Alegría de Pío è una località della Provincia d'Oriente,
municipio di Niquero nei pressi di Capo Cruz, dove venimmo sorpresi il giorno 5
dicembre 1956 dalle truppe della dittatura. Ci stavamo riposando dopo una marcia
non tanto lunga, quanto penosa. Eravamo sbarcati il 2 dicembre in un luogo noto
come Playa de las Coloradas, perdendo quasi tutto il nostro equipaggiamento e
camminando poi per lunghissime ore in mezzo a pozze di acqua marina e calzando
stivali nuovi; ciò aveva provocato ulcerazioni ai piedi di quasi tutti. Il
nostro nemico, però, non erano soltanto le calzature e le affezioni fungine.
Eravamo giunti a Cuba dopo sette giorni di viaggio attraverso il Golfo del
Messico e il Mar dei Caraibi, senza viveri, con l'imbarcazione in cattive
condizioni e quasi tutti i compagni bagnati fino alle ossa per mancanza di
indumenti adatti alla navigazione, essendo partiti dal porto di Tuxpan il 25
novembre, giornata di maestrale in cui la navigazione era impossibile. E tutto
ciò aveva lasciato tracce profonde nella truppa, composta di reclute che non
avevano mai affrontato un combattimento. Del nostro equipaggiamento bellico non
restava già più che il fucile, la giberna e poche cartucce bagnate. Il nostro
materiale sanitario era scomparso, gli zaini erano rimasti per la maggior parte
nei pantani. Il giorno prima avevamo camminato nottetempo lungo i canaletti
della piantagione di canna da zucchero del Central Niquero che a quell'epoca
apparteneva a Julio Lobo. In seguito alla nostra inesperienza, avevamo cercato
di placare la fame e la sete mangiando le canne trovate lungo il percorso e
lasciando sul posto i resti del magro pasto. Del resto le guardie del dittatore
non ebbero neanche bisogno dell'ulteriore ausilio lasciato da tracce tanto
evidenti, poiché la nostra guida, come venimmo a sapere soltanto dopo anni, fu
l'autore principale del tradimento, facendo in modo che esse si mettessero sulle
nostre tracce. Avevamo lasciato in libertà la guida la sera prima, commettendo
così un errore che avremmo ancora ripetuto qualche volta durante il conflitto
prima di imparare che gli elementi della popolazione civile di cui non si
conoscono i precedenti debbono essere sottoposti a continua vigilanza ogni volta
che ci si trova in zone di pericolo. Non avremmo mai dovuto permettere alla
guida di allontanarsi. Sul far del mattino del giorno 5 erano ben pochi quelli
in grado di fare un altro passo; gli uomini, spossati, percorrevano brevi tratti
e subito chiedevano di poter riposare. Data la situazione fu ordinata una sosta
ai bordi di un canneto, in una macchia rada non lontana dalla boscaglia vera e
propria. La maggior parte di noi dormì, quella mattina. Verso mezzogiorno si
ebbero i primi segni, per noi insoliti, allorché aerei Biber e velivoli leggeri
militari d'altro tipo o anche aerei privati cominciarono a ronzare nelle
vicinanze. Alcuni di noi erano tranquillamente intenti a tagliar canne mentre
sulle nostre teste passavano gli aeroplani, senza pensare alla perfetta
visibilità consentita ai piloti dalla bassa quota e dalla bassa velocità. A quel
tempo, il mio compito di medico della spedizione consisteva nel curare le piaghe
dei piedi feriti. Mi pare di ricordare il mio ultimo paziente di quel giorno.
Era il compagno Humberto Lamotte, e quella sarebbe stata la sua ultima marcia.
Resta ancora impressa nella mia memoria la sua figura stanca e preoccupata,
mentre l'uomo prendeva in mano gli scarponi, che non poteva più calzare,
dirigendosi verso il punto indicatogli per riposare. Il compagno Montané e io
eravamo appoggiati a un tronco, parlando dei nostri rispettivi figli; stavamo
consumando la magra razione - mezzo pollo e due gallette - quando uno sparo
risuonò; dopo pochi istanti un uragano di pallottole o almeno tale parve al
nostro animo angustiato durante quella prova del fuoco - si abbatté sul gruppo
di ottantadue uomini. Il mio fucile non era dei migliori: lo avevo chiesto io
intenzionalmente poiché le mie condizioni fisiche erano deplorevoli dopo un
forte attacco di asma patito durante la traversata e non volevo che una buona
arma andasse sprecata tra le mie mani. Non so in quale momento e in che ordine
si succedettero gli eventi: già si offuscano i ricordi. Mi pare però di
ricordare che, in mezzo alla sparatoria, Almeida allora capitano - corse al mio
fianco per chiedermi che ordini avessi, ma in quel momento io non sapevo che
dirgli. Secondo quanto venni a sapere in seguito, Fidel cercò invano di radunare
la gente nel canneto vicino dove si poteva giungere semplicemente varcando la
staccionata. La sorpresa era stata troppo grande e troppo fitta la pioggia di
pallottole. Almeida tornò di corsa a occuparsi del proprio gruppo; in quel
momento un compagno lasciò cadere quasi ai miei piedi una cassetta di munizioni,
io gliela indicai per fargliela riprendere, ma lui mi rispose, con
un'espressione che ricordo ancora perfettamente per la paura che rifletteva,
qualcosa come: "Non è il momento di preoccuparsi delle munizioni". E si gettò
verso il canneto. (In seguito morì assassinato da uno degli sbirri di Batista).
Fu forse quella la prima volta che mi trovai di fronte al dilemma tra la mia
dedizione alla medicina e il mio dovere di soldato rivoluzionario. Mi trovai
davanti a un tascapane pieno di medicamenti e una cassetta di munizioni e le due
cose erano troppo pesanti per essere portate insieme: presi la cassetta e
lasciai il tascapane per attraversare il tratto scoperto che mi separava dal
canneto. Ricordo perfettamente Faustino Pérez che, da dietro i pali della
staccionata, faceva fuoco con la sua pistola mitragliatrice. Accanto a me un
compagno di nome Arbentosa correva verso il canneto. Una sola raffica tra le
tante ci investì entrambi. Sentii un forte colpo al petto e una ferita al collo
e mi credetti morto. Arbentosa, con un fiotto di sangue che gli usciva dalle
narici, dalla bocca e dall'enorme ferita di una palla da quarantacinque, gridò
qualcosa come "mi hanno ucciso" e cominciò a sparare come un pazzo, anche se in
quel momento non poteva veder nessuno. Da terra dissi a Faustino: "Mi hanno
beccato" - ma l'espressione fu più forte -; Faustino mi gettò un'occhiata pur
continuando a sparare e mi disse che non era nulla; ma nei suoi occhi potevo
leggere la condanna che la mia ferita significava. Restai disteso per terra:
feci fuoco verso la macchia obbedendo all'oscuro impulso del ferito.
Immediatamente mi misi a pensare al miglior modo di morire in quell'istante, in
cui tutto sembrava perduto. Ricordai una vecchia novella di Jack London in cui
il protagonista, appoggiato a un tronco d'albero si appresta a concludere
dignitosamente la propria vita, sapendosi condannato a morte per congelamento
tra i ghiacci dell'Alaska. È la sola immagine che mi è restata. Da dietro la
palizzata qualcuno gridava che sarebbe stato meglio arrendersi, ma si sentì
un'altra voce, che poi seppi essere quella di Camilo Cienfuegos che gridava:
"Qui non si arrende nessuno..." e giù una parolaccia. Mi si avvicinò Ponce,
tutto agitato e col respiro affannoso, facendomi vedere un foro di proiettile
che sembrava attraversagli il polmone. Mi disse che era ferito e io, con somma
indifferenza, gli comunicai che ero ferito anch'io. Ponce continuò ad arretrare
verso il canneto insieme con altri compagni illesi. Per un momento restai solo,
disteso per terra, in attesa della morte. Almeida mi raggiunse e mi incoraggiò a
proseguire; nonostante il dolore mi mossi con lui e entrammo nel canneto. Lì
vidi il grande compagno Raúl Suárez con un pollice stroncato da una pallottola e
Faustino Pérez che, vicino a un tronco, lo bendava. Poi tutto si confuse, in
mezzo agli aerei che volavano a bassissima quota sparando qualche raffica di
mitragliatrice, facendo aumentare la confusione in mezzo a scene a volte
dantesche a volte grottesche, come quella di un combattente corpulento che
tentava di nascondersi dietro una canna e un altro che ordinava il silenzio in
mezzo al frastuono degli spari e senza sapere neanche lui perché. Si formò un
gruppo comandato da Almeida e di cui facevano parte, oltre a me, anche l'attuale
comandante Ramiro Valdès allora tenente, e i compagni Chao e Benitez. Con
Almeida alla nostra testa varcammo l'altra palizzata del canneto per riparare
nella boscaglia salvatrice. In quel momento si cominciò a sentir gridare "Il
fuoco!". Nel canneto si levavano colonne di fumo e di fuoco; tuttavia non posso
garantirlo, poiché pensavo molto più all'amarezza della disfatta e all'imminenza
della mia morte che agli eventi della battaglia. Marciammo finché non cominciò a
farsi notte e poi decidemmo di metterci a dormire tutti insieme, distesi per
terra, aggrediti dalle zanzare, attanagliati dalla fame e dalla sete. Questo fu,
dunque, il nostro battesimo del fuoco, il giorno 5 dicembre 1956, nei pressi di
Niquero. Qui ebbe inizio la vicenda di quello che sarebbe stato l'Esercito
Ribelle. Il giorno successivo alla sorpresa di Alegría de Pío, camminavamo in
mezzo alla macchia, dove la terra rossa si alternava al "dente di cane", udendo
scariche isolate in tutte le direzioni e senza riuscire a scegliere una
direzione precisa. Chao, che era un veterano della guerra di Spagna, disse che
quel modo di camminare ci avrebbe portati inevitabilmente a cadere in qualche
imboscata nemica e propose di cercare qualche luogo adatto ad aspettarvi la
notte e poi camminare. Eravamo praticamente senz'acqua; all'unica scatoletta di
latte che avevamo era capitato il guaio che Benítez incaricato di custodirla,
l'aveva riposta rovesciata nella tasca della sua uniforme, cioè coi fiorellini
che vi avevamo praticato per berlo rivolti all'ingiù, in modo tale che, al
momento di prendere la nostra razione - consistente in un tubetto di vitamine
vuoto riempito di latte condensato e con raggiunta di un goccio d'acqua -
vedemmo con dolore che era versato tutto nella tasca dell'uniforme di Benítez.
Riuscimmo a sistemarci in una specie di caverna che permetteva un'ampia vista da
una parte ma, dall'altra, aveva il difetto di impedire di prevedere
l'avvicinarsi del nemico. Tuttavia, pensavamo più a non farci vedere che a
difenderci, e decidemmo di restare lì per tutto il giorno, benché col patto,
espressamente stretto dai cinque, di lottare fino alla morte. Noi, che
stringemmo questo patto, eravamo: Ramíro Valdés, Juan Almeida, Chao, Benítez e
chi scrive. Sopravvivemmo tutti alla terribile esperienza della sconfitta e alla
lotta successiva. Scesa la notte, uscimmo e ci mettemmo in cammino. Stabilii
quale fosse la Stella Polare ricorrendo alle mie nozioni astronomiche, e per un
paio di giorni continuammo a camminare orientandoci in base ad essa, verso est,
fino alla Sierra Maestra. (Molto tempo dopo, avrei appreso che la stella che ci
permise di trovare la strada verso l'est non era la Polare, e che per puro caso
avevamo camminato, approssimativamente, in quella direzione, fino a trovarci,
all'alba, di fronte ad alcune scogliere molto vicine alla costa). Sotto si
vedeva il mare; ci separava da esso una roccia a strapiombo di una cinquantina
di metri d'altezza; e dal basso saliva l'immagine tentatrice di una pozza
d'acqua, a quanto pareva dolce. Il nostro tormento maggiore era la sete; durante
la notte era comparsa una moltitudine di gamberi e, spinti dalla fame, ne
avevamo uccisi parecchi; ma non potendo accendere il fuoco, ne avevamo mangiate
crude le parti gelatinose, il che ci aveva provocato una sete tormentosa. Dopo
molto cercare trovammo un passaggio praticabile per poter scendere alla ricerca
dell'acqua, ma nella confusione dell'andirivieni, si perdette di vista la fossa
osservata dall'alto, e così potemmo mitigare la sete soltanto grazie alle
piccole quantità di acqua rimaste di piogge precedenti e rimaste nelle crepe del
"dente di cane": lì la trovammo, e la raccogliemmo mediante la peretta di un
vaporizzatone antiasmatico; ognuno di noi prese soltanto poche gocce di liquido.
Continuavamo a camminare scoraggiati, senza una fissa direzione; di tanto in
tanto un aeroplano passava sopra il mare. Camminare tra le scogliere era molto
faticoso e alcuni proposero di proseguire appiccicati contro gli scogli della
costa, ma c'era un grave inconveniente: avrebbero potuto vederci. Finalmente,
rimanemmo allungati nell'ombra di alcuni arbusti, in attesa che il sole
tramontasse. Verso sera trovammo una spiaggetta e ci bagnammo. Feci un tentativo
di mettere in pratica qualcosa che avevo letto in qualche pubblicazione
semiscientifica o in qualche romanzo, in cui si spiegava che l'acqua dolce,
mescolata con un terzo di acqua di mare dà un'acqua potabile molto buona e
aumenta la quantità di liquido; cosi facemmo con quel che restava in fondo a una
borraccia e il risultato fu deplorevole; un intruglio salmastro che mi valse la
critica di tutti i compagni. Un poco rinfrescati dal bagno, riprendemmo a
camminare. Era notte e mi pare di ricordare che c'era una luna abbastanza buona.
Almeida e io, che camminavamo in testa, notammo improvvisamente, dentro una di
quelle piccole capanne che i pescatori erigono lungo il mare per ripararsi dalle
intemperie, la sagoma di uomini addormentati. Pensammo che fossero soldati, ma
eravamo troppo vicini per poter retrocedere e così avanzammo rapidamente;
Almeida intimò la resa ai dormienti e allora avemmo una gradevole sorpresa:
erano tre compagni di spedizione del Granma, Camilo Cienfuegos, Pancho Gonzáles
e Pablo Hurtado. Immediatamente cominciammo a scambiarci opinioni, esperienze,
notizie intorno a quel poco che ciascuno sapeva degli altri e che ciascuno
sapeva del combattimento. Il gruppo di Camilo ci fece l'omaggio di un pezzo di
canna strappato prima della fuga e che servì per ingannare lo stomaco con
qualcosa di dolce e di sugoso, mentre loro masticavano tranquillamente i
gamberi. Avevano trovato il modo di mitigare la sete succhiando l'acqua
direttamente dai cavi della roccia con l'aiuto di qualche piccolo tubo o di un
fuscello cavo. Riprendemmo assieme il cammino. A otto ammontava ora il numero
dei combattenti dell'esercito sopravvissuto del Granma, e non avevamo alcuna
notizia di altri eventuali sopravvissuti. Pensavamo, secondo logica, che
dovevano esistere altri gruppi come il nostro, ma non avevamo la minima idea di
dove eravamo, tutto quel che sapevamo era che, camminando col mare sulla nostra
destra andavamo verso est, cioè verso la Sierra Maestra, il luogo dove dovevamo
rifugiarci. Non ci sfuggiva il fatto che le rocce a picco e il mare ci
precludevano qualsiasi possibilità di fuga, nel caso in cui fossimo incappati in
un gruppo nemico. Ora non ricordo se camminammo lungo la costa per uno o per due
giorni, so soltanto che mangiammo alcuni piccoli frutti, dei fichi d'India che
crescevano negli anfratti, uno o due a testa, il che non ingannava la fame, e
che la sete era attanagliante, poiché bisognava razionare al massimo le poche
gocce d'acqua. Una mattina, all'alba, già enormemente stanchi, ci trovammo
proprio sulla riva del mare e restammo lì a dormicchiare in attesa che fosse
possibile vedere dove passare, perché sembrava che improvvisamente le scogliere
si levassero a picco. Appena albeggiò, iniziammo un'esplorazione e davanti ai
nostri occhi apparve una grande casa fatta di tavole di guao, che sembrava
appartenere a qualche contadino di condizione agiata. Espressi immediatamente il
parere che non era opportuno avvicinarsi a una casa di quel tipo, poiché
presumibilmente era occupata da nostri nemici o magari dall'esercito. Benítez
sostenne esattamente il contrario e finalmente avanzammo tutti e due fino alla
casa. Io rimasi fuori mentre lui cercava di scavalcare una recinzione di filo di
ferro spinato (era con noi anche qualcun altro, che non ricordo), e di colpo
percepii chiaramente, nella penombra, l'immagine di un uomo in uniforme con una
carabina M-1 in mano, pensai che la nostra ultima ora era giunta, perlomeno
quella di Benítez, che non potevo avvisare, perché stava già molto più vicino
all'uomo che a me; Benítez arrivò quasi a fianco del soldato e poi tornò
indietro, dalla parte da cui era arrivato, dicendo con tutto candore che tornava
indietro perché aveva visto "un signore con un fucile" e non gli sembrava
prudente chiedergli qualcosa. Veramente, per Benítez e per tutti noi fu come
rinascere, ma la nostra odissea non si concluse lì; dopo un'ispezione
prudenziale, cercammo di scalare la scogliera che lì era molto più bassa, e così
arrivammo nella zona denominata Ojo de Buey, da dove un piccolo fiume scende al
mare tagliando, in quel punto, la roccia. Il giorno ci sorprese prima che
riuscissimo a superare il crinale, e ce la facemmo a mala pena a raggiungere una
caverna, dalla quale si osservava perfettamente tutto il paesaggio: questo era
di un'assoluta tranquillità; un'imbarcazione della Marina sbarcava uomini,
mentre altri s'imbarcavano: un cambio di turno, a quanto pareva. Contammo quasi
trenta uomini e più tardi sapemmo che erano gli uomini di Laurent, il temuto
assassino della Marina da guerra, il quale, dopo aver compiuto la macabra
missione di assassinare un gruppo di compagni, stava dando il turno ai suoi
uomini. Davanti agli occhi terrorizzati di Benítez comparvero i "signori del
fucile" in tutta la loro tragica realtà. La situazione era abbastanza cattiva;
nel caso in cui fossimo stati scoperti, non ci sarebbe stata la minima
possibilità di salvezza e non restava altro che lottare lì fino alla fine.
Passammo il giorno senza toccar cibo, razionando rigorosamente l'acqua che
distribuivamo nella lente oculare di un cannocchiale perché la razione per
ciascuno di noi fosse esatta, e, scesa la notte, riprendemmo il cammino per
allontanarci da quella zona in cui avevamo vissuto uno dei giorni più tormentosi
della guerra, in mezzo alla sete e alla fame, al sentimento della nostra
sconfitta e all'imminenza di un pericolo palpabile e ineludibile che ci faceva
sentire come topi presi in trappola. Dopo alcune peripezie, finimmo lungo il
torrente che scendeva il mare o a un suo affluente; allungati per terra, bevemmo
avidamente, come cavalli, a lungo, fino a quando il nostro stomaco, vuoto di
ogni alimento, si rifiutò di ricevere altra acqua. Riempimmo le borracce e
riprendemmo il nostro viaggio. All'alba raggiungemmo la cima di un piccolo colle
circondata da alcuni alberi. Ci distribuimmo in modo da poter opporre resistenza
e da poterci nascondere nella maniera migliore, e passammo tutto il giorno
vedendo passare piccoli aerei a bassissima quota sopra le nostre teste, con
altoparlanti che emettevano suoni incomprensibili che però Almeida e Benítez,
veterani del Moncada, interpretavano come un'intimazione di resa. Dentro il
bosco si sentivano di quando in quando alcune grida non ben riconoscibili.
Quella notte continuammo nel nostro pellegrinaggio fino a giungere nei pressi di
una casa da cui si sentiva uscire il rumore di una orchestra. Una volta ancora
nacque una discussione: Ramiro, Almeida e io sostenevamo che in nessun caso
bisognava comparire in mezzo a un ballo o qualcosa del genere, poiché i
contadini, magari anche soltanto per naturale indiscrezione, avrebbero segnalato
immediatamente la nostra presenza nella zona; Benítez e Camilo Cienfuegos
sostenevano che bisognava andarci in ogni modo, a mangiare. Finalmente, Ramiro e
io fummo incaricati del compito di raggiungere la casa, raccogliere notizie e
ottenere cibo. Quando fummo vicini, la musica cessò e, distante, si sentì la
voce di un uomo che diceva pressappoco: "E adesso brindiamo a tutti i nostri
commilitoni, che con un'azione tanto brillante", ecc. ecc. Questo ci bastò per
indurci a tornare indietro il più rapidamente e segretamente possibile e
informare i nostri compagni su chi fossero coloro che si stavano divertendo in
quella festa. Riprendemmo la nostra strada, ma con gli uomini sempre meno in
grado di camminare; quasi tutti i compagni di quella sera, e alcuni la sera
seguente, si rifiutarono di continuare, e perciò dovemmo bussare alla porta di
un contadino, ai margini di una strada principale, nella località chiamata
Puercas Gordas, nove giorni dopo la sorpresa. Ci ricevettero amabilmente e
subito in quella capanna contadina ebbe inizio un interminabile torneo
alimentare. Passammo ore e ore mangiando, fino a quando il giorno non ci
sorprese e non potevamo più uscire da lì. Durante la mattinata comparvero
contadini avvertiti della nostra presenza, i quali, curiosi e solleciti,
venivano a fare la nostra conoscenza, a darci qualcosa da mangiare e a farci
qualche regalo. La piccola casa in cui stavamo si trasformò di colpo in un
inferno: Almeida iniziò il fuoco della diarrea e subito, otto intestini spietati
dimostrarono la loro ingratitudine, appestando quel piccolo recinto; certi
riuscivano perfino a vomitare. Pablo Hurtado, sfinito dai giorni di marcia, di
fatica, di mal di mare, di fame e di sete accumulate, non riusciva ad alzarsi.
Decidemmo di ripartire alla sera. I contadini dissero di aver sentito che Fidel
era vivo e che loro potevano accompagnarci fino a zone in cui presumibilmente si
trovava insieme con Crescencio Pèrez, ma dovevamo lasciar loro in cambio le
uniformi e le armi. Almeida e io conservammo due pistole automatiche Star; gli
otto fucili e tutti i proiettili rimasero a titolo di garanzia in casa del
contadino, mentre noi ci dividevamo in due gruppi, di tre e quattro uomini, per
poter alloggiare nelle case dei contadini e da lì guadagnare, per tappe
successive, la Maestra. Il nostro gruppo era composto, se non ricordo male, da
Pancho Gonzàlez, Ramiro Valdés, Almeida e io; l'altro, da Camilo, Benitez e
Chao; Pablo Hurtado restava nella casa, ammalato. Appena ce ne fummo andati, il
padrone di casa non poté resistere alla tentazione di comunicare la notizia a un
amico e di discutere dove nascondere le armi; questi lo convinse che si potevano
vendere trattando con un terzo, che fece la denuncia all'esercito, e, poche ore
dopo che noi avevamo lasciato la prima dimora ospitale a Cuba, il nemico vi
faceva irruzione, faceva prigioniero Pablo Hurtado e requisiva tutte le armi.
Noi eravamo in casa di un avventista chiamato Argelio Rosabal e che tutti
conoscevano come El Pastor. Questo compagno, appena giunse l'infausta notizia,
prese rapidamente contatto con un altro contadino della zona, buon conoscitore
di essa e che si diceva simpatizzante dei ribelli. La stessa notte, ci
prelevarono da lì e ci accompagnarono fino a un altro rifugio più sicuro. Il
contadino che conoscemmo quel giorno si chiamava Guillermo García, e oggi è capo
dell'Esercito d'Occidente e membro della Direzione Nazionale del nostro Partito.
Più tardi soggiornammo in alcune altre case contadine; Carlos Mas, più avanti
incorporato nell'esercito, Perucho, e altri compagni di cui non ricordo i nomi.
Una mattina all'alba, dopo aver incrociato la strada di Pilon e dopo aver
camminato senza nessuna guida, raggiungemmo la fattoria di Mongo Pérez, fratello
di Crescencio, dove si trovavano tutti i membri della spedizione sbarcati,
provvisoriamente sopravvissuti e non ancora prigionieri; e cioè: Fidel Castro,
Universo Sànchez Faustino Pérez, Raúl Castro, Ciro Redondo, Efigenio Ameijeiras,
René Rodríguez e Armando Rodríguez. Dopo pochi giorni si incorporeranno Moràn,
Crespo, Julito Diaz, Calixto García, Calixto Morales e Bermúdez. La nostra
piccola truppa si presentava senza uniformi e senza armi, poiché le due pistole
erano tutto quello che eravamo riusciti a salvare dal disastro, e la reprimenda
di Fidel fu molto violenta. Durante tutta la campagna, e oggi ancora,
ricorderemo il suo ammonimento: "Non avete pagato l'errore che avete commesso,
perché abbandonare i fucili in simili circostanze si paga con la vita, l'unica
speranza di sopravvivere nel caso che l'esercito fosse entrato in contatto con
voi erano le vostre armi. Abbandonarle è stato un delitto e un segno di
stupidità".
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