Benedetto Croce
A cura di Giuseppe Di Donato
Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (L’Aquila) il 25-2-1866, in una famiglia di proprietari terrieri, ricca ma molto conservatrice (era attaccata ancora ai Borboni!), e frequentò le scuole secondarie in un collegio di religiosi, anch’esso culturalmente chiuso.
Nel 1883 villeggiò a Casamicciola (nell’isola
d’Ischia), ed un terremoto durato 90 secondi gli uccise i genitori Pasquale e
Luisa Sipari e la sorella Maria, rimanendo lui stesso “sepolto per parecchie
ore sotto le macerie e fracassato in più parti del corpo”.
Fu allora accolto a Roma dallo zio, il senatore
Silvio Spaventa (famoso storico e fratello di Bertrando Spaventa, filosofo
idealista che aveva tentato una riforma dell’Hegelismo): fu un gesto
nobile da parte dello Spaventa anche perché era in rotta coi Croce, dal momento
che questi, a causa del tradizionalismo a cui abbiamo accennato, gli avevano
rimproverato un eccessivo liberalismo (e del resto i Croce si erano allontanati
anche da Bertrando, perché apostata).
Nel salotto di Silvio, Benedetto incontrò importanti uomini politici ed intellettuali, tra i quali ad esempio Antonio Labriola (che allora era herbartiano), del quale frequentò le lezioni di filosofia morale all’università di Roma (anche se era iscritto a giurisprudenza a Napoli); Benedetto non finì gli studi universitari, non volendo conseguire titoli accademici, ma continuò comunque a studiare, trascurando inizialmente Hegel, poiché i libri che circolavano in casa Spaventa gli diedero l’idea ch’esso dovesse essere un filosofo quasi incomprensibile.
Nel 1886 lasciò la “politicante società romana, acre
di passioni”, e tornò a Napoli, dove comprò la casa nella quale aveva vissuto
il filosofo Giambattista Vico; negli anni seguenti viaggiò in Spagna, Germania,
Francia ed Inghilterra, ed aumentò l’interesse per la storia, grazie alle
letture di Francesco De Sanctis (letture già iniziate durante gli studi
ginnasiali, assieme a quelle del Carducci: De Sanctis e Carducci diventeranno
per lui due punti fissi).
Nel 1895 Labriola (che intanto aveva abbandonato la filosofia di Herbart), col quale
Benedetto aveva mantenuto il dialogo intellettuale, gli fece conoscere le idee
del Marxismo, alle quali inizialmente il filosofo napoletano si interessò,
studiando i saggi di Labriola, leggendo libri di economia, riviste e giornali
italiani e tedeschi d’ispirazione socialista, e l’interesse si diresse così
verso la politica; tra l’altro aveva espresso sul Marxismo, tra il 1895 ed il
1899, una “critica tanto più grave, in quanto voleva essere una difesa e una
rettificazione del Marxismo stesso”, pensando egli che la società capitalista
studiata da Marx non esistesse, né fosse mai esistita, ma gli interessi per il
Marxismo fecero sentire al nostro il bisogno di risalire ad Hegel, al cui
studio lo invitava anche il suo amico e filosofo Giovanni Gentile.
Col Gentile fondò, nel 1903, la rivista “La
Critica”, il cui progetto era maturato nell’estate del 1902, ma l’amicizia col
Gentile, che aveva conosciuto quando quest’ultimo era studente a Pisa, si ruppe
quando quest'ultimo aderì al fascismo.
“La Critica” fu pubblicata dal 1903 al 1944, ed il
suo prestigio culturale ne rese impossibile al fascismo la soppressione: è noto
che Mussolini chiese “Quante copie tira Critica?”, ed essendogli stato risposto
“1500”, disse “allora lasciatelo stare”.
Nel 1910 Benedetto fu nominato senatore per censo e
fu ministro della Pubblica Istruzione nel 1920-21, nel quinto ministero
Giolitti: elaborò anche una riforma scolastica, che non volle attuare per la
propria non adesione al fascismo, ma essa fu comunque ripresa e realizzata dal
Gentile nel 1923 (oggi quella riforma è infatti nota come “riforma Gentile”).
Nel 1914 sposò Adela Rossi, con la quale ebbe 4
figlie (Alda, Elena, Livia e Silvia).
Come s’è detto, Croce ruppe con Gentile in occasione
della sua adesione al fascismo (ma già da tempo c’era forte dissenso tra i
due): dopo l’avvento al potere di Mussolini ed il delitto Matteotti (1924) fu
pubblicato il 1-5-1925 su “Il Mondo” (rivista liberale per la quale scrisse,
nel 1950, la prefazione a “1984” di George Orwell, tradotto da Gabriele
Baldini), in risposta al “Manifesto degli intellettuali fascisti” di Gentile,
il suo “Manifesto degli
intellettuali anti-fascisti” (al quale aderirono Eugenio Montale ed Aldo Palazzeschi,
e tra i matematici Leonida Tonelli, Ernesto e Mario Pascal, Vito Volterra,
Giuseppe Bagnera, Guido Castelnuovo, Beppo Levi, Tullio Levi Civita, Alessandro
Padoa, Giulio Pittarelli e Francesco Severi), scritto su invito di Giovanni
Amendola, e smise di intervenire direttamente nella politica, attività che
esercitò dopo la caduta del fascismo, essendo stato presidente del ricostituito
Partito Liberale nel 1943-1947 (fu avverso al comunismo ma lodò il valore
letterario di Gramsci), ministro nei governi Badoglio e Bonomi, membro
dell’Assemblea Costituente e poi del Senato.
Alcuni accusano Benedetto di falso liberalismo, poiché fino al ‘25 aveva appoggiato il fascismo, vedendolo come mezzo per sconfiggere le forze della sinistra: fatto ciò, la classe liberale avrebbe potuto continuare a reggere lo Stato, con le mani pulite; ricordiamoci anche che al grido di “oro alla patria!”, quando lo Stato per sostenere il costo della guerra cambiava (a chi lo sceglieva) le fedi nuziali di oro con anelli di ferro, Croce donò la propria medaglia di senatore.
Dopo la firma dei Patti Lateranensi (11-2-1929), mostrò la sua contrarietà al Concordato tra Stato e Chiesa dicendo in Senato che “accanto o di fronte ad uomini che stimano Parigi valer bene una messa, sono altri per i quali l’ascoltare o no una messa è cosa che vale infinitamente più di Parigi, perché è affare di coscienza”, nella sua replica Mussolini definisce Croce “un imboscato della storia”.
Nel 1946 fondò a Napoli (nel frattempo si era
ritirato a vivere nel palazzo di Trinità Maggiore, che era appartenuto ai
Filomarino) l’Istituto Italiano per gli studi storici, la direzione del quale
venne affidata al prof. Federico Chabod.
Il tradizionalismo di Croce emerge nei suoi giudizi negativi
verso i poeti simbolisti francesi: fu apertamente critico di Rimbaud e Valéry,
come del resto lo fu verso Pirandello, D’Annunzio e Pascoli (espresse
inizialmente perplessità verso il Decadentismo in generale, e le perplessità
maturarono poi in decisa avversione): proprio per questo ci fu un lieve
contrasto tra il Croce e Cesare Angelini, come racconta Angelini stesso ne “Gli
uomini della Voce” (clicca qui se vuoi
approfondire)
Nel 1949 fu colpito da un ictus cerebrale, che
limitò le sue possibilità di movimento,
ed il filosofo non uscì più di casa, dove continuava a studiare: fu colto dalla
morte mentre era seduto in poltrona nel suo studio-biblioteca, il 20-11-1952.
Dialettica: Benedetto riprende alcuni
aspetti della filosofia di Hegel; innanzitutto concorda con Hegel nel dire che
il pensamento filosofico è concetto (non intuizione o sentimento), universale
(e non generale, come le nozioni delle scienze empiriche) e concreto (poiché
riguarda la realtà): se ti va puoi leggere qui le parole esatte
del Croce nel suo “Saggio sullo Hegel”.
In questo modo Hegel riuscì a definire l’universale concreto come sintesi di opposti, “unità nella distinzione e nell’opposizione”; ha però, ad avviso di Benedetto, commesso tutta una serie di errori, che deriva da un unico errore, e cioè l’aver visto la realtà solo come prodotti di opposti che si sintetizzano, mentre Benedetto precisa che esistono anche i distinti, e crea una sua nuova dialettica che prevede la sintesi di opposti (come quella Hegeliana) e il nesso di distinti
I distinti nella filosofia crociana sono fondamentalmente 4, e sono generati dalle 2 attività fondamentali dello Spirito (conoscitiva, o teoretica, e volitiva, o pratica) a seconda che si dirigano verso il particolare o l’universale; detti distinti (o categorie) sono la fantasia, l’intelletto, l’attività economica e l’attività morale, e non si sintetizzano, non essendo opposti, mentre si sintetizzano, al loro interno, rispettivamente il bello ed il brutto (estetica), il vero ed il falso (logica), l’utile ed il dannoso (economia), il bene ed il male (morale).
Arte: Benedetto afferma, nel Breviario di estetica, che “l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”, perché se non si sapesse nulla di essa non si potrebbe chiedere cosa sia l’arte, perché ogni domanda contiene in sé già delle informazioni sull’oggetto della domanda stessa.
Il filosofo pensa che l’uomo abbia una precomprensione delle verità di fondo, e che la filosofia porti ad un livello di chiarezza critica queste precomprensioni; la differenza tra un buon filosofo ed una persona qualsiasi è che il filosofo pone le domande con maggiore “intensità”, e di conseguenza cerca di rispondere con maggiore intensità.
L’arte viene definita come conoscenza intuitiva, e si identifica la stessa come espressione dell’intuizione: in questo modo Croce critica le persone che dicono di aver dentro di sé grandi idee, grandi intuizioni, ma di non riuscire ad esprimerle: in realtà queste persone non hanno dentro di sé ciò che dicono di avere, perché ciò che si intuisce, automaticamente e spontaneamente si esprime.
Questa intuizione artistica non è propria solo dei grandi artisti, dei geni, ma appartiene ad ogni persona, che sa ricreare e fruire della creazione del genio, infatti se non fosse così il genio non sarebbe un uomo, e del resto gli altri uomini non potrebbero capirlo.
L’arte è anche libera di esprimersi, nel senso ch’essa non è subordinata a nulla, al piacere, all’utile, alla morale (non immorale, ma amorale: se anche rappresentasse situazioni oscene, rimarrebbe arte), questo perché essa è una forma di conoscenza, che è funzionale a sé, senza il problema della veridicità o meno di tale conoscenza perché l’intuizione artistica ha come oggetto un’immagine (non necessariamente corrispondente al vero).
Ci sono, è vero, opere d’arte che tramandano valori
morali, religiosi, filosofici (ecc.), ma essi non sono gli scopi dell’opera
d’arte, sono solo parte integrante di essa: non viene negata all’artista la
possibilità di esprimere determinati valori, ma si sottolinea come essi
“integrino” l’intuizione artistica.
A proposito dell’arte come intuizione, il pensatore
distingue l’espressione/intuizione dall’estrinsecazione dell’espressione:
mentre il primo elemento è caratterizzato dal sentimento, il secondo riguarda
delle tecniche, è quindi un’attività pratica; l’intuizione si ha grazie al
sentimento, “rappresenta il sentimento, e solo da esso e sopra di esso può
sorgere”, perciò il sentimento si identifica con la lirica (“l’arte è sempre
lirica”): per Croce “lirica” ed “intuizione” sono sinonimi.
Altra precisazione crociana è che l’arte sia una sintesi a priori estetica, sintesi di sentimento ed immagine nell’intuizione: il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’immagine senza il sentimento è vuota; essi possono anche presentarsi distinti, ed in questo caso non si ha arte, che si può presentare come contenuto o come forma, lasciando sottintendere che “il contenuto è formato” e “la forma è riempita”, il sentimento è “sentimento figurato” e la figura è “figura sentita”.
L’arte viene vista anche come sintesi di particolare ed universale, perché un artista opera partendo da determinazioni particolari, dando ad esse, mediante il proprio percorso interiore, valori, significati man mano meno immediati e soggettivi, più generali.
Si criticano anche le espressioni che definiscono i
“generi”: i generi letterari non esistono, e le distinzioni che comunemente
facciamo (comico, tragico, epico…) sono solamente schemi di comodo introdotti
dall’intelletto che, classificando, compie un’operazione estranea all’arte, in
quanto tale operazione appartiene alla logica; in questo modo viene anche a
mancare la “bellezza fisica” (il “bello” appartiene all’estetica).
La personalità di un poeta scompare naufragando nel
mare della poesia: “il poeta è nient’altro che la sua poesia”, la sua opera
poetica (è sempre lo Spirito che agisce attraverso l’uomo); la linguistica è
estetica, perché il linguaggio è espressione (come l’arte), creazione estetica.
Guardando l’attività di Croce, vediamo con assoluta chiarezza che è stato attento all’aspetto soggettivo-creativo della produzione artistica, ma non si è comportato allo stesso modo con le sue componenti, i suoi momenti tecnico-materiali, ed ha fatto la stessa cosa per determinate attività artistiche: la sua filosofia ha guardato all’arte in generale, ma non ha esaminato attentamente, per esempio, la musica, l’architettura… privilegiando l’attività letteraria.
All’interno dell’attività letteraria ha continuato
questa sua “politica”, valorizzando più di altri certi generi e stili, come la
poesia (secondo Croce le espressioni non poetiche devono essere intese come
“modi” di servirsi dell’unico vero linguaggio, che è quello poetico) e le
produzioni con contenuto lirico, fantastico (al posto di quelle più razionali,
concettuali); il simbolo della poesia per il nostro filosofo fu l’Ariosto,
definito come poeta dell’“armonia” in “Ariosto, Shakespeare e Corneille”.
Infine sull’arte si deve ricordare che per Croce non
sono possibili le traduzioni, “in quanto abbiano la pretesa di effettuare il
travasamento di un’espressione in un’altra, come di un liquido da un vaso in un
altro di diversa forma. Noi possiamo elaborare logicamente ciò che prima
abbiamo elaborato solo in forma estetica; ma non possiamo, ciò che ha avuto già
la sua forma estetica, ridurre ad altra forma,
anche estetica.” (da “Estetica come scienza dell’espressione e linguistica
generale, 1904, II edizione).
Logica: si propone di studiare la
struttura generale dello Spirito, ed in parte, quindi, ne abbiamo già parlato
con la dialettica; essa viene definita anche “scienza del concetto puro”, che è
l’universale concreto (come già detto, esso è razionale, universale e
concreto), chiamato anche “trascendentale”, e guardandolo nella forma, esso
naturalmente è unico (“non sussistono più forme nel concetto, ma una sola”), la
forma teoretica universale dello spirito è una sola (la logica, appunto), e
quando penso una varietà di concetti, è chiaro che si riferiscono ad
altrettanti oggetti che vengono pensati in quella forma.
C’è un’idea comune tra estetica e logica, infatti il
concetto ha carattere di espressività, è quindi opera conoscitiva, opera
espressa dello Spirito, ed essendo quindi il pensare anche esprimere, parlare,
“chi non esprime o non sa esprimere un concetto, non lo possiede” (la stessa
cosa accade, abbiamo già visto, per l’intuizione estetica).
Il concetto puro è diverso da una rappresentazione
empirica (ad es.: “biancospino”, “gatto”, “matita”), ed anche dai concetti
usati dalle scienze, che sono concetti astratti (ad es.: “cerchio”), e vengono
definiti dal Croce come “pseudo-concetti”, poiché non hanno un elemento corrispondente
nella realtà: gli pseudo-concetti si distinguono così in empirici e puri,
entrambi sono privi di carattere logico, ma sono di grande utilità (organizzano
le nostre esperienze ed aiutano la nostra memoria), perciò sono propri
dell’Economia, ed a quest’attività pratica dello Spirito vengono ad appartenere
tutte le scienze empiriche e matematiche.
Nella logica crociana concetto, giudizio e
sillogismo vengono a coincidere, vediamo il perché: il giudizio è concetto puro,
ed il “concetto stesso nella sua effettualità” è l’universale concreto; quando
pensiamo un concetto, lo pensiamo nelle sue distinzioni, lo mettiamo in
relazione cogli altri concetti e lo unifichiamo con essi “nell’unico concetto”
(cioè in un’unica forma concettuale), e perciò si ha un sillogismo.
Nell’ambito della logica c’è un’altra
identificazione, quella tra giudizio definitorio (es.: “l’arte è intuizione
lirica”) e giudizio individuale (es.: “l’Orlando furioso è un’opera d’arte”),
poiché il giudizio individuale ci fa conoscere concretamente il mondo (e di
conseguenza possedere), un giudizio, attribuendo un predicato ad un oggetto, lo
valorizza come elemento partecipe della realtà.
È possibile dire che il giudizio definitorio è il
predicato del giudizio individuale (se dico che l’Orlando furioso è un’opera
d’arte, affermo che l’Orlando furioso è quello che si è definito per opera
d’arte dando un giudizio definitorio, ed intanto dico anche che è intuizione
lirica).
Per questi motivi il giudicare è un atto logico che
è sintesi a priori logica.
Da ciò consegue che filosofia e storia coincidono
(“non sono già due forme, sibbene una forma sola, e non si condizionano a
vicenda, ma addirittura si identificano”), perché la sintesi a priori è concretezza
sia della filosofia che della storia, ed “il pensiero, creando se stesso,
qualifica l’intuizione e crea la storia”).
Ultimo aspetto della logica, la sua estraneità
all’errore: per Croce l’errore infatti ha una natura pratica, non può
appartenere alla conoscenza (che è assoluta, proprio perché è conoscenza), non
corrisponde al conoscere, ma all’agire, appartiene non al pensiero ma alle
azioni umane, che possono essere sbagliate; una persona quindi sbaglia quando,
parlando, emette dei suoni “ai quali non corrisponde un pensiero, o, che è lo
stesso, non corrisponde un pensiero che abbia valore, precisione, coerenza,
verità”.
Economia: l’attività pratica dello
Spirito, abbiamo già visto, non produce conoscenze ma azioni, e l’azione
coincide con la volontà (già Kant…), poiché non c’è volizione senza azione, né
azione senza volizione; quando noi desideriamo, vogliamo, aspiriamo, abbiamo un
fine, e se questo fine è individuale, si ha un’attività economica.
L’attività economica “vuole ed attua ciò che è
corrispettivo soltanto alle condizioni di fatto in cui l’individuo si trova”,
ed in questa sfera rientrano gli pseudo-concetti e le scienze empiriche e matematiche,
come detto precedentemente, ma anche il diritto, l’attività politica, la vita
stessa dello Stato, che, come già Machiavelli aveva affermato, non ha una
natura etica, ma utilitaria (e quindi, appunto, economica).
Vediamo meglio questi tre elementi: per quanto
riguarda il diritto, apparentemente sembra contraddirsi il nostro pensatore,
quando mette lo stesso nella sfera dell’economia e non in quella che ci pare
più ovvia, quella dell’etica: ciò si spiega col fatto che per il nostro i
valori del diritto non sono gli stessi valori della morale, avendo logica e
fini diversi: quest’ipotesi viene avvalorata dal fatto che anche una società
per delinquere ha una propria giuridicità (basti pensare ai patti tra
criminali, od anche solo alle famiglie mafiose, che difficilmente hanno
obiettivi etici).
La politica, invece, penso che appaia ad ognuno di
noi del tutto naturale se messa nella sfera dell’economia: essa viene vista dal
Croce come incontro/scontro tra interessi opposti, e questo scontro non sempre
avviene secondo leggi etiche, ma piuttosto secondo leggi di forza, ma ciò non è
visto negativamente, essendo simbolo di forza, vigore degli individui.
Lo Stato si basa anch’esso non su un’Idea
(astratta), ma sulla realtà (concreta), fatta di individui che con le proprie
azioni stabiliscono, “producono”, leggi, istituzioni, strutture, usi, che
riflettono le loro volontà.
Lo Stato è quindi il prodotto delle azioni di un
insieme di persone, ed è dato dalle mediazioni forza/consenso e
autorità/libertà, e di questi 4 elementi il filosofo valorizza quello
dell’autorità, perché essa garantisce l’ordinato svolgersi della vita pubblica,
e perciò critica l’ideologia democratica, i cui valori (libertà, uguaglianza,
fratellanza) non sono certo negativi, ma forse un po’ troppo astratti.
È nell’economia che si riflette la vita dell’uomo,
la sua natura, il “pratico processo dei desideri, degli appetiti, delle
cupidità, delle soddisfazioni e insoddisfazioni risorgenti, delle congiunte
commozioni, dei piaceri e dei dolori”, ma non è un ambito irrazionale,
essendoci un principio che vi opera: esso è l’utile (ed ha come opposto il
dannoso).
L’utile è visto come un valore positivo, anche se
spesso si scontra con gli altri valori, ma è in virtù dell’utile che l’uomo
organizza la propria vita e le proprie relazioni, così come fanno i gruppi di uomini
(probabilmente gli studi sul marxismo l’hanno aiutato in questa elaborazione):
mi sembra indiscutibile a questo punto che nella filosofia crociana ci sia una
buona sintesi tra idealismo e realismo.
All’economia come la intendiamo oggi, scienza che si
andava sviluppando proprio nell’epoca in cui visse il nostro filosofo, egli non
guardò con molta simpatia, accusandola di produrre una conoscenza troppo
astratta ed astorica.
Etica: è l’attività pratica dello
Spirito che si verifica quando il fine che noi desideriamo è universale (quando
è individuale è l’economia, come detto prima); questo universale è lo Spirito
stesso, Realtà “come unità di pensiero e volere”; l’attività etica vuole ed
attua ciò che corrisponde alle condizioni di fatto in cui una persona si trova,
ma si riferisce a qualcosa che le trascende.
L’uomo morale quando vuole l’universale (ciò che lo
trascende come individuo) guarda “allo Spirito, alla Realtà reale, alla Vita
vera, alla Libertà”, in questo modo chi agisce trascende i propri interessi,
che sono “particolari” (l’utile), per cogliere valori universali (il bene)
L’etica ha un carattere di totalità, perché l’agire secondo morale raccoglie e “sublima” dentro di sé le diverse istanze date dai diversi fattori che compongono la realtà individuale e sociale; l’ideale supremo di quest’etica è la Vita, che dà valore e sviluppa l’agire umano, infatti tutte le azioni degli uomini che siano conformi al dovere etico sono conformi alla vita, e se la deprimessero e mortificassero, sarebbero immorali.
Evidentissima la critica contro lo Stato che Giovanni Gentile definì sotto la voce “Fascismo” nell’enciclopedia Italiana Treccani, poiché esso viene visto come entità che ingloba in sé gli individui, che è artefice della legge (e fin qui Croce sarebbe d’accordo), e che è artefice anche della morale, ed in seguito il Gentile parlò anche di “Stato etico” (eredità di Hegel, filosofo dal quale anche Croce era partito, ma con conclusioni diverse, come abbiamo visto).
Storia: non è una delle 4 forme
dello spirito, ma un altro “capitolo” della filosofia crociana.
Abbiamo già visto come filosofia e storia
coincidono, poiché (ripetiamolo) il pensiero autentico è pensiero
dell’universale concreto, ed il giudizio definitorio coincide col giudizio
individuale; da quest’uguaglianza deriva che qualsiasi realtà alla quale il giudizio
storico si riferisce, nascendo quest’ultimo da un bisogno pratico (quello di
risolvere i problemi della situazione presente), diventa attuale.
Vediamo facilmente anche come la storia sia vera
conoscenza del reale, una sintesi a priori tra intuizione e categoria; secondo
il filosofo tutto è storia: tale teoria viene definita come “Storicismo assoluto”.
Nulla sta al di sopra della storia, per cui non ci
sono idee o valori eterni, e la storia non è mai “giustiziera”, ma sempre
“giustificatrice”: uno storico deve solo conoscere e comprendere certi avvenimenti,
senza giudicarli; questo potrebbe essere visto come una contraddizione del
nostro pensatore, poiché condannò il fascismo (che è un evento storico).
Per Benedetto ciò che è reale è necessariamente razionale,
ma afferma essere razionale anche l’imperativo morale: non giustificò mai il
fascismo, ma lo lesse come “malattia morale”, una parentesi nella storia
dell’Italia (espresse questa teoria sul New York Times nel novembre del 1943,
la riprese in un discorso tenuto nel gennaio del 1944 a Bari, al I Congresso
dei Comitati di Liberazione Nazionale, ed in un’intervista del marzo 1947).
La storia, non potendo giudicare, non può né lodare
né biasimare un evento: la lode od il biasimo riguardano un singolo nel momento
in cui agisce, ma quando la sua azione è diventata evento, non può più essere
giudicata.
La storia, inoltre, non si deve discutere coi “se”
(es.: “se Garibaldi non avesse organizzato la Spedizione dei Mille…”), perché
essendo lo Spirito immanente alla storia, il “se” negherebbe il nesso logico e
razionale dell’universale concreto; il “se” non deve riguardare nemmeno
l’individuo singolo (“se non avessi fatto l’errore di…”), perché l’individuo è
ciò che è, è se stesso, proprio perché ha compiuto ciò che ha compiuto.
La storia ha un effetto catartico: conoscendola, noi
che siamo prodotti del passato (già i Decadentisti sottolineavano come l’uomo
fosse risultato del passato e seme che germoglierà nel suo futuro), ci
liberiamo da esso (già Goethe affermava che scrivere storia è un modo per
toglierci dalle spalle il passato ed affrancarci da esso).
La storia inoltre ha un carattere di positività,
perché analizzando un evento storico si deve sempre captarne l’intimo senso e
razionalità, per quanto negativo l’evento possa apparire.
Nella storia, inoltre, c’è
un nesso di pensiero ed azione, infatti la conoscenza storica stimola l’azione,
ma è essa stessa stimolata dall’azione.
La nostra epoca presta minor attenzione alla dialettica crociana, e si concentra di più sullo studio degli altri aspetti della filosofia del Croce, una filosofia, direi, molto semplice da comprendere, leggendo gli stessi libri del nostro filosofo, scritti con un stile vivo e chiaro (si dice che pensasse in napoletano e poi traducesse le sue intuizioni sulla carta).
Ci sono però degli effetti negativi nell’attività di Benedetto: la sua critica letteraria tenne l’Italia al di fuori delle novità che maturavano altrove, la sua svalutazione delle scienze della natura approfondì il solco tra cultura umanistica e cultura scientifica, e l’avversione alle scienze umane e sociali (perché cercavamo di “invadere” con metodi empirici il campo filosofico delle scienze dello spirito) ha ritardato lo sviluppo in Italia della linguistica moderna, della psicologia e della sociologia.
Gl’intellettuali fascisti, riuniti in congresso a
Bologna, hanno indirizzato un manifesto agl’intellettuali di tutte le nazioni
per spiegare e difendere innanzi ad essi la politica del partito fascista.
Nell’accingersi a tanta impresa quei volenterosi
signori non debbono essersi rammentati di un consimile e famoso manifesto, che,
agli inizi della guerra europea, fu bandito al mondo dagli intellettuali
tedeschi: un manifesto che raccolse, allora, la riprovazione universale, e più
tardi dai tedeschi stessi fu considerato un errore.
E, veramente, gl’intellettuali, ossia i cultori
della scienza e dell’arte, se, come cittadini, esercitano il loro diritto e
adempiono il loro dovere con l’ascriversi a un partito e fedelmente servirlo,
come intellettuali hanno il solo dovere di attendere, con l’opera dell’indagine
e della critica e con le creazioni dell’arte, a innalzare parimenti tutti gli
uomini e tutti i partiti a più alta sfera spirituale, affinché, con effetti
sempre più benefici, combattano le lotte necessarie. Varcare questi limiti
dell’ufficio a loro assegnato, contaminare politica e letteratura, politica e
scienza, è un errore, che, quando poi si faccia, come in questo caso, per
patrocinare deplorevoli violenze e prepotenze e la soppressione della libertà
di stampa, non può dirsi neppure un errore generoso.
E non è nemmeno, quello degli intellettuali fascisti,
un atto che risplenda di molto delicato sentire verso la Patria, i cui travagli
non è lecito sottoporre al giudizio degli stranieri, incuranti (come, del resto,
è naturale) di guardarli fuori dei diversi e particolari interessi politici
delle proprie nazioni.
Nella sostanza, quella scrittura è un imparaticcio
scolaresco, nel quale ad ogni punto si notano confusioni dottrinali e mal
filati raziocini: come dove si prende in iscambio l’atomismo di certe costruzioni
della scienza politica del secolo decimottavo col liberalismo del secolo
decimonono, cioè l’antistorico e astratto e matematico democratismo con la
concezione sommamente storica della libera gara e dell’avvicendarsi dei partiti
al potere, onde, mercé l’opposizione, si attua, quasi graduandolo, il
progresso; o come dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la
doverosa sottomissione degli individui al Tutto, quasi che sia in questione
ciò, e non invece la capacità delle forme autoritarie a garantire il più
efficace elevamento morale: o, ancora, dove si perfidia nel pericoloso
indiscernimento tra istituti economici, quali sono i sindacati, ed istituti
etici, quali sono le assemblee legislative, e si vagheggia l’unione o piuttosto
la contaminazione dei due ordini, che riuscirebbe alla reciproca corruttela, o,
quanto meno, al reciproco impedirsi. E lasciamo da parte le ormai note e
arbitrarie interpretazioni e manipolazioni storiche.
Ma il maltrattamento della dottrina e della storia è
cosa di poco conto, in quella scrittura, a paragone dell’abuso che vi si fa
della parola " religione "; perché, a senso dei signori intellettuali
fascisti, noi ora in Italia saremmo allietati da una guerra di religione, dalle
gesta di un nuovo evangelo e di un nuovo apostolato contro una vecchia
superstizione, che rilutta alla morte, la quale le sta sopra e alla quale dovrà
pur acconciarsi; e ne recano a prova l’odio e il rancore che ardono, ora come
non mai, tra italiani e italiani. Chiamare contrasto di religione l’odio e il
rancore che si accendono da un partito che nega ai componenti degli altri
partiti il carattere d’italiani e li ingiuria stranieri, e in quest’atto stesso
si pone esso agli occhi di quelli come straniero e oppressore, e introduce così
nella vita della Patria i sentimenti e gli abiti che sono propri di altri
conflitti; nobilitare col nome di religione il sospetto e l’animosità sparsi
dappertutto, che hanno tolto perfino ai giovani delle università l’antica e
fidente fratellanza dei comuni e giovanili ideali, e li tengono gli uni contro
gli altri in sembianti ostili: è cosa che suona’ a dir vero, come un’assai
lugubre facezia.
In che mai consisterebbe il nuovo evangelo, la nuova
religione, la nuova fede, non si riesce ad intendere dalle parole del verboso
Manifesto; e, d’altra parte, il fatto pratico, nella sua muta eloquenza, mostra
allo spregiudicato osservatore un incoerente e bizzarro miscuglio di appelli
all’autorità e di demagogismo, di professata riverenza alle leggi, di concetti
ultramoderni e di vecchiumi muffiti, di atteggiamenti assolutistici e di
tendenze bolsceviche, di miscredenza e di corteggiamento alla Chiesa cattolica,
di aborrimento dalla cultura e di conati sterili verso una cultura priva delle
sue premesse, di sdilinquimenti mistici e di cinismo. E, se anche taluni plausibili
provvedimenti sono stati attuati o avviati dal governo presente, non è in essi
nulla che possa vantare un’originale impronta, tale da dare indizio di un nuovo
sistema politico, che si denomini dal fascismo.
Per questa caotica e inafferrabile " religione
" noi non ci sentiamo, dunque, di abbandonare la nostra vecchia fede: la
fede che da due secoli e mezzo è stata l’anima dell’Italia che risorgeva,
dell’Italia moderna: quella fede che si compose di amore alla verità, di
aspirazione alla giustizia, di generoso senso umano e civile, di zelo per
l’educazione intellettuale e morale, di sollecitudine per la libertà, forza e
garanzia di ogni avanzamento. Noi rivolgiamo gli occhi alle immagini degli
uomini del Risorgimento, di coloro che per l’Italia operarono, patirono e
morirono, e ci sembra di vederli offesi e turbati in volto alle parole che si
pronunziano e agli atti che si compiono dai nostri italiani avversari, e gravi
e ammonitori a noi perché teniamo salda in pugno la loro bandiera. La nostra
fede non è un’escogitazione artificiosa e astratta o un invasamento di
cervello, cagionato da mal certe o mal comprese teorie; ma è il possesso di una
tradizione, diventata disposizione del sentimento, conformazione mentale e
morale.
Ripetono gl’intellettuali fascisti, nel loro
manifesto, la trita frase che il Risorgimento d’Italia fu l’opera di una
minoranza; ma non avvertono che in ciò appunto fu la debolezza della nostra
costituzione politica e sociale; e anzi par quasi che si compiacciano della
odierna per lo meno apparente indifferenza di gran parte dei cittadini d’Italia
di fronte ai contrasti tra il fascismo e i suoi oppositori. I liberali di tal
cosa non si compiacquero mai, e si studiarono a tutto potere di venire
chiamando sempre maggior numero d’italiani alla vita pubblica; e in questo fu
la precipua origine anche di qualcuno dei più disputati loro atti, come la
largizione del suffragio universale. Perfino il favore, col quale venne accolto
da molti liberali nei primi tempi, il movimento fascistico, ebbe tra i suoi
sottintesi la speranza che, mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero
entrate nella vita politica, forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze
conservatrici. Ma non fu mai nei loro pensieri di mantenere nell’inerzia e
nell’indifferenza il grosso della nazione, appagandone taluni bisogni
materiali, perché sapevano che, a questo modo, avrebbero tradito le ragioni del
Risorgimento italiano e ripigliato le male arti dei governi assolutistici e
quietistici.
Anche oggi, né quell’asserita indifferenza e
inerzia, né gli impedimenti che si frappongono alla libertà, c’inducono a
disperare o a rassegnarci. Quel che importa, è che si sappia ciò che si vuole e
che si voglia cosa d’intrinseca bontà. La presente lotta politica in Italia
varrà, per ragione di contrasto, a ravvivare e a fare intendere in modo più
profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei
metodi liberali, e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un
giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora
sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l’Italia doveva
percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua
educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo
civile."
Ciascuno di noi, qualunque sia il suo orientamento spirituale e l'educazione e l'abito e gli umori, ma che della coltura faccia una condizione di civiltà e di vita e, direi, un aumento di onestà, deve qualcosa a lui: chi più, chi meno, a seconda della sua capacità a prendere da un uomo che ha dato tanto. Molto Croce vive in noi, anche in chi non lo confessa. Se D'Annunzio fu un modo tutto esteriore di vivere, Croce è, più severamente, un modo di pensare, che è un vivere interno e intenso.
E ognuno di noi ha il suo
«episodio» con Croce, che vorrà narrare in forma di ricordo o d’augurio, di
riparazione o di ringraziamento. Il mio, mi è tanto più caro in quanto c’è di
mezzo Renato Serra. Eran gli anni ch’ero capitato a vivere nella pura e cara
città di Romagna - ditemi: che ne è di Cesena ? - e Serra, che aveva scoperto
qualche piccolo pregio in un mio quadernetto andatogli in mano - ma lo
riguardava troppo da vicino, parlava addirittura di lui - mi consigliò di
mandarlo a Napoli, al Croce. Aggiunse: "vedrà che lo leggerà e le
risponderà". Croce difatti rispose: alleggerissi le pagine di qualche
indugio lezioso e fastidioso, e le mandassi alla Voce di Prezzolini come a
luogo naturale: forse l’avrebbe pubblicate. Per una disciplina cui mi piacque
esser docile, le tenni invece nel cassetto. Ma il buon consenso di Croce mi
rallegrò, e glie ne fui grato come d’un credito che mi faceva e d’uno stimolo
al lavoro.
Come fu, dunque, che poco dopo e proprio sulla Voce
passata da Prezzolini a De Robertis gli dissi contro male parole con una sufficienza gratuita che non mi pare
mi sia mai appartenuta e ancora oggi mi umilia? In quel tempo Croce "aveva
detto male" del Pascoli. Ed io, che le Myricae le leggevo in ginocchio
quasi per divozione, e a San Mauro di Savignano ci andavo da Cesena ogni settimana
come in pellegrinaggio, anch’io mi ritenni offeso. Quasi un fatto personale.
Toccava un mio amore; mio e di tanti, in quegli anni sensibili in cui era ancor
lecito ammalarsi per la poesia. Più tardi (ma molto più tardi) capii quanto
sciocca era la mia irritazione. Anche nel caso del Pascoli, Croce non mutilava
ma purificava, non negava ma ripuliva, e le sue osservazioni sul poeta romagnolo
- fra tant’altre fluide e sempre perplesse - rimangono ancora oggi severe ma
ferme e orientative. A ogni modo Croce era un uomo troppo superiore per
volermene male; e mentre so che quel "quadernetto serriano", con
verdissima memoria e sorriso benevolo, ancora negli ultimi suoi anni ne
accennava ad amici, dalla sua bocca seppi che quell’altre mala parole egli
intese e giustificò come un giovanile amore di poesia; quell'amore per il quale ben più gagliardamente egli spese i suoi grandi e fecondissimi anni. E non conosco più cristiano umanismo di questa comprensione.
Si ricorda quando per la prima volta, nel 1912, lei mi scrisse dal seminario di Cesena? Il suo nome è restato da allora congiunto nel mio animo con quello del povero Serra.
L'ultima volta che lo vidi fu nel '30 (o '31), e proprio in questo Borromeo, dov'egli era venuto per incontrarsi (che da anni vi era ospite) col poeta russo Venceslao Ivanov. Ricordo quel loro colloquio su cose di religione e di lettere come un'impegnatissima lotta di due giganti cortesi. L'amico di Merezkovkii, convertito da poco al cattolicismo, spiegava il suo lucente fervore di neofita; il nipote di Spaventa difendeva le sue posizioni idealistiche col sentimento con cui si difende un'eredità. Un vento di foresta soffiava sulle loro parole.
Ma per sapere che avvenimento fu il Croce per la coltura italiana (la Critica è del '903 e l'Estetica del '902), bisogna essere stati giovani ancora verso il 1910 quando ampiamente si respiravano i benefici del suo rinnovamento prima delle arbitrarie applicazioni e esasperazioni.
Naturalmente non parlo della sua filosofia: e chi la conosce tutta?
Sappiamo poi che c'è su la condanna della Chiesa, e non ne diciamo di più.
Certo molte riserve deve fare un cattolico sulla sua dottrina: e a troppe astiose «postille» egli ha ceduto e non tutte serene. Ma, al di là delle riserve, resta il valore morale del suo insegnamento, che è grande; restano i suoi meriti che non sono facilmente elencabili, specialmente nel campo della critica letteraria, che è il più suo. Rinnovamento di coltura per il Croce voleva dire rinnovamento di spirito, e la serietà del metodo e la sincerità della ricerca in una religiosa tenacia di volontà. Croce insegnava che bisogna leggerli i libri, prima di parlarne o di citarli; che bisogna studiarla la storia d'un soggetto prima di trattarne.
E combatté la superficialità, il dilettantismo, l'equivoco decadentismo e i fabbricatori del vuoto, per giungere a schiettezza di coltura e sanità di gusto.
L'influenza esercitata dalla sua Estetica fu immensa. Non partita dall'università, entrò nelle università e nelle scuole e in tutti gli Italiani. Con l'estetica o scienza della espressione, Croce ha aiutato a chiarire, a ripulire il concetto di poesia. Se l'arte è intuizione, è chiaro il carattere fondamentalmente lirico d'ogni opera d'arte. E, partendo dall'abolizione dei generi letterari, è arrivato alla distinzione fra struttura e poesia o poesia e il diverso dalla poesia, o, più semplicemente, poesia e non poesia, che è la semplificazione di molte situazioni e problemi. Viva è anche l'altra distinzione fra poesia e poesia della poesia, che è tutt'altro che un gioco. Croce ebbe naturalmente una scuola, che si disse dei «critici nuovi»; i quali, dando alle loro pagine presupposti filosofici, parvero opporsi a critici di stampo vecchio o di puro metodo storico-filologico, e che non diremo carducciani per rispetto al Carducci, benché dessero occasione alla «polemica carducciana» del 1912.
Fedele alla sua estetica, Croce ha sollevato secoli che parevano decaduti; ha fatto giustizia a scrittori dimenticati, ha risuscitato libri trascurati; ha riveduto tutti i nostri poeti dell'Ottocento, i maggiori e i minori (e i forastieri), in medaglioni pressoché definitivi e con giudizi ai quali si dovrà per sempre tornare ogni volta che si vorrà discorrere di alcuno di essi. Ha sollecitato l'interesse per il Vico; ha fatto conoscere agli Italiani De Sanctis, difendendolo dagli attacchi carducciani.
Punti deboli nella sua critica? Certo, ce ne sono; dovuti più che altro alla rigorosa coerenza del suo sistema.
Ma oltre alla potentissima coltura, alla ricchezza del pensiero, alla sicurezza del gusto, alla pienezza dell'informazione, alla sincerità del lavoro, che fanno di lui un maestro, in Croce è particolarmente da notare la chiarezza, la nitidezza dell'espressione. E un giorno, volendoci occupare dello stile di Croce, dovremo pur concludere che, sopra le mode e i rumori e gli ingrati bastardumi che ci infestarono e c'infestano, Croce è stato in questi decenni il nostro scrittore più potente, certo più italiano. Che non è l'ultimo suo insegnamento. Dice che dovere dello scrittore è quello d'essere italiano anche quando scrive.
E in questo è il nostro nuovo classicismo.
(questo brano è il capitolo IX del libro UOMINI DELLA «VOCE», di Cesare Angelini, a cura di Vanni Scheiwiller; Milano 1986.
Il volume è stato impresso dalla stamperia Valdonega di Verona in millecinquecento copie numerate il 27 settembre 1986)
[...] Leggo in una cartolina di Benedetto Croce,
scritta nel settembre del ‘37: "Le rinnovo i ringraziamenti per il ricordo
della mia figliola pregante in Cieldoro di Pavia". In uno dei suoi ritorni
a Milano per trovare gli amici, sopra tutti Alessandro Casati, quell’anno il
Croce era venuto anche a Pavia a cercare nella biblioteca del Museo civico un
libro del Seicento, di rarissima edizione. Gliel’aveva segnalato il Casati,
bibliofilo di fiuto sicuro.
Aveva dietro la figlia Elena, e lo accompagnavano lo
stesso Casati, Gallarati Scotti, Francesco Flora, Stefano Iacini, Balsamo
Crivelli, e un Treves, non so più se Pietro o Paolo: lo stato maggiore della
cultura milanese di quegli anni. Nel gruppo c’era anche il volatore-scrittore
Beonio Brocchieri, appena tornato dal mondo.
Dopo un caffè al Demetrio (che rischiò d’essere
disturbato per zelo politico troppo grossolano) si andò insieme in Cieldoro
[Chiesa di S. Pietro in Cieldoro di Pavia, ndr]. Il desiderio era stato dello
stesso Croce che, piuttosto loquace per strada, entrando nel tempio s’era fatto
silenzioso e quasi allontanato in se stesso, come se i suoi pensieri avessero
cambiato registro. Il filosofo si trovava tra i suoi, coi suoi, Agostino e
Boezio [nella chiesa pavese ne sono custodite le reliquie, ndr], uomini che
avevano udito parlare la Filosofia; e uno ne trascrisse le
"consolazioni", l’altro ne ebbe il colmo della
"rivelazione", la Grazia. Nell’epitaffio metrico inciso sulla tomba
di Boezio, giù nella cripta, il Croce notò, puntandovi il dito, l’accenno alla
traduzione che il grande romano fece della logica di Aristotele: "Nobis
Logicen de graeco transtulit artem". Altra commozione non lasciò
trasparire.
Intanto la figliola che in una cappella di destra
aveva visto ardere una gran macchia di lumi, mi domandò quale santo vi si
onorasse. E, avendole risposto che si onorava Santa Rita, ritenuta in Pavia
"la santa degli impossibili", disse: "Allora vado a pregarla per
mio padre". E la vedemmo inchinata a quell’altare. Non so se ce ne fosse
bisogno; ma certo Dio concede tante cose per le preghiere d’una figliola.
Il pensamento filosofico è, per Hegel: 1°, concetto;
2°, universale; 3°, concreto. È concetto, vale a dire non è sentimento o
rapimento o intuizione o altro simile stato psichico alogico e privo di forze
dimostrativa. Il che stabilisce la differenza della filosofia rispetto alle
teorie del misticismo e del sapere immediato; le quali hanno, tutt’al più, un
significato negativo, in quanto riconoscono che la filosofia non può costruirsi
col metodo delle scienze empiriche e naturali, delle scienze del finito; e
sono, se così si vuole, profonde, ma di una « profondità vuota ». Contro il misticismo,
le smanie, i sospiri, il levare gli occhi al cielo e piegare i colli e serrar
le mani, gli sdilinquimenti, gli accenni profetici, le frasi misteriose da
iniziati, Hegel diventa ferocemente satirico; e mantiene sempre che la
filosofia deve avere forma intelligibile e ragionata; dev’essere « non
esoterica, ma essoterica », non cosa di setta, ma di umanità.
- Il concetto filosofico è universale, e non già meramente generale: non è da confondere con le rappresentazioni generali, come, ad esempio, la « casa », il « cavallo », l’ «azzurro », le quali, per un uso, come Hegel dice, barbarico, si denominano ordinariamente concetti. Il che stabilisce la differenza tra la filosofia e le scienze empiriche o naturali, che si soddisfano di tipi e concetti di classe.
- L’universale filosofico, infine, è concreto: non ischeletrimento della realtà, ma comprensione di questa nella sua pienezza e ricchezza: le astrazioni filosofiche non sono arbitrarie ma necessarie, e perciò si adeguano al reale, e non lo mutilano o falsificano. E ciò stabilisce la differenza della filosofia rispetto alle discipline matematiche; le quali non giustificano i loro punti di partenza, ma « li comandano », e bisogna (dice Hegel) ubbidire al comando di tirare proprio queste e queste linee, con la buona fiducia che la cosa sarà « opportuna » per l’andamento della dimostrazione. La filosofia invece ha per oggetto ciò che realmente è; e deve giustificare pienamente sé stessa, non ammettendo né lasciando sussistere alcun presupposto.
Nota: il testo citato risale al 1913, ma il “Saggio
sullo Hegel” originale è del 1912
Alberto Einstein - Lettera a
B. Croce (e risposta del Croce)
Princetown, 7 giugno 1944.
Apprendo che una persona di qui, che ebbe la fortuna di visitarla, ricusò di lasciarle la lettera da me indirizzata a lui ma scritta a Lei. Pure, di ciò mi consolo nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro. In questo tempo di generale sconvolgimento possa a Lei essere concesso di rendere al suo paese un servigio oltremodo prezioso, perchè ella è dei pochi che, stando di sopra dei partiti, hanno la fiducia di tutti.
Se
l’antico Platone potesse in qualche guisa vedere quello che ora accade, si
sentirebbe come in casa sua, perchè, dopo lungo corso di secoli, vedrebbe ciò
che di rado aveva visto, che si viene adempiendo in certo modo il suo sogno di
un governo retto da filosofi; ma vedrebbe altresì, e ciò con maggiore orgoglio
che soddisfazione, che la sua idea del circolo delle forme di governo è sempre
in atto.
La
filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal
diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli
spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno
muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono
neppure a riconoscere l’esistenza.
In nessuna altra società i vincoli fra viventi e
morti sono così vivi, e i nostri simili dei secoli precedenti stanno con noi
come amici, i cui detti non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e
la personale loro magia. E, infine, chi realmente appartiene a quella
aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non
offeso.
Con
rispettosi saluti e auguri.
Illustre
amico,
La
sua lettera mi è stata carissima, perchè ho avuto sempre nel ricordo la lunga
conversazione che facemmo in Berlino nel 1931, quando ci accomunammo nello
stesso sentimento ansioso sul pericolo in cui versava la libertà in Europa:
comunanza di sentimento e di propositi che vidi confermata allorchè mi trovai a
collaborare con Lei, - fatta esule dalla sua patria per l’inferocita lotta
contro la libertà - nel volume di saggi sulla libertà (Freedom), preparato, or
son quattro anni, in New York.
Delle
due teorie di Platone, che Ella richiama, non è stata, in verità, ricevuta,
anzi è stata respinta, dal pensiero moderno quella della repubblica perfetta,
costruita e governata dalla ragione e dai filosofi; ma l’altra è stata serbata,
che a lui non era particolare, del circolo delle forme, ossia delle forme
necessarie in cui perpetuamente si muove la storia: con questo di più che quel
circolo è stato rischiarato dall’idea complementare del perpetuo avanzamento ed
elevamento dell’umanità attraverso il percorso necessario, o, secondo l’immagine
che piacque al vostro Goethe, del suo <<corso a spirale>>. Questa
idea è il fondamento della nostra fede nella ragione, nella vita e nella
realtà.
Quanto
alla filosofia, essa non è severa filosofia se non conosce, con l’ufficio suo,
il suo limite, che è nell’apportare all’elevamento dell’umanità la chiarezza
dei concetti, la luce del vero. È un’azione mentale, che apre la via, ma non si
arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto
sollecitare. In questa seconda sfera a noi, modesti filosofi, spetta di imitare
un altro filosofo antico, Socrate, che filosofò ma combattè da oplita a
Potidea, o Dante, che poetò ma combattè a Campaldino, e, poichè non tutti e non
sempre possono compiere questa forma straordinaria di azione, partecipare alla
quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica. Anch’io
frequento la compagnia della quale Ella parla con così nobili parole, di coloro
che già vissero sulla terra e ci lasciarono le opere loro di pensiero e di
poesia, e mi rassereno e ritempro in esse. Di volta in volta m’immergo in
questo bagno spirituale, che è quasi la mia pratica religiosa. Ma in quel bagno
non è dato restare, e da esso bisogna uscire per abbracciare gli umili e spesso
ingrati doveri che ci aspettano sull’uscio.
Perciò
mi sento oggi, conforme ai miei convincimenti e ai miei ideali, impegnato nella
politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze
che le sono più direttamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano,
che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento. e ringrazio
Lei dell’augurio generoso che fa all’Italia, la quale ha sofferto una triste e
dolorosa vicenda preparata dal collasso prodotto in essa come in altri paesi
dalla guerra precedente onde fu possibile ai dissennati e violenti
d’impadronirsi dei poteri dello Stato, non senza il gran plauso e la larga
ammirazione del mondo intero, e volgere e sforzare l’Italia in una via che non
era la sua, che tutta la sua storia smentiva. Perchè non mai l’Italia, dalla
caduta dell’Impero romano, ha delirato di dominio nel mondo ed essa per secoli
ha attuato o ha cercato libertà e nella libertà si è unificata, e il suo
nazionalismo e fascismo è venuto da concetti forestieri, che solo quei dissennati
e violenti potevano adottare a pretesto del loro malfare. Neppure Roma antica
ebbe cotesto delirio, perchè l’opera sua fu di proseguire quella luminosamente
iniziata dall’Ellade e creare un’Europa, dando leggi civili ai barbari che non
ne avevano o le avevano barbariche.
La
guerra è la guerra e non ubbidisce ad altro principio che al suo proprio, e
anche le più nobili ideologie sono per essa mezzi di guerra, come ogni
conoscitore di storia sa e ogni uomo sagace intende. La lotta interna per la
civiltà e la libertà si svolgerà poi, a guerra finita, nei paesi vincitori non
meno che nei vinti, tutti sconvolti dalla guerra sostenuta, tutti dal più al
meno disabituati alla libertà; e durerà anni e sarà assai travagliosa e assai
perigliosa. Ma poichè le guerre mirano, come a naturale loro effetto, a un
assetto di pace, è da augurare e da raccomandare che gli uomini di Stato, che
oggi le dirigono, pensino sin da ora a non preparare nei vari paesi condizioni
tali che renderebbero impossibile una solida pace e danneggiando così la causa
stessa della libertà, preparerebbero una nuova guerra, la quale non potrà mai
essere impedita dalla semplice coercizione, ma richiede la disposizione degli
animi alla pace, alla concordia e alla dignità del lavoro. <<Le lingue
legano le spade>>, come diceva un vecchio filosofo italiano.
Ma non voglio tediarla con
entrare a discorrere di quel che io osservo e giudico nelle cose della politica
internazionale, in riferimento particolare all’Italia; chè anzi dovrei altresì
chiederle venia di avere tolto occasione dalle sue parole gentili e cordiali
per esporle i miei pensieri sulle alte questioni da Lei toccate. Ma
<<naturam expelles furca, tamen usque recurret>>; la natura cioè
del filosofo che distingue e teorizza. E, ringraziandola della sua buona
lettera, Le stringo la mano
Nota 1: la frase in latino del Croce si può tradurre
con “caccia quanto vuoi la natura con la forca, questa tuttavia tornerà
indietro” (Orazio Epistola I, 10, v. 24).
Nota 2: nel ricopiare le lettere ho ricopiato fedelmente anche gli errori grammaticali, che se non apparvero sulle lettere originali, apparvero di certo sul libretto pubblicato dalla Laterza & figli nel 1944: ogni “e” bisognosa di accento è stata scritta con la “è” chiusa anche quando doveva essere una “é” aperta (vedi “perché”, “poiché” ecc.)
Discorso tenuto da Benedetto Croce il
24-7-1947 all’Assemblea Costituente
Io
non pensavo che la sorte mi avrebbe, negli ultimi miei anni, riservato un così
trafiggente dolore come questo che provo nel vedermi dinanzi il documento che
siamo chiamati ad esaminare, e nell’essere stretto dal dovere di prendere la
parola intorno ad esso. Ma il dolore affina e rende più penetrante l’intelletto
che cerca nella verità la sola conciliazione dell’interno tumulto passionale.
Noi
italiani abbiamo perduto una guerra, e l’abbiamo perduta tutti, anche coloro
che sono stati perseguitati dal regime che l’ha dichiarata, anche coloro che
sono morti per l’opposizione a questo regime, consapevoli come eravamo tutti
che la guerra sciagurata, impegnando la nostra patria, impegnava anche noi,
senza eccezioni, noi che non possiamo distaccarci dal bene e dal male della
nostra patria, né dalle sue vittorie né dalle sue sconfitte. Ciò è pacifico
quanto evidente.
Senonché
il documento che ci viene presentato non è solo la notificazione di quanto il
vincitore, nella sua discrezione o indiscrezione, chiede e prende da noi, ma un
giudizio morale e giuridico e la pronunzia di un castigo che essa deve espiare
per redimersi e innalzarsi o tornare a quella sfera superiore in cui, a quanto
sembra, si trovano coi vincitori gli altri popoli, anche quelli del continente
nero.
E
qui mi duole di dovere rammentare cosa troppo ovvia, cioè che la guerra è una
legge eterna del mondo, che si attua di qua e di là da ogni ordinamento
giuridico, e che in essa la ragion giuridica si tira indietro lasciando libero
il campo ai combattenti, dall’una e dall’altra parte biasimati o considerati
traditori se si astengono da cosa alcuna che sia comandata come necessaria o
conducente alla vittoria.
Chi
sottopone questa materia a criteri giuridici, o non sa quel che si dica o lo sa
troppo bene e cela l’utile, ancorché egoistico del proprio popolo o Stato,
sotto la maschera del giudice imparziale. Segno inquietante di turbamento
spirituale sino ai giorni nostri (bisogna pure avere il coraggio di
confessarlo), i tribunali senza alcun fondamento di legge, che il vincitore ha
istituiti per giudicare, condannare e impiccare, sotto i nomi di criminali di
guerra, uomini politici e generali dei popoli vinti, abbandonando la diversa
pratica, esente d’ipocrisia, onde un tempo non si dava quartiere ai vinti o ad
alcuni dei loro uomini, e se ne richiedeva la consegna per metterli a morte,
proseguendo o concludendo con ciò la guerra.
Giulio
Cesare non mandò innanzi a un tribunale ordinario o straordinario l’eroico
Vercingetorige, ma esercitando vendetta o reputando pericolosa alla potenza di
Roma la vita e l’esempio di lui, poiché gli si fu nobilmente arreso, lo trascinò
per le strade di Roma dietro il suo carro trionfale e indi lo fece strozzare
nel carcere. Parimente si è preso oggi il vezzo, che sarebbe disumano se non
avesse del tristemente ironico, di tentar di calpestare i popoli che hanno
perduto una guerra, con l’entrare nelle loro coscienze e col sentenziare sulle
loro colpe e pretendere che lo riconoscano e promettano di emendarsi: che è
tale pretesa che neppur Dio, il quale permette nei suoi ascosi consigli le
guerre, rivendicherebbe a sé, perché egli non scruta le azioni dei popoli
nell’ufficio che il destino o l’intreccio storico di volta in volta a loro assegna, ma unicamente i cuori e i reni,
che non hanno segreti per lui dei singoli individui. Un’infrazione della morale
qui indubbiamente accade, ma non da parte dei vinti, si piuttosto dei
vincitori, non dei giudicati ma degli illegittimi giudici.
Noi
italiani, che abbiamo nei nostri grandi scrittori una severa tradizione di
pensiero giuridico e politico, non possiamo dare la nostra approvazione allo
spirito che soffia in questo dettato, perché dovremmo approvare ciò che
sappiamo non vero e pertinente a transitoria malsania dei tempi: il che non ci
si può chiedere. Ma altrettanto dubbio suscita questo documento nell’altro suo
aspetto di dettato internazionale che dovrebbe ristabilire la collaborazione
tra i popoli nell’opera della civiltà e impedire, per quanto è possibile, il
rinnovarsi delle guerre. Il tema che
qui si tocca è così vasto e complesso che io non posso se non lumeggiarlo
sommariamente e in rapporto al solo caso dell’Italia e nelle particolarità di
questo caso.
L’Italia,
dunque, dovrebbe, compiuta l’espiazione con l’accettazione di questo dettato, e
così purgata e giustificata, rientrare nella parità di collaborazione con gli
altri popoli. Ma come si può credere che ciò sia possibile se la prima
condizione di ciò è che un popolo serbi la sua dignità e il suo legittimo
orgoglio, e voi, o sapienti uomini dei tripartito, o quadripartito
internazionale, l’offendete nel fondo più geloso dell’anima sua, perché, scosso
che ebbe da sé l’Italia, non appena le fu possibile, l’infesto regime tirannico
che la stringeva, avete accettato e sollecitato il suo concorso nell’ultima
parte della guerra contro la Germania, e poi l’avete, con pertinace volontà, esclusa
dai negoziati della pace, dove si trattava dei suoi più vitali interessi,
impedendole di fare udire le sue ragioni e la sua voce e di suscitare in sè
spontanei difensori in voi stessi o tra voi?
E
ciò avete fatto per avere le sorti italiane come una merce di scambio tra voi,
per equilibrare le vostre discordi cupidigie o le vostre alterne prepotenze,
attingendo a un fondo comune, che era a disposizione.
Così
all’Italia avete ridotto a poco più che forza di polizia interna l’esercito,
diviso tra voi la flotta che con voi e per voi aveva combattuto, aperto le sue
frontiere vietandole di armarle a difesa, toltole popolazioni italiane contro
gli impegni della cosiddetta Carte Atlantica, introdotto clausole che violano
la sua sovranità sulla popolazioni che le rimangono, trattatala in più cose
assai più duramente che altri stati ex nemici che avevano tra voi interessati
padroni, toltole o chiesto una rinunzia preventiva alle colonie che essa stessa
aveva acquistate col suo sangue e amministrate e portate a vita civile ed
europea col suo ingegno e con dispendio delle sue e tutt’altro che ricche
finanze, impostole gravi riparazioni anche verso popoli che sono stati dal suo
dominio grandemente avvantaggiati, e perfino le avete, come ad obbrobrio,
strappati pezzi di terra del suo fronte occidentale da secoli a lei congiunti e
carichi di ricordi della sua storia, sotto pretesto di trovare in quel possesso
la garanzia contro una possibile irruzione italiana, quella garanzia che una
assai lunga e assai fortificata e assai vantata linea Maginot non seppe dare.
Non
continuo nel compendiare gli innumeri danni ed onte inflitte all’Italia e
consegnati in questo documento, perché sono incisi e bruciano nell’anima di
tutti gli italiani; e domando se, tornando in voi stessi, da vincitori
smoderati a persone ragionevoli, stimate possibile di avere acquistato con ciò
un collaboratore in piena efficienza per lo sperato nuovo assetto europeo.
Il
proposito doveroso di questa collaborazione permane e rimarrà saldo in noi, e
lo eseguiremo perché corrisponde al nostro convincimento e l’abbiamo pur ora
comprovato col fatto; ma bisogna non rendere troppo più aspro all’uomo il già
aspro suo dovere, né dimenticare che al dovere giova la compagnia che gli
recano l’entusiasmo, gli spontanei affetti, l’esser libero dai pungenti ricordi
di torti ricevuti, la fiducia
scambievole che presta impeto ed ali.
Noi
italiani, che non possiamo accettare questo documento perché contrario alla
verità, e direi alla nostra più alta scienza, non possiamo, sotto questo
secondo aspetto dei rapporti fra i popoli, accettarlo, nè come italiani curanti
dell’onore della loro patria, né come europei, due sentimenti che confluiscono
in uno; perché l’Italia è tra i popoli che più hanno contribuito a formate la
civiltà europea, e per oltre un secolo ha lottato per la libertà e l’indipendenza sua e, ottenutala, si era per
molti decenni adoperata a serbare con le sue alleanze e intese difensive la
pace in Europa.
E
cosa affatto estranea alla sua tradizione è stata la parentesi fascistica, che
ebbe origine dalla guerra del 1914, non da lei voluta, ma da competizioni di
altre potenze, la quale, tuttoché essa ne uscisse vittoriosa, nel collasso che
seguì dappertutto, la sconvolse a segno da aprire la strada in lei alla imitazione
dei nazionalismi e totalitarismi altrui. Libri stranieri hanno testé
favoleggiato la sua storia nei secoli come una incessante aspirazione
all’imperialismo, laddove l’Italia una sola volta fu imperiale, e non
propriamente essa, ma l’antica Roma, che peraltro valse a creare la comunità
che si chiamò poi l’Europa; e, tramontata quell’egemonia, per la sua posizione
geografica divenne campo di continue invasioni e usurpazioni dei vicini popoli
e stati.
Quei
libri, dunque, non sono storia, ma deplorevole pubblicistica di guerra, vere e
proprie falsificazioni.
Nel
1900 un ben più sereno scrittore inglese, Bolton King, che con grande dottrina
narrò la storia della nostra Unità, nel ritrarre l’opera politica dei governi
italiani nel tempo seguito all’Unità, riconosceva, nella conclusione del suo
libro, che, al confronto degli altri popoli di Europa, l’Italia "possedeva
un ideale umano e conduceva una politica estera comparativamente
generosa".
Ma
se non approveremo questo documento, che cosa accadrà? In quali strette ci
cacceremo? - Ecco il dubbio e la perplessità che può travagliare alcuno o
parecchi di voi, i quali nel giudizio di sopra esposto e ragionato del
cosiddetto trattato so che siete tutti e del tutto concordi con me ed unanimi,
ma pur considerate l’opportunità contingente di una formalistica ratifica.
Ora
non dirò ciò che voi ben conoscete: che vi sono questioni che si sottraggono
alla spicciola opportunità e appartengono a quella inopportunità inopportuna o
a quella opportunità superiore che non è del contingente, ma del necessario; e
necessaria e sovrastante a tutto è la tutela della dignità nazionale, retaggio
affidatoci dai nostri padri, da difendere in ogni rischio e con ogni sacrificio.
Ma
qui posso stornare per un istante il pensiero da questa alta sfera che mi sta
sempre presente, e, scendendo anch’io nel campo del contingente, alla domanda
su quel che sarà per accadere rispondere, dopo avervi ben meditato, che non
accadrà niente, perché in questo documento è scritto che i suoi dettami saranno
messi in esecuzione anche senza l’approvazione dell’Italia: dichiarazione in
cui, sotto lo stile di Brenno, affiora la consapevolezza della verità che
l’Italia ha buona ragione di non approvarlo. Potrebbero bensì, quei dettami,
venire peggiorati per spirito di vendetta; ma non credo che si vorrà dare al
mondo di oggi, che proprio non ne ha bisogno, anche questo spettacolo di nuova
cattiveria, e, del resto, peggiorarli mi par difficile, perché non si riesce a
immaginarli peggiori e più duri.
Il governo
italiano certamente non si opporrà alla esecuzione del dettato; se sarà
necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento
legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione,
considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei
suoi gesti il carnefice che li mette a morte.
Ma
l’approvazione no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è
bella una cosa che esso sente come brutta, e questo con l’intento di umiliarlo
e di togliergli il rispetto di se stesso, che è indispensabile a un popolo come
a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela.
Del
resto, se prima eravamo soli nel giudizio dato di sopra del trattamento usato
all’Italia, ora spiritualmente non siamo più soli: quel giudizio si avvia a
diventare un’opinio communis e ci viene incontro da molti altri popoli e
perfino da quelli vincitori, e da minoranze dei loro parlamenti che, se ritegni
molteplici non facessero per ora impedimento, diventerebbero maggioranze, e fin
da ora ci esorta a ratificare sollecitamente il trattato per entrare negli
aeropaghi internazionali da cui siamo esclusi, e nei quali saremmo accolti a
festa, se anche come scolaretti pentiti; e ci si fa lampeggiare l’incoraggiante
visione che le clausole di esso più gravi e più oppressive non saranno eseguite
e tutto sarà sottoposto a revisione.
Noi non dobbiamo cullarci nelle facili speranze e nelle pericolose illusioni e nelle promesse più volte provate fittizie, ma contare anzitutto e soprattutto su noi stessi; e tuttavia possiamo confidare che molti comprenderanno la necessità del nostro rifiuto dell’approvazione, e l’interpreteranno per quello che esso è: non un’ostilità contro il riassetto pacifico dell’Europa, ma , per contrario, non ammonimento e un contributo a cercare questo assetto nei modi in cui soltanto può ottenersi; non una manifestazione di rancore e di odio, ma una volontà di liberare noi stessi dal tormento del rancore e dalle tentazioni dell’odio.
L’Unità, 22-1-2000: “Croce, da “papa laico”
a grande dimenticato” - di Guido Liguori
Singolare, la sorte di Croce in Italia. Dopo essere stato per decenni grazie anche a una vita e a una attività intellettuale lunghissime il "papa laico" (così lo ebbe a definire Gramsci) della cultura italiana, dopo aver influenzato in vario modo molti passaggi decisivi del Novecento, italiano e non solo dal dibattito marxista di inizio secolo alla lotta al "giolittismo", dagli anni agitati del primo dopoguerra alla riscoperta della democrazia e all’opposizione al fascismo, fino alla costruzione della democrazia postfascista, a partire dalla morte (1952) Croce è stato sostanzialmente dimenticato. Con eccessivo ottimismo, infatti, si è parlato di "ritorno di Croce", agli inizi degli anni Novanta, forse in coincidenza con la nuova, pregevole edizione delle sue opere presso l’editore Adelphi, a cura di Giuseppe Galasso.
Perché questo sia accaduto non è difficile a dirsi. Non tanto per colpa di quella "battaglia per l’egemonia" che la "filosofia della prassi", ossia il marxismo italiano, sulla scorta dei Quaderni del carcere, avrebbe dovuto intraprendere contro il pensiero di Croce: perché anzi riconoscendolo a lungo (e forse erroneamente, cioè in parte fraintendendo lo stesso Gramsci) come il "nemico principale" - il marxismo italiano non faceva altro se non riconfermarne indirettamente la centralità. No, Croce piuttosto è stato sconfitto, o meglio travolto, dalla piena di quella cultura europea e americana che egli a lungo si era adoperato di tenere ai margini del discorso filosofico e ideologico, almeno nel nostro Paese, e che poi, rotti gli argini, tutto ha pervaso e sommerso, con un mare di traduzioni (del resto meritorie), studi critici, tesi di laurea.
"Nessuno dei miei allievi - afferma Norberto Bobbio nel libro che vogliamo qui presentare -, dalla prima generazione degli anni quaranta all’ultima degli anni ottanta, si è mai occupato di Croce. Nessuno mi ha mai chiesto di avviarlo allo studio della filosofia crociana". E sarebbe ingeneroso obiettare che se ciò è accaduto, la ragione va forse ricercata anche nell’insegnamento del maestro in questione, di Bobbio stesso. La realtà è che - con le profonde trasformazioni vissute dall’Italia dei decenni cinquanta e sessanta - il pensiero di Croce, il suo modo così forte e così peculiare di rispecchiare quel mondo che non c’era più, è irrimediabilmente sembrato lontano. Fino a pochi anni prima la sua presenza era tutto o quasi, sulla scena culturale italiana. Solo pochi anni dopo - per un ingiusto contrappasso, si potrebbe dire - è stato niente, o poco più. Quelle stagioni sono ormai lontane. E se certo Croce non è più destinato a "tornare" in modi e forme paragonabili a quelli registrati mentre ancora egli era in vita, è altrettanto certo che è non solo ingiusto, ma sciocco, per gli intellettuali italiani, lasciarlo nell’oblio in cui è stato a lungo tenuto. Croce è un grande classico. E’ un grande patrimonio della cultura italiana. E come tale va trattato. E’ quindi da apprezzare lo sforzo di Paolo Bonetti, che ha saputo raccogliere in un volume da lui curato "Per conoscere Croce", a cura di Paolo Bonetti, Edizioni Scientifiche Italiane, pp. 275, £. 35.000) i contributi di alcuni dei migliori studiosi ed esperti di Croce, impegnati a riflettere, in modo anche accessibile a un pubblico colto ma non specialistico, su tutti i principali te mi del vasto sapere crociano: dalla sua lettura del marxismo (Giuseppe Bedeschi) alle varie sfaccettature del suo liberalismo (Norberto Bobbio), dal rapporto con la cultura del suo tempo (Giuseppe Galasso) al rapporto col cristianesimo (Nicola Matteucci), dalla concezione della libertà (Giovanni Sartori) e dal rapporto con la tradizione liberale (Gennaro Sasso) alla polemica col decadentismo (Gianni Vattimo).
La prima parte del volume che comprende le conversazioni di Bonetti con gli autori sopra richiamati - è seguita da una seconda parte, saggistica, in cui altri studiosi completano il quadro ricostruttivo, a volte con risultati di grande interesse. E’ il caso innanzitutto del contributo di Giuseppe Cacciatore, su Filosofia della pratica e filosofia pratica in Croce, o del saggio di Pio Colonnello sullo storicismo di Croce e sulla sua concezione dell’individuo. E di tanti altri ancora. Insomma, un volume ricco e di grande interesse, che permette letture a più livelli.
E che può contribuire a riportare l’attenzione su Croce come sarebbe giusto. In fondo, in un momento in cui tutti parlano, spesso a sproposito, di liberalismo (e spesso anche, ahimè, di liberismo) è davvero originale che non si torni a fare i conti con questo grande classico del pensiero italiano.
Tra poco, l’anno venturo, saranno cinquant’anni
dalla morte di Benedetto Croce, ricordato oggi in un importante convegno a
Napoli. Tra le prevedibili, innumerevoli iniziative, sarebbe assai utile la ristampa,
da parte del Senato, di un prezioso volume curato dieci anni fa dall’allora
presidente dell’assemblea di Palazzo Madama: «Il carteggio di Benedetto Croce
con la Biblioteca del Senato». Nell’inesauribile produzione di Spadolini questa
rappresentò una vera chicca: la pubblicazione di un grosso complesso di inediti
crociani - 341 tra lettere, biglietti e cartoline: la gran parte conservati in
Senato, e in minor misura ritrovati, grazie a Marino Raicich, in un fondo
dell’Archivio centrale dello Stato - che testimoniano di cinquant’anni esatti,
dal 1903 sino ai prodromi della morte nel ‘52, di stretti rapporti del filosofo
con la ricca biblioteca senatoriale. Sono tutte richieste di prestiti di libri,
o suggerimenti di acquisti, o sollecitazioni di pareri o chiarimenti
bibliografici e non solo.
È insieme una preziosa documentazione per la storia
e del pensiero e degli studi di Croce, una fonte inesauribile di informazioni
sul retroterra di molte opere crociane, un ritratto curioso e affascinante di
«don Benedetto» e una essenziale integrazione dei poderosi, ormai leggendari
Taccuini che Croce stese praticamente per tutta la vita. Ed è proprio il Croce
bibliofilo che più affascina, consentendo di misurare il suo atteggiamento nei
confronti degli usi e costumi inveterati delle biblioteche. Alcuni manoscritti del
primo dopoguerra sono in questo senso assolutamente deliziosi. È l’agosto del
‘18 (Croce da otto anni è senatore del regno: non per meriti culturali
attenzione, ma per censo), e dalla villeggiatura, dove sta studiando il teatro
elisabettiano, chiede in prestito un libro su Shakespeare di Friedrich Gundolf,
stampato a Berlino e non ancora tradotto. Dal Senato gli fanno sapere che il volume
è stato rintracciato alla Nazionale di Milano ma che al momento lo ha qualcun
altro.
A fine settembre Croce torna alla carica e,
scoprendo che il libro non è stato ancora riconsegnato, sbotta: «E Gundolf?
Vorrei conoscere quello studioso shakesperiano che vi medita tanto sopra!»
(Nell’ordinare il carteggio, i documentaristi della Biblioteca del Senato
scopriranno più di settant’anni dopo l’arcano, forse mai rivelato a Croce: era
stato lo stesso direttore della Nazionale di Milano a prorogare il prestito al
meditabondo studioso ma, allertato da così pressante e prestigiosa richiesta,
si affrettò a comunicare al collega del Senato che «con un ritardo di soli
pochi giorni il suo illustre cliente potrà essere servito, com’è suo e mio
vivissimo desiderio»...).
Un altro ingiallito biglietto, questa volta dell’estate
del ‘29 documenta con precisione come, quanto e perché il filosofo e storico
napoletano non si desse pace per l’uso disinvolto di un inestimabile bene
comune di cui era invidiosissimo, lui che pur poteva contare già allora su una
immensa raccolta personale. Da direttore della Critica eccolo dunque chiedere
che gli si mandi una miscellanea di libri «assicurata per lire 300». «Io la
rimanderò allo stesso modo», e spiega: «Queste precauzioni, dato il mio amore e
la mia gelosia per i libri delle pubbliche biblioteche, mi fanno piacere». Dai
riscontri, la conferma del rispetto di Benedetto Croce per i libri altrui: di
norma egli non trattiene più di un mese i volumi in prestito (che, spiega in
un’altra lettera, «sono da me serbati in uno scaffale speciale per non
confonderli coi miei propri») e un mese non è certo gran tempo dal momento che
le fotocopiatrici sono ancora di là da venire.
Tra richieste sofisticate («Mi occorre il seguente opuscolo: Apologia del
genere umano accusato di essere stato una volta bestia, appendice all’opera di
G.F. Finetti, Venezia 1786»), e richieste che lo sono assai meno («Abbiate
pazienza, desidererei trovare sabato presso il Senato le seguenti opere di
Marco Praga (...) Bella roba che sono costretto a leggere! Compiangetemi»),
continui sono i suggerimenti su come arricchire e in quale direzione il
patrimonio bibliografico del Senato. Una volta il motivo vero è che un certo
libro serve a lui, altra volta è che «se la Bibl. del Senato li acquistasse,
acquisirebbe volumi di monografie su odierni scrittori italiani, il che non
sarebbe ripugnante alla sua indole».
Il suo referente privilegiato è il leggendario Fortunato Pintor, zio di Giaime
e di Luigi, filologo e bibliofilo finissimo, per molti anni direttore della
Biblioteca del Senato nell’età giolittiana e anche nei primi anni del fascismo,
ma che proprio a cagione della dittatura sarà costretto a lasciarne la responsabilità
effettiva a soli cinquantatré anni. Così, nel ‘14, «all’amico Pintor presento,
e non ho bisogno di raccomandare, il Prezzolini che desidera studiare nella
Bibl. del Senato», e nel ‘27 segnala che «l’amico De Ruggero» ha bisogno di
consultare alcuni rari libri «per un suo lavoro di storia della filosofia» (che
sarà poi la monumentale Storia edita più tardi, come tutte le opere crociane,
da Laterza) e suggerisce a Pintor di insistere perché, una volta ottenuto il
prestito, «egli venga a studiare quei libri presso la Bibl. del Senato».
Di grande interesse sono anche le tracce del lavoro preparatorio di alcuni
classici di «don Benedetto». Nel ‘27 sta scrivendo la Storia d’Italia dal 1871
al 1914. È il momento in cui s’indurisce la sua opposizione al fascismo, e il
carteggio rivela non solo il complesso di approfondimenti che andava facendo
mentre scriveva, ma anche come la riflessione storica diventi per lui strumento
di battaglia politica. La storia del movimento socialista è al centro di gran
parte delle richieste. Il 15 ottobre vuole addirittura sapere come e quando
esattamente D’Annunzio aveva annunciato alla Camera l’abbandono della Destra:
«Mio caro Pintor, volete farmi il favore di darmi questa indicazione: in quale
giorno (del 1900, durante l’ostruzionismo) il D’Annunzio, deputato, disse ”Colà
è la vita ecc.” e, staccandosi dalla destra, passò all’estrema sinistra? E
quali furono le sue precise parole?». Per la Storia d’Europa Croce era andato a
caccia di libri alla Biblioteca di Berlino, ed era tornato con una lista di
«altre storie molto importanti» che anche a Roma «non dovrebbero mancarvi».
Croce la trasmette a Pintor proponendo l’acquisto di 10 opere in 17 volumi:
eseguito.
L’ultima pagina del carteggio è del ‘52, poco prima
della scomparsa di Croce. Con una cartolina postale il filosofo ricorda di aver
fatto acquistare «una trentina di anni fa» un saggio dello storiografo Maritz
Ritter. «Ora, dopo tanti anni, ho bisogno di rileggerlo e, sebbene lo abbia
richiesto ai librai tedeschi, non so se e quando l’avrò, cosicché incomodo lei
per che abbia la cortesia di mandarmi in lettura di nuovo il volume». Ma quando
il libro arriverà a Napoli, Croce è appena morto.
C’è nella millenaria storia della Baia di Jeranto
una pagina non scritta ma ben presente nella memoria degli eruditi, degli
storici e dei filosofi: nel 1944 la mitica alcova delle Sirene, all’epoca una
cava di macigni calcarei destinati agli altoforni di Bagnoli ormai in via di
dismissione, avrebbe dovuto essere una prigione fascista per Benedetto Croce.
Il piano per rapire il filosofo napoletano, ospite
della Villa del Tritone di Sorrento dopo il suo trasferimento da Napoli nel
1942 a causa dei bombardamenti, era perfetto nella mente dei suoi organizzatori:
secondo le disposizioni dei gerarchi fascisti Croce doveva essere rapito perché
potesse essere portato a Firenze per commemorare il suo amico-rivale di
pensiero, ed anche di azione politica, Giovanni Gentile assassinato il 17
aprile ‘44. La messa in opera del programma era affidata all’avvocato Nando Di
Nardo, una vita politica spesa tra la milizia fascista e la carica di deputato
del Msi nel dopoguerra: dopo un suo sopralluogo tra Sorrento e Massa Lubrense
si costituì un «commando» di volontari, quattro esponenti del fascismo della
penisola sorrentina. A capo l’avvocato Sorrentino Stelio Sguanci e tre
massesi: l’impiegato comunale Vittorio Marcia, il falegname Domenico Zarrella
ed il custode della cava di Jeranto Cataldo Massa. Insomma Benedetto Croce
sarebbe stato rapito dai quattro a Sorrento e con un’auto, rubata poco prima,
trasportato sulla strada statale 163 amalfitana verso Positano: giunti ai Colli
di San Pietro i quattro avrebbero proseguito a piedi col prigioniero fino alla
Baia di Jeranto attraverso una serie di stradine da Sant’Agata sui due Golfi
fino a Nerano. Il delicato compito di nascondere e vigilare su Benedetto Croce
era affidato a Cataldo Massa.
Per fortuna il piano fallì: lo stesso Di Nardo, che ne aveva riferito ai principi Pignatelli per avere l’autorizzazione da Mussolini, si pentì e lasciò che altri consigliassero ed attuassero il trasferimento di Croce e delle figlie Silvia e Lidia nella più sicura isola di Capri, dove poi fu raggiunto dalla moglie Adelina e dalla figlia Alda. Malgrado già avesse nel ‘42 espresso le prime resistenze di a lasciare prima Napoli e poi Sorrento dopo le prime minacce subite per il suo antifascismo Croce accettò a malincuore i convincimenti a raggiungere Capri da parte del genero Raimondo Craveri, dell’amico avvocato Giuseppe Brindisi all’epoca commissario prefettizio nell’isola azzurra e d’un ufficiale della marina inglese di origini spagnole Federico Gallegos. In una sua intervista poco prima della morte (avvenuta a Massa Lubrense il 30 marzo 2000 - gli altri componenti del) commando erano già deceduti anni prima) il mancato carceriere di Croce a Jeranto Cataldo Massa, che intanto era stato operato alla laringe, ebbe ad esprimere a gesti di essersi commosso nel sapere della grandissima statura culturale del suo mancato prigioniero.
Era luminosa e calda l’alba del primo giorno
d’estate di settanta anni fa, ed erano le 5.55 quando alla stazione di
Campobasso si fermava, sbuffando, il diretto proveniente da Napoli. Ne
scendevano pochi viaggiatori insonnoliti e tra questi due signori, uno anziano
l’altro più giovane, dall’aria tranquilla e distinta. Al cocchiere della
vettura pubblica chiesero di essere portati al Grand Albergo. Era il 21 giugno
1932. Poco più di un mese dopo, il 28 luglio, il prefetto di Campobasso veniva
raggiunto da un secco telegramma del capo della polizia Arturo Bocchini.
«N° 18440/442. Viene riferito che notte 21 giugno
decorso giunse codesta città noto Senatore Benedetto Croce cui sera successiva
fu offerta cena dal Ragioniere Alberto Cancellario Vice Podestà codesto Comune
et alla quale parteciparono anche Avv. Antonino Mancini Archivista presso codesta
Amministrazione provinciale, elemento notoriamente avverso Regime, Avv. Alberto
Florio Podestà codesto Comune et tale Cortese Lino stop Pregasi riservati
accertamenti riferendo esito pel Ministro Bocchini».
Evidentemente il capo della polizia citava
informazioni ricevute da agenti che da tempo, per ordine di Mussolini, tenevano
sotto controllo Benedetto Croce e ne seguivano puntigliosamente gli spostamenti
segnalando anche (vi era un agente fisso nell’ingresso di palazzo Filomarino di
Napoli, dove Croce abitava) le persone che lo frequentavano. C’era però nel
telegramma di Bocchini una malcelata irritazione, presagio di una tempesta in
arrivo, per la familiarità dimostrata al «noto Senatore» dal podestà e dal vice
podestà, autorità di sicura fede fascista.
Il lavoro di Intelligence degli agenti era stato
impeccabile ma non era andato oltre il racconto minuzioso della giornata
particolare trascorsa da Croce a Campobasso. Il 22 giugno era stata stilata una
«Relazione circa il soggiorno in questa città di S.E. il Senatore Croce
Benedetto», dove la cronaca nuda e cruda da «mattinale», dell’agente che
seguiva i passi di Croce non avrebbe certamente soddisfatto il capo della polizia.
Anche in questa occasione il puntuale servizio di Intelligence non investigava,
naufragando nel povero linguaggio della burocrazia.
«S.E. Benedetto CROCE furono Pasquale e Sipari
Luigia, nato a Pescasseroli il 25.2.1866, Senatore del Regno, residente Napoli,
arrivò in questa Città alle ore 5,55 di ieri in compagnia del Prof. di
Università CORTESE Lino fu Vincenzo e di Spermide Emilia, nato a Perugia il
25.9.1896, residente a Napoli, prendendo alloggio al locale Grand Albergo.
Verso le 9 circa, in compagnia del Cortese e
dell’Avv. Mancini Antonino, archivista della locale Biblioteca di Stato, si
recarono sui Monti, ove visitarono quei paraggi.
Verso le ore 11 discesero recandosi al Municipio ove
incontrarono il V. Podestà Sig. Cancellario, il quale li accompagnava, a
desiderio di S.E. Croce, negli Uffici di detto Municipio.
Alle ore 15 circa discesero dal Municipio recandosi
al Grand Albergo ove consumarono il pasto in compagnia anche del Podestà Avv.
Florio, del V. Podestà Sig. Cancellario e delle surripetute persone.
Verso le ore 15 circa tanto il V. Podestà che il
Podestà e il Mancini se ne andarono.
Verso le ore 17.30 venne rilevato dal Mancini e dal
Prof. Verrecchia del locale R. Liceo-Ginnasio e insieme si recarono di nuovo al
Monte Monforte ove visitarono la Chiesa di S. Giorgio in quei paraggi, il
Castello Monforte e la Chiesa dei Cappuccini discendendo verso le ore 19 circa,
per recarsi alla Biblioteca di Stato di via Pennino.
Verso le 20 dopo aver passeggiato per la città
rincasava al Grand Albergo ove consumò la cena col prof. Cortese.
Stamane verso le 8.30 è uscito dall’albergo in
compagnia del Prof. Cortese del Prof. Verrecchia e dell’Avv. Mancini e si è
recato con essi a visitare la Chiesa di S. Antonio Abate.
Alle ore 9,15 sempre insieme si recarono al Convitto
Nazionale Mario Pagano per salutare quel Preside.
Alle ore 10 ha fatto visita a S.E. il Vescovo e alle
11 si è recato nello studio fotografico del Prof. Trombetta.
Accompagnato dal Prof. Trombetta verso le 11,40 è
tornato all’albergo ove ha pranzato insieme al Prof. Cortese.
Alle ore 12,30 accompagnato dall’Avv. Mancini, dal
Prof. Verrecchia e dal Prof. sacerdote Verna e dal Trombetta, si è diretto allo
scalo ferroviario e col Prof. Cortese è partito col treno delle ore 12,50
diretto a Benevento e Napoli».
Un profluvio di orari, avvocati, professori,
eccellenze (con qualche errore: il nome di Cortese, storico del Risorgimento,
era Nino, non Lino; anzi, «tale Cortese Lino», lo definiva Bocchini nel telegramma),
anche un fotografo, ma nessuna spiegazione delle ragioni del viaggio di Croce,
né degli incontri con le autorità podestarili. Di qui l’intimazione del capo
della polizia al prefetto che, a sua volta, chiese immediatamente informazioni
al questore. Il 29 luglio, poche ore dopo l’arrivo del tele gramma di Bocchini,
il questore era in grado di aggiungere altri particolari alla stringata
relazione dell’agente pedinatore. Il questore insinuava il dubbio che Croce
potesse essersi recato a Campobasso per ragioni di studio.
L’informazione saliva di tono, anche se la lingua
italiana continuava a soffrirne.
«Il Senatore Benedetto Croce, giunse in questa Città
col treno delle ore 5.55 del 21 giugno u.s., segnalato dal Commissario di P.S.
presso lo Scalo Ferroviario di Napoli con telegramma della sera precedente. Il
Senatore arrivò qui assieme al Professore di Università Cortese Lino fu
Vincenzo e presero alloggio al Grand Albergo. Verso le 9 i predetti,
accompagnati dall’Avv. Antonio Mancini, Archivista del locale Archivio di
Stato, si recarono sul
Castello Monforte per visitare quei paraggi. Verso
le ore 11 si recarono poi sul Comune per esaminare al cune pergamene antiche,
poiché sembra che il Senatore Croce stia scrivendo un libro su Cola Monforte,
personaggio appartenente a nobile ed antica famiglia di Campobasso. Verso le
ore 13 i soprascritti unicamente al Podestà Avv. Florio ed al Vice Podestà Rag.
Cancellario si recarono al Grand Albergo ove le cinque cennate persone
consumarono una colazione che venne pagata dal Vice Podestà Rag. Cancellario».
Seguivano, con qualche dettaglio in più, informazioni analoghe a quelle
dell’agente, ma veniva corretta un’altra svista (restava comunque il nome
errato dì Cortese): l’avv. Mancini era archivista dell’Archivio di Stato non di
una inesistente Biblioteca di Stato.
Restava però un nodo da sciogliere: che c’entravano
il podestà e il vice podestà con il senatore Croce? Spettava al prefetto dare
la risposta alla domanda implicita nel telegramma dei capo della polizia. Il
prefetto non si scomodò più di tanto: sulla lettera-relazione del questore
scrisse a mano aggiunte e postille per poi passare il tutto verosimilmente alla
dattilografa che doveva comporre la risposta a Bocchini.