L’autore del testo De la félicité publique,1“non opera di filosofia, né di morale, né di storia, né di economia, ma un po’ di tutte queste discipline messe insieme, in un abile mèlange nel quale i lettori potevano trovare riunite le idee fondamentali sparse in volumi specializzati e più elaborati”,2 è François-Jean de Chastellux, ufficiale dell’esercito francese e “filosofo dilettante”. Noto per gran parte della sua vita con il nome di chevalier de Chastellux, nasce a Parigi nel 1734. Quando ha già iniziato la carriera militare, si appassiona alle lettere e alla filosofia, avendo letto, per caso, un volume dell’Encyclopédie: da questo momento sviluppa la sua cultura da autodidatta. Si inserisce nella società francese del suo tempo, stringendo amicizie con personaggi quali Turgot, Buffon, D’Alembert, Helvétius e d’Holbach; in Inghilterra conosce Hume e in Italia Metastasio. Dopo essere entrato nell’Académie Française, continua, comunque, a dividere il suo tempo tra la passione per le lettere e le arti e l’attività militare: venuto a conoscenza della Rivoluzione americana, infatti, egli parte a sostegno degli Stati Uniti, con il grado di maréchal de camp. Anche in America intrattiene relazioni con personaggi illustri, primo tra tutti il generale Washington. Torna in Francia nel 1783 e qui, nel 1787, si sposa con la dama di compagnia della duchessa di Orléans, ma solo un anno dopo muore.3De la félicité publique viene pubblicata per la prima volta anonima ad Amsterdam nel 1772, la prima ristampa è del 1774 e la seconda, la prima a Parigi, è del 1776, infine, la ristampa del 1822, riporta le note scritte da Voltaire a margine dell’edizione da lui posseduta.
La prima parte di De la félicité publique, oggetto di questa breve trattazione, riguarda i popoli antichi, dagli Egizi all’Impero romano e al Cristianesimo delle origini, passando per la Grecia antica. Nel primo capitolo della prima sezione, l’autore formula il problema: sono più felici gli antichi o i moderni? Lo scopo dell’opera non è quello di aumentare la felicità pubblica, ma solo quello di esaminare la storia dell’umanità per capire se sono stati più felici i popoli antichi o se sono più felici i popoli moderni. Per “felicità” Chastellux usa indistintamente i termini francesi “félicité” e “bonheur”. Per poter procedere nell’indagine storica, l’autore enumera i segni e le cause della felicità pubblica: questi sono, in primo luogo, la pace, l’abbondanza e la libertà, in secondo luogo, l’incremento della popolazione e, infine, il progresso del commercio e dell’industria. Non servono particolari capacità filosofiche o storiche per riconoscerli, ma basta saper esercitare correttamente la ragione: l’importanza attribuita alla ragione inserisce pienamente questo filosofo nel panorama dell’Illuminismo francese. Più avanti nel testo, infatti, egli mostra la consapevolezza e l’orgoglio di vivere nel Secolo dei Lumi:
“Dans un siècle moins éclairé, avec des esprit moins accoutumés aux nourritures les plus substantielles, je devrais m’excuser de cet écart philosophique et sourtout de la forme concise et abstraite que j’ai donné à ces réflexions: mais je n’ignore pas que l’instruction est tellement répandue de nos jours, que les auteurs ne peuvent presque plus réclamer d’autre avantage sur les lecteurs, que d’avoir pensé plus longtemps qu’eux à la chose don’t ils écrivent”.4
Si addice al clima illuminista anche la rilevanza data al tema della libertà, concepita come indefinita e limitata solo dalla libertà altrui: essa è necessaria per la felicità, dal momento che è propria dell’uomo, la cui preoccupazione principale è quella di conservarla o di recuperarla quando la perde.
“Dire que l’homme est né pour la liberté, que son premier soin est de la conserver lorsqu’il en jouit, et de la recouvrer lorsqu’il l’a perdue, c’est lui attribuer un sentiment qu’il partage avec tous les animaux, et qu’on ne peut révoquer en doute”.5
Questa è una verità che non può essere contraddetta, da cui scaturiscono altre verità poco conosciute dagli antichi e non sufficientemente sviluppate dai moderni, ma che hanno una forte influenza sulla felicità dei popoli. La prima verità che Chastellux espone consiste nell’affermare che la libertà è anteriore rispetto alla costituzione dei governi e che, anche se spesso si è cercato di mostrare che i governi permettono agli individui e ai popoli di raggiungere la felicità, nessun governo è nato a questo scopo. La libertà e la proprietà, infatti, si affermano nell’ambito privato, non nello Stato, e ogni forma associativa deve garantirle. I governi, utilizzati come mezzi per assicurarsi tali privilegi, però, non hanno a loro volta il proprio fondamento nella libertà, bensì nella forza e nella violenza: questo vale per le associazioni formate da briganti che seguono colui che tra loro è il più forte, ma anche per i governi militari stabiliti da condottieri e per i governi affermati dal popolo più forte su un popolo sconfitto e conquistato. Negare ciò “c’est renoncer aux lumières de l’histoire et de la raison”:6 ecco un altro riferimento alla facoltà razionale, associata al termine lumières, che contraddistingue il Settecento francese. Affermare che le associazioni nascono dalla forza e dalla violenza implica opporsi alla posizione contraria, per la quale esse si basano su un’unione naturale, fondata sull’agricoltura e sul commercio: questi ultimi, infatti, sono elementi essenziali per la famiglia. L’antichità per prima mostra l’importanza della forza, anche se spesso essa è stata confusa con la virtù, tanto da far coincidere la virtù con la potenza e il coraggio: i primi uomini, infatti, hanno esercitato la forza inizialmente sugli animali, poi tra di loro.
Per poter affrontare il tema del “bonheur des peuples”,7 bisogna far notare che, dopo un periodo in cui il primo interesse degli individui era rivolto alla famiglia, è avvenuto un cambiamento che ha portato gli uomini a privilegiare “la chose publique”8: gli uomini hanno preferito la gloria al piacere, la vita militare alla vita domestica, la patria alla famiglia. Chastellux vede lo Stato in totale opposizione alla famiglia, poiché il primo è nato in modo artificioso per mezzo della violenza, mentre la seconda è caratterizzata dalla naturalità e dalla dolcezza. C’è una visione negativa dello Stato e dell’amor di patria, poiché questo esiste soltanto se esiste anche l’odio per le altre nazioni.
“On n’aimera plus ni sa femme, ni son champ, ni ses propres jouissances; on tournera toutes ses affections vers la cité, vers la republique; et de là naîtra cet amour effréné de la patrie, sentiment qui, si l’on y prend bien garde, a toujours été mêlé de quelque férocité, et qui, chez tous les peuples du monde, est inseparabile de la hainepour leurs voisins”.9
Gli individui che compongono un popolo perennemente occupato ad attaccare altri popoli o a difendersi da essi non vedono più le donne come persone da amare, ma come mezzi per incrementare la popolazione, non vedono più i figli come frutti preziosi di un amore duraturo (“les gages précieux d’une union fidèle et durable”10), ma come futuri guerrieri da educare: gli affari domestici vengono accantonati e le leggi diventano il solo interesse dei cittadini.
“Nous avons vu que tous les legislateurs s’etant occupés plutôt à rendre les homes forts qu’à les rendre heureux, tous les peuples ont été à leur tour esclaves ou usurpateurs. Sans jamais atteindre à une félicité permanente”.11
Pur ammettendo che un popolo sia sempre vincente nelle guerre ed espanda il suo dominio, avrà gloria, ma non felicità: la gloria è una forma di felicità precaria e contro natura, perché l’amore per la libertà individuale è più naturale rispetto all’amore per la patria. Nei popoli che aspirano alla gloria non c’è felicità, poiché sono troppi i sacrifici richiesti agli individui. A proposito di nessuno dei popoli antichi, dunque, si può parlare di felicità assoluta né di vera gioia. Nel terzo capitolo di questa prima sezione, in cui si affronta il problema della felicità degli antichi, il filosofo spiega che i cittadini costretti a molti sacrifici per il loro governo sono infelici, ma sono ugualmente infelici quei popoli in cui regna la rilassatezza dei costumi e in cui i cittadini non si adoperano abbastanza per la collettività.12
Tutte queste osservazioni vengono applicate da Chastellux nel resto della prima parte dell’opera, dedicata all’analisi dei popoli antichi: la tesi da dimostrare è quella per cui “les peuples ne sont pas heureux toutes les fois que les gouvernements prospèrent”.13
A partire dal secondo capitolo inizia l’esame della storia dell’umanità, come anticipato in precedenza: a ogni capitolo che descrive gli eventi caratterizzanti della storia di un popolo,ne segue un altro che chiarisce se quel popolo sia stato felice o meno.
Chastellux inizia facendo notare che tutti i popoli dominanti dell’antichità si sono serviti della guerra: la monarchia egiziana ha imposto il suo dominio attraverso guerre ingiuste, per il desiderio di imporsi dovunque, ma nonostante ciò è plausibile credere a una lunga pace seguita al suo insediamento. Al contrario, gli altri popoli antichi, quali Assiri, Babilonesi, Medi e Lidi, hanno conosciuto solo il dispotismo e la violenza, che dovunque tolgono all’uomo ciò che di buono gli ha dato la natura. Le considerazioni fatte su questo periodo storico permettono di concludere che la felicità non vi ha avuto alcuno spazio, poiché la guerra e la tirannia l’hanno ostacolata: un intero popolo che soddisfa un re dispotico non può essere felice. Non bisogna, dunque, confondere il popolo con il suo governo, la felicità dell’uno con la felicità dell’altro:
“On croit que le peuple est heureux quand l’état s’agrandit: au lieu d’envisager le bien des individus, on ne considère que l’accroissement et la durée des empires, comme si la prospérité publique et la felicité générale étaient deux choses inséparables”.14
Anche a proposito dell’antica Grecia, il filosofo esprime un giudizio negativo, ma, nonostante ciò, non si sente un detrattore dell’antichità, bensì afferma di trovarsi in una posizione di equilibrio.15
“Au seul nom de la Gréce, l’enthousiasme se réveille, et nous rentrace aussitôt les idées de vertu, de courage, de désintéressement et d’austerité, reunies avec celles de la perfection dans les arts, de la délicatesse dans le goût, et du raffinement dans la volupté: tant l’admiration est capable d’allier les choses les plus opposées!”.16
Questa è l’immagine che si presenta alla mente di tutti, ma, guardando con attenzione, Atene appare come un città male organizzata, crudele e ingrata, i cui cittadini sono capaci solo di discutere, ma non di concludere, mentre Sparta si rivela essere un esercito sempre armato, che rinuncia, per questo, a ogni altra attività. Nel discorso sulla Grecia si inserisce anche un giudizio sulla filosofia, nata in questi luoghi. Lo sguardo di Chastellux è di nuovo critico: prima di Socrate la filosofia si riduceva a cosmogonia e teogonia, ma, anche una volta avvenuta la svolta in senso etico, gli effetti sul popolo sono stati scarsi e la Grecia è rimasta impregnata di superstizione e crudeltà. Ma è soprattutto Sparta a essere obiettivo dell’attacco dell’autore: gli Spartani non coltivavano la terra, non conoscevano il commercio, non avevano legami familiari ben regolati. La loro povertà e frugalità non costituisce un punto a loro favore: essi non conoscevano la ricchezza e il lusso, per cui non potevano amarli. La critica si allarga, poi, a quei pensatori che hanno esaltato questo popolo e ne hanno narrato le spaventose imprese, senza denunciarne l’orrore: un simile atteggiamento può risultare pericoloso in particolare per i giovani che si accostano alla storiografia. A questo proposito, Guerci fa notare la polemica con Rousseau, che si trova proprio tra coloro che lodano gli antichi.17
Nessuna tra le civiltà finora presentate si può definire felice e lo stesso vale per Roma. Roma, potenza che merita di essere ricordata perché ha imposto il suo governo e i suoi principi su tutta l’Italia e poi su tutto il mondo, dimostra che la grandezza di un’istituzione politica non coincide con la felicità di un popolo. Infatti, a Roma gli uomini non erano più liberi e più sereni rispetto a quelli degli altri popoli, non c’erano leggi più umane, non mancava la tirannia e il commercio e l’agricoltura non erano più sviluppati che in Grecia. In particolare, la tirannia, di un uomo solo o dell’oligarchia senatoria, si è sempre imposta. Se i Romani non sono un popolo felice, allora il loro governo non è un modello da imitare, come spesso si sostiene: gli storici hanno detto molte falsità riguardo a Roma, cercando di offrire un quadro positivo, che è molto lontano dalla realtà delle cose.
“Transportons-nous en idée dans le sein de cette ville, et voyons une populace triste et misérable frémir autour du sénat”.18
Di sicuro una passione molto forte nei Romani è l’amore per la gloria, una gloria che essi hanno raggiunto, ma, come già chiarito, la gloria è ben diversa dalla felicità.
Il governo dispotico di Roma, con la formazione dell’impero, si è esteso anche ai popoli conquistati che, così, sono stati resi infelici a loro volta: la continua condanna della tirannia mette in risalto, per contrasto, il favore dell’autore nei confronti della repubblica. Condizione imprescindibile per la felicità è la libertà, che può essere realizzata solo dove esiste una costituzione repubblicana. Solo l’epoca di Augusto vede una certa compensazione dei mali con i beni e per questo sembra essere l’epoca più felice della storia di Roma. In effetti, il princeps era pacifico, ma ha comunque dovuto intraprendere guerre per sedare delle rivolte ai confini dell’impero e, in ogni caso, la gran parte del mondo, proprio perché era sottoposta alla dominazione romana era in una condizione di infelicità. “Da un punto di vista generale”, spiega, sintetizzando, Guerci, “i Greci e i Romani erano condannati per aver ignorato i principi e i mezzi atti a promuovere l’agricoltura e il commercio, per non aver avuto né una “véritable morale” né una “saine politique”, soprattutto per essersi macchiati dell’infamia della schiavitù: cosa quest’ultima, che agli occhi di Chastellux bastava a provare la superiorità dei moderni”.19
La seconda sezione della seconda parte è dedicata all’esame dei due più grandi fenomeni che hanno caratterizzato il periodo che va dalla fondazione dell’impero romano alla caduta dell’impero romano d’Occidente, influendo sul grado di felicità: le invasioni barbariche e la diffusione del Cristianesimo.
I Barbari, rozzi e incolti, sono stati in grado di imporsi sui discendenti di Omero e Platone, poiché erano spinti dal bisogno: essi sono stati mossi, infatti, dal desiderio di trovare climi più miti e terre più feconde. Hanno portato guerra in tutta Europa, distruggendo i nemici, poiché questo era il presupposto della loro stessa sopravvivenza, e, con la guerra, hanno portato nelle terre soggette all’invasione anche l’infelicità.
Nell’affrontare il discorso a proposito del Cristianesimo, Chastellux si pone su un piano laico, affermando di voler studiare “l’influence de la religion chrétienne sur le bonheur des hommes, dens cette vie seulement”.20 Tutto il testo, infatti, si presenta sotto la forma di un saggio critico che si serve del dubbio e della discussione e, a maggior ragione, questo metodo dev’essere applicato agli argomenti religiosi. La religione cristiana ha sostituito progressivamente il paganesimo, che ha avuto una durata straordinariamente lunga in rapporto al credito che aveva tra i suoi stessi ministri e tra gli intellettuali. Tra i Romani la religione è sempre stata strettamente legata alla politica, tanto che “le droit de prendre les auspices marquait la différence essentielle qui existait entre la noblesse et le peuple”.21 Il legame tra religione e politica si è perso solo con gli imperatori, che si sono circondati di filosofi trop éclairés per alimentare la superstizione.
Leggendo i testi dei Padri della Chiesa si vede come la separazione tra cristiani ed ebrei non sia stata immediata: per un periodo la legge di Mosè e l’insegnamento di Gesù si trovano a convivere e, ad accomunare cristianesimo ed ebraismo, c’è anche la lotta contro il politeismo e il paganesimo. Quando il Cristianesimo inizia a cercare una propria definizione, nascono al suo interno delle controversie: le discussioni a proposito dei dogmi portano a distinguere i cristiani ortodossi dagli eretici. Per molti teorici e teologi un punto di riferimento nelle dispute diventa il platonismo. Ma non sono certo tali dispute a far guadagnare credito alla religione cristiana, bensì le persecuzioni, a cui i cristiani rispondono con insegnamenti di tolleranza e fratellanza, capaci di diffondersi tra i Romani e tra i Barbari nelle province. A questo si aggiunge il sostegno ottenuto dall’Impero: Costantino, con l’Editto di tolleranza, ha dato inizio all’epoca della Chiesa, nonostante essa fosse divisa al suo interno dai contrasti sui dogmi. Con il concilio di Nicea, però, anche tali contrasti sono stati risolti, sempre alla presenza dell’imperatore. A questa figura Chastellux riserva un intero capitolo, allo scopo di portare alla luce il suo vero volto, ovvero quello di un imperatore crudele, che solo per comodità si è servito del Cristianesimo: uno dei compiti degli studiosi di storia, infatti, è quello di smascherare la falsità e mostrare la verità, occultata spesso dagli storici.
“Il est toujours affligeant de lever le masque sous lequel la faible humanité parvient quelquefois à se cacher; mais cet emploi, odieux dans la società, est noble et utile dans les recherches historiques. En effet, si le cours ordinaire de la justice a besoin qu’un examen lent et impartial vienne, après de longues années, redresser ses propres erreurs, combine l’histoire, placée d’abord entre le flatteur et le zoïle, et livrée ensuite à l’aveugle compilateur, n’est-elle pas en droit de réclamer contre la sentence des siècles passes!”.22
Inoltre, proprio il favore ottenuto dal potere politico ha trasformato i cristiani da perseguitati a persecutori. Il Cristianesimo non tende alla felicità terrena, quindi, né la gloria né la decadenza delle nazioni sono imputabili a esso: se ai primi secoli della Chiesa corrispondono la crisi dell’impero e le invasioni barbariche non è colpa della religione. Si nota che l’autore è prudente nei confronti del Cristianesimo: non si proclama ateo né cristiano né deista, non fa accenni di alcun tipo alla sua fede ed evita di dare giudizi personali su questo tema. La religione cristiana non è riuscita a rendere gli uomini migliori o più felici, poiché è stata ostacolata dal male presente nell’epoca in cui essa ha iniziato a diffondersi. Ma un aspetto sicuramente negativo del cristianesimo è costituito dal fatto che si è accompagnato all’intolleranza.
“De tous les ennemis du genre humain, le plus cruel et le plus moderne, l’intolerance, suivant pas à pas la religion dans ses progress, s’étendit avec elle, et fit briller le glaive partout où le zèle fit entendre la parole”.23
L’affermazione di una religione unica, inoltre, ha fatto sì che alla morale si sia sostituita la teologia e che gli uomini si siano trovati oppressi da essa, oltre che dalle leggi e dalla tirannia.
Dopo aver letto la prima parte di De la félicité publique si vede come Chastellux offra una visione negativa dell’antichità, in cui dominano il dispotismo, la violenza e la guerra: gli antichi rappresentano l’inizio del processo di civilizzazione,24 ma il bonheur può essere realizzato solo con il progresso, inteso come progresso della ragione, delle scienze, delle attività economiche e, di conseguenza, anche del lusso, che non è da criticare, opponendolo alla sobrietà e all’austerità dei popoli antichi.
I primi commenti all’opera di Chastellux risalgono all’anno della prima pubblicazione: nel 1772, infatti, Voltaire scrive una lettera all’autore di De la félicité publique per metterlo a conoscenza della sua opinione. Voltaire, pur avanzando qualche critica, si dimostra entusiasta e non risparmia i complimenti:
“Monsieur, la première fois que j’ai lus la Félicité publique, je fus frappé d’une lumière qui éclairait mes yeux, et qui devait brûler ceux des sots et des fanatiques; mais jq ne savais d’où venait cette lumière”.25
“Je chargeait de notes mon exemplaire, et c’est ce que je ne fais que quand le livre me charme et m’instruit”.26
In un’altra lettera del 1777, invece, Voltaire ringrazia Chastellux per avergli inviato una copia del suo saggio corredato di nuovi approfondimenti. Ma è proprio a Voltaire, che lo elogia per il suo lavoro, che Chastellux si è ispirato. Infatti, con il Saggio sui costumi e sullo spirito della nazioni27e, ancor prima, con Il secolo di Luigi XIV, Voltaire fonda la filosofia della storia: con questi testi egli ricerca il significato generale del processo storico, indicando nell’idea di progresso il suo fondamento. Il philosophe afferma di poter distinguere gli uomini in quattro razze, ma poi ne elenca sette: i Bianchi, i Negri, gli Albini, gli Ottentotti, i Lapponi, i Cinesi e gli Americani. Egli ritiene che tutti siano uguali, ma poi aggiunge che solo i Bianchi sono dotati di un alto grado di intelligenza. Inoltre, i non-europei, fatta eccezione per la civiltà cinese, sono sempre paragonati agli antichi: questo significa che, a parere dell’autore, essi si trovano ad uno stadio iniziale dello sviluppo, in cui regna l’abbruttimento. A questo proposito, Voltaire sottolinea come sia necessario moltissimo tempo perché un popolo si possa formare un linguaggio comune e, poi, riesca a costituirsi una società. E risulta essere ancor più difficile sviluppare “l’arte di rappresentare i propri pensieri”28: ne è una prova il fatto che solo le nazioni civilizzate hanno elaborato una metafisica e una religione monoteista, basata sulla fede in un “eterno architetto”29. Nonostante ciò, dato che tutti i popoli seguono lo stesso percorso evolutivo, sembra che, per Voltaire, prima o poi, in ogni Paese potranno nascere ed affermarsi la filosofia e il monoteismo. Se, per quanto riguarda il futuro, è soltanto probabile che tutte le civiltà raggiungano lo stesso stadio dello sviluppo, per quanto riguarda il passato, bisogna, invece, essere certi che tutti i popoli antichi e, come loro, quelli primitivi, abbiano e abbiano avuto usanze e credenze comuni, dal momento che “la natura è dappertutto la stessa”30.
Si vede, quindi, come Chastellux e Voltaire si trovino d’accordo: le popolazioni antichesono popolazioni non civilizzate, che rappresentano l’infanzia della civiltà. Popoli simili, secondo Voltaire, sono presenti anche nella sua stessa epoca e non coincidono semplicemente con i “selvaggi d’America”,31 ma si trovano in questa condizione anche i Francesi e, in generale, gli Europei non ancora raggiunti dal progresso economico e culturale.
“Che cosa intendete per selvaggi? Degli zotici che abitano in capanne con le loro femmine e qualche animale, sempre esposti alle intemperie, che conoscono solo la terra che li nutre e il mercato dove ogni tanto si recano a vendere le loro derrate per acquistarvi un grossolano indumento, che parlano un dialetto incomprensibile nelle città, dotati di poche idee, e quindi, di poche espressioni, sottoposti senza che sappiano perché, a uno scrivano, al quale tutti gli anni consegnano metà di quanto hanno guadagnato col sudore della fronte, che in certi giorni si riuniscono in una specie di granaio per celebrare cerimonie di cui non capiscono nulla, che ascoltano un uomo vestito diversamente da loro e che essi non intendono affatto; che talvolta abbandonano la loro capanna quando batte il tamburo, per andare a farsi uccidere in terra straniera e a uccidere i loro simili per un quarto di quanto potrebbero guadagnare lavorando a casa loro?”32.
Per entrambi gli autori, quindi, il progresso, in ogni campo, rappresenta un fattore positivo per l’umanità ed è il mezzo per raggiungere il bonheur; un altro punto di contatto tra i due consiste nell’idea che la storia non sia fatta dai re e dai grandi, bensì dai popoli e dai movimenti culturali. Al contrario, le loro opinioni divergono per quanto riguarda la Grecia antica: mentre Chastellux si dimostra critico, Voltaire vede nell’età di Pericle una delle epoche più felici della storia. I Greci hanno il merito di aver fatto nascere le belle arti e di aver fatto progredire la cultura e, soprattutto, hanno accettato la libertà di pensiero.
“La bella architettura, la scultura perfetta, la pittura, la buona musica, la vera poesia, la vera eloquenza, la maniera di scrivere bene la storia, anche la filosofia stessa, sebbene informe e oscura, tutto questo pervenne alle nazioni solo per il tramite dei Greci”.33
“I Greci avevano un’intelligenza talmente acuta che ne abusarono, ma torna a loro onore che nessun governo abbia ostacolato il pensiero degli uomini. Soltanto di Socrate si sa con certezza che le opinioni gli costarono la vita, e fu meno vittima delle proprie opinioni che non di un violento partito formato contro di lui. Gli Ateniesi, è vero, gli fecero bere la cicuta, ma si sa quanto se ne pentirono; si sa che punirono gli accusatori, e che elevarono un tempio a colui che avevano condannato. Atene concesse piena libertà non solo alla filosofia, ma a tutte le religioni; accoglieva tutti gli dei stranieri, e aveva perfino un altare dedicato agli dei sconosciuti”.34
Dopo i primi positivi commenti di Voltaire e dei contemporanei, però, cade il silenzio sull’opera di Chastellux. Probabilmente, ciò è dovuto alla mancanza di originalità della sua opera: “In effetti l’originalità del suo pensiero non è grande; quasi tutte le sue riflessioni, anche quelle della sua opera principale, riprendono temi e posizioni ormai tradizionali nella cultura illuministica”,35 anche se il soffermarsi sul problema della felicità costituisce un elemento nuovo. Questo tema fa parte degli interessi del Settecento, ma il nostro autore stringe il legame tra felicità e progresso, arrivando a identificarli: la felicità non è solamente la conseguenza del progresso, ma un parametro per misurarlo. Gli antichi che si trovano a un livello basso dello sviluppo, sono simultaneamente in una condizione di infelicità. Ma se il progresso è misurato dal grado di felicità, come si misura, a sua volta, la felicità? Chastellux propone un metodo per calcolarla, in rapporto alla quantità di lavoro richiesta a un individuo. Il lavoro, infatti, è necessario a ognuno per provvedere alla propria sussistenza, ma un’eccessiva quantità di tempo dedicata al lavoro rischia di produrre infelicità: questo significa, allora, che la felicità dipende dal tempo disponibile, nella giornata, nel mese o nell’anno, per attività diverse dal lavoro. Bisogna tenere a mente, inoltre, che non si lavora solo per la propria sussistenza, ma anche per pagare imposte al potere sovrano. Al fine di fare un calcolo, seppure approssimativo, del grado di bonheur di un popolo, è necessario presupporre che il lavoro sia diviso equamente tra gli individui e che ognuno sia obbligato a costruirsi una casa, a procurarsi il cibo, a cercarsi gli abiti, a cucinare, a coltivare la terra, a fare tutte le attività normalmente suddivise diversamente in una società. Poi bisogna calcolare il tempo che resta libero e metterlo in rapporto al tempo richiesto dal potere sovrano.36“Or je dis que c’est ce rapport qui décidera du bonheur ou du malheur des peuples”.37
Un altro tratto innovativo di De la félicité publique sta nell’affermare che per raggiungere la felicità bisogna riconoscere e realizzare le leggi dell’ordine naturale, sia sul piano economico sia sul piano sociale. “I principi dell’ordine naturale su cui si fonda la possibilità di progresso della società sono la libertà e la proprietà”.38 Ciò che interessa a Chastellux è “indicare quali siano i segni rivelatori di questo progresso, e che individua in un’agricoltura prospera, una popolazione numerosa ma proporzionata ai mezzi di sussistenza, una diffusa attività commerciale, una crescente integrazione tra le classi sociali”.39 Uno dei segni del progresso è la prosperità dell’agricoltura, dal momento che da essa si trae la sussistenza e, com’è chiaro, condizione basilare per la felicità degli uomini è non soffrire la fame. Un altro segno è la crescita demografica: questa, infatti, è conseguenza della diminuzione delle guerre, delle epidemie e dei disastri naturali e della crescita dell’agricoltura e del commercio. In vista del progresso ha una sua utilità anche la disuguaglianza, in quanto costituisce un fattore di stimolo alla competitività nelle attività economiche: essa va attenuata, ma non può essere eliminata, poiché l’uguaglianza di tutti i cittadini rischierebbe di abbassare le condizioni di vita generali.
Ogni società nasce per difendere la libertà e la proprietà, questo significa escludere la possibilità di un potere assoluto, che avrebbe il diritto di chiedere qualunque sacrificio ai cittadini. Le migliori forme di governo sono la repubblica e la monarchia costituzionale: sotto questi governi, in cui gli individui possono perseguire il loro benessere, sono stati fatti i maggiori progressi in vista della civilizzazione. La libertà può sussistere solo dove esiste la rappresentanza e il potere legislativo è controllato dal popolo: a questo proposito, Chastellux polemizza con Rousseau.40 Rousseau, infatti, sostiene che non ci possa essere libertà in uno Stato troppo grande, dov’è necessario il ricorso alla rappresentanza.
“Non appena il servizio pubblico cessi di essere il principale impegno dei cittadini e questi preferiscano servire con la loro borsa piuttosto che di persona, lo Stato è già prossimo alla rovina. Bisogna andare a combattere? pagano delle truppe e restano a casa; si deve andare al consiglio? eleggono dei deputati e restano a casa. A forza di pigrizia e di danaro finiscono con l’avere dei soldati per asservire la patria e dei rappresentanti per venderla”.41
“La sovranità non può venir rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari; non possono concludere niente in modo definitivo”.42
Chastellux, al contrario, è convinto che solo un governo di questo tipo possa garantire una pace solida e duratura e, soprattutto, la libertà. Una democrazia diretta, in cui ogni cittadino riveste tutti i ruoli, non può essere ben governata, mentre uno Stato più grande, dotato di corpi intermedi per la gestione del potere, in cui ciascuno svolge al meglio la sua funzione, può essere pacifico e libero. Anche a proposito della rappresentanza, Chastellux trova il sostegno di Voltaire che, però, non condivide il favore per i grandi Stati.
Note
1.F. J. deChastellux, De la félicité publique, Gregg International Publishers Limited Westmead, Farnborough, Hants., England 1971.
2.L. Guerci, Libertà degli antichi e libertà dei moderni, Guida, Napoli 1979, pp. 205-206.
3.Le notizie biografiche su Chastellux sono tratte dalla Notice sur le marquis de Chastellux, scritta da Alfred de Chastellux, figlio dell’autore, e posta all’inizio del testo (cfr., F. J. deChastellux, De la félicité publique cit., pp. I-XX).
12. “Or, toutes les fois que les projets d’agrandissement de la part du gouvernement obligeront les sujets à sacrifier une partie des jours de l’année, ou des heures dans la journée, don’t l’emploi est nécessaire à leur bonheur, on tombera dans un excès condamnable, dans un veritable abus. D’un autre cotè, si le peuple, abandonné à la mollesse, refuse à l’état la quantité de travail nécessaire au mantien de la sûreté publique, il s’exposera par ce mauvais calcul à devenir la proie du premier qui viendra l’attaquer; et c’est un malheur qu’il ne tardera pas à éprouver” (ivi, p. 65).
15. “… nous assurons que nous ne sommes ni enthousiastes, ni détracteurs de l’antiquité” (ivi, p. 97).
17. Cfr., L. Guerci, Libertà degli antichi e libertà dei moderni cit., pp. 209-210.
18.F. J. deChastellux, De la félicité publique cit., p. 173.
19.L. Guerci, Libertà degli antichi e libertà dei moderni cit., p. 207.
20.F. J. deChastellux, De la félicité publique cit., p. 231.
24. Una visione simile è quella di Voltaire nel Saggio sui costumi.
26. Ivi. Le notes che Voltaire ha posto a margine del testo in suo possesso consistono per lo più in espressioni quali Bravo! o Vrai!
27.Voltaire, Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni, Edizioni per il club del libro, Novara 1966.
31. A essi Voltaire dedica due capitoli del Saggio sui costumi, intitolati Dei selvaggi e Dell’America.
35.B. Miglio, Progresso e félicité publique nell’opera di Chastellux, in “Rivista di filosofia”, n. 12, ottobre 1978, Giulio Einaudi editore, Torino, p. 398.
36. Bisogna considerare anche le imposte come un lavoro richiesto dal potere sovrano. Cfr., F. J. deChastellux, De la félicité publique cit., pp. 60-61.
38. B. Miglio, Progresso e félicité publique nell’opera di Chastellux cit., p. 407.
40. Chastellux nomina esplicitamente “M. Rousseau”. Cfr., F. J. deChastellux, De la félicité publique cit., p. 101.
41.J. J. Rousseau, Il contratto sociale, traduzione di M. Garin, introduzione di T. Magri, testo francese a fronte, Editori Laterza, Bari 1997, p. 135.