CINEMA E FILOSOFIA |
Di Andrea Pesce
È possibile dare corpo, rendere visibile sul piano fenomenico il pensiero? Domanda alla quale è difficile rispondere, dubbio che ha dato non pochi problemi a parecchi registi cinematografici fin dagli albori della settima arte. Il caso più noto e quello di Sergei Ejzenstein (1898-1948), regista e teorico russo che, attraverso il suo “montaggio delle attrazioni”, si proponeva di arrivare al “concetto tradotto in immagine”, operazione che gli fece sperare di riuscire a portare sullo schermo addirittura “Il Capitale” di Karl Marx. Il cinema, dunque, potrebbe essere il veicolo per la “discesa” del pensiero sulla materia? Esistono dei momenti particolari durante la visione di un film in cui i protagonisti delle storie ricordano avvenimenti del loro vissuto. Tutto questo viene mostrato allo spettatore attraverso il cosiddetto “flash-back” o “breve ritorno nel passato”, che ha la funzione di attualizzare fatti già accaduti, ma anche di integrare eventuali buchi nel racconto, rendendo noti alcuni particolari, per dare maggiore coerenza all’insieme delle varie parti che costituiscono la storia. Ora, tra queste immagini mentali e la trasposizione cinematografica de “Il Capitale” di Marx, c’è una bella differenza. Eppure, grandi filosofi contemporanei come Walter Benjamin o Gilles Deleuze, hanno trovato grandi spunti per le loro riflessioni anche attraverso film non propriamente filosofici. Benjamin nel suo saggio del 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica vede il cinema sì come espressione artistica, ma priva di aura, ovvero il fondamento teologico dell’arte tradizionale, l’elemento sacrale proveniente da un originario contesto magico- rituale. Scrive Benjamin: “Che cos’è, propriamente, l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina. Seguire placidamente, in un mezzogiorno d’estate, una catena di monti all’orizzonte oppure un ramo che getta la sua ombra sull’osservatore, fino a quando l’attimo, o l’ora, partecipino della loro apparizione – tutto ciò significa respirare l’aura di quei monti, di quel ramo” . Pur avendo compreso che l’arte si sarebbe trasformata in oggetto di consumo, Benjamin conserva forti speranze nel potenziale di “progresso” insito nell’arte stessa, amplificando ancor di più la contraddizione tra la perdita dell’aura e l’accessibilità di massa, sperando in un affrancamento dell’uomo da vincoli millenari come quelli religiosi. Malgrado la bellissima descrizione poetica dell’esperienza auratica di Benjamin, non bisogna dimenticare che il cinema è esperienza legata al mondo e, modificando una frase di Th. W. Adorno riferita alla filosofia, potremmo affermare che: “Anche quando il cinema pretende di elaborare immagini ispirandosi a principi puri e astratti, esso assume in sé, positivamente o negativamente, immagini immanenti alla società esistente” . E’ la posizione del filosofo americano S. Cavel che nel suo saggio Guardare il mondo. Riflessioni sull’ontologia del film del 1971, riconosce al cinema un peso importante nella costruzione della nostra esperienza del mondo, eminentemente sul piano ermeneutico. Alcuni film possono stimolare l’interesse per il proprio passato, facendoci applicare una sorta di ermeneutica del soggetto (ad esempio, paragonandoci alle esperienze d’infanzia dei protagonisti, come avviene per film di Cristina Comencini “La bestia nel cuore”), altri agire più sul piano teleologico, richiamando l’antico concetto greco di telos, il progetto della nostra esistenza, in una riconsiderazione o eventule aggiustamento dei propositi sul nostro futuro. Inoltre, spostando il discorso più sul versante sociologico, basti pensare quanto sia influente il modo di porsi dei divi dello star-system sul comportamento della massa che, immedesimandosi nei propri idoli (eidolon in greco significa immagine, simulacro) ne copia gesti, linguaggio e, in alcuni casi di particolare intensità, anche moti autodistruttivi attraverso abusi di alcol e droga. Uno dei contributi più importanti e significativi nello studio del rapporto tra cinema e filosofia è quello di Gilles Deleuze con i suoi due volumi: L’immagine movimento e L’immagine tempo del 1987 e 1989. Per il filosofo francese il cinema è filosofia, e i suoi creatori sono filosofi che agiscono direttamente su categorie filosofiche e fisiche come lo spazio e il tempo, dilatandole o contraendole come mai era accaduto in passato. Egli arriva addirittura a creare definizioni come quella di “cinema cervello” per l’opera di Stanley Kubrick, che rimarranno nella storia sia della critica cinematografica e sia della filosofia per l’efficacia di sintesi e la precisione d’analisi. Da questo punto di vista riflettere su pellicole come “2001: Odissea nello spazio”, “Shining” o il più recente “Eyes Wide Shut”, consente di capire le sottili e ostiche metafore sulla psiche umana portate sullo schermo dal geniale regista americano. Un altro importante problema posto dal cinema è quello del rapporto tra finzione e realtà . Questo argomento è quanto mai attuale visto che nelle sale cinematografiche, dopo i successi del regista statunitense Michael Moore, è un proliferare di documentari perlopiù di denuncia nei confronti del potere politico e economico. Il nocciolo del problema è questo: è possibile portare la realtà sullo schermo, soprattutto con un documentario (dal latino documentum, ossia dato inconfutabile e oggettivo)? Andrè Bazin vide nel cinema il “linguaggio della realtà” e coniò la definizione di “realismo ontologico”. E’ vero -sostiene Bazin- che il film è costruito, progettato, sceneggiato, illuminato ecc…, ma ciò che si imprime sulla pellicola, “l’impronta digitale del mondo” che si deposita sull’emulsione della pellicola è, senza ombra di dubbio, realtà. Tramite il “complesso della mummia” Bazin afferma che il cinema soddisfa la necessità psicologica dell’uomo di “salvare l’essere mediante l’apparenza”, imbalsamando non solo porzioni di mondo (prerogativa già presente nella pittura e più tardi nella fotografia) ma anche il “tempo” in tutta la sua enigmatica e gravosa presenza . Queste considerazioni di Bazin consentiranno ad un grande regista, oltre che grande intellettuale italiano, come Pier Paolo Pasolini, di parlare per il cinema di “lingua scritta della realtà”. Singolare e originalissima è la trattazione pasoliniana del montaggio cinematografico in analogia con la morte. Ecco le parole del poeta: “Dicevo più sopra come la morte operi una rapida sintesi della vita passata, e la luce retroattiva che essa rimanda su tale vita ne trasceglie i punti essenziali, facendone degli atti mitici o morali fuori del tempo. […] E’ dunque assolutamente necessario morire, perché, finchè siamo vivi, manchiamo di senso. […] La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita.” Oltre a queste ormai storiche riflessioni sulla settima arte, interessante risulta essere la posizione del filosofo Pietro Montani che, nei suoi molti studi sul cinema , si è posto il problema dell’originalità di un’opera d’arte. Secondo Montani “originale” è ciò che dà origine ad ulteriori riflessioni, che genera pensiero. In questo senso il cinema non dovrebbe essere considerato propriamente filosofia (come intendeva Deleuze), ma forma artistica in grado di darci la possibilità di riflettere e di fare filosofia. “Provocazione”, nel senso letterale del termine, inteso come pro-vocare, ossia “chiamare fuori”, “chiedere che si faccia presente”, è la parola che più si addice per illustrare il complesso rapporto tra arte e pensiero. A questo si aggiunga che il concetto di “originale” per il cinema è abbastanza problematico: quale è il film “originale” o, in altre parole, qual è, tra le innumerevoli copie distribuite nelle varie parti del mondo, quella più vicina, più intima nei confronti dell’intenzione registica? Mentre per un sonetto di Shakespeare o per “L’Infinito” di Leopardi anche la nostra trascrizione su di un semplice foglio di carta, risulta essere “originale”, per il film questa regola non è più valida. Come voleva Benjamin lo sviluppo tardomoderno di riproducibilità tecnica per l’opera d’arte, non consente tale valutazione e, tra gli esempi che possiamo portare di artisti che hanno giocato con questa possibilità, va senz’altro menzionato Andy Wahrol e le sue serigrafie. Celebre quella che ritrae Marilyn Monroe, immagine moltiplicata per decine di volte tanto da divenire originale di foto ritraente la diva e, allo stesso tempo, originale del quadro dell’artista newyorkese, opera assai quotata sul mercato mondiale. Montani è tuttavia deciso nell’affermare che cinema e filosofia devono restare distinti, senza confondersi in pericolosi miscugli che potrebbero dar vita a grandi confusioni. Malgrado ciò egli resta convinto che sia possibile portare concetti sullo schermo, a patto di essere veicolati dalla funzione primaria del cinema: quella di raccontare delle storie.