LA CONOSCENZA NELLA FILOSOFIA ANTICA
Che i filosofi, antichi e moderni, mirino a sapere lo dice il nome stesso della loro professione: filosofia, infatti, deriva dal greco
filoV , "amico", e sofia , "sapere", e i filosofi, dunque, sono coloro che "amano il sapere". Ma non solo i filosofi aspirano a sapere: come dice Aristotele nel celebre incipit della sua "Metafisica" tutti gli uomini per natura aspirano alla conoscenza. I filosofi, però, sono coloro che hanno problematizzato la questione della conoscenza, interrogandosi su svariati aspetti del sapere e fornendo risposte spesso divergenti e contrastanti. Il filosofo, quindi, si contraddistingue fin dall’inizio per il fatto che, oltre a possedere conoscenze, le problematizza; ma, ad onor del vero, anche in campi non propriamente filosofici, come ad esempio la poesia, vengono trattati problemi analoghi (pensiamo ai testi omerici), anche se resta incommensurabilmente diverso il modo di affrontarli. Ogni sapere, in generale, ha suoi oggetti specifici: è invece difficile stabilire quali siano gli oggetti dell’indagine filosofica, poiché vi è una divergenza di prospettive. I filosofi, infatti, già a partire dall’antichità, non si trovavano quasi mai d’accordo perfino su cosa significasse conoscere, cosicchè, per chiarire questi concetti, introdussero distinzioni sempre più sottili, sollevando sempre nuovi problemi e lasciandoli in eredità ai filosofi successivi. Uno dei primi problemi ad affacciarsi sullo scenario filosofico riguardava figure di competenti, come medici o artigiani, dotati di un sapere specifico e in grado di cambiare la situazione presente: ci si cominciò a chiedere che tipo di sapere fosse e che relazione intercorresse tra il loro saper fare e il sapere in generale. Ma queste domande non fecero altro che suscitare nuove questioni, a cui si provava a trovare soluzioni soddisfacenti: pareva infatti chiaro, ad esempio, che il medico, per poter guarire i pazienti, dovesse avere conoscenza pratica dei farmaci da somministrare e che quindi il suo fosse un sapere pratico indissolubilmente legato, però, con la dimensione conoscitiva. Si andava via via delineando una sempre più netta distinzione tra sapere pratico e sapere non pratico, ma, nel contempo, sorgeva un nuovo, fondamentale dilemma: la conoscenza medica può essere suscettibile di una generalizzazione, ovvero, nel caso risulti efficace se applicata a più pazienti, può allora venire applicata alla totalità di coloro che sono affetti dalla medesima malattia. Da qui nasce il problema se la conoscenza debba riguardare un oggetto (il singolo malato) o classi di oggetti (i malati nella loro totalità); problema che, con il progredire della terminologia filosofica, verrà posto in questi termini: la conoscenza riguarda il particolare (il singolo uomo Socrate) o l’universale (gli uomini)? E’ evidente che questa problematica non riguardi solo i filosofi, ma anche i medici. Ci si cominciò poi anche a chiedere quali fossero i metodi della conoscenza: una domanda che rinviava immediatamente ad un’altra questione, ovvero quale fosse la struttura dell’uomo e di quali risorse l’avesse fornito la natura. Fin dall’inizio, naturalmente, si fu propensi a ritenere che le principali vie conoscitive concesse all’uomo fossero i sensi, ovvero la capacità di ricevere sensazioni, di percepire oggetti fuori di noi. Ampi furono, in questa prospettiva, i riferimenti ai compagni di strada dell’uomo, gli animali: il problema dell’avere una conoscenza finisce per investire anche loro (e questo è vero soprattutto con Aristotele). Ci si chiese quindi: che conoscenza può avere l’uomo? Ma anche: che conoscenza possono avere gli animali? Perché anch’essi, come l’uomo, sono dotati di sensi; in epoche più mature ci si interrogherà addirittura sull’intelligenza degli animali. Ma, dopo che fu ravvisata nei sensi la principale via conoscitiva, ci si cominciò a chiedere se essi fossero strumenti conoscitivi attendibili. Possiamo fidarci della conoscenza che passa per i sensi? Eppure essi, talvolta, ci forniscono percezioni evidentemente sbagliate, come quando ci capita di vedere doppio o quando vediamo spezzato, per un’illusione ottica, il remo immerso in acqua. Chi ci dice che, parimenti, i sensi non ci ingannino sempre? E poi, a ben pensarci, la percezione è individuale: basta la mia percezione per assicurarsi oggettivamente della realtà? E, nel caso bastasse, è sufficiente una singola percezione o devo attendere la reiterazione? Anche sull’onda di queste considerazioni, ci si accorse che l’uomo disponeva di un’altra arma conoscitiva oltre ai sensi: si trattava dell’intelligenza; e nacque subito un nuovo, assillante problema su cui arrovellarsi: che rapporto intercorre tra intelligenza e percezione? E’ sufficiente una delle due da sola? L’intelligenza controlla la sensazione o viceversa? Si tratta di problemi vivi ancora oggi, anche perché, in fin dei conti, la filosofia ha sollevato una miriade di problemi ma non ne ha mai definitivamente risolto nessuno. Nascevano ulteriori considerazioni importanti: dall’abbinamento di intelligenza e sensazione scaturisce una conoscenza vera? E come posso distinguere una conoscenza vera da una che, invece, è falsa? E una autentica da una dubbia? Affiorò la problematica del rapporto tra conoscenza, avente per oggetto la verità, e opinione, suscettibile di essere vera o falsa. Il problema della conoscenza, quindi, finiva per trascinarsi appresso quello della distinzione tra vero e falso. Addirittura, nel corso della storia della filosofia, ci fu un momento in cui fu messa in forse la possibilità di avere conoscenza: è il caso degli Scettici, i quali sospendevano il giudizio (la famosa epoch ), rinunciando a dire cosa fosse vero e cosa falso. Emerse poi un altro problema: di una medesima cosa si poteva conoscere il "che" e il "perché"; ad esempio, un conto è sapere che il fuoco brucia, altra cosa è sapere perché il fuoco brucia. Quale tra le due conoscenze è superiore, quella del che o, viceversa, quella del perché? Aristotele e Platone sostennero che conoscere il perché delle cose significa spiegarle, ossia conoscere le cause che le hanno prodotte, con l’inevitabile conseguenza che, la conoscenza del "che" è assai inferiore. In altri termini, la conoscenza del perché fornisce indicazioni generalizzabili, grazie alle quali è possibile costruire una scienza. Un altro problema che si dovette presto affrontare fu questo: per avere una vera conoscenza bastano conoscenze isolate o si deve piuttosto essere in possesso di un sistema integrato di conoscenze? Questa tematica sarà particolarmente sentita e dibattuta in età ellenistica, quando gli Stoici, gli Epicurei e gli Scettici provarono a tratteggiare la figura del sapiente: per gli Stoici, ad esempio, il sapiente sarà colui che detiene tutte le conoscenze possibili, a tal punto che, per loro stessa ammissione, un vero sapiente non è praticamente mai esistito. Naturalmente, col passare del tempo il sapere tende sempre più a specializzarsi con l’inevitabile conseguenza che diventa sempre più difficile stabilire chi sia il filosofo e capire quale sia il linguaggio mediante il quale il filosofo si esprime. Se è vero che ogni storia ha un suo punto di partenza, bisogna chiarire da dove parta la storia della filosofia: e si può notare come la questione della conoscenza umana cominci a sorgere in connessione al riconoscimento dell’esistenza di una conoscenza divina; proprio il rapporto uomo/divinità costituisce il punto di partenza e il problema può sinteticamente risolversi nella questione se l’uomo disponga o no di una conoscenza in qualche modo accostabile a quella della divinità. Ovviamente la domanda rimanda all’interrogativo: quale rapporto intercorre tra le due conoscenze, quella umana e quella divina? Per trovare qualche risposta dobbiamo rivolgerci soprattutto ai testi poetici: nei poemi omerici, ad esempio, in cui sono spesso menzionati i tecnici, gli indovini e i medici, i poeti presentano i loro canti come il risultato di un ammaestramento divino; la divinità, dunque, era posta all’origine della loro espressione, il che significa che i poeti esprimono un sapere che è a tutti gli effetti divino. Era infatti convinzione comune che la conoscenza fosse assolutamente impossibile senza l’intervento divino ed è in questa prospettiva che Esiodo e Omero presentano i loro poemi; in un passo dell’VIII libro dell’Odissea, Odisseo tesse le lodi del cantore Demodoco: " certo Apollo o la musa figlia di Zeus ti istruirono "; il cantore, solo perché il sapere gli proviene da una fonte superiore, può cantare ciò che capitò agli Achei a Troia pur senza aver visto coi suoi occhi. Anche l’incipit della Teogonia esiodea è, sotto questo profilo, particolarmente significativo: " sono le muse che un giorno un bel canto insegnarono a Esiodo ". Ma - e qui sta la cosa interessante - le muse in Esiodo raccontano anche cose false, cosicchè sta all’uomo capire gli ammaestramenti divini, evitando di riceverli passivamente; in altri termini, il messaggio è che non ogni forma di poesia, perché ispirata dalle muse, è autenticamente vera. Si affaccia così, seppur timidamente, l’idea che la conoscenza umana abbia una sua indipendenza. Si invita il poeta a vigilare sulla qualità del messaggio trasmesso; fatto sta che per Esiodo egli possiede una conoscenza eccezionale, del futuro, del presente e del passato, e tende dunque a sfumare nella figura dell’indovino detentore di un sapere totalizzante. Soffermando la nostra attenzione sul I libro dell’Iliade, a proposito dell’indovino Calcante viene detto: " conosceva il presente, il futuro e il passato […] l’arte sua di indovino che gli donò Febo Apollo ". Quella dell’indovino è una figura antica e appartiene, oltre che alla Grecia, anche al vicino Oriente: perfino ai medici è spesso attribuita la capacità di prevedere il futuro; non a caso, la "prognosi" di cui parla Ippocrate nel V secolo a.C. era, in origine, una previsione della salute per il paziente. Alcune tavolette babilonesi contenevano poi elenchi di segni desunti dal mondo animale in base ai quali si potevano formulare previsioni collegando il segno che si presentava con un evento destinato a verificarsi: ad esempio, troviamo scritto che " se una lucertola si arrampica sul letto del malato, egli guarirà ". In questa prospettiva, il futuro può essere predetto a patto che si presentino segni particolari, secondo una formula del tipo: "se x, allora y". Lo stesso contenuto dei sogni si credeva che fosse indicativo, poiché si riteneva che essi svelassero cose che si sarebbero verificate in futuro (ancora nel V secolo i medici ippocratei ne tenevano conto). Ma anche gli artigiani e i medici, dunque, oltre ai poeti, erano detentori di una forma di sapere e, stando a quel che dice Omero, compivano le loro opere con l’appoggio delle divinità: sempre Omero racconta di un’erba dai poteri straordinari che poteva essere sradicata solo da una divinità e resa nota ai medici dalla divinità stessa; anche il sapere dei medici, come quello dei poeti, era dunque concepito come divino. Tuttavia (e qui sta la differenza rispetto ai poeti) il sapere dei medici e degli artigiani si accompagna al saper fare, al saper costruire oggetti o produrre la salute. Si continuava a riconoscere che senza l’intervento divino il sapere non aveva carattere assoluto, riconoscendo in tal senso i limiti della propria conoscenza e constatando che il sapere umano non avrebbe mai potuto competere con quello divino per vastità e profondità. E dunque dal confronto con l’alto (Dio) e col basso (gli animali), si intravedeva la possibilità di definire la conoscenza umana: e tale via comincia ad essere battuta da un pensatore attivo dal VI al V secolo nella Magna Grecia, Alcmeone di Crotone, che viene solitamente messo in relazione con il pitagorismo. Medico di professione, era soprattutto mosso dall’esigenza di capire esattamente quale potesse essere la portata della conoscenza umana. Egli distingueva in modo marcato la conoscenza umana da quella divina, mettendo in luce fin dove quella umana potesse estendersi. Il sapere divino veniva da Alcmeone qualificato come safhneia , ovvero assoluta certezza; quello umano, dal canto suo, veniva visto come notevolmente meno chiaro. Quelle cose che per gli uomini risultano invisibili, sono, ad avviso di Alcmeone, perfettamente visibili per gli dèi: il conoscere umano procede attraverso indizi (tekmhria) o, nel linguaggio medico, sintomi. Si deve dunque costruire il sapere a partire dai segni, così come il medico parte dai sintomi per diagnosticare la malattia. Per superare il buio, quindi, non ho bisogno di divinità che mi aiutino, ma piuttosto di tekmhria sui quali fare inferenze, passando così dalle cose certe a cose che certe non sono. Questi indizi intorno ai quali edificare la conoscenza sono essenzialmente coglibili nell’ambito delle sensazioni, cosicchè si parte da ciò che si presenta ai sensi per arrivare a ciò che ad essi non si presenta; bisogna però spiegare come funziona questo passaggio e quale è lo strumento che consente di attuare l’inferenza. Ed è qui che entrano in gioco gli animali: infatti anch’essi hanno percezioni, ma è solo l’uomo a poterle comprendere, ossia "raccogliere e connettere" ciò che proviene dai singoli organi di senso. Ma ciò non toglie che attraverso quest’operazione di raccoglimento e connessione dei dati sensoriali l’uomo finisca per costruire una conoscenza inferiore rispetto a quella divina: " delle cose visibili e delle invisibili solo gli dèi hanno conoscenza certa ( safhneia ); gli uomini possono soltanto congetturare […]. L’uomo differisce dagli altri animali perché esso solo comprende " (ovvero sa connettere i dati sensoriali). Questa tesi, secondo la quale la conoscenza divina è più ampia e precisa, è avanzata anche da Senofane di Colofone, che, secondo l’autorevole testimonianza di Platone, sarebbe stato il capostipite dell’eleatismo. Il punto di partenza della sua riflessione è costituito dalla critica alle concezioni antropomorfe della divinità, sintetizzabile nei suoi famosi versi: " ma se i buoi, i cavalli e i leoni avessero le mani, o potessero disegnare con le mani, e fare opere come quelle degli uomini, raffigurerebbero gli dei, il cavallo simili ai cavalli, il bue ai buoi, e farebbero loro dei corpi come quelli che ha ciascuno di loro ". E’ facile comprendere perché Platone scorgesse in lui l’archegeta dell’eleatismo: introducendo una sola divinità, Senofane finiva per proporre quell’unità tanto cara a Parmenide e ai suoi discepoli. Se è sbagliato propugnare l’antropomorfismo degli dèi, altrettanto sbagliato è, nell’ottica di Senofane, ritenere che la conoscenza divina sia paragonabile a quella umana: il sapere proprio della divinità è infatti incommensurabilmente superiore rispetto a quello umano, e gli uomini, nella migliore delle ipotesi, possono acquisire qualche certezza dopo aver percorso un faticoso itinerario conoscitivo; il tema della conoscenza come tortuosa via da percorrere sarà ripreso e approfondito da Parmenide stesso. Senofane dubitava fortemente che la divinità aiutasse gli uomini a conoscere, mettendo in questo modo l’accento sulla responsabilità umana della conoscenza: senza godere di aiuti divini, l’uomo è responsabile e artefice della propria conoscenza. Naturalmente, con la maggiore indipendenza dell’umano dal divino aumenta la fragilità della situazione umana, poiché gli uomini devono agire solo in virtù delle proprie forze, in quanto la divinità non ha fatto loro alcun dono (né le tecniche né il sapere). La prospettiva è piuttosto simile a quella di Alcmeone, ma diversa è la soluzione: se per il filosofo di Crotone agli uomini non restava che congetturare, secondo Senofane, invece, l’unica arma conoscitiva di cui essi dispongano è quella che egli definisce, introducendo un termine destinato al successo, dokoV , l’opinione. La conoscenza umana è, dunque, essenzialmente opinione, nemmeno congettura; il termine "opinione" suggerisce, tra l’altro, l’idea di una instabilità del sapere umano, suscettibile di essere vero o falso. Ma Senofane lascia una via per sperare: agli uomini è infatti concesso di avanzare verso il meglio, verso cioè opinioni migliori: in un frammento, egli asserisce che " uno, Dio, tra gli dèi e tra gli uomini il più grande, né per aspetto simile ai mortali, né per intelligenza "; la superiore intelligenza della divinità, ovvero le superiori attività percettive e intellettive che la contraddistinguono, dice Senofane, sono tali perché coinvolgono la divinità nella sua totalità: gli uomini con un senso vedono, con un altro gustano, con un altro ancora odono, e così via, mentre la divinità non presenta, nella sua interezza, distinzioni sensoriali. Ciò non toglie, però, che, pur nella loro notevole inferiorità, gli uomini possano acquisire conoscenze via via migliori: " non è che in principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali; ma col tempo, ricercando, essi trovano il meglio ". La conseguenza necessaria di questa riflessione è che, procedendo per opinioni, il sapere umano non potrà mai raggiungere certezze, ma solo, come abbiamo già detto, opinioni più accreditate di altre: " il certo nessuno mai lo ha colto, né alcuno ci sarà che lo colga né relativamente agli dèi, né relativamente alle cose di cui parlo "; sotto questo profilo, anche quando crediamo di dare una definizione esatta di qualcosa, in realtà ci muoviamo comunque nell’ambito dell’opinione: ciascuno di noi può esprimere a parole nel migliore dei modi ciò che qualcosa è, ma non per questo può conoscere con certezza, nel suo linguaggio, la cosa stessa. Anche Parmenide di Elea, maggior esponente dell’eleatismo, si propone di percorrere la via del sapere per raggiungere una forma di conoscenza quanto più precisa. Per meglio caratterizzare il proprio scopo, egli ricorreva alla metafora della via da percorrere e da seguire, inserendo questa concezione nei versi del suo poema Peri fusewV ("Sulla natura"): proprio in quest’opera, attribuiva ad una dea il compito di illuminarlo e di guidarlo nel difficile itinerario che portava alla conoscenza; era anzi proprio l’ausilio della dea che gli permetteva di raggiungere la meta e, quindi, quella verità che sarebbe stata irraggiungibile percorrendo la via degli uomini comuni, ossia l’opinione. Come i suoi predecessori poeti, anche Parmenide ha un messaggio da trasmettere, poiché anche lui è interprete di un’illuminazione divina: il suo poema, dunque, alla pari di quello dei poeti ispirati dalle muse, contiene una verità divina, di cui il filosofo è portavoce; la grande novità, però, risiede nel fatto che Parmenide sia protagonista in prima persona e che la vicenda narrata altro non sia se non il viaggio (in greco odoV ) che l’ha portato a scoprire la verità; la divinità si limita a mostrare al filosofo la via da seguire ed egli dovrà percorrerla contando esclusivamente sulle proprie forze. Parmenide stesso, in modo analogo, si limiterà ad indicare agli uomini la via da seguire e spetterà a loro scegliere se percorrerla o no. Il punto di partenza dell’indagine parmenidea è il rilevamento di un’evidente contraddizione: si vedono le cose di natura essere e non essere di continuo, ossia in un perenne divenire (ora ci sono, ora non ci sono), ma è soprattutto nel linguaggio, ancor più che nel mondo fisico, che possiamo rilevare la contraddizione; sono gli uomini, infatti, a parlare in modo contraddittorio delle cose e finchè questo approccio sbagliato non sarà superato si resterà nel mondo dell’opinione. La via dell’opinione è, per sua stessa natura, suscettibile di essere vera oppure falsa (la cosa ora è, ora non è) mentre l’unica via di ricerca che conduce alla verità è quella che dice che ciò che è è e non può non essere o, al contrario, che ciò che non è non è e non può essere. La contraddizione appena delineata scaturisce dall’ambito sensoriale, poiché siamo portati a vedere che, nell’ambito fisico, le cose ora ci sono, ora non ci sono, ovvero sono in costante divenire: la conoscenza sensibile è, dunque, la via dell’opinione. La vera via del sapere è quella che dice o che una cosa è o che non è, senza mediazione alcuna: al di là del dire "è" o "non è" non si può dire una terza cosa, secondo quel principio che in età medioevale sarà formulato come "tertium non datur". Sotto questo profilo, il divenire altro non è se non un’indebita mescolanza di essere e di non essere: una cosa ora è, ora non è. Va però precisato che, nei testi che ci sono pervenuti, Parmenide non specifica quale sia il soggetto di "è" e di "non è", ma, nonostante questa lacuna, il punto cardinale sta nel capire il carattere necessario di questa disgiunzione. Il filosofo di Elea distingue tra essere, pensiero, linguaggio: si può solo dire e pensare ciò che è, mentre non si può pensare o dire ciò che non è; pur non precisando il soggetto, Parmenide parla anche di "ciò che è" e di "ciò che non è", e sostiene che l’unica via percorribile è quella di dire ciò che è, poiché non è possibile imboccare la seconda strada, cioè dire o non dire ciò che non è. Ma la maggior parte degli uomini segue una terza via, quella che dice contemporaneamente "è e non è", parlando di nascita e morte e, dunque, supponendo un’assurdità: che l’essere nasca dal non essere. Uno dei problemi più sentiti (e presente in qualche misura anche in Parmenide) era rappresentato da come si potesse trarre inferenza dalle cose visibili a quelle invisibili; all’uomo, infatti, non risulta chiaro come sia fatto il mondo e perché sia fatto così, ma non è impossibile raggiungere questa forma di sapere: si tratta di andare al di là della molteplicità visibile per arrivare a cogliere uno o più princìpi capaci di spiegare in modo vero la struttura del mondo. Ed è a questo tentativo che si possono ricondurre le esperienze dei primi filosofi della storia(Talete, Anassimandro, Anassimene), i quali andavano alla ricerca di un misterioso arch ("principio") in grado di rendere conto della struttura del mondo nella sua infinita molteplicità. Nel I libro della Metafisica, Aristotele presenta questi pensatori come primi filosofi della storia, distinguendoli dagli scrittori di miti, dai teologi e dai poeti perché essi per primi hanno investigato sul perché delle cose argomentando in maniera deduttiva. Mentre Talete e Anassimene muovono alla ricerca di un principio assolutamente fisico (e lo ravvisano, rispettivamente, nell’acqua e nell’aria), Anassimandro, invece, scorge quest’entità costitutiva primaria da cui tutte le cose si sono differenziate in un qualcosa di invisibile, non direttamente percepibile, che lui chiama apeirov ("infinito"). L’idea, che sarà poi di Parmenide, secondo la quale non tutti gli uomini possono accedere al sapere era forte in Eraclito da Efeso: la consapevolezza della propria eccezionalità è attestata da alcuni aneddoti che confermano l’altezzosità di Eraclito, ma anche la sua oscurità espressiva. Aristotele stigmatizzava il suo stile, considerandolo oracolare e, quindi, indegno di un filosofo: il testo di Eraclito, in effetti, è molto ambiguo, volutamente ambiguo, poiché, a suo avviso, la verità non doveva essere facile da comprendere, ma, al contrario, richiedeva grandi sforzi. Esempio tipico di questo linguaggio di difficile comprensione è il frammento 1, che destò parecchi dubbi perfino in Aristotele: " di questo lógos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato […] ". Bastava infatti una virgola a stravolgere il senso dell’intera frase: Eraclito voleva dire "di questo lógos che è, sempre gli uomini non hanno intelligenza " oppure di questo lógos che è sempre, gli uomini non hanno intelligenza " ? Altrettanto ambiguo è il frammento 2, in cui troviamo scritto: " bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo lógos comune (xunoV), la maggior parte degli uomini vive come se avesse un propria e particolare saggezza "; l’ambiguità sta nel termine "comune", che in greco troviamo espresso con il termine xunoV ; infatti, se xunoV significa "comune", xun now significa "con l’intelligenza": dunque Eralicito forse vuole dire che gli uomini non hanno intelligenza di ciò che è comune, cioè il logoV . Quest’ultimo termine, del resto, attorno al quale ruota tutta la filosofia di Eraclito, riveste una miriade di significati tutti compresenti: logoV , infatti, è della stessa famiglia del verbo legw, che significa "parlare" ma anche "raccogliere", "contare", "dare conto di"; e in epoche meno antiche passò anche a designare, in ambito matematico, il "rapporto", la "proporzione". Nella filosofia di Eraclito, il logoV è espressione a livello linguistico di ciò che le cose sono (ed è appunto quel che troviamo negli insegnamenti di Eraclito stesso), ma è anche la ragione capace di rendere conto delle cose stesse e dell’ordine dell’universo. E la ragion d’essere che si esprime in questo logoV è la dialettica tra gli opposti: nelle singole cose, nota Eraclito, sono presenti i contrari, in costante guerra tra loro; ed egli ci mostra questo conflitto tra opposti in diversi modi: nel frammento 48 dice che " l'arco ha dunque per nome vita e per opera morte ", in quanto il termine greco che designa l’arco ( bioV ) è lo stesso che designa la vita; in modo assai simile, nel frammento 60 asserisce che " una e la stessa è la via all'in sù e la via all'in giù ". Anche Eraclito polemizza contro le opinioni degli uomini, accusandoli di fermarsi alle cose visibili senza riuscire a gettare uno sguardo all’invisibile e deridendoli per il fatto che essi prestano fede alla "multiscienza" (polumaqia), al sapere tanto molteplice quanto presunto delle cose. A questi uomini sfugge che " la natura ama nascondersi " e che l’armonia invisibile è migliore di quella visibile; ciononostante, Eraclito non nutre una radicale sfiducia nei sensi, ma, semplicemente, è convinto che essi, da soli, non siano sufficienti. Ed è per questo che ritiene opportuno prestare attenzione anche alla situazione in cui versano coloro che usano i sensi come unico mezzo di conoscenza: " per anime barbare i sensi sono cattivi testimoni ", dove i barbari sono, secondo Eraclito, coloro che non parlano il greco; essi si fidano dei loro sensi e, in questo modo, non riescono a comunicare con il logoV. E’ dunque necessario spingersi oltre le barriere dei sensi per raggiungere, mediante le parole, il significato profondo delle cose stesse: chi, come i barbari, si arresta di fronte alla barriera sensoriale è da Eraclito accostato a chi è desto ma è come se dormisse (frammento 1: " agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo "). Quando si entra in contatto con ciò che è comune, allora si sveglia l’intelligenza e gli uomini si fanno intelligenti: " unico e comune è il mondo per coloro che sono desti " (frammento 89), mentre nel sogno ciascuno si rinchiude in un mondo che è solamente suo e a cui gli altri non hanno accesso. Resta ora da chiedersi che cosa si debba fare per entrare in contatto con il LogoV comune: a tal proposito, Eraclito asserisce in modo significativo, nel frammento 101: " ho indagato me stesso "; solo chi indaga la propria persona, seguendo l’inscrizione presente sul tempio di Delfi gnwqi sauton ("conosci te stesso"), può attingere al LogoV comune, mentre gli uomini che non compiono quest’operazione " danno retta agli aedi popolari, si valgono della folla come maestra "; in quest’ottica, i molti non valgono nulla e a contare davvero sono i pochi. Eraclito se la prende anche con i sapienti (una delle prime polemiche della storia della filosofia), cui rinfaccia di imbandire una conoscenza che altro non è se non erudizione: " sapere molte cose ( polumaqia ) non insegna ad avere intelligenza: l'avrebbe altrimenti insegnato ad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane e ad Ecateo " (frammento 40). Ad accomunare la via di ricerca intrapresa da tre filosofi diversissimi tra loro, Democrito, Anassagora ed Empedocle, è la convinzione che l’uomo possa conoscere a fondo la struttura dell’universo perché, in ultima istanza, egli è costituito dagli stessi elementi che compongono l’universo stesso: in altri termini, secondo la convinzione di questi pensatori, la similarità dell’uomo con il mondo gli permette di conoscerlo. Certo siamo di fronte a tre figure di sapiente non amalgamabili tra loro: vivono tutti a cavallo tra la prima e la seconda metà del V secolo a.C. Empedocle da Agrigento è, dei tre, il più giovane ma si configura, per molti aspetti, come il più anziano: è un sapiente eccezionale e la sua raffigurazione se la dà lui stesso, sostenendo che a conferirgli poteri fuori dal comune è il sapere di cui è detentore. Compose un’opera intitolata Peri fusewV e una dal titolo Purificazioni: non è però ancor oggi chiaro se le Purificazioni fossero una parte del poema Peri fusewV o un’opera indipendente. E del resto le due opere sono incommensurabilmente diverse: nel Peri fusewV Empedocle si attiene al sapere fisico, nelle Purificazioni disserta di trasmigrazione delle anime e di colpe da scontare nelle reincarnazioni; ci troviamo dunque di fronte ad un Empedocle fisiologo contrapposto ad un Empedocle mistico. Le Purificazioni, dedicate ai migliori destinatari, si aprivano così: " o amici, che la grande città presso il biondo Acragante / abitate sul sommo della rocca, solleciti di opere buone, / porti fidati per gli ospiti, ignari di malvagità, / salve! Io tra voi come un dio immortale, non più mortale / mi aggiro fra tutti onorato, come si conviene, / cinto di bende e di corone fiorite. " Affiora chiaramente la concezione che Empedocle ha di se stesso: egli si propone come un dio immortale e dotato di poteri formidabili, preclusi ai più. La stessa tradizione ci ha descritto Empedocle come un indovino, profeta, medico, mago ed eroe: si racconta perfino che avrebbe richiamato in vita una donna che non respirava più da quaranta giorni (Galeno ne farà un caso di isteria più che di medicina). Eppure c’è un modo per conciliare le vocazioni poetiche, magiche, eroiche e mediche di Empedocle con la sua attenzione naturalistica: la filosofia così com’egli l’ha concepita l’ha portato a comprendere la struttura profonda dell’universo, penetrando quell’invisibile inaccessibile agli altri uomini; con la conseguenza che, secondo il filosofo agrigentino, solamente chi conosce l’universo può intervenire in termini pratici su di esso. Intorno alla figura di Empedocle circola un pulviscolo di aneddoti che hanno fatto quasi sfumare nella leggenda il personaggio: per esempio si narra che egli avesse arrestato il soffiare dei venti portatori di pestilenza ad Agrigento (e per questo fu detto "carceriere dei venti") o che si fosse gettato nell’Etna per dimostrare la propria immortalità divina. La convinzione di fondo che sta alla base della sua filosofia è, come abbiamo detto, la credenza che si possa conoscere il mondo perché siamo costituiti dai suoi stessi elementi: a tal proposito, egli rintraccia quattro "radici" ( rizwmata ), ovvero quattro elementi fondamentali che compongono l’universo (acqua, aria, terra, fuoco) e legge il processo conoscitivo in chiave di attrazione del simile verso il simile. Il simile che è nelle cose riconosce il simile che è in noi, cosicchè il simile conosce il simile: ciò tuttavia non significa che la conoscenza si risolva in un processo di assimilazione, quasi come se l’uomo rendesse simili a sé gli oggetti. Viceversa, spiega Empedocle, ciascuno di noi è dotato di minuscoli pori da cui entrano flussi di materia provenienti dai corpi estranei (per attrazione del simile sul simile): riusciamo a riconoscere cosa sta fuori di noi perché noi stessi siamo costituiti dai medesimi quattro elementi. Sorge spontanea la domanda: e con che strumento avviene, concretamente, la conoscenza? Con i sensi: Empedocle non dubita della loro validità come mezzi gnoseologici, ed è consapevole che non sia facile cogliere la verità; l'errore più grave che si possa commettere (e che, di fatto, si è inclini a commettere) è di privilegiare un senso specifico trascurando gli altri: al contrario, tutti e cinque i sensi hanno pari dignità e ciascuno di essi avvalora ciò che testimoniano gli altri, sicchè tutto il nostro corpo è coinvolto nella conoscenza, la quale avviene, ad avviso di Empedocle, in tempi molto lunghi e con difficoltà consistenti. La verità che il pensatore agrigentino vuole trasmettere è racchiusa nelle parole da lui pronunciate: il suo linguaggio, dunque, è il linguaggio della verità, latore di un messaggio salvifico che redime dalla colpa originaria che ciascuno di noi sconta nella vita attuale. Ma è assai difficile persuadere la mente umana, perché essa è infestata da credenze che si fermano al sensibile ed Empedocle in persona prega Dio affinchè lo liberi da questa prigionia, dalla " follia " in cui sono immersi gli uomini comuni; ed è appunto per differenziarsi da costoro che egli impiega un linguaggio innovativo. Nella storia della filosofia antica si fa sempre più strada l’idea che la vera conoscenza attinga alla profondità delle cose, non alla loro parvenza: in questa prospettiva si muove già, come abbiam visto, Empedocle, ma non è il solo; acccanto a lui, anche Democrito e Anassagora intraprendono, entrambi nel V secolo a.C., la stessa via. Anassagora , proveniente dalla Ionia e, in particolare, dalla città di Clazomene (situata nell’attuale Turchia), riveste un’importanza particolare perché con lui il pensiero antico sbarca ad Atene, città che, da quel momento per parecchi secoli, costituirà il fulcro della vita intellettuale. Ad Atene giungeranno pensatori e uomini di cultura da tutto il mondo: grandi poeti tragici (Sofocle, Euripide), grandi commediografi (Aristofane) e illustri medici (Ippocrate). Il trasferimento di Anassagora ad Atene segna poi la fine del naturalismo ionico: da quel momento la filosofia cambia modi e oggetti, abbandonando l’indagine sulla ricerca del principio. Non bisogna dimenticare che quando Anassagora approda ad Atene, proprio in tale città Socrate stava cominciando la propria formazione (nel "Fedone", Platone ci riferisce che Socrate ebbe modo di leggere e di criticare Anassagora). Anassagora, dunque, è l’ultimo ad occuparsi, in senso stretto, di studi della natura, poiché con Socrate la filosofia cambia oggetti di riflessione e si trasforma in riflessione sui logoi , sui discorsi e sui valori umani. Anassagora riveste un ruolo di rilievo anche perché fu uno dei primi pensatori della storia ad essere condannato di empietà (condivideranno una sorte analoga anche Socrate e Protagora) per le idee rivoluzionarie di cui si faceva portavoce: giusto per addurre un esempio, la sua convinzione che gli astri fossero costituiti da terra e il sole da fuoco non poteva che suscitare lo sdegno dei benpensanti che leggevano in essi la presenza divina. Per Empedocle gli elementi costitutivi dell’universo erano di numero limitato (quattro radici) ed erano abbinati a delle divinità; ora, per Anassagora alla base della realtà non stanno quattro radici, ma un numero infinito di princìpi , poiché l’infinita varietà della realtà non può spiegarsi se non postulando una serie infinita di princìpi che, associandosi o disgregandosi, danno origine alla composizione o alla dissoluzione dei corpi. Anassagora, per rendere più concreto il discorso, ricorreva ad una metafora di stampo biologico: chiamava "semi" i suoi princìpi, con un evidente riferimento alla generazione animale e vegetale tramite i semi. Tali semi stanno a principio di ogni generazione, sono infiniti di numero, ma anche infinitamente divisibili: infatti, dice Anassagora, per quanto li si possa suddividere, non si arriva mai ad un punto ultimo non ulteriormente divisibile. Anassagora ne traeva la conseguenza che " tutto è in tutto ": gli uomini mangiano un singolo pezzo di pane e crescono le loro unghie, i loro capelli, ecc., perché nel pane stanno nascosti i semi di tutte le cose (quindi anche dei capelli, delle unghie, ecc.); sorge spontaneo chiedersi perché, stando così le cose, non si vedano tutti i semi ma solo un pezzo di pane. La risposta di Anassagora è che tutti i semi che costituiscono il mondo sono compresenti nel pezzo di pane, ma sono invisibili perché troppo piccoli e troppo pochi rispetto ai semi del pane; sicchè vedo questi ultimi proprio in virtù del fatto che sono in stragrande maggioranza. Questa prospettiva può essere compendiata nel detto: " oyiV adelwn ta fainomena , "le cose che appaiono sono uno sguardo sulle cose oscure", con l’idea che ciò che appare alla vista consente empiricamente di gettare uno sguardo su ciò che non si vede. Il punto di partenza, anche per Anassagora, resta il visibile: sul piano gnoseologico, questo consente di affermare che la conoscenza procede per inferenze, ovvero si parla di ciò che non si vede a partire da ciò che invece si vede. Ma il sapere umano, secondo Anassagora, procede gradualmente e l’esperienza costituisce solo il primo e il più basso, nonché il più immediato, gradino della scala conoscitiva, gradino sperimentabile con facilità da tutti quanti; ma al di là di questo livello base si colloca la memoria, formata dal ripetersi delle esperienze. Essa restringe la conoscenza al solo ambito umano, precludendola a tutti gli altri esseri. Anassagora, poi, faceva nascere dalla memoria il terzo gradino, quello della sofia (sapienza), in riferimento alla sua dimensione teorica: la sofia altro non è se non il sapere puro, meramente intellettuale. E al gradino più alto della sua scala gnoseologica, il pensatore di Clazomene collocava quella che a suo avviso era la conoscenza superiore a tutte le altre: la tecnh , il sapere tecnico. Dopo aver distinto nettamente il sapere (sofia) dal saper fare (tecnh) in virtù del fatto che la "tecnica" implica il risvolto pratico della conoscenza, Anassagora predilige il saper fare rispetto al puro e semplice sapere, perché convinto che l’uomo riveli la propria grandezza conoscitiva quando produce oggetti. Anzi, a rigore, l’applicare ciò che ha appreso all’attività pratica è ciò che più contraddistingue l’uomo dagli altri animali: la supremazia dell’uomo sul mondo è, in quest’ottica, determinata dal possesso delle mani. Stando a quel che ci riferisce Aristotele, Anassagora sostiene che l’uomo è il più intelligente fra gli animali perché è dotato delle mani; dal canto suo, Aristotele capovolge l’asserto anassagoreo e arriva a dire (in una prospettiva finalistica) che l’uomo ha la mano perché è il più intelligente fra gli animali. Anche Democrito di Abdera procede in direzione piuttosto simile ad Anassagora: anche a suo avviso la conoscenza è possibile grazie alla similarità tra l’uomo e gli oggetti del suo sapere, ed è altresì convinto che la conoscenza giaccia in profondità e sia raggiungibile per inferenza a partire dal visibile. Democrito è passato alla storia, insieme al suo maestro Leucippo (di cui sappiam pochissimo), per aver gettato le basi dell’atomismo: con lui, con Anassagora e con Empedocle il problema della conoscenza diviene un problema assolutamente fisico; infatti, per Empedocle il simile attira il simile (sento il calore di un oggetto perché il calore è già presente in me), per Anassagora è il dissimile che conosce il simile (conosco il caldo in virtù del fatto che so cosa sia il freddo, attraverso una compenetrazione degli opposti); il chiamare in causa l’anima nel processo conoscitivo arriverà solo un po’ di tempo dopo. La dottrina atomistica, così come viene formulata da Democrito, ha degli sviluppi grazie ad Epicuro e a Lucrezio, anche se, in realtà, i tratti generali che la contraddistinguono restano pressochè invariati: ciò che più colpisce di tale dottrina è la sua marcata economicità, grazie alla quale con una sola ipotesi si spiegan tutti i fenomeni esistenti. Nella ricerca della chiave di lettura della perennità dei movimenti di generazione e corruzione (evitando però l’inganno eleatico della negazione del divenire), questi tre pensatori (Empedocle, Democrito, Anassagora) tendono a postulare una molteplicità di princìpi (per questo sono spesso chiamati "pluralisti") in base ai quali spiegare tali processi di aggregazione e disgregazione: i princìpi considerati da Empedocle sono le "radici", quelli di Anassagora i "semi" e quelli di Democrito sono gli "atomi", accomunati dal fatto di essere un "sostrato" (la definizione è di Aristotele) che non muta mai e garantisce in eterno la generazione e la corruzione. Come si dimostra l’esistenza degli atomi? Osservando le cose che continuamente divengono sotto ai nostri occhi: nell’aggregarsi e nel disgregarsi costante cui vanno incontro le cose, ci dovrà pur essere qualcosa che non muta mai, altrimenti le cose e, in generale, il mondo si sarebbe già disgregato da tempo; questo qualcosa sono, secondo Democrito (e secondo Epicuro, che si avvarrà di questa dimostrazione) gli atomi (aqumoi), strutture che non possono essere divise e che quindi sono totalmente "piene"; essi sono l’ultima parte che resta quando si divide un corpo fino ai suoi elementi di base; se i "semi" di Anassagora erano infinitamente divisibili, gli atomi democritei non lo sono (Leibniz avrà da ridire con la nozione così intesa di atomo), perché se lo fossero allora sarebbero composti da parti e quindi sarebbero soggetti alla corruzione e all’aggregazione. Accanto agli atomi, Democrito introduce la nozione di "vuoto", che deve necessariamente essere postulato come condizione per il movimento degli atomi: se infatti tutto fosse "pieno", gli atomi non avrebbero spazio in cui muoversi e l’aggregazione e la disgregazione non potrebbero avere luogo; ma i sensi ci testimoniano il contrario, per cui è necessario postulare il vuoto. E’ curioso il fatto che, influenzato dall’eleatismo, Democrito chiamasse gli atomi e il vuoto, rispettivamente, "essere" e "non essere", parlando a livello fisico di ciò che per Parmenide era a livello puramente logico. Gli atomi non sono infinitamente divisibili, ma sono di numero infinito: il che comporta importantissime conseguenze; prima fra tutte, il fatto che siano infinitamente aggregabili, ovvero possono dare vita a infinite combinazioni e, di conseguenza, a infiniti mondi. In secondo luogo, di vuoto se ne parla in due accezioni: c’è un vuoto esterno (condizione di movimento per gli atomi); ma anche nelle strutture che si formano dall’aggregarsi degli atomi vi sono parti vuote e ciò è attestato dal fatto che la struttura dei corpi è suscettibile di trasformazioni: la struttura dell’animale è indubbiamente compatta, eppure cresce (ovvero assume materia) e invecchia (cede materia), e questo si spiega solo in base al movimento degli atomi all’interno di questa struttura. Dunque ci deve essere il vuoto anche all’interno dei composti di atomi. Asserendo che tutto è costituito da atomi, Democrito presuppone la similarità di struttura tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: tutta la conoscenza, dunque, è riconducibile ad una forma di sensazione e l’anima stessa è un composto di atomi cosicchè la conoscenza di cui essa è artefice avviene per aggregazione. Aristotele, nel "De anima", ci riferisce che per Democrito l’intelligenza è legata alla presenza di atomi ignei nell’anima, caldi e velocissimi e, dunque, idonei per spiegare la velocità del pensiero. Nell’ottica democritea, non c’è differenza di livelli di conoscenza, tutto è percezione (persino gli oggetti del pensiero): dal cielo alla terra non ci sono che corpi costituiti da atomi e contenenti il vuoto e che (proprio perché contenenti il vuoto) emanano gli eidwla, le "immagini" delle cose; tali eidwla altro non sono se non atomi che si staccano continuamente dai corpi (Epicuro parla di pulsazione dei corpi stessi) e si rendono così a noi percepibili. Anche il corpo del soggetto percipiente, infatti, è un aggregato atomico dotato di vuoto o, meglio, di canali vuoti: gli eidwla si incuneano in questi canali vuoti e rispecchiano l’immagine dell’oggetto rendendolo percepibile: si ha dunque una conoscenza per contatto. Ricapitolando, la conoscenza avviene per percezione (sensismo gnoseologico) e quest’ultima avviene per contatto attraverso i cinque sensi e, se non ci fosse il vuoto, la percezione sarebbe dolorosa perché gli eidwla colpirebbero i nostri atomi anziché infilarsi nei canali vuoti. Tuttavia, se i corpi continuano a cedere materia (gli eidwla che si staccano), allora ne consegue che essi sussistono fin tanto che la materia ceduta è bilanciata da quella ricevuta: e la mancanza di respiro, ovvero la fine del ricambio di atomi, è la prova della fine dell’esistenza del corpo. La legge che vige nel mondo degli atomisti è il caso, nel senso che non vi è alcuna causa extranaturale capace di governare il movimento degli atomi: essi si aggregano in maniera puramente casuale (ed è anche per questo che Dante rinfaccia, nel IV canto dell’Inferno, a Democrito di porre il mondo a caso). Naturalmente sorge spontaneo un quesito: che cosa mi garantisce che gli eidwla mi riportino tale e quale la forma dell’oggetto a cui provengono? Non potrebbe essere che, nello spazio che percorrono per giungere a me, subiscono una modificazione? Qui le posizioni degli atomisti divergono: Epicuro pensa che gli eidwla ci raggiungano con velocità pari a quella del pensiero, cosicchè non vi è possibilità di errore. Per Democrito, invece, tutto cambia: " nulla conosciamo secondo verità perché la verità è nel profondo ", egli afferma; sembra quasi una professione di scetticismo, ma in realtà non lo è affatto. Infatti, Democrito vuol semplicemente dire che la verità sono gli atomi e il vuoto e che tutto il resto (il dolce, l’amaro, il caldo, il freddo, ecc) è opinione che, in quanto tale, è suscettibile di essere vera o di essere falsa e che varia da individuo a individuo. Democrito si accosta dunque al motto di Anassagora " oyiV adelwn ta fainomena ": il mondo che mi appare è opinione, e anche le opinioni si formano in base alla percezione, anche se si fermano alla superficialità, alle qualità esterne del corpo (caldo, freddo, ecc). In quanto frutto di sensazioni, anche le opinioni hanno un fondo di verità, anche se l’unica verità degna di essere definita tale è quella che si conosce quando si conoscono il vuoto e gli atomi. " Non conosciamo nulla che sia invariabile, ma solo aspetti mutevoli ", dice Democrito: e ne deduce l’esistenza di due forme di conoscenza, una genuina ("legittima", secondo il linguaggio giuridico), l’altra oscura ("illegittima"): la conoscenza sensibile è oscura, mentre gli oggetti di quella genuina sono nascosti. Nel V secolo anche i Pitagorici si interrogano sul problema conoscitivo prospettando soluzioni diversissime da quelle avanzate dai loro contemporanei: anch’essi rinviano ad una struttura profonda delle cose, costituita però non da semi, da radici o da atomi, ma dai numeri. Filolao di Crotone sostiene che la vera conoscenza delle cose deriva dal fatto che esse sono esprimibili in numeri: per noi essi sono entità astratte, ma i Pitagorici ne avevano una concezione fisico-spaziale e li rappresentavano con sassolini. I numeri consentono di delimitare sezioni spaziali e lassi di tempo, il che significa che le cose stesse hanno numero ed esso non può essere uno schema arbitrario imposto alle cose, ma, viceversa, sono le cose stesse a manifestare una forma di numero che le rende conoscibili ed esprimibili: possono essere contate e distinte le une dalle altre in base alla loro struttura componente elementare. Sono i numeri che conferiscono alle cose forme e strutture, conoscibili appunto attraverso relazioni numeriche: esse per Filolao si configurano come armonia, con un evidente richiamo alla musica. La conoscenza, quindi, consiste nella ricerca dei rapporti esistenti nelle cose, poiché, come dice Filolao, " tutte le cose che si conoscono hanno numero; senza numero non sarebbe possibile pensare o conoscere alcunchè. […] ma la natura del numero e la sua grande potenza […] le si vedono anche in tutte le attività degli uomini "; le stesse azioni divine sono numerabili, poiché " nel numero non penetra menzogna ". Il numero diviene lo strumento di conoscenza della verità: Archita di Taranto segue la stessa strada di Filolao e in particolare mette in luce la funzione fondamentale del numero per una nutrita serie di discipline, fra cui troviamo anche l’astronomia e la musica, il che è interessante perché si tratta della prima attestazione dell’esistenza di scienze "speciali" all’epoca. L’impostazione matematizzante delle scienze di Archita viene curiosamente ripresa da Platone nella "Repubblica", in cui la matematica e la musica rivestono un ruolo assolutamente centrale nell’educazione dei giovani; tutte queste scienze Archita le chiamava "sorelle", perché figlie di un unico padre, il numero. Quest’ultimo costituisce la chiave d’accesso generale per conoscere le realtà particolari. Ma a quei tempi, accanto ai matematici come i Pitagorici, troviamo anche parecchi medici: ed è nei trattati ippocratei che il metodo della medicina viene teorizzato in modo completo; anche i medici, come i filosofi, partono dal visibile, in particolare dai sintomi delle malattie, e per inferenza sono in grado di risalire, con la sola forza del ragionamento, alle cause nascoste delle malattie e, in base a ciò, propongono terapie in grado di debellarle. Non tutti, però, concordavano nell’imputare a cause generali l’origine delle malattie: c’era anche chi restava saldamente ancorato alla sfera dell’esperienza, senza operare inferenze di alcun tipo; è questo il caso dell’anonimo autore di un trattato su "La medicina antica" (risalente al 430-415 a.C.). Il pubblico a cui si rivolge questo autore non è costituito esclusivamente da medici: il messaggio centrale che egli vuole trasmettere è che la medicina sta assumendo uno statuto ontologico autonomo e di scienza. La medicina può perfezionarsi solo col tempo e lo scritto si schiera contro ogni medicina "filosofica", che pretende cioè di insegnare il mestiere ai medici a partire da teorie generali sull’uomo e sul mondo: ciò implica un eccesso di generalità che le rende inutilizzabili, giacchè i filosofi (sofistai) non spiegano il rapporto dell’universale col particolare. Non a caso l’autore etichetta queste teorie come "ipotesi", ossia come supposizioni di come stanno le cose, ipotesi a partire dalle quali avanzano la pretesa di aver scoperto chiavi di lettura valide per tutti; e l’autore scaglia i suoi dardi contro Empedocle e contro gli altri pensatori dell’epoca. Il medico, a differenza del filosofo, può rivendicare di dare il bene reale agli uomini: molto marcato è il senso della scoperta della medicina e della sua autonomia indiscutibile, la sua capacità di fare scoperte cosicchè anche " il resto nel futuro sarà scoperto "; non ci si deve, pertanto, fermare alle scoperte fatte, ma bisogna adoperarsi per farne di nuove e questo è possibile solo se le generazioni future faranno tesoro del sapere accumulato dai loro predecessori. Coi profani si deve solamente discutere dei mali che affliggono l’uomo e loro stessi: in quest’ottica, è importantissima l’anamnesi, ovvero la ricostruzione mediante il colloquio col paziente del male passato per costruire il male presente e l’evoluzione che la malattia avrà nel futuro. Questa metodologia non è propria solo dei medici: anche gli storici, in una certa misura, partono dalla convinzione che per prevedere il futuro si debba conoscere bene il passato, perché ciò consente di formulare delle costanti. Ma come è nata la medicina? E’ un sapere naturalissimo, risponde l’anonimo autore del trattato: il momento in cui uomini illuminati si interrogarono se chi soffriva dovesse seguire lo stesso regime alimentare di chi era sano fu la causa scatenante di tale disciplina, nata, in fin dei conti, per la naturalissima esigenza di sopperire alle malattie dell’uomo, necessità ineliminabili. Il passaggio dallo stato ferino alla civiltà sta, ad avviso dell’autore, nella scoperta del fuoco e nella cottura dei cibi. Proprio così si scopersero quali cibi erano utili e quali no: il sapere medico è nato nel momento in cui l’uomo è passato ad uno stato "umano" e al progresso della condizione umana è legato quello della disciplina medica. Non c’è da meravigliarsi se i primi scopritori di quest’arte erano visti come divinità, anche se, in realtà, erano uomini che esercitavano una tecnica tipicamente umana. Ma addirittura per sapere cosa è la natura è necessario partire da studi di medicina: il medico sa cosa è l’uomo e lo deduce da ciò che l’uomo mangia e beve, studiandone la salute e la condotta di vita; medico non è, dunque, chi dice che il formaggio è un cibo cattivo, ma chi dice che il formaggio è cattivo perché genera questi determinati mali. Ma la tematica della ricerca del sapere non è solo in filosofia: nell’ "Edipo re" vengono posti a confronto alcuni tipi di sapere ed in particolare emerge la congetturalità del sapere umano: la verità nascosta nell’Edipo è la scoperta di chi è il colpevole dell’ efferato omicidio di Laio, vecchio re di Tebe, città in cui ora infuria la peste come punizione divina per tale uccisione. All’inizio della tragedia Edipo si pone, come un detective, sulle orme dell’assassino e presenta la sua ricerca come quella dei cani sulle orme della selvaggina, mosso dalla responsabilità verso la città e verso i suoi concittadini. Egli segue indizi nella sua indagine: le testimonianze di chi ha visto o sentito qualcosa dell’accaduto; e chiede anche il responso dell’indovino Tiresia, detentore di un sapere ispirato dalle divinità: fuor di metafora, ciò significa che il sapere umano può far appello al sapere divino, capace di padroneggiare tutte le cose. Tiresia viene invitato a trarre gli auspici dal volo degli uccelli e viene riconosciuta la possibilità di errore della divinazione, la quale avviene non già in base ad un ragionamento, bensì su diretta ispirazione divina. Tiresia manifesta una certa paura perché mostra di conoscere gli uomini: e infatti Edipo, dopo aver udito il suo responso, lo accusa di aver congiurato contro di lui; in questa prospettiva, affiora come la verità porti anche dei mali. " Aih, trasparente ( diafanhV ) verità! ", grida Edipo dopo aver appreso di essere stato lui l’uccisore del padre. Il V secolo a.C. è un’epoca di grande fermento intellettuale, in cui si intensificano i rapporti con culture diverse da quella greca: protagonisti di questa nuova stagione culturale sono i Sofisti, che di fronte alla diversità di costumi e tradizioni in cui si imbatte la civiltà greca propongono la relatività (già presente, in qualche misura, in Senofane), un modo di riconoscere a ciascuna di queste culture un’autonomia e una dignità. Questo nuovo modo di vedere è anche dovuto al fatto che in questo periodo si comincia a viaggiare con maggior frequenza e si entra in contatto con nuove culture, pur non mettendo da parte il greco-centrismo. Anche gli storici rappresentano bene questa nuova fase della storia greca: essi si basano soprattutto sull’autopsia, trasmettono cioè ciò che han visto loro stessi, ma accanto alla centralità della vista viene riconosciuta anche l’importanza dell’udito, ossia si presta importanza a ciò che si sente ma non si è visto. L’abilità dello storico risiede nel ponderare le fonti e le notizie: caso lampante è quello di Erodoto, le cui "Storie" non sono solo cataloghi di usi e costumi di popoli remoti. In questo scenario si colloca la figura di Protagora di Abdera, inauguratore della prassi dei viaggi e del movimento sofistico: in origine il termine "sofista" significa semplicemente "possessore della sofia "; fu da Platone e Aristotele in poi che assunse una sfumatura negativa, in quanto essi rinfacciavano ai sofisti il fatto che essi vendessero il sapere come una qualsiasi altra merce. Proprio sulla nozione di relatività era incentrata la più famosa delle tesi di Protagora, trasmessaci da Platone nel "Teeteto" (dialogo dedicato a cosa significhi conoscere) : " l’uomo è misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono ". Questa frase, per l’impiego del termine "sono" e "non sono", sembra inquadrarsi in un contesto vivamente eleatico, anche se viene prospettato chiaramente il criterio per distinguere l’essere da non essere: è l’uomo il metro di misura, sicchè Protagora propone un criterio di conoscenza puramente soggettivo. Resta però da chiedersi che cosa intende il sofista di Abdera per "uomo": egli, probabilmente, non alludeva all’umanità considerata nel suo insieme, ma al singolo uomo nella sua immediatezza e nella sua soggettività; tutto questo rimanda, naturalmente, alla soggettività della verità. Sarà vero ciò che a me appare tale; viceversa, per lui sarà vero ciò che a lui appare tale, e così via. La conoscenza, in questo panorama, si riduce al sensismo: cosicchè il miele appare dolce a chi è sano, ma amaro agli ammalati. Tuttavia, in questo groviglio di verità ciascuna diversa dalle altre e ciascuna non meno valida delle altre, Protagora elabora un criterio per stabilire quale opinione (quella del sano che sente dolce il miele, o quella del malato che lo sente amaro?) sia migliore: tale criterio è incentrato sull’utilità e si risolve, per tornare all’esempio del miele, nell’interrogativo se sia migliore l’opinione di chi è malato o di chi è sano. Naturalmente, si risponderà che è migliore l’opinione del sano, anche se, ad onor del vero, sul piano gnoseologico tutte le opinioni sono equivalenti: le sensazioni si traducono in conoscenza, cosicchè la mia opinione, la tua, la sua e così via sono tutte vere, poiché l’uomo è misura di tutte le cose. Contro questa posizione protagorea si schiererà Platone che, nel Teeteto, smonterà l’argomentazione protagorea facendo notare che, se tutto è vero (come asserisce Protagora), allora è anche vero che esistono tesi false; e dato che, appunto, tutto è vero, è anche vero che ciò che dice Protagora è falso. Sempre in ambito sofistico, in quegli anni Gorgia di Lentini giungeva a conclusioni diametralmente opposte a quelle del collega di Abdera: nel suo scritto "Del non essere", egli sosteneva che nulla è, se anche fosse non sarebbe conoscibile, se anche fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. La verità, dunque, resta per Gorgia inaccessibile: ne consegue che tutto è falso, e non "tutto è vero", come invece credeva Protagora. Tutte le proposizioni possono, ad avviso di Gorgia, essere ribaltate attraverso l’arma del logoV (la parola), equiparato dal pensatore di Lentini ad una forza irresistibile alla pari del destino dei tragici o della divinità: la parola può tutto. Anche con Gorgia Platone, a cui stava particolarmente a cuore la possibilità di distinguere il vero dal falso, compie un’operazione simile a quella operata nei confronti di Protagora: se tutto è falso, cosa ci vieta di pensare che anche ciò che dice Gorgia lo sia? Ci si è spesso interrogati se Gorgia fosse un nichilista ante litteram o se, piuttosto, volesse esercitarsi con argomentazioni dialettiche al limite del pensabile. E’ tuttavia certo che l’obiettivo polemico del suo argomentare fosse l’eleatismo: egli si serve, nelle sue argomentazioni, della dimostrazione per assurdo; in altri termini, per dimostrare la verità di A, assume per assurdo che sia vero il contrario (non-A) e, a partire da tale assunzione, si mettono in luce tutte le contraddizioni che ne derivano, a tal punto che si è costretti a riconoscere la falsità di tale assunto (non-A) e ad ammettere la veridicità della tesi di partenza ad essa opposta (A). Le tre proposizioni poc’anzi elencate con cui nega la possibilità della conoscenza non è un caso che ci vengano riportate da uno scettico, Sesto Empirico, nell’opera "Contro i dogmatici". Stando a quanto da lui riportato, Gorgia avrebbe sostenuto che se le cose pensate non sono esistenti, allora le cose esistenti non sono pensate: in altri termini, il pensiero non avrebbe un contenuto proprio (poiché ciò che è pensato non esiste) e, per converso, se ne ricaverebbe che ciò che esiste non è pensato. Alla base di quest’argomentazione sta una relazione che Gorgia pone: se A è in relazione con B, allora anche B è in relazione con A; se viceversa A non è in relazione con B, allora anche B non è in relazione con A. Dunque, dato che penso cose che non esistono (dragoni o uomini volanti), allora ciò significa che il pensato non è in relazione con l’essere e, per converso, che l’essere non è in relazione col pensato. Ammettendo, infatti, per assurdo l’esistenza delle cose pensate, ne conseguirebbe che l’uomo che vola o il carro che procede sul mare (tutti oggetti del mio pensiero) dovrebbero esistere, ma l’esperienza confuta ciò. Se poi dico che il pensiero rispecchia l’esistente, non si spiega perché nel pensiero trovino cittadinanza anche l’uomo che vola o il carro che procede sul mare. Il terzo argomento addotto da Gorgia poggia sull’analogia con l’esperienza: giacchè i sensi non interferiscono tra loro né si smentiscono a vicenda, si può essere spinti a credere che ciò valga anche per il pensato, cosicchè le cose che né vedo né sento né tocco, ciononostante il pensiero mi attesta che esistono. Ma in questo modo mi troverei costretto, ancora una volta, ad ammettere l’esistenza dell’uomo che vola e del carro che procede sul mare. Con Gorgia, quindi, viene per la prima volta messa in discussione la possibilità di conoscere alcunchè. Come nota acutamente Cicerone, con i Sofisti e con Socrate la filosofia viene riportata dal cielo alla terra, alla dimensione più squisitamente umana. Proprio con la figura enigmatica di Socrate ci si trova di fronte ad un problema imbarazzante: egli non ha scritto nulla, ma su di lui son state scritte intere opere. La testimonianza generalmente più accreditata è quella di Platone, anche se la statura filosofica di questo pensatore costituisce un nuovo dilemma: nelle opere in cui egli parla di Socrate, come si fa a distinguere il pensiero effettivamente attribuibile a Socrate da quello invece proprio di Platone? Ci sono dialoghi platonici, soprattutto quelli più "datati", in cui la figura di Socrate è centralissima e ciò ci induce a pensare che Platone si limitasse a riportare fedelmente il pensiero del suo maestro; nei dialoghi scritti nella maturità e nella vecchiaia, invece, la figura di Socrate tende a sfumare e a farsi depositaria del pensiero platonico. Ma, a monte di questo problema, ci si deve anche chiedere: perché Socrate non ha scritto nulla? Nel "Fedro", Platone presenta ciò come una libera scelta di Socrate, il quale avrebbe puntato tutte le carte della filosofia sull’oralità a scapito della scrittura. Socrate, poi, ha scelto di occuparsi esclusivamente di valori umani, respingendo l’indagine sulla natura tanto cara ai suoi predecessori: sempre nel "Fedro" viene ampiamente descritto un paesaggio idilliaco e Socrate, di fronte a questo incantevole scenario, dice di voler tornare in città, poiché gli alberi, a differenza degli uomini, non hanno nulla da insegnargli. Nel "Fedone", poi, Platone ripercorre l’itinerario culturale di Socrate: da giovane egli si era interessato di natura, finchè non si era imbattuto nel libro di Anassagora, dal quale era rimasto deluso a tal punto da dover intraprendere una "seconda navigazione" attraverso la quale fondare la dottrina delle idee. Dall’ "Apologia", scritto platonico nel quale vengono descritti gli atti del processo in cui è imputato Socrate, quest’ultimo ci viene presentato come il filosofo del non sapere: egli si professa ignorante e confessa che l’unica cosa di cui è a conoscenza è la propria ignoranza. Eppure ai suoi amici l’oracolo di Delfi aveva sentenziato che Socrate era l’uomo più sapiente: proprio a partire da ciò egli aveva avviato la propria indagine, demandando così l’origine della propria investigazione ad una forza soprannaturale. Questo è particolarmente significativo se teniamo presente che uno dei capi d’accusa che gravavano su Socrate era l’aver introdotto da parte sua delle divinità sconosciute. Proprio a partire da questo, Socrate, uomo tra gli uomini, non si era accontentato del responso e si era voluto accertare che l’oracolo avesse detto la verità. La sua è dunque un’indagine sulla verità cui non sfuggono neppure le forze divine; il suo è un procedere assolutamente empirico, poiché egli decide di far visita agli uomini comunemente ritenuti sapienti per constatare se essi davvero lo siano e di quanto più di lui: l’investigazione, cominciata " contro voglia ", lo porta dai politici (detentori di un sapere competente quale è l’amministrazione della cosa pubblica), dagli indovini e dagli artigiani; Socrate li sottopone ad esame per appurare se il loro è un sapere, e non tarda a scoprire che, in realtà, il loro è un sapere settoriale che essi presentano come totalizzante. Come Socrate stesso dice, nell’ "Apologia", " da parte mia ero consapevole di non sapere nulla ": egli pone domande e attende le risposte dai suoi interlocutori; il metro di misura è rappresentato dalla capacità che essi hanno di rispondere senza contraddirsi: è proprio nello scambio di domande e risposte intentato da Socrate che risiede quella che Platone ha definito "dialettica", ovvero, letteralmente, "discorso che va di qua e di là" ( dia + logoV ) . Naturalmente, tutto questo presuppone la disponibilità degli interlocutori a farsi interrogare: sul concludersi di alcuni dialoghi platonici troviamo gli interlocutori seccati dalle domande di Socrate, punzecchianti come un tafano, poiché esse mettono in crisi tutte le convinzioni di cui ciascuno di noi è imbevuto. Socrate, nel formulare le sue domande, adotta un metodo di carattere generale e universale: egli chiede ai suoi interlocutori "che cosa è x?" ( ti estin;), dove x sta per il coraggio, l’amore, la virtù, ecc; ma gli interlocutori finiscono per dare sempre a Socrate risposte particolari, senza mai cogliere l’universale (del coraggio, dell’amore, della virtù, ecc). Ecco perché si tratta di dialoghi aporetici, che si concludono con un nulla di fatto, irrisolti. Nel "Lachete", ad esempio, tutti credono di sapere con certezza cosa sia il coraggio, ma Socrate fa notare come le loro siano risposte parziali. Essi mettono in gioco le loro opinioni e Socrate le dimostra false, poiché è necessario sgombrare il campo da esse: " solo la verità è inconfutabile ". Così il condottiero Lachete, sicuro di sé, dice che il coraggio è non indietreggiare mai di fronte ai nemici; ma Socrate gli fa notare come gli Sciiti combattano con una tecnica consistente nell’indietreggiare a poco a poco; Enea stesso, del resto, viene da Omero presentato come espertissimo e coraggiosissimo nel combattere indietreggiando. L’interlocutore si vede così costretto a cambiare opinione e a riconoscere la falsità della propria definizione, dovendo dunque ripartire da zero: ma il sapere è la scienza, per cui non si può sapere cosa sia il coraggio se non si mostra perché è una scienza che per oggetto ha le cose temibili e quelle non temibili. La virtù stessa, in questa prospettiva, è la scienza del bene e del male. La scienza deve dunque possedere un carattere di assoluta certezza, senza ondeggiare tra vero e falso come fanno le opinioni: ed è proprio su questo che Platone proietta la propria indagine nel suo scritto "La Repubblica", in cui egli si pone il problema di cosa fare di quelle opinioni vere o, come dice Platone stesso, "rette". Che esse possano essere distinte dalla scienza vera e propria, Platone lo chiarisce nel "Teeteto", dialogo in cui mostra come tutto ciò che appare sia una mescolanza di percezione e opinione e come sia facile sbagliarsi prestando fede ai sensi. Nel tentativo di spiegare ciò, Platone ricorre ad un’immagine destinata a divenire celebre: paragona l’anima umana ad una tavoletta di cera su cui ciascuno di noi imprime i segni degli oggetti di cui ha percezione. E’ dunque possibile che, quando scorgiamo in lontananza una persona qualunque, la si scambi per l’immagine che abbiamo impressa nella nostra tavoletta/anima di un nostro amico: ne consegue che, in questa prospettiva, l’errore è un errore di identificazione, e che l’opinione retta è quella che non commette tali errori ed identifica in maniera corretta l’oggetto percepito. Sempre nel "Teeteto", Platone formula una definizione del pensiero che, per molti versi, rivela una marcata influenza socratica: il pensiero è, a suo avviso, un dialogo silenzioso, analogo a quello ad alta voce che Socrate intratteneva coi suoi interlocutori. L’opinione non va dunque intesa come un’alternativa indecisa: al contrario, essa tenta, al pari della scienza, di rispondere alla domanda "che cosa è x?", ma (e qui sta la differenza rispetto alla scienza) fornisce risposte suscettibili di essere vere o false. In altri termini, la differenza tra opinione e scienza risiede nel fatto che solo quest’ultima è in grado di spiegare le cause per cui è lecito dire che X è Y o che X non è Y. In tal modo si comincia a profilare la possibilità di capire perché la scienza abbia carattere di stabilità e certezza: essa spiega gli oggetti come derivanti da determinate cause. Anche nel "Menone" viene da Platone affrontato questo problema: per illustrare il carattere oscillante delle opinioni, Platone le paragona a delle statue tanto belle da sembrare vive. Averle le une slegate dalle altre non ha alcun valore, poiché il pregio sta tutto nell’averle legate, in modo tale che si possano prendere. Le opinioni rette, dunque, stanno "ferme", ovvero rimangono vere, finchè non ricevono una smentita: si tratta dunque di collegarle attraverso un ragionamento di tipo causale, che le leghi e le stabilizzi. Sia nel "Menone" sia nel "Fedone" traspare una teoria della conoscenza basata sulla reminescenza (e legata alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima), che porterà Platone a concludere che " conoscere significa ricordare " (Menone). In quest’ottica, la conoscenza è possibile in virtù del fatto che, prima che l’anima si incarnasse nel corpo, ha conosciuto cose che, incarnandosi, ha dimenticato: si tratta, per l’esattezza, di enti (Platone li chiamerà "idee") la cui natura è tale da poterli assumere come criterio di verità; ne consegue, dunque, che essi devono essere immutabili ed esistenti in maniera indipendente dalle cose sensibili (le quali cambiano di continuo), il che presuppone che l’anima abbia una vita precedente rispetto al corpo in cui si trova imprigionata. E’ con queste considerazioni sulle spalle che, nel "Menone", uno schiavo assolutamente ignorante di matematica e adeguatamente interrogato da Socrate perviene alla risoluzione di un complesso problema geometrico: ne consegue che lo schiavo conosceva già tale teorema e che Socrate non ha fatto altro che aiutarlo a ricordarlo; non si tratta, tuttavia, di scienza, ma di opinione, poiché lo schiavo non è a conoscenza delle cause. E la conoscenza, secondo Platone, deve partire dal mondo sensibile che ci circonda per portarci a qualcosa che sta al di sopra ma che, in qualche misura, assomiglia ad esso. Per meglio spiegare questo concetto, Platone si serve, nel "Fedone", di un esempio particolarmente calzante: così come la lira ricorda a chi è innamorato il proprio amante, anche se questo non è materialmente presente, così gli oggetti del mondo sensibile ci rimandano alle loro idee. Ne "La repubblica" questo processo conoscitivo è strettamente connesso alla tematica della formazione del filosofo e si configura, se letto in trasparenza, come un vero e proprio processo ascensivo. Al filosofo che ha raggiunto un livello supremo di conoscenza teorica deve, secondo Platone, essere affidato il governo dello Stato, cosicchè nella sua figura finiscono per coincidere il sapere pratico e quello teoretico. Infatti, solo il filosofo può governare rettamente perché lui solo conosce l’idea del Bene, a cui ispirarsi per governare. Teoria e prassi non risultano dunque ancora pienamente distinte in Platone o, almeno, non come in Aristotele. Platone, ne "La Repubblica", descrive il processo conoscitivo in due modi: uno razionale, l’altro mitologico (il famoso mito della caverna). Esaminando quello razionale, Socrate dice che la conoscenza umana può essere accostata ad una linea: immaginiamo di dividere la linea in due parti; da una parte stanno gli oggetti sensibili, conosciuti secondo l’opinione ( doxa ), dall’altra troviamo gli oggetti intellegibili (le idee), conosciuti dalla scienza ( episthmh ). Suddividiamo ora la parte dell’opinione in due sottoparti: una dell’immaginazione ( eikasia ), l’altra della credenza ( pistiV ). L’immaginazione mi fa conoscere gli oggetti sensibili in modo nebuloso e confuso, e corrisponde alla conoscenza prima facie che ho del mondo. Nella spiegazione mitologica del processo, Platone spiega l’immaginazione come l’osservazione che gli uomini incatenati sul fondo della caverna fanno delle cose che stanno in superficie ma che loro vedono proiettate sul fondo della caverna. La pistiV (credenza) corrisponde invece al momento in cui si esce dalla caverna e si contempla il mondo che sta fuori, si vede cioè la natura e se ne ha credenza (il che significa che, a differenza di Aristotele, Platone crede che non possa esistere una scienza della natura, una fisica, giacchè le cose sensibili sono in divenire perenne). La vera conoscenza, dunque, deve scavalcare il mondo sensibile per spingersi al di là di esso: anche per quel che riguarda l’ episthmh (scienza), avente per oggetto gli enti intellegibili (cioè le idee), la linea si divide in due parti: da un lato avremo la dianoia (pensiero discorsivo), il pensiero che procede passando per tappe. La dianoia ha per oggetti gli enti matematici, che si trovano a metà strada tra il sensibile e le idee, giacchè si tratta di concetti che però richiedono un supporto sensibile (pensiamo al matematico che dimostra le proprietà del triangolo disegnandolo); proprio ad essi deve dedicarsi il filosofo appena inizia il suo itinerario. Le scienze matematiche, però, sono agli occhi di Platone inferiori alla filosofia, poiché, oltre a richiedere necessariamente l’aiuto di mezzi sensibili (disegni e altro), partono da postulati, assumono cioè le ipotesi come un qualcosa di vero a monte di ogni dimostrazione. Accanto alla dianoia troviamo la nohsiV (ossia il "pensare"): con essa non si discorre, ma si fissano e si conoscono le idee e la scienza che ne scaturisce è la dialettica, secondo la lezione socratica. Il filosofo de "La Repubblica" è il dialettico e i suoi oggetti di studio sono, appunto, le idee: e il metodo dialettico è nettamente superiore a quello matematico proprio per l’uso che fa delle ipotesi: non le assume dogmaticamente come postulati (come invece fanno i matematici), ma le sottopone a discussione, nella convinzione che di esse si possa rendere conto (come faceva Socrate con i suoi interlocutori): saranno mantenute solo quelle sostenibili, ossia quelle le cui conclusioni non sono in contraddizione con la definizione di partenza. A differenza della matematica, poi, la dialettica non è più costretta a ricorrere ad immagini sensibili, ma ragiona soltanto su idee: parte da ipotesi e le assume come una sorta di pedana per costruire attraverso un procedimento ascensivo il proprio ragionamento ipotetico. Questo metodo, oltre che ne "La Repubblica", viene formulato anche nel "Fedone" (il che suggerisce che i due dialoghi possano essere coevi): si apre, però, un problema non da poco; se il dialettico si avvale delle ipotesi come punto di partenza, allora il suo procedimento dovrà andare avanti all’infinito nel tentativo di dimostrare ogni ipotesi? No, dice Platone: anzi, l’assunzione di ipotesi e la verificazione delle medesime procede fino a quello che egli chiama il "principio non ipotetico", la cui esistenza è certa e non necessita di ipotesi. Tale principio altro non è se non l’idea del Bene, punto culminante del processo conoscitivo ed educativo. Tuttavia, Platone, ne "La Repubblica", non ci dice in che cosa consista tale idea, ma, ciononostante, ne chiarisce la funzione in analogia con il sole: Platone dice che il sole sta alle cose sensibili come il Bene sta a quelle intelligibili. Il sole, da un lato, rende possibile, grazie alla luce che getta, la visibilità (e quindi la conoscibilità) degli oggetti sensibili e, dall’altro lato, è condizione, grazie al calore che sprigiona, del costituirsi delle cose e quindi del loro divenire. In analogia, l’idea del Bene è condizione della pensabilità stessa delle altre idee (l’analogo della luce solare è la verità, una specie di luce intelligibile) e, al tempo stesso, è condizione dell’essere delle idee (le quali però non divengono, ma eternamente sono). Occorre tuttavia chiarire che l’idea del Bene non è affatto sullo stesso livello delle altre idee: ancora una volta torna utile l’analogia col sole; come esso sta al di sopra rispetto alle cose del nostro mondo, così il Bene è incommensurabilmente al di sopra delle altre idee, che da esso ricevono luminosità ( " è al di là della sostanza ", dice enigmaticamente Platone). Ma poiché le idee sono ciò di cui le cose sensibili in qualche modo partecipano, allora conoscere il Bene vorrà dire conoscere ciò che rende buone le cose: il Bene diventa così la chiave di lettura dell’intera realtà, tant’è che anche il buon uso del sapere dipende dalla conoscenza dell’idea del Bene. Da tutto ciò emerge come in Platone sia come non mai radicata la distinzione inconciliabile tra conoscenza sensibile (avente per oggetto le cose materiali) e conoscenza intelligibile (avente per oggetto le idee), attuabile solo a patto di liberare l’anima dai ceppi che la legano al mondo sensibile. Con Aristotele si tocca il rovescio della medaglia, anche se alcune acquisizioni platoniche restano salde: anche per Aristotele la conoscenza è un processo da percorrere a tappe; però egli tende a diminuire la distanza che in Platone separa i due tipi di conoscenza, intellettuale e sensibile. E il suo tentativo di rinsaldare quel legame spezzato da Platone va di pari passo con la sua dimostrazione dell’inesistenza di quelle idee ammesse da Platone e intese come forma delle cose: nella "Metafisica", Aristotele dice che la forma non può assolutamente essere separata dalla materia, sicchè la forma "uomo" non potrà mai essere divisa dall’uomo in carne e ossa e fatta sostanza indipendente ("idea"). L’idea è, in altri termini, semplicemente un’astrazione logica con la quale separo la forma dalla materia, giacchè nella realtà non è mai possibile trovarle disgiunte, ma ogni cosa è un "sinolo" (sun + olon), un’unione perfetta e inscindibile di materia e forma. Il mondo delle idee prospettato da Platone risulta dunque, ad Aristotele, un inutile doppione che, più che risolvere problemi, ne crea di nuovi, anche perché Platone non è stato realmente in grado di spiegare come la materia possa acquisire una forma: egli infatti, come dice Aristotele nel I libro della "Metafisica", non è stato in grado di cogliere la causa del movimento, in virtù della quale si spiega come la materia acquisisca la forma. Per fare un esempio, Aristotele dice che è grazie al principio del movimento immesso dall’uomo nella donna che si forma l’embrione. Egli ribadisce che il punto di partenza è costituito dal mondo della percezione sensibile, il punto di partenza a noi più chiaro: si tratta infatti di quell’ambito che è a noi più vicino e più noto; così facendo, Aristotele riconosce alla percezione sensibile uno statuto gnoseologico decisivo. E sempre nel I libro della "Metafisica" egli delinea le tappe del processo conoscitivo anche sul piano storico, facendo una sorta di storia della civilizzazione umana in cui si mostra come gli uomini, spinti dall’amore per la conoscenza, sono passati al sapere utile e poi a quello disinteressato; ed è appunto in questo I libro che troviamo esposte le teorie dei pensatori precedenti ad Aristotele, poiché anche dai loro errori si possono trarre insegnamenti . Come nota nell’incipit della "Metafisica", la sensazione è amata dagli uomini; prova di ciò è il fatto che essi amano la vista indipendentemente dall’utilità che ne possono ricavare. Ma il problema della conoscenza non può essere ristretto al solo ambito umano (e del resto Aristotele fu iniziatore della zoologia), poiché l’uomo non è il solo essere vivente: proprio l’osservazione zoologica mette in luce come anche gli altri animali abbiano sensazioni (provano piacere o dolore, caldo o freddo, ecc), cosicchè per capire a fondo la specificità della conoscenza umana occorre operare un raffronto con il mondo animale. L’amore per le sensazioni, donato dalla natura, è comune a tutti gli animali: ma solo in alcuni di essi, a partire dalla sensibilità, si genera la memoria, e questo in base all’esperienza empirica. Si crea così una discrepanza tra animali dotati di sensibilità e animali dotati di sensibilità e memoria: quest’ultima altro non è se non la capacità di raccogliere esperienza. Ma, individuata questa prima differenza, se ne può ricavare un’altra: sono più adatti ad imparare gli animali provvisti di memoria. Ciò non toglie, tuttavia, che l’ape sia un animale intelligente anche se incapace di imparare: che sia intelligente lo si evince dal fatto che ogni sua azione è orientata verso un fine preciso, anche se mossa dall’istinto e non dalla ragione. Ma esistono anche animali capaci di apprendere perché dotati dell’udito, attraverso il quale è possibile sentire e quindi apprendere gli insegnamenti. Ci sono poi animali aventi la memoria e capaci di formulare immagini prescindendo dalla presenza fisica dell’oggetto ma partecipano poco all’esperienza. E l’esperienza nasce dalla memoria, perché è prodotta da molti ricordi della medesima cosa: siamo ora entrati nel campo strettamente umano; dal sedimentarsi dei ricordi nasce l’esperienza della cosa e dall’esperienza nasce il livello superiore, la tecnica, intesa come saper fare. Quest’ultima ha luogo dal ripetersi dell’esperienza: infatti, mentre l’esperienza riguarda conoscenze slegate, la tecnica nasce quando molte nozioni derivanti dall’esperienza danno luogo ad una sola credenza universale: l’esempio tipico di tecnica addotto da Aristotele è quello della medicina. Per esperienza posso sapere che un dato farmaco fa bene a più persone ammalate della stessa malattia, ma ciò riguarda solo casi particolari; la tecnica, invece, si applica a tutti i casi: il medico sa che un farmaco fa bene a tutte le persone ammalate da quella data malattia. Solo chi possiede la tecnica ha conoscenza delle cause: il medico, infatti, sa che X cura tutti gli Y e sa anche spiegare il perché. Un gradino al di sopra della tecnica troviamo la sapienza: essa consiste in quello che i Medioevali diranno "scire per causas", dove le "causae" in questione sono quattro. Se i pensatori a lui precedenti ne avevano individuate al massimo due (magari intravedendone una terza), Aristotele spiega, sempre nel I libro della "Metafisica", che le cause sono quattro e che conoscere per cause significa rispondere alla domanda "che cosa è x?"; il che vuol dire conoscere l’essenza di quella determinata cosa, cioè che essa è in quanto è quella determinata cosa. Quattro sono le cause perché quattro sono le domande che esauriscono l’essenza di una cosa: causa materiale, causa del movimento, causa formale, causa finale. Alla domanda "che cosa è x?" la risposta più immediata è dire di che cosa è fatto x e nell’indicare la materia di cui è fatto individuo la causa materiale che l’ha prodotto: così, alla domanda "che cosa è l’uomo?" la causa materiale risponde che esso è carne e ossa. Con la causa del movimento (detta anche causa efficiente) si spiega da che cosa ha avuto origine il movimento: ogni cosa, infatti, viene ad essere come effetto di un movimento e Aristotele ritiene di poter addurre a conferma di ciò esempi desunti sia dall’ambito naturale sia dall’ambito della produzione umana. Alla domanda "che cosa ha prodotto l’uomo?" si deve rispondere che è stato prodotto dal seme del genitore, alla domanda "che cosa ha prodotto la casa?" si deve invece rispondere che è stata prodotta dall’arte del costruttore. Tuttavia non ci si può fermare alla causa materiale e a quella efficiente: ed è per questo che Aristotele introduce quella formale, alludendo a quel particolare tipo di causa capace di determinare la materia di una cosa e di individuarla come quella cosa, senza possibilità di confusione. Potrò dunque chiamare Socrate "uomo" perché la sua è materia individuata da una forma che le compete necessariamente e che serve da principio di individuazione, poiché individua la materia. La causa formale corrisponde, dunque, all’essenza della cosa: Socrate è uomo perché la sua materia è individuata dalla forma uomo, che mi permette di individuare tutti i soggetti della stessa specie. Ma il punto di sutura tra queste tre cause finora tratteggiate è la quarta ed ultima causa: quella finale, che illustra lo scopo per cui quella determinata cosa è venuta ad essere così come è. La causa finale risponde quindi alla domanda "perché x è?" o anche "perché x è venuto ad essere nel modo in cui è?": perché la casa è così come la vediamo? Perché deve servire da riparo all’uomo e non potrebbe fare ciò se non fosse disposta in quel modo. Perché l’uomo è così? Per svolgere al meglio quel compito che per natura gli compete, ossia il pensare, ed è per questo che ha la testa in alto, per poter meglio pensare. E per ciascuna cosa il fine può dirsi realizzato quando l’oggetto si è formato nella migliore forma possibile per poter assolvere alle sue funzioni; così una casa funziona bene se la sua forma la mette nelle condizioni di funzionare al meglio. Ne consegue che la causa finale è legata a filo doppio a quella formale. Che cosa è, però, che mette in moto quel processo per cui alla fine la materia è formata al meglio per assolvere le sue funzioni? Aristotele risponde che è la causa del movimento, giacchè, da sola, la materia non potrebbe mai passare da potenza ad atto. Conoscere queste quattro cause significa avere scienza e chi la possiede è perfettamente distinguibile da chi invece ne è sprovvisto e possiede solo una tecnica, o chi possiede solo l’esperienza, o ancora chi ha solo sensazioni: mentre infatti la sensazione si ferma al "che" delle cose e le conosce sempre come particolari, la scienza è in grado di conoscere il "perché" delle cose e, grazie a ciò, attinge all’universale. Ciò non toglie, tuttavia, che la percezione degli oggetti sia sempre vera: questo punto è sviluppato da Aristotele nel "De anima", quando dice che la percezione nasce dall’attualizzazione di una potenzialità. Infatti, ogni singolo organo di senso percepisce secondo verità i suoi oggetti perché il soggetto percipiente, per effetto dell’azione esterna, passa da soggetto percipiente in potenza a soggetto percipiente in atto e, nello stesso tempo, l’oggetto passa da oggetto percepito in potenza a oggetto percepito in atto. Ma il grande limite della sensazione è la sua incapacità a spiegare le cause: in altri termini, grazie alla sensazione percepisco che il libro è rosso, ma poi sta alla scienza spiegarmi il perché. Il possessore della scienza è il sapiente (sofoV) e Aristotele si interroga su come gli uomini siano pervenuti a questi esiti: la causa scatenante è l’amore per la conoscenza insito in ciascuno di noi, ma il primo movente che ha indotto gli uomini ad amare l’indagine conoscitiva è stata (e in questo Aristotele è d’accordo con Platone) la meraviglia (to qaumazein). Essi infatti si meravigliarono dei solstizi o dell’incommensurabilità della diagonale col lato perché non riuscivano a spiegarsi come fossero possibili tali cose e questo perché non erano ancora riusciti a comprenderne le cause: è infatti la conoscenza delle cause a sconfiggere la meraviglia e a portare al sapere. Con la filosofia, l’uomo ha raggiunto un sapere assolutamente disinteressato, privo di ogni risvolto pratico (a differenza delle tecniche): è quel sapere che Aristotele chiama qewria ("contemplazione") e che riguarda quegli oggetti che, nel VI libro della "Metafisica", identifica con la matematica, la fisica e la metafisica. Se per il Platone de "La Repubblica" esisteva una sola scienza (quella del Bene), per Aristotele ne esistono una pluralità, tra loro non reciprocamente riducibili le une alle altre. Addirittura, Aristotele colloca la fisica ad un livello altissimo, mentre Platone le negava lo statuto di scienza; e poi Aristotele opera una netta distinzione tra teoria e prassi, tra filosofo e politico, tra scuola e città: tuttavia sullo sfondo lascia intravedere la possibilità di una conciliazione fra le due parti, dato che l’uomo è sì un animale razionale, ma anche un animale politico. E’ curioso il fatto che Aristotele non separi radicalmente chi ama il sapere da chi ama i miti, poiché, a suo avviso, entrambi muovono dalla meraviglia, anche se si servono di diversi modi di spiegazione (razionale e causale per il filosofo, mitico e irrazionale per l’amante dei miti). Proprio perché sapere teoretico e dunque non produttivo, la filosofia è fine a se stessa e, quindi, poiché priva del legame di servitù (infatti, propriamente, non serve a nulla), è il sapere più nobile. E da questa attività, come Aristotele dice nell’ "Etica Nicomachea", si ricavano piaceri immensi, i più congeniali alla natura razionale dell’uomo. La filosofia è la sola scienza che può essere divina, perché universale e perché conosce le cause, cioè conosce oggetti divini. La scienza costituisce dunque il punto più alto della conoscenza, ma, propriamente, quando si scoprono le cause che cosa si fa? Secondo Aristotele, a tal proposito, è assolutamente centrale l’impiego della dimostrazione: il filosofo si distingue per parlare in modo consono alla verità e la conoscenza della causa (che porta alla verità) passa per la dimostrazione; il filosofo sa dimostrare le cause perché sa costruire ragionamenti concatenati (sillogismi). Il che significa che per Aristotele possono esserci anche ragionamenti concatenati che non sono dimostrazioni. Il sillogismo, dunque, è lo strumento (organon) della scienza e il sapiente (come dice Aristotele nell’ "Etica Nicomachea") è colui che possiede la disposizione apodittica, ovvero la disposizione a dare dimostrazioni: si tratta di una procedura deduttiva, nel senso che si pongono premesse e si deduce una conclusione ad essa conseguente. Ed è la qualità delle premesse (che devono essere vere, salde, non dimostrate) a distinguere il sillogismo dimostrativo da quello non dimostrativo: perno della dimostrazione è il "termine medio", che consente di stabilire la conclusione. Ma, nota Aristotele memore della lezione socratica, esiste anche il sillogismo dialettico, una sorta di ragionamento concludente che però assume le premesse in base all’accordo tra gli interlocutori; si tratta dunque di un ragionamento concludente ma che esula dalla dimostrazione. Per poter costruire i sillogismi, il filosofo deve partire da princìpi e qui Aristotele ne individua di due tipi, quelli propri di ogni singola scienza (e che quindi riguardano solamente gli oggetti specifici di quella data scienza) e quelli comuni a tutte le scienze; ovviamente, ciò significa che non solo la scienza per Aristotele non è una, ma che addirittura i princìpi che le governano variano da scienza a scienza. Essi però non possono essere assunti per via dimostrativa, sennò si aprirebbe un processo tendente all’infinito: c’è tuttavia un’altra facoltà presente in noi che presiede a tali principi; si tratta dell’intelligenza ( nouV ), un atto intellettivo di adeguazione immediata a tali princìpi. Non c’è scienza se non si conoscono i princìpi dai quali procede la dimostrazione: alla conoscenza di essi si arriva per via induttiva, cioè dalla sensazione, per lo stesso cammino che porta dalla percezione alla sapienza. Con la morte di Alessandro Magno (323 a.C.) si fa convenzionalmente iniziare l’età ellenistica, caratterizzata, sul piano culturale, in primis da forti contaminazioni frutto del contatto con culture lontane e profondamente diverse da quella greca; spesso questa nuova età del pensiero è stata letta come decadente, facendo riferimento agli ineguagliati vertici filosofici raggiunti da Platone e Aristotele. Alessandro Magno si era spinto fino in India e dopo le sue conquiste nulla fu come prima: Atene perse il titolo di capitale della cultura e la Grecia si avvia a diventare (nel 146 a.C.) provincia del mondo romano. Sul piano filosofico, lo scenario è dominato da tre correnti di pensiero principali, affiancate da un pulviscolo di correnti minori: queste tre scuole fondamentali sono lo Stoicismo, l’Epicureismo e lo Scetticismo, accomunate (come tutte le altre filosofie dell’età ellenistica) dal disinteresse per la sfera metafisica, tanto cara ai loro predecessori (pensiamo ai sistemi elaborati da Platone e Aristotele), e da una marcata esigenza di individuare un modello di vita che sia compatibile con le nuove condizioni socio-economiche in cui versava la Grecia dell’epoca; l’influenza illustre di Platone e Aristotele permane, anche se, di fatto, questi due pensatori non vengono mai esplicitamente menzionati. Tutte queste correnti pongono dunque al centro della loro indagine filosofica l’etica, prefiggendosi la formazione del saggio. Accanto a queste tre grandi scuole ce ne sono molte altre: tra queste, (oltre a quella dei Cinici, dei Cirenaici seguaci di Aristippo, degli ultimi Megarici, ecc) merita senz’altro di essere ricordata quella degli Aristotelici (o Peripatetici, dal Peripato, il luogo in cui Aristotele passeggiava filosofeggiando coi suoi discepoli): emblematica è, a tal proposito, la figura di Stratone di Lampsaco, tra i fondatori della imponente biblioteca di Alessandria. Ritornando agli sviluppi delle tre scuole che dominano questa fase della cultura filosofica greca, esse sono accomunate, oltrechè dalla preminenza dell’interesse etico, dalla classificazione tripartita (già presente nell’Accademia di Platone) della filosofia in etica, fisica, logica. Epicuro dà molto peso alla logica (detta anche "canonica" perché "canone", ossia criterio della conoscenza) e gli Stoici distinguono due grandi parti all’interno della logica: la gnoseologia e la teoria dei discorsi. L’espressione "scienza della logica" è di loro conio, poiché per Aristotele la logica era "analitica": se poi la teoria epicurea è monolitica e non subisce variazioni di rilievo nel tempo, quella stoica è, al contrario, una filosofia "in fieri", soggetta a continue trasformazioni: a testimonianza della stabilità della dottrina epicurea si può ricordare come Diogene di Enoanda, nel II secolo d.C., fa incidere su una pietra nella sua città il verbo di Epicuro così come era secoli addietro. Ed è curioso come Epicuro polemizzi aspramente contro i poeti (a suo avviso mistificatori) e come il più grande divulgatore della filosofia epicurea presso i Latini, Lucrezio, scriva in versi. Epicuro, poi, sceglie in modo significativo di insegnare in un giardino fuori Atene, lontano dalle burrascose vicende politiche della città; gli Stoici , viceversa, hanno la loro sede nel "portico dipinto" nel cuore di Atene: lo stoico Crisippo paragona la filosofia ad un orto in cui la logica costituisce le mura che demarcano i confini, la fisica rappresenta gli alberi che crescono nell’orto e l’etica costituisce i frutti che pendono dagli alberi; dalla metafora, si evince come la filosofia abbia per Crisippo confini limitati (un orto chiuso) e sia difesa dall’esterno da un muro (la logica); centrale è (alla pari degli alberi in un orto), evidentemente, la fisica, alla quale è strettamente connessa l’etica: non ci possono infatti essere i frutti se non ci sono gli alberi, il che significa che per raggiungere la felicità occorre partire dalla conoscenza della natura. Con un’altra metafora alquanto efficace, gli Stoici accostano il sapere filosofico ad un uovo, il cui guscio è costituito dalla logica (quindi essa ha funzione difensiva, come nel caso del muro), l’albume dalla fisica, il tuorlo dall’etica. Tuttavia, a Posidonio, uno Stoico della cosiddetta "media Stoà", queste metafore non piacevano perché non rendevano sufficientemente conto dei rapporti reciproci tra le tre scienze: a suo avviso, è meglio accostare la filosofia ad un organismo, in cui forte è la vivacità fra le parti; le ossa sono costituite dalla logica, il sangue e la carne sono rappresentate dalla fisica e l’anima dall’etica. La filosofia, così intesa, si configura come un sapere organico e retto da una fortissima unità, che per gli Stoici ruota attorno al LogoV , la ragione che permea ogni realtà. Nel LogoV gli Stoici vedevano convergere tre valenze: esso è principio di verità (e quindi legato alla logica, con la quale si formulano le leggi del conoscere, del pensare, del parlare), è un principio dell’essere delle cose (e dunque connesso alla fisica e allo studio che essa conduce sulla natura), è il principio del fine e del dover essere dell’uomo come ente di natura (e dunque è connesso all’etica). La teoria della conoscenza compete, secondo gli Stoici, alla logica: essa permette di cogliere il LogoV insito nelle cose, cioè ce le fa conoscere, pensare e dire nella loro verità; anche per Epicuro la logica è fondamentale, perché fissa il criterio di verità: la sensazione è, secondo lui, la base della conoscenza. Epicuro elimina la logica come filosofia del linguaggio e se ne interessa solo nella misura in cui essa studia il criterio di verità. Sia gli Epicurei sia gli Stoici sono sensisti ed Epicuro arriva a concordare, per quel che riguarda la conoscenza, validità assoluta ai sensi. Il suo canone di conoscenza si sviluppa in tre punti che corrispondono alle tre parti della filosofia: la logica (legata alle sensazioni), la prolessi (legata alla fisica), le affezioni (legate all’etica); egli critica le tendenze scetticheggianti che sospendono il giudizio sulla validità delle sensazioni e le proclamano aleatorie: fa notare come, propriamente, non possa esserci pensiero se non ci sono le sensazioni. Questo emerge benissimo nella nozione di prolessi (prolhyiV dal greco prolambanw , "prendo prima") o anticipazione: per prolessi Epicuro intende l’anticipazione di qualcosa che non mi si è ancora presentato ai sensi (quando ad esempio penso ad una persona senza poterla percepire); se la conoscenza passa per le sensazioni, come può pensare senza percepire? Tutto si spiega proprio perché, secondo Epicuro, l’anticipazione si verifica quando ho avuto sensazione almeno una volta di quella determinata cosa, cosicchè (permanendo essa nella mia memoria) posso pensarla senza effettivamente percepirla (perché l’avevo già percepita prima). Ma come si dimostra che tutte le sensazioni sono vere? La sensazione, secondo Epicuro, è un’affezione, un paqoV in cui subisco qualcosa dall’esterno: ne consegue necessariamente che l’affezione deve rispecchiare fedelmente la cosa percepita. Ma, allora, come nascono gli errori e le illusioni dei sensi? Epicuro dice che neppure nel caso delle illusioni dei sensi si può parlare di percezioni errate: è la precipitazione del giudizio, cosicchè si dice che un determinato oggetto tondo è quadrato prima che la sensazione ci abbia sconfessato: il pensiero è fondato sulla sensazione, e non viceversa. Anche per gli Stoici la sensazione è importante, ma, a loro avviso, non basta: occorre che il dato della sensazione sia rappresentabile dal pensiero; non basta il dato del senso, ci vuole il pensiero. La sensazione si accompagna alla fantasia (che in Aristotele, nel "De anima", era una facoltà dell’anima che permette la formazione di fantasmata ), ossia la rappresentazione dell’oggetto. E poi la sensazione per gli Stoici è un’impressione provocata dall’oggetto sui nostri organi sensoriali: come il suggello lascia un’impronta sulla cera (secondo la lezione platonica del "Teeteto"), come un foglio di carta pulita è adatto per copiare uno scritto, così i nostri organi di senso ricevono le impressioni. Tuttavia, la concezione dell’anima è simile a quella di Epicuro: l’impressione lasciata dagli oggetti è un’impressione corporea perché l’anima stessa è corporea; se per Epicuro essa era un composto atomico, per gli Stoici ha natura aeriforme e le impressioni ne modificano la struttura proprio come (dice Crisippo) l’aria è in grado di ricevere molte e contrastanti percussioni; Crisippo parlava anche, in maniera più raffinata, di alterazioni qualitative, come se l’anima cambiasse stato quando riceve impressioni. Bisogna però chiedersi quali rappresentazioni possano essere ritenute con certezza vere: secondo gli Stoici, questa attività di rappresentazione si articola in due momenti distinti; in un primo momento, infatti, riceviamo passivamente affezioni dall’esterno, poi il soggetto reagisce attivamente ad esse con l’ "assenso", cioè acconsentendo, approvando ciò che si è passivamente ricevuto dall’esterno; questa approvazione avviene mediante il LogoV che è nella nostra anima e la differenza tra una rappresentazione falsa e una vera è che solo a quella vera si può e si deve dare il proprio "assenso". Ma, dicono gli Stoici, di fronte alle rappresentazioni possiamo reagire o dando l’assenso, o non dandolo, o sospendendolo: e proprio nel riconoscere questa libertà di giudizio gli Stoici garantiscono, in una certa misura, una forma di libertà all’uomo; se, infatti, non possiamo scegliere se avere o meno rappresentazioni, ciononostante possiamo scegliere come reagire ad esse, concedendo o negando il nostro assenso. Particolarmente importante è la sospensione dell’assenso (epoch), che costituirà il perno della filosofia scettica e sarà destinata ad avere vita lunga nella storia della filosofia. Nel momento in cui do l’assenso ad una rappresentazione, l’impressione diventa apprensione, nel senso che ci si appropria della rappresentazione e questo emerge chiaramente nell’uso che gli Stoici fanno della parola katalhyiV ("appensione", l’afferrare la rappresentazione); la rappresentazione diventa, in tal modo, "rappresentazione comprensiva" (o "catalettica"). Ma non tutte le rappresentazioni sono attendibili: solamente quelle che presentano evidenza e sono riconducibili alla realtà. Per illustrare questo procedimento conoscitivo, Zenone usava un’immagine alquanto efficace: la mano aperta rappresenta l’immagine, curvando le dita si ha l’assenso, stringendole e chiudendo il pugno si ha poi la comprensione e, infine, accostando la mano sinistra e afferrando il pugno si ha la scienza, intesa come sistema integrato di comprensioni catalettiche. Tuttavia, di rappresentazioni ce ne sono di due tipi: quelle che colgono immediatamente la realtà (comprensione catalettica), e quelle che la colgono con qualche difficoltà (comprensione non catalettica); solo la comprensione catalettica è, per gli Stoici, determinata dall’esistente, conforme all’esistente e impressa nell’anima. Ed è solo quando c’è la presenza effettiva dell’oggetto che l’assenso è fortissimo, quasi come se (per usare un’immagine impiegata dagli Stoici) venisse strappato per i capelli: gli Scettici osservavano invece come di fatto nessuna rappresentazione si presentasse con caratteri tali da meritare, senza possibilità di equivoci, il nostro assenso (pensiamo ai sogni, quanto ci appaiono veri!). Detto questo, per gli Stoici la conoscenza non si esaurisce nell’ambito della sensazione (come invece è per Epicuro): l’attività del pensiero che crea concetti rivela un’attività intellettiva autonoma dalle sensazioni, anche se non del tutto sganciata da esse. Ogni atto intellettivo (e gli Stoici designano l’atto intellettivo con la parola nohsiV, di forte sapore platonico) deriva da una sensazione, ma ciò avviene o per contatto (relazione diretta) o non per contatto (relazione non diretta) ed è facile capire come il pensiero possa svolgere autonomamente la sua attività: o per evidenza o per analogia o per somiglianza o per aggregazione. Per evidenza sensoriale sento il dolce, l’amaro, ecc; non per evidenza, ma per passaggio da cose evidenti creo concetti per composizione (componendo il concetto di uomo e quello di cavallo creo l’ippocentauro), per somiglianza (dall’uomo Socrate in carne e ossa creo il concetto di Socrate), per analogia (per analogia verso l’aumento dell’uomo creo il concetto di ciclope, verso la diminuzione dell’uomo creo uomini nani). E sia gli Stoici sia Epicuro insistevano tanto sulle operazioni del pensiero per polemizzare contro l’innatismo, secondo il quale le nozioni universali preesistono; gli Stoici, in opposizione a questa tesi, ammettevano che gli universali (le "prolessi" di Epicuro) fossero "connaturate" agli uomini, come se l’uomo nascesse con una predisposizione alla formazione di questi concetti perché è l’unico essere a possedere la ragione: in particolare, gli Stoici parlavano di concetti "connaturati" in riferimento alla morale e, soprattutto, all’innata disposizione dell’uomo alla virtù; infatti, poiché l’uomo è anima, cioè ragione, egli vive secondo ragione e vivere ragione vuol dire vivere secondo natura, ossia secondo virtù. Ma in quegli stessi anni compariva sullo scenario filosofico una figura inequivocabilmente nuova, destinata a diventare il fondatore dello Scetticismo : si tratta di Pirrone originario di Elide (nato circa nel 360 a.C.); egli avrebbe cominciato la sua attività filosofica ancor prima della fondazione della scuola stoica ed epicurea e avrebbe preso parte alla spedizione di Alessandro Magno in India, entrando così in contatto con i maghi e con i gimnosofisti; da questi avrebbe appreso il tipo di saggezza da lui professato. Come Socrate, Pirrone scelse di non scrivere nulla, poiché convinto di non avere nulla da affidare allo scritto e che altri potessero apprendere: ed è per questo che egli non fondò alcuna scuola e gettò le basi dello scetticismo; dal punto di vista di Pirrone e degli Scettici tutte le filosofie costituiscono un blocco unico, poiché pretendono di avere qualcosa da insegnare; si tratta, per di più, di un blocco dogmatico, dottrinario. In contrapposizione a tutto questo, gli Scettici non hanno dogmi e non hanno persone a cui trasmettere le proprie verità, proprio perché non ne possiede. Dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo ipotizzare che anche la filosofia scettica abbia attraversato delle sue fasi: l’immediato successore di Pirrone, Timone, ha composto in versi delle critiche indirizzate agli altri filosofi; la tradizione, poi, testimonia che anche due platonici come Carneade e Arcesilao avrebbero aderito allo Scetticismo. Dopo di che, si perdono le tracce della filosofia scettica, fino al II secolo d.C., quando ad abbracciare la causa scettica fu Sesto Empirico (detto "Empirico" perché appartenente alla setta medica degli "Empirici"), il quale si scatenò in un’accesa critica "Contro i dogmatici" e tratteggiò la figura del "filosofo pirroniano", facendo in tal modo di Pirrone un modello da seguire. Stando a quanto dice Diogene Laerzio nelle "Vite dei filosofi", Pirrone avrebbe desunto dallo Stoicismo i princìpi della akatalhyia (letteralmente "incomprensibilità") e dell’ epoch ("sospensione di giudizio"), mentre, attenendoci alla testimonianza di Sesto, Pirrone avrebbe cominciato da solo, senza influenze, la propria attività filosofica. L’opposizione allo Stoicismo appare tuttavia evidente: se gli Stoici parlano di "rappresentazione comprensiva", Pirrone nega invece la rappresentabilità (e quindi la comprensibilità) delle cose: la sua è una non-gnoseologia. Gli Scettici vengono così definiti dal termine greco skeyiV , che vuol dire "ricerca", "indagine" sulla natura delle cose per stabilire cosa esse siano: nella sua ricerca, però, lo scettico scopre che le cose sono incomprensibili per due ordini di ragioni. In primo luogo per il fatto che tutte le cose appaiono diversamente a chi le osserva in condizioni diverse, in secondo luogo per il fatto che sulle stesse cose si può riscontrare che gli uomini hanno pareri contrastanti, spesso addirittura opposti (c’è, ad esempio, chi dice che tutto è costituito da atomi, chi da elementi, e così via). Lo scettico, tuttavia, non si limita a dire che le cose sono inconoscibili (poiché questo sarebbe un dogmatismo), ma ritiene che si debba sospendere il giudizio (epoch ): egli, cioè, non afferma né nega che le cose siano comprensibili e scopre che dalla sospensione del giudizio scaturisce una felicità irresistibile, sconosciuta a chi si ferma al dogmatismo. Secondo Timone, in particolare, occorre chiedersi tre cose per essere felici: a) quale è la natura delle cose? b) come ci si deve disporre nei confronti di esse? c) cosa risulterà a coloro che si trovano in questa disposizione? Come Timone stesso asserisce, le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili, indiscriminabili e perciò le nostre sensazioni e opinioni possono essere vere e false, poiché non disponiamo di criteri per distinguere le differenze tra le cose. Di fronte a quest’assoluta mancanza di certezze e verità, Carneade e Arcesilao (rivelando in ciò la loro ascendenza platonica) ovviavano, rispettivamente, con la nozione di piqanon ("probabile") e con quella di eulogon ("ragionevole"): ma per Pirrone, invece, " si deve vivere senza opinioni, senza inclinazioni, senza agitazioni ", poiché il seguire le opinioni ci turba; occorre, piuttosto, dire che " ogni cosa è non più di quanto non è ". Ne derivano l’ afasia ("il non pronunciarsi") e l’ ataraxia ("assenza di turbamenti"). Ma, in questa prospettiva, come conduce lo scettico la propria esistenza? Come dice Sesto Empirico, lo scettico è uomo tra gli uomini, sospende il giudizio ma dà assenso alle rappresentazioni naturali (la fame, la sete, ecc), non ha maestri ma impara come tutti gli altri uomini a leggere e a scrivere perché ciò è utile nella vita quotidiana; in altri termini, lo scettico si adatta alle condizioni comuni, vive seguendo i fenomeni, senza dar valori: non dice, ad esempio, che il miele è dolce, ma che sembra tale. Qualche secolo più avanti, Plotino cercherà di porre nuovamente al centro della discussione filosofica il platonismo, scivolato per molto tempo nell’oblio: secondo Plotino, non è l’anima ad essere nel corpo, ma, al contrario, è il corpo ad essere nell’anima; a suo avviso, perché sia possibile la riunificazione con quell’unico principio da cui tutto deriva, non occorre la ragione, ma, piuttosto, la mistica o, come la chiama Plotino, l’ "estasi". Si tratta, cioè, di staccarsi dal mondo fisico, di rientrare in sé (ossia di riappropriarsi della propria anima) e di ricongiungersi all’ Uno, principio da cui ogni cosa proviene. Con Plotino il mondo perde definitivamente la sua autonomia: l’uomo stesso è solo anima, anzi, è anima separata dal corpo, poiché è come se in ciascuno di noi vi fossero tre persone diverse. Infatti, la prima persona è costituita dalla nostra anima considerata nella sua tangenza con l’intelletto, la seconda è rappresentata dall’anima come pensiero discorsivo e, infine, la terza è l’anima che vivifica il corpo terreno. Sullo sfondo di queste riflessioni, vi è la distinzione aristotelica (presente nel "De anima") delle funzioni dell’anima: e, secondo Plotino, il nostro vero io è soprattutto quello della seconda persona, ossia l’anima come pensiero discorsivo, capace di tendere verso il meglio (la prima persona) o verso il peggio (la terza persona). In tale prospettiva, l’uomo altro non è se non un’anima che si serve di un corpo, il quale, a sua volta, non è che un’anima "caduta": ne consegue che l’anima, non solo è slegata dal corpo (secondo l’insegnamento platonico), ma, addirittura, è strettamente congiunta all’assoluto. Nell’ambito gnoseologico, l’anima, essendo incorporea e dunque incapace di concepire alcunchè, può solo agire, mai subire, giacchè ciò che è incorporeo non è suscettibile di subire azioni: e allora la sensazione va intesa come azione del corpo esterno sul corpo percipiente ma, in questi termini, in virtù del rapporto tra anima e corpo, sembra che l’anima subisca, in qualche modo, l’influenza degli oggetti, cosa che abbiamo poc’anzi detto impossibile. Per evitare di incappare in questa contraddizione, Plotino ricorre ad una scaltrezza di sapore stoico, distinguendo tra sensazione esteriore (che è l’affezione e l’impronta che i corpi producono sui corpi stessi, poiché, stoicamente, sussiste una simpatia universale che lega ogni cosa) e percezione sensitiva (che è l’attività dell’anima in senso stretto: un atto conoscitivo che coglie l’impressione e l’affezione corporea appropriandosene). In altri termini, secondo Plotino, il nostro corpo subisce passivamente un’affezione e, dopo ciò, l’anima cattura tale affezione corporea e, successivamente, riesce a giudicarla; in particolare, nell’impressione sensoriale l’anima riesce a vedere l’orma delle forme intelligibili e, quindi, la stessa sensazione altro non è se non contemplazione dell’intelligibile nel sensibile; in tale ottica, le sensazioni possono anche, di fatto, essere definite come "pensieri oscuri". Se non ci fosse l’anima superiore che ha nozione degli "intelligibili puri", non potrebbe nemmeno esserci la sensazione. Plotino attribuisce all’anima anche la capacità di immaginare e memorizzare, riconoscendo invece nel corpo uno strumento di impaccio a queste due attività: prova ne è, secondo Plotino, il ricordo delle dottrine scientifiche, che col corpo non hanno nulla a che fare. E occorre notare come, propriamente, solo l’anima sia dotata di memoria (in quanto solo essa è legata alla temporalità): l’Uno e l’intelletto ne sono sprovvisti. Da sottolineare è la distinzione che Plotino opera tra memoria e reminescenza: quest’ultima è un richiamare alla memoria, un conservare perennemente nell’anima ciò che le è connaturato. Non c’è da stupirsi che, nella prospettiva plotiniana, la più alta attività conoscitiva dell’anima risieda nel pensiero che coglie le idee (intese non più alla maniera platonica, come enti a sé s