CRATETE DI TEBE

 

A cura di Marco Machiorletti

 

 

 

"I beni del mondo sono posseduti dalla vanità".


CRATETE DI TEBE dipinto da LUCA GIORDANO


 

INTRODUZIONE AL PENSIERO

 

 

Il più cospicuo dei discepoli di Diogene di Sinope e, a un tempo, uno dei massimi esponenti del movimento cinico fu Cratete di Tebe, vissuto agli inizi del III secolo a.C.

Egli ribadì il concetto che il desiderio delle ricchezze e della fama per il saggio sono mali e disvalori, e sono invece beni e valori i loro contrari, vale a dire la «povertà»

e «l’oscurità», perché solo chi è povero e oscuro può realizzare l’«autarchia».

 

“Cratete vendette il suo patrimonio, che apparteneva a distinta famiglia, ne ricavò circa duecento talenti che distribuì ai suoi concittadini […]. Diocle afferma che Diogene lo persuase ad abbandonare i suoi campi al pascolo delle pecore ed a gettar in mare il denaro che avesse […]. Fu perseverante nel suo proposito né si lasciò distogliere dai suoi parenti che venivano a visitarlo e che spesso dovette inseguire col bastone. Demetrio di Magnesia narra che consegnò il suo danaro ad un banchiere, a condizione che se i suoi figli fossero rimasti profani ed incolti desse loro il denaro, ma se fossero divenuti filosofi lo distribuisse al popolo; perché i suoi figli, se si fossero dedicati alla filosofia, non avrebbero avuto bisogno di nulla”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 87)

 

Oltre che «povero» e  «oscuro», il Cinico, anche per Cratete come per Diogene, deve essere «apolide». La polis, infatti, non è che un bene effimero e caduco, giacché essa può essere in ogni momento espugnata e non può offrire al saggio quel sicuro rifugio di cui egli ha bisogno per essere felice:

 

“La mia patria non ha una torre sola né un tetto solo; ma dove ci è possibile vivere bene, in ogni punto dell'universo, lì la mia città, lì la mia casa” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 98)

 

“Ad Alessandro che gli chiedeva se volesse che la sua città natale fosse ricostruita, rispose: «E a che servirebbe? Forse un Altro Alessandro la distruggerà»” (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VII, 93)

 

Cratete insistette in modo particolare nel denunciare la vanità dei beni del mondo e nello squarciare l’illusorietà che li ammanta.

Dice un suo frammento pervenutoci:

 

“I beni del mondo sono posseduti dalla vanità”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)

 

Alla domanda circa il vantaggio che aveva tratto dalla filosofia, Cratete rispose:

 

“Un quarto di lupini e il non curarsi di niente”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)

 

«Un quarto di lupini» significa lo stretto indispensabile per vivere, e il «non curarsi di niente» significa il preoccuparsi e il restar pago dello stretto indispensabile e il ritener vano e inutile tutto il resto.

Pare, inoltre, che Cratete abbia espressamente polemizzato contro l’edonismo, sostenendo che nessuna vita potrebbe essere felice se la felicità dovesse essere fatta coincidere con i piaceri. Infatti – egli argomentava – in nessuna stagione della vita dell’uomo il piacere sopravanza il dolore, e il bilancio totale di ogni vita registra sempre più dolori che non piaceri. In particolare poi egli, come i suoi predecessori, proclamò la necessità di tenersi lontani dai piaceri di Eros, che, più di altri, turbano l’«impassibilità» del saggio.

I Cinici contestarono l’istituto del matrimonio, o meglio del matrimonio come era tradizionalmente concepito. Cratete si sposò con Ipparchia, la quale aveva abbracciato le idee dei Cinici, e riuscirono di conseguenza a vivere un vero e proprio «matrimonio cinico», un matrimonio, cioè, che rovesciava i valori che ad esso venivano legati dalla società.

La totale svalutazione di questo istituto da parte di Cratete è confermata da due episodi: portò suo figlio, non appena divenne maggiorenne, in un postribolo (bordello) e gli disse che così «suo padre aveva celebrato le nozze». E diede sua figlia  «in matrimonio in prova per trenta giorni ».

Con Cratete il Cinismo assunse un tono di filantropia, del tutto assente in Antistene e Diogene. Egli era sempre solerte a dispensare consigli a chi ne abbisognava; anzi spesso non attendeva che gli altri venissero da lui a chiederli, ma di sua iniziativa si recava da chi aveva bisogno.

La saggezza dei suoi consigli e i modi affabili con cui li dispensava erano tali che, per lui, nessuna porta di nessuna casa era chiusa, tanto che fu soprannominato l’«Apritore di porte».

 

“Era chiamato anche «apritore di porte» perché entrava in ogni casa a dar buoni consigli”. (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VI, 86)

 

“Cratete, seguace di Diogene, dagli Ateniesi suoi contemporanei fu venerato come un dio tutelare della casa: nessuna casa restava per lui chiusa, e per quanto il luogo in cui si trovava il capofamiglia fosse nascosto, Cratete vi entrava tempestivamente come arbitro e giudice di tutte le liti e contese familiari”. (Apuleio, Florida, 22)

 

“Si recava nelle case degli amici, senza essere chiamato oppure chiamato, per riconciliare fra di loro i familiari, se mai s’accorgeva che erano in discordia . Egli riprendeva non aspramente, ma dolcemente, in maniera da non aver l’aria di accusare coloro che riprendeva, perché voleva essere utile a loro e anche a quelli che stavano in ascolto”. (Giuliano, Discorsi, IX [VI], 201 b-c) 

 

Questo sentimento di totale disponibilità verso gli altri e di filantropia non deriva dai principi del cinismo – che portano, piuttosto, all’egoismo e alla misantropia – ma dal carattere di Cratete, particolarmente sereno ed estroverso.

 

“Cratete, con la sua bisaccia e il suo mantello, passò la sua vita ridendo e scherzando come in una festa”. (Plutarco, De an. Tranquill., 4, 466 e)

 

 

 

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