In "Louis Wolfson o
il procedimento", in "Critica e clinica", Deleuze discute il testo di Louis
Wolfson, "Le schizo et le langues" [1970]. Wolfson stesso è schizofrenico. Tema
del saggio: il "procedimento" messo in atto da Wolfson per governare la propria
esperienza. Il saggio è utile occasione per ricordare analoghi tentativi:
Roussel, Brisset, Artaud. Deleuze critica la psicanalisi, ma non si tratta di
una critica di prammatica. La psicanalisi - egli dice - ha un solo torto, quello
di ricondurre le avventure della psicosi all'eterno ritornello del papà-mamma,
cioè alla questione edipica. In realtà - sostiene Deleuze - lo schizofrenico, in
quanto tale, pensa e agisce non all'interno di categorie familiari, ma
all'interno di categorie mondiali, addirittura cosmiche. Secondo Deleuze il
giovane Wolfson potrebbe accettare benissimo i suoi padre-e-madre così come
sono, modificare alcune delle sue conclusioni svalutative nei loro confronti e
magari ritornare alla lingua materna (che egli, con l'invenzione del
procedimento, vuole in verità uccidere), quello che la psicanalisi non vede è il
fatto è che Wolfson è malato non del suo padre-e-madre, ma del mondo. Tutta la
questione del "procedimento" sembra a prima vista girare proprio intorno alla
figura della madre e del padre di Wolfson: la resistenza nei confronti di tutto
ciò che è metaforicamente riconducibile alla madre (la lingua madre, il cibo, la
malattia di sua madre [il cancro]), l'esaltazione di tutto ciò che rinvia
metaforicamente al padre (il sapere, le catene di atomi, le lingue straniere, [è
questo che la psicanalisi insegna a vedere, è con queste categorie che insegna
ad approcciare la psicosi]), ma non è così. Ciò che lo studente di lingue
schizofrenico chiama "madre" è in realtà un'organizzazione di parole che gli è
stata messa nelle orecchie: 1) "non è la mia lingua ad essere materna: è la
madre che è una lingua"; 2) "non è il mio organismo che deriva dalla madre: è la
madre che è una collezione di organi, a collezione dei miei organi". Ciò che
Wolfson chiama "Madre" è in realtà la "Vita", ciò che chiama "padre"
l'estraneità, ossia tutte le parole che non conosce, tutti gli atomi che
continuano a entrare e uscire dal corpo: "non è il padre che parla le lingue
straniere e conosce gli atomi, sono le lingue straniere e le combinazioni
atomiche a essere mio padre"; il padre è il popolo dei miei atomi e l'insieme
delle mie glossolalie - insomma il sapere. Tra il sapere e la vita vi è una
lotta irriducibile. Il problema dello studente di lingue schizofrenico non è
quindi un problema legato a questioni familiari (come liberarsi della madre
malata, come assomigliare al padre assente), ma un problema metafisico: come
giustificare la vita che è sofferenza e grido, come giustificare la vita che è
"cattiva materia malata". In un primo momento Wolfosn sembra optare per la
seguente soluzione: la sola giustificazione della vita è il sapere, il quale è
di per sé il Bello e il Vero . Ma un giorno incontra la "rivelazione": la vita è
assolutamente ingiustificabile, e allora la vita e il sapere non si
contrappongono più, anzi, non si distinguono neanche più . Ecco allora il senso
del procedimento: tutte la parole raccontano una storia di vita e di sapere;
questa storia è ciò che c'è di impossibile nel linguaggio, il suo fuori. Questa
storia è resa possibile solo da un procedimento che testimoni la follia . Il
limite del procedimento di Wolfson è però che esso spinge sì il linguaggio al
limite, ma non lo oltrepassa . Il problema è invece attraversare da vincitore le
regioni della "sragione" , "affrontare dall'altro lato del limite [del
linguaggio] le figure di una vita sconosciuta e di un sapere esoterico" .
Secondo Deleuze questa navigazione pericolosa è riuscita a Roussel, a Brisset e
Artaud, ma non a Wolfson, anche se Wolfson ha messo a nudo la trama del
procedimento. Il libro di Wolfson - scrive Deleuze - non è un'opera scientifica.
Un metodo scientifico implica infatti la determinazione di una totalità
formalmente legittima, mentre è del tutto evidente che la totalità di
riferimento di Wolfson (l'insieme indefinito di tutto quanto non è la "lingua
madre") è una totalità illegittima (mancano del tutto le regole sintattiche che
facciano corrispondere i sensi a suoni e ordini le trasformazioni dell'insieme
di partenza). Wolfson vive perciò il proprio pensiero come il duplice simulacro
di un sistema poetico-artistico e di un metodo logico-scientifico.
Riassumendo:
Le caratteristiche fondamentali di tale "procedimento" sono
le seguenti:
1) ad esso non corrisponde alcun metodo scientifico;
2)
tale procedimento manca infatti del necessario riferimento ad una totalità
formalmente legittima data;
3) non possiede regole in base alle quali
ordinare le trasformazioni dell'insieme di partenza;
4) nello stesso tempo
simula l'andamento di un sisitema poetico-artistico e, insieme, e
contraddittoriamente, quello di un metodo logico-scientifico. Il procedimento di
Wolfson è tuttavia un modo per governare un'esperienza che si presenta a tutta
prima ingovernabile, e quindi, in un certo senso, esso è una sorta di Perí
Physeos, una sorta di ontologia sorgiva. Il procedimento di Wolfson non consente
di esplorare le regioni del fuori per tornarne vittoriosi, Wolfson non è
Roussel, Brisset, Artaud, esso è piuttosto la registrazione sismografica del
travaso delle forze del fuori nella grande regione del dentro, del venir meno
della stessa frontiera dentro/fuori. Quello di Wolfosn non è tanto un problema
di trasgressione, quanto un problema di implosione. Questa "implosione" produce
una sospensione confusiva del pensiero e del non-pensiero, tanto da modificare,
irreversibilmente, lo statuto stesso del filosofico. Si tratta della
desintetizzazione dell'Occidente: la desintetitazzione è ciò che consuma tutte
le totalità legittime e, insieme, i procedimenti eroici di esplorazione del
fuori: non c'è più un vero e proprio fuori, o c'è sempre meno, e quindi non c'è
più nemmeno un vero e proprio dentro.