosa che pensa, se una qualche forza di tal genere fosse in me, sarei conscio di ciò al di fuori di ogni dubbio. Ma sono sicuro che non ve ne è nessuna, e da questo comprendo nella maniera più evidente che debbo dipendere da qualche ente diverso da me. Ma forse quell'ente non è Dio, e sono stato fatto o dai miei genitori, o da qualsiasi altra causa meno perfetta di Dio. Eppure, come ho già detto, è chiarissimo che almeno tanta realtà vi deve essere nella causa quanta c'è nell'effetto; e quindi dal momento che sono una cosa che pensa, e che ho in me una qualche idea di Dio, qualunque causa infine venga attribuita alla mia natura, debbo ammettere che anche essa sia una cosa pensante, e che abbia l'idea di tutte le perfezioni che attribuisco a Dio. Di nuovo quindi si può investigare riguardo ad essa, se sia causata da se stessa o da un'altra causa. Se è causata da sé, è evidente da ciò che abbiamo detto che essa stessa è Dio, poiché certo, dal momento che ha la capacità di esistere di per se stessa, al di fuori di ogni dubbio ha anche la forza di possedere in atto tutte le perfezioni di cui ha in sé l'idea, cioè tutte quelle che concepisco essere in Dio. Qualora poi derivi da un'altra, di nuovo allo stesso modo si investigherà su quest'altra, qualora derivi da sé, o da un'altra causa, finché alla fine si giunga alla causa ultima, che sarà Dio. Infatti è abbastanza evidente che qui non si può verificare nessun progresso all'infinito, soprattutto per il fatto che non tratto qui soltanto della causa che un tempo mi ha prodotto, ma soprattutto anche di quella che nel tempo presente mi conserva".
Si può notare che in questo ragionamento è fondamentale l’affermazione "almeno tanta realtà ci deve essere nella causa quanta c’è nell’effetto".In precedenza, aveva detto: "Secondo il lume naturale è chiaro che nella causa efficiente e totale ci deve essere almeno tanto quanto si riscontra nel suo effetto. Infatti,l'effetto da dove mai potrebbe prendere la sua realtà, se non dalla causa? E la causa come potrebbe dargli questa realtà, se non l'avesse in sé? Da ciò dunque consegue che nulla può essere generato dal nulla, e neppure che ciò che è più perfetto, cioè che ha più realtà in sé, può derivare da ciò che è meno perfetto." Innanzitutto, in matematica(la disciplina da cui trae ispirazione per il suo metodo), l’evidenza non si coglie nelle parole dei singoli enunciati, come in questo caso, ma bensì nelle note che ci accarezzano l’anima quando la nostra mente è rapita dalla loro necessaria consequenzialità logica. Inoltre,come si può facilmente notare, in molti punti della sua argomentazione il filosofo si rifà al criterio dell’evidenza. Nel "Discorso sul Metodo", l’evidenza c’è descritta come uno dei pilastri fondamentali per la ricerca della verità:"sia che siam desti e sia che dormiamo, noi non dobbiamo mai lasciarci persuadere da altro che dall’evidenza della nostra ragione". Cartesio,però,specifica che ciò è valido soltanto per le evidenze della ragione, non della nostra immaginazione o dei nostri sensi, perché, ad esempio, "il Sole lo vediamo chiaramente, ma non per questo dobbiamo giudicare che esso sia grande come lo vediamo". La "perfezione della veracità" si può attribuire solo alle evidenze della ragione, le uniche che provengono direttamente dalla perfezione di Dio. E’ proprio dovuta a ciò la più gran critica mossa al Dio cartesiano. Già il teologo Arnauld, suo contemporaneo, gli fa notare di essere caduto in un errore che chiamo "circolo vizioso": Cartesio prima basa l’esistenza di Dio sull’evidenza della ragione e poi giustifica la validità di questo criterio proprio grazie alla perfezione di Dio. A mio parere,però, l’indizio più chiaro dell’instabilità dell’edificio delle argomentazioni cartesiane è rappresentato dal gran numero di ragionamenti apportati per dimostrare l’esistenza di Dio, in quanto ciò potrebbe essere il segno del fatto che nessuno di essi abbia mai convinto fino in fondo il filosofo. Emblematico risulta il passo:"Se noi non sapessimo che tutto quanto è in noi di reale e vero ci proviene da un essere perfetto e infinito, per chiare e distinte che fossero le nostre idee, non avremmo nessuna ragione sufficiente ad assicurarci che esse hanno la perfezione d’esser vere".Infatti, chi ci dice che tutto è scritto con caratteri che inneggiano all’ordine necessario che pulsa dentro di noi? Allora, un’ipotesi mi solletica la mente: per Cartesio Dio potrebbe rappresentare solo l’esigenza di un "centro di gravità permanente" a cui ancorare la ragione, quell’urlo disperato di chi si trova a nuotare in un mare di interrogativi e non conosce altro modo per restare a galla. Il fatto che essa sia veramente capace di penetrare la realtà è solo una possibilità, come gli amori bagnati dalle lacrime degli adolescenti, o come i tanti sogni che, catapultando la nostra anima nell’atmosfera incantata dell’isola di "Utopia", riescono ancora a cospargerci di un anelito di vita. Come potremmo non legarci a quella possibilità? Se smettessimo di crederci, non avremmo più nemmeno il fiato necessario a dare voce a quell’urlo.