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Vita e opere
Nato nel 1780 da una famiglia della piccola borghesia, Karl von Clausewitz si arruolò nell'esercito prussiano a soli 12 anni, nel 1792. Nel 1794 divenne ufficiale e utilizzato in compiti di guarnigione sino al 1806. In questo periodo divenne amico di uno dei principali generali prussiani, Scharnhorst, e fu da lui introdotto a corte. Nel 1806 partecipò alla campagna di Jena e fu catturato dai Francesi. Tornato in Prussia nel 1808, si impegnò insieme a Scharnhorst nella riforma dell'esercito ma, in disaccordo con quella che gli sembrava una linea politica filofrancese, rassegnò le sue dimissioni dall'esercito prussiano e si arruolò, cosa frequente all'epoca, in quello russo. Membro dello Stato Maggiore russo, prese parte alla campagna del 1812 e fu tra i protagonisti dei negoziati che spinsero la Prussia ad abbandonare la coalizione napoleonica. Ritornato nell'esercito prussiano, partecipò alle campagne del 813-14 e a quella conclusiva del 1815. Divenuto generale nel 1818, si aspettava di poter ricevere adeguati riconoscimenti dal sovrano prussiano ma, sospettato di essere un riformista, venne nominato amministratore capo del Collegio militare: una carica che era a metà tra una sinecura e un insulto. Dal 1818 al 1830, lavorò al suo celeberrimo scritto “Della Guerra” ("Vom Kriege"), senza però che tutto questo periodo fosse sufficiente a fargli concludere il lavoro. Richiamato in servizio attivo a seguito degli eventi del 1831, fu inviato sul fronte polacco ove morì per la medesima epidemia di colera che uccise anche Hegel.
Il pensiero
Lo scritto in otto libri “Della Guerra” è probabilmente, oltre che il più noto, anche il più significativo tentativo nella storia occidentale di comprendere la guerra, sia nelle sue interne dinamiche sia come strumento di politica. Nella sua forma attuale il libro è giunto a noi quale fu pubblicato dalla vedova nel 1832, un anno dopo la morte di Clausewitz, raccogliendo insieme le carte del marito. Si trattava di studi che si trovavano ad un diverso livello di elaborazione e ancora largamente incompiuti. Questa incompletezza e l'assenza di una revisione finale pesano assai sul libro che risulta difficile e a volte contraddittorio. Giudizi lapidari e definizioni sintetiche si alternano a lunghe dissertazioni su minimi dettagli e anche il lettore più benevolo riesce a seguire con fatica capitoli quali quello sull'organizzazione delle marce o sulla disposizione difensiva delle truppe di montagna. Nonostante questi limiti, però, Della Guerra è ricchissimo di spunti e costituisce una lettura filosofica assai stimolante. La riflessione di Clausewitz non è indirizzata genericamente alla violenza né si occupa di considerare se la guerra sia intrinseca alla natura umana, o una dimensione permanente dello spirito. La sua indagine è assai più ristretta e presuppone l'esistenza degli Stati organizzati quali organismi politici in grado di rappresentare un intero popolo: la guerra è una delle possibili forme di relazione tra i vari Stati. Prescindendo da ogni considerazione di carattere morale, Clausewitz si prefigge di svolgere intorno alla guerra una trattazione scientifica: il suo scopo è spiegare cosa la guerra sia nella sua particolare realtà, cosa è possibile ottenere per il suo tramite, cosa invece non è lecito attendersi da essa; quale è il suo funzionamento, in che misura funziona, quali sono le linee probabili del suo sviluppo e in che modo è possibile giungere a tali previsioni. Questo non significa, però, ricercare una considerazione della guerra scientifica in senso fisico-matematico. La guerra sfugge ai rigidi modelli matematici perché è un fatto sociale ed è connessa con la competitività dei popoli: gli interessi, gli obiettivi, i mezzi e le masse delle forze che si oppongono, e che costituiscono la guerra, si influenzano continuamente e reciprocamente. In guerra le parti interagiscono tra loro cercando di spiazzarsi a vicenda, di ingannare l'avversario, di approfittare delle sue debolezze, di sorprenderlo con nuove soluzioni. La teoria dovrà dunque considerare principalmente i mezzi per giungere alla vittoria. La sintesi teorica e la sistematicità del sapere si realizzano nella coscienza del comandante di armata il quale deve saper trasformare il suo apparato concettuale in decisione: i suoi sono atti di consapevolezza trasformati in azione, in prassi. Suo compito quello di saper riportare ad unità i mille momenti scomposti e frammentari della battaglia. Questa soggettività del comandante, lontana tanto dall'arbitrio delle scelte casuali quanto dall'astrattezza di chi pretende l'applicazione di norme universali, ha un sapore hegeliano e ricorda il carattere della volontà determinata descritto nei primi paragrafi della Filosofia del diritto. In quella singolare unità di anima e corpo costituita dal comando e dalla sua armata si realizza un concetto concreto costituito dall'atto del comando. In guerra, secondo Clausewitz, tutto è finalizzato al combattimento ma questo non costituisce il fine della guerra bensì il mezzo mediante il quale si svolge. Una contraddizione soltanto apparente che trova soluzione nella distinzione tra guerra assoluta e guerra relativa. Ciò che distingue la guerra dagli altri comportamenti sociali organizzati è il fatto che lo scopo ultimo in guerra è abbattere l'avversario, piegarne la volontà sino alla cancellazione. A questo scopo, secondo la logica interna della guerra, tutto dovrebbe essere subordinato. In realtà, però, una serie di considerazioni pongono sempre dei limiti a come le guerre vengono condotte. Clausewitz distingue tra la logica interna della guerra e la sua funzione sociale. Egli mostra la guerra nel suo aspetto più puro, unilaterale, nei suoi caratteri più estremi, al fine di marcarne le differenze e le peculiarità esclusive, e poiché ciò che caratterizza la guerra è il suo carattere di violenza, Clausewitz ne estremizza le posizioni marcandole in modo assoluto: in guerra occorre colpire il nemico con forza, utilizzando subito tutta l'energia possibile, evitando ogni escalation ma cercando in tempi rapidi la decisione finale. Poiché ragionevolmente il nemico farà la stessa cosa, ogni utilizzo parziale delle forze a disposizione, ogni perdita di tempo, ogni ritardo, favorirà il nemico e danneggerà la nostra azione. Dal punto di vista della pura logica la guerra non può che tendere all'estremo assoluto. In realtà però le cose non vanno mai così e sempre una serie di considerazioni gradua lo svolgimento dell'azione bellica. Caratteri dei popoli, situazioni storiche, alleanze, disponibilità economiche, scopi politici: tutto questo spinge la guerra sempre lontano dalle sue conseguenze assolute e pone limiti costanti all'azione dei condottieri e dei governi. Dall'assoluto si passa alla condotta ragionevole della guerra, una ragionevolezza che comporta una serie di mediazioni. Tra queste Clausewitz rileva il ruolo dell'asimmetria delle forze, dell'incertezza, del maggior potere della difesa rispetto all'attacco, e soprattutto di quello che definisce l'attrito: l'inevitabile irrazionalità che si insinua nei movimenti di grandi masse di uomini e nella linea di comando, rendendo sovente vani i migliori piani militari. Tutto questo sembra rendere impossibile preparare un piano di guerra ispirandosi ai criteri della guerra assoluta. Il compito di sciogliere tutti questi nodi è affidato da Clausewitz alla politica. Come è noto una delle più celebri definizioni di Clausewitz è proprio quella relativa al rapporto tra guerra e politica: "La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi. La guerra non è dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi". È compito della politica dettare le regole della guerra, stabilire i suoi scopi e le sue modalità. "Lo scopo politico, motivo primo della guerra, darà dunque la misura tanto dell'obiettivo che l'azione bellica deve raggiungere, quanto degli sforzi che a ciò sono necessari". È proprio la politica a riportare nella concretezza ogni azione bellica, a dettare le regole e a dare alla guerra il suo senso. Lontano da ogni bellicismo e militarismo, è proprio questo generale prussiano a suggerire che sia il governo politico e non il comando militare a dare le regole alla guerra. Alla fine, infatti, è sempre la politica ad avere il ruolo maggiore e la guerra resta sempre un evento eccezionale. La politica può ricorrervi, ma non deve necessariamente ricorrervi. Essa è un mezzo, tra tanti. È indicativo che neanche nella considerazione della guerra assoluta Clausewitz (al contrario di Platone ne Le Leggi: I, 625e; 626a; 626c) si spinga tanto in là da affermare che lo Stato debba sin dalla pace prepararsi per vincere ogni guerra. La mobilitazione delle masse e delle forze morali, delle risorse, delle armi rimane un evento possibile nelle vicende umane ma non tale da determinare ogni senso delle scelte politiche. Clausewitz non vuol spiegare la guerra in termini sociologici o con teorie politiche ma comprenderne la logica interna. Il suo interesse non è però solo quello di disegnare una fenomenologia della guerra, ma anche quello di evidenziare il ruolo della comunità politica. Molte delle sue pagine sono dedicate alla situazione morale delle popolazioni oltre che delle armate e alla loro influenza sugli eventi bellici. Non la competitività o l'aggressività spingono alla guerra: è chi si difende che vuole la guerra. L'aggressore non desidera la guerra, solo ottenere vantaggi sul difensore. È questo che, per evitare svantaggi troppo forti, è costretto a difendersi sul piano militare. Ma proprio queste considerazioni spalancano il rapporto con la politica. La decisione su quali siano i limiti dei compromessi accettabili, il problema dei costi e dei tempi delle azioni belliche, i possibili vantaggi cui mirare: tutte queste sono considerazioni politiche e costituiscono il quadro di riferimento all'interno del quale avvengono poi gli eventi bellici. Senza la politica la guerra è insignificante, inconcepibile, priva di senso e scopo: priva di realtà. Considerare la guerra in stretto rapporto con la politica non equivale, naturalmente, a dire che la politica e la guerra sono la stessa cosa, bensì che solo lo Stato è considerato il rappresentante della comunità nei confronti degli altri Stati. Una guerra senza politica sarebbe insensata, non così, ovviamente, una politica senza guerra. La guerra è uno degli strumenti di cui la politica si serve per i suoi fini. La guerra comporta ineliminabilmente un elemento irrazionale e la tecnica è il tentativo di ridurre questa irrazionalità. Se poi sia la politica stessa a poter contenere in sé nuclei di irrazionalità, questo, il filosofo-generale, al suo tempo non ha saputo valutarlo. Nel suo libro, Clausewitz distingue tra un modo antico di fare la guerra, nel quale a scontrarsi sono eserciti contrapposti di professionisti della guerra e di cui è emblema Federico II, e un modo moderno di fare la guerra, nel quale si scontrano popoli e di cui è emblema Napoleone, significativamente qualificato da Clausewitz come il “Dio della guerra”.