JACQUES DERRIDA

A cura di Antonino Magnanimo



RIASSUNTO GENERALE SU DERRIDA
INDICE

VITA E OPERE
IMPIANTO FILOSOFICO
LA CARTOLINA POSTALE
LA DIFFERANCE
DECOSTRUIRE
POLITICHE DELL'AMICIZIA
XENOS




VITA E OPERE

Jacques Derrida nasce il 15 luglio 1930 a El Biar, presso Algeri, da famiglia ebrea. Proprio per questo, durante gli anni della Seconda guerra mondiale conoscerà le discriminazioni derivanti dalle leggi razziali emanate dal regime di Pétain. In gioventù entra in contatto con le correnti più vive della cultura francese e con le esperienze politiche dell'estrema sinistra non comunista. L'impegno politico resterà una costante della sua personalità che lo porterà negli anni seguenti a impegnarsi a favore del dissenso nella ex Cecoslovacchia comunista o a favore del movimento antirazzista in Sudafrica. Senza dubbio è uno dei più importanti filosofi di lingua francese del '900, la sua fama ha valicato i confini stessi della Francia e i suoi libri sono tradotti in tutto il mondo. Il suo pensiero, talvolta enigmatico e di difficile interpretazione, ha attratto diverse generazioni di filosofi. Principale ispiratore del "Collège international de philosophie" fondato a Parigi nel 1983, Derrida è direttore dell' "Ècole des hautes études" dal 1984, ma ha insegnato anche in numerose università degli Stati Uniti. Derida si richiama ad Heidegger ma sono fondamentali per lo sviluppo del suo pensiero anche la psicanalisi, la linguistica, l'antropologia e la ricerca artistica. Egli opera una critica radicale della metafisica occidentale , operando una decostruzione delle strutture concettuali sulle quali essa poggia. Il filosofo francese è tra i più noti ma anche tra i più discussi e controversi pensatori degli ultimi decenni del '900. Appartenente alla generazione affacciatasi sulla scena filosofica intorno al 1960 (la generazione dei Foucault, Lyotard, Habermas, Rorty), ha in comune con questi suoi coetanei alcune problematiche cruciali, ma se ne distacca con proposte radicalmente innovative. Negli ultimi anni soltanto Rorty, tra i pensatori importanti della sua generazione, ha accolto con grande simpatia alcune tesi di fondo delle sue riflessioni. A differenza dagli altri, la sua influenza, fin dagli anni Sessanta, non ha riguardato soltanto gli ambienti filosofici ma si è estesa anche agli ambienti di critica letteraria, soprattutto nell'area americana. Alla ormai nota conferenza tenuta alla Johns Hopkins University nel 1966 ("La struttura, il segno e il gioco nel discorso delle scienze umane") si fa risalire l'inizio del suo successo internazionale e la svolta decostruzionista. Formatosi nell'immediato dopoguerra in una tradizione filosofica dominata dall'influsso delle tre H (Hegel, Husserl, Heidegger), subisce inizialmente l'influsso di Sartre, da cui si distacca però molto presto per affrontare approfonditamente lo studio di Husserl cui dedica la sua prima importante pubblicazione "Introduzione a 'L'origine della geometria' di Husserl". Oltre che con la tradizione occidentale, in quegli stessi anni, Derrida faceva i conti con la tradizione ebraica, della quale è ugualmente erede, essendo nato, come già accennato, vicino ad Algeri da famiglia ebrea. In particolare i nomi degli autori che sente più vicini, e che sono largamente presenti nei saggi raccolti in "Scrittura e differenza", sono quelli di Jabès e di Lèvinas. Tra i lavori più importanti si segnalano: "Della grammatologia" (1967); "La pharmacie de Platon", (1968); "Il fattore della verità" (1975); "Posizioni"; "La verità in pittura" (1978); "Introduzione a 'L'origine della geometria' di Husserl"; "La disseminazione" ; "La scrittura e la differenza"; "Il problema della genesi nella filosofia di Husserl"; "Politiche dell'amicizia"; "La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl"; "Margini della filosofia". Nelle opere successive Derrida ha accentuato la sua critica della metafisica occidentale, mettendo capo alla scrittura come continuo differimento di senso. Ricordiamo: "Sopra-vivere" (1979); "La carte postale" (1980); "Dello spirito" (1987); "Psyché" (1987); "Limited Inc." (1990); "La mano di Heidegger" (1991), "Oggi l'Europa" (1991); "Sproni: gli stili di Nietzsche" (1991); "Retorica della droga: intervista" (1993); "Ritorno da Mosca" (1993); "Spettri di Marx: stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale" (1994); "Memorie per Paul de Man. Saggio sull'autobiografia" (1995); "La religione: annuario filosofico europeo" (1995); "Donare il tempo: la moneta falsa" (1996).

L'IMPIANTO FILOSOFICO

Il filosofo francese esplora le possibilità a cui il linguaggio della filosofia occidentale è giunto:

1] aprirsi all'infinito e chiudersi su se stesso infinitamente;

2] giocare con la propria tradizione;

3] seguirne l'infinito arbitrio concettuale (la deriva del significante).

Questo fa di Derrida un vero filosofo, soprattutto nel senso paradossale, inaugurato da Nietzsche e dalla sinistra post-hegeliana, per cui "si è veri filosofi solo non essendolo": si è filosofi puri in senso proprio e profondo, solo facendo i distruttori della filosofia. Derrida è un filosofo puro, ovvero un filosofo che si occupa della filosofia, essenzialmente per maltrattarla, ovvero per decostruire i testi della tradizione filosofia. Decostruzione vuol dire prendere due o tre parole, una frase, una qualche "spia testuale", e giocarci sopra, in base per lo più al vecchio rovesciamento dialettico. Decostruire significa individuare le coppie concettuali (io-noi, vivo-morto, nulla-negazione, eccezione - regola) che si annidano in qualsiasi argomentazione, portarle fuori, e mostrare come, fronteggiandosi, gli opposti si annullano a vicenda, o si rovesciano l'uno nell'altro, e tutto si risolve in nulla. Qui si apre il paesaggio tipico del derridismo: non c'è nulla al di là del testo. Il testo è "semplice presenza differita": io non sono presente, voi leggete queste mie parole, e io non ci sono. Inoltre, le cose di cui scrivo sono assenti. Dunque differenza non solo spaziale ma anche temporale, ovvero differanza ( differance ): perché ogni testo X è misurazione della distanza che separa X da qualsivoglia testo Y antecedente o conseguente. Questa presenza-assenza-differenza è, inoltre, primordiale e primigenia: la scrittura, si dice, viene dopo la voce, l'esperienza, il pensiero. Ma per scrivere pensiamo e abbiamo vita ed esperienza per trascrivere l'una e l'altra; "la nostra vita è narrazione pseudo-testuale". C'è dunque, prima di ogni altra cosa, la Scrittura. Comprendiamo così ancora meglio l'essenza del decostruire: il prima e il dopo, il qui e il là, il sotto e il sopra si elidono a vicenda, ma in fondo tra il si e il no è meglio il no, tra l'eccezione e la regola è meglio l'eccezione, tra il "vivo della voce", che tutti preferiscono, è meglio il "morto della scrittura". Si tratta di nichilismo, e più specificatamente di dialettica negativa. La decostruzione rivela il suo vero volto, che è edificante, distruzione che edifica, in una sorta di omeopatia etico-filosofica, a sfondo vagamente anarchico. Questo è Derrida in breve e in essenza. Derida, nel dibattito degli ultimi decenni del '900, si è schierato apertamente, con posizioni di grande originalità, con coloro che affermano la necessità di andare "oltre la tradizione occidentale". Nessuna metafora è in grado di uscire dal cerchio magico della metafisica, della "mitologia bianca" ("La mytologie blanche", in Poétique, 1971) che rassomiglia e riflette la cultura dell'Occidente, quella in cui l'uomo bianco scambia il proprio pensiero con la forma universale della razionalità. Egli è tra i più assidui teorici del " post-moderno ", e quindi fra i più criticati da Habermas, teorico del moderno, che lo qualifica come neo-nietzschiano nell'opera del 1985 "Discorso filosofico della modernità". Derida è il più internazionalmente influente tra i teorici del post-moderno. Derrida utilizza uno stile di scrittura complesso e volutamente tortuoso che è andato a complicarsi sempre di più, stile caratterizzato dal rifiuto di un andamento discorsivo ordinario e dal ricorso frequentissimo a giochi di parole. Derida ribatte: " non sono giochi di parole. I giochi di parole non mi hanno mai interessato. Piuttosto, sono fuochi di parole: consumare i segni fino alla cenere, ma anzitutto e con maggior violenza, attraverso un brio eccitato, slogare l'unità verbale, l'integrità della voce, frangere o effrangere la superficie calma delle parole, sottoponendo il loro corpo a una ginnastica allo stesso tempo gioiosa, irreligiosa e crudele". Che ci sia crudeltà non solo verso le parole ma anche verso il lettore "plasmato dalla scuola", Derrida lo confessa apertis verbis. Anche il lettore, quindi, è sottoposto a quella ginnastica, gioiosa, irreligiosa e crudele, se vuole tentare di comprendere i testi del discorso. Si tratta di testi, perciò, non solo difficilmente accessibili e comprensibili, ma anche difficilmente riassumibili. Derrida motiva e giustifica questa caratteristica pressoché unica dei suoi scritti sostenendo che vogliono essere qualcosa di radicalmente diverso e alternativo rispetto alle tesi di dottorato e in genere ai saggi di tipo scientifico-accademico quali si praticano all'università.

LA CARTOLINA POSTALE

Di fronte alle decine di cartoline , che di tanto in tanto preleviamo dalla cassetta delle lettere ciascuno di noi assume più o meno lo stesso atteggiamento: lettura veloce del testo, ringraziamenti al mittente, breve periodo di esposizione e abbandono nella più fredda indifferenza (cestino, scatola di cartone, album dei ricordi). Raramente a qualcuna riserviamo un trattamento migliore, per esempio servirsi delle più belle o di quella dell'amico più caro come segnalibro, ma alla fine tutte saranno raggiunte dallo stesso inesorabile destino: non verranno più guardate. Una volta che la cartolina , è giunta a destinazione ha esaurito la sua funzione, "la cartolina vive durante il tragitto" dal luogo di villeggiatura, passando per l'ufficio postale, alla cassetta delle lettere perché non appena giunge nelle mani del destinatario la sua fine è imminente. Ma allora perché non lasciare in viaggio la cartolina? Perché non godere del piacere di immaginarsi la nostra cartolina che vaga da un paese all'altro, da una città all'altra, da una strada ad un'altra, senza mai raggiungere il nostro portone di casa? Quante volte abbiamo aspettato invano l'arrivo di una cartolina e quante volte dopo essersi rassegnati al fatto di non riceverla più abbiamo fantasticato sulla sua erronea e prematura scomparsa. Ce la siamo immaginata persa nei meandri della città, nel brulichio, nella pluralità, nel disordine tipici delle metropoli. Derrida descrive la filosofia con la metafora della cartolina postale. La maggior parte delle volte la cartolina è ancora in viaggio quando noi siamo già di ritorno; per lo più capita che la cartolina non arrivi a destinazione, così facendo rimane in viaggio e conserva il suo essere-destinato in sé. Analogamente, la filosofia può essere considerata come una cartolina, che è stata scritta con l'intenzione di arrivare a destinazione ma che in realtà non lo fa. La filosofia che raggiunge la destinazione e che si distrugge in quest'ultima cessa di essere filosofia vera. Per questa ragione, Derrida preferisce tenere la filosofia in viaggio per far sì che sia sempre spedita oltre. Platone parla, Socrate scrive Per Derrida il passaggio al di là della filosofia non consiste nel voltare la pagina della filosofia (il che equivale il più delle volte al mal filosofare) ma nel continuare a leggere i filosofi in un certo modo. L'atteggiamento più generale di Derrida nei confronti della tradizione filosofica trova l'espressione più compiuta nella rilettura operata ne "La carte postale" del noto rapporto Socrate-Platone: in questa importante opera del 1980 infatti, utilizzando una miniatura medioevale trovata ad Oxford, Derrida mostra come il rapporto si sia rovesciato, nel senso che Platone parla, mentre Socrate scrive.Il rapporto Socrate-Platone era stato alla base di uno dei saggi più noti di Derida, "La pharmacie de Platon" del 1968, nel quale in maniera più accurata e organica, oltre che filologicamente molto ferrata, era stata proposta la tesi del logocentrismo o metafisica della presenza come filo conduttore di tutta la tradizione filosofica occidentale. E' un saggio, anche questo, "pirotecnico" (fuochi di parole), nel quale lo scrupolo filologico è intrecciato con una sfrenata sarabanda di metafore e richiami da un dialogo all'altro di Platone. Egli cerca di mettere in discussione il logocentrismo della metafisica occidentale basata sull'opposizione "è o non è" (materia/forma, natura/spirito, corpo/anima, vero/falso, bene/male, essere/divenire, soggetto/oggetto). Derrida vuole decostruire questa tradizione non nel senso di abbandonarla completamente ma nel senso di aggiungervi qualche altra cosa. Parte dal fatto che la verità non è qualcosa che viene enunciato, una definizione, ma è qualcosa che avviene, è un movimento che accade. L'interesse principale è comunque dedicato al Fedro e in particolare alla sua parte finale, nella quale Socrate racconta il famoso mito del re egiziano Thamus che, di fronte all'offerta della scrittura da parte del dio Theuth, dopo matura riflessione decide di respingere l'offerta in quanto la scrittura è qualcosa di molto inferiore e di negativo rispetto alla parola.Questo mito, il cui significato è ripreso ricorrentemente in altri suoi scritti, spiega secondo Derrida il carattere fondamentale di tutta la filosofia occidentale, da Platone in poi: quello che fa definire questa filosofia come logocentrismo o metafisica della presenza. Infatti il contenuto esplicito e il significato del mito è che la parola è presenza, mentre la scrittura è assenza, negazione della presenza. Nel discorso parlato, cioè, l'anima ha "presente" in maniera immediata la verità; nel testo scritto questa immediatezza non c'è più. Nel parlare l'anima si esprime direttamente, è "presente"; nel testo scritto non c'è più, e questo vive una sua vita propria, da "orfano", separato da chi gli ha dato origine. L'oralità è bene, la scrittura è male. Derrida talvolta parla di "parricidio" operato dal testo scritto nei confronti di chi gli ha dato origine.Tutto il male, il negativo, è assegnato "alla scrittura, che Platone definiva un orfano o un bastardo, opponendola alla parola figlio legittimo e bennato del 'padre del logo'". Umiliazione della scrittura, privilegio della parola, sono stati secondo Derrida i caratteri fondamentali della filosofia occidentale fino ad oggi; da qui la definizione di questa come "logocentrismo". Scriverà in un colloquio dello stesso 1968, in maniera più chiara illustrando le caratteristiche del logocentrismo o metafisica della presenza : "la phoné è la sostanza significante che si dà alla coscienza come intimamente unita al pensiero del concetto significato. Da questo punto di vista, la voce è la coscienza stessa. Quando parlo, non solo ho coscienza di essere presente a ciò che penso, ma anche di mantenere il più aderente possibile al mio pensiero o al 'concetto' un significante che non cade nel mondo, che io intendo nel momento medesimo in cui lo emetto, e che sembra dipendere dalla mia pura e libera spontaneità, senza esigere l'uso di alcuno strumento, di alcun accessorio, di alcuna forza presa nel mondo. Beninteso questa esperienza è un inganno, ma un inganno sulla cui necessità si è organizzata tutta una struttura o tutta un'epoca". La tradizione logocentrista, per Derrida, è quella ancora dominante nei nostri giorni. Questa tradizione è stata ripercorsa, o "ripetuta", in maniera più o meno consapevolmente critica, dai filosofi più significativi del nostro tempo. Secondo Derida, quindi, il carattere fondamentale della filosofia occidentale è il logocentrismo o fonocentrismo , fondato sulla metafisica della presenza, nel senso indicato dall'ultimo Heidegger. A suo avviso nella tradizione occidentale sino a Heidegger incluso, la voce gode di un primato in virtù del fatto che essa è percepita e vissuta come qualcosa di presente e di immediatamente evidente: nella parola parlata è sempre immanente il logos. La scrittura, invece, è caratterizzata dall'assenza totale del soggetto, che l' ha prodotta: il testo scritto gode ormai di vita propria. Compito della grammatologia , dove "gramma" è assunto nel senso originario greco di lettera scritta dell'alfabeto, è di mirare alla comprensione del linguaggio a partire dal modello della scrittura, non del logos. La forma scritta, sottraendo il testo al suo contesto di origine e rendendolo disponibile al di là del suo tempo, ne garantisce la sua decifrabilità e leggibilità illimitata. Su questa base si rende possibile quella che Derrida chiama la " differance ", un termine da lui coniato che include i due significati del verbo differire. In un primo senso, esso implica che il segno è differente da ciò di cui prende il posto e, quindi, che tra il testo e l'essere a cui esso rinvia c'è sempre una differenza, uno scarto che non può essere mai definitivamente colmato, ma lascia sempre soltanto tracce, da cui si diparte la molteplicità delle letture e delle interpretazioni. Ma, in un secondo senso, differire significa anche rinviare, rimandare e, quindi, mettere una distanza tra noi e la cosa o parola assente nel testo: ciò significa uscire dal primato della presenza, che caratterizza il logocentrismo. La "differance" equivale a un accadere indipendente dai soggetti che parlano e che ascoltano, è un "evento" nel senso heideggeriano del termine.

LA DIFFERANCE

Derrida sostiene che tra l'Essere e il linguaggio c'è un rapporto di "differance": l''essere si "differanza" nel linguaggio, si media nel linguaggio, si aliena nel linguaggio, diventa altro da sé, si rende presente ma assente nello stesso tempo, diventa segno, diventa traccia. La verità si trasforma in traccia, si contamina, si intacca nel linguaggio che è segno, si dà nel linguaggio ma nega di essere quello che è il linguaggio stesso. Heidegger ha torto perché non c'è dunque nessun linguaggio privilegiato; quello poetico è equivalente a quello filosofico-concettuale anche se è più vivo e meno preciso. In tutti e due i casi non si può dire che il linguaggio ti faccia pervenire alla verità e nemmeno che nel linguaggio ci sia il darsi delle verità e dell'essere; ci sono solo tracce della verità, c'è la "differance" dell'essere nelle tracce di sé. Si sa ciò che il linguaggio dice, ma la verità, l'essere è il non detto del linguaggio. L'essere non si destina all'uomo nel linguaggio, ma si "differanza" nel linguaggio, e ciò di cui il linguaggio è traccia; e solo traccia, traccia non è "niente", come dice lo strutturalismo, ma non è nemmeno la cosa, l'Essere, la presenza. Ma cosa esiste allora? Esiste il parlare, il creare rapporti tra gli uomini ed il comunicare con il sistema delle comunicazioni; questo parlare però non contiene l'Essere, solo le sue tracce. La grammatica del testo scritto è il luogo dove si aliena l'Essere: non la voce in cui è meno evidente il "farsi differanza" dell'Essere: ma la grafia, il segno scritto, la scrittura, dove "questo farsi altro è più evidente". Derrida usa il termine "differance" perché privilegia la scrittura sulla parola e soltanto scrivendo questa parola si riesce a capire il suo significato. La verità, l'essere non è nel testo scritto ma è tra le righe, nell'interlinea del testo scritto, nel non detto del testo scritto di cui il testo è la traccia. Forse, dice Derrida con un altro paragone, noi abbiamo non l'Essere, ma il suo "simulacro", una statua dell'essere , una parvenza dell'essere. In questa situazione, il lavoro del filosofo è far capire che esiste questo "qualcosa" che è "fra le righe" del testo, capire che è "differance" non "identità", che è traccia dell'Essere e non presenza. La nostra filosofia è sempre stata una metafisica della presenza la quale ha ordinato gerarchicamente le coppie di opposizioni dei diversi concetti di tipo centrale, dove il secondo termine rappresenta una derivazione negativa od un aspetto secondario od impuro del primo. La presenza struttura il nostro modo di vedere e di pensare ma quando essa entra a far parte di articolazioni logiche e temporali più complesse, perde la sua autorità. Per dimostrare ciò Derrida si serve del paradosso di Zenone di Elea sull'impossibilità del movimento. Secondo tale paradosso una freccia, negli infiniti istanti in cui si può scomporre il tempo del suo movimento sarebbe ferma. In questo caso la presenza del movimento non è presente in nessun momento della presenza della freccia che è tuttavia realmente in movimento. Per cui la presenza del movimento si produce solo nella misura in cui ogni istante è già segnato dalle tracce del futuro e del passato; il movimento può essere presente solo se l'istante presente è un prodotto dei rapporti tra passato e futuro. Se deve essere presente il movimento, la presenza deve essere già segnata dalla differenza e dal differimento, dobbiamo pensare il tempo come differenza, differenziamento e come differimento, presenza e presente sono un effetto di differenze. Decostruendo quindi l'opposizione presenza/assenza, si può esprimere la presenza in termini di assenza differente e differita. In un sistema linguistico, in ogni parola il significato sussiste in ragione della sua relativa diversità rispetto ad un'altra parola e tale differenza è rilevabile nelle tracce (vocali, desinenze, consonanti) dei vari termini da cui è necessario che la parola sia distinta per poterle attribuire un significato preciso. Si ha così quella concatenazione al rinvio, praticamente infinita la quale fa sì che ogni elemento, fonema o grafema, si costituisca a partire dalla traccia presente in esso degli altri elementi della catena o del sistema; questa concatenazione è il testo che non si produce se non nella trasformazione di un altro testo. Niente non è mai, in nessun luogo semplicemente presente od assente, ovunque e sempre ci sono solo differenze e tracce.

DECOSTRUIRE

Il compito del filosofo sarà allora quello di decostruire i testi , cioè smontarli, metterli in crisi, contraddirli. Chi compie quest'opera permette al lettore di capire che in esso non c'è l'essere, ma l'essere è oltre il testo, che nel testo ci sono solo le sue tracce. In questo modo il filosofo giunge, attraverso il suo lavoro di decostruzione, anche a forme di potere che stanno sotto a certi discorsi fatti passare per veri. Decostruire un discorso, glossarlo, scrivere nei suoi margini un commento che lo demolisce, farne la "parodia" è mettere in crisi la sua pretesa di essere luogo della verità e nello stesso tempo smascherare chi usa questo testo per il suo potere: questo è per Derrida fare filosofia. In questo modo si capisce che il vero modo in cui si aderisce alla verità è quello del colpo di dadi ; quello in cui a caso scegli la tua opinione, decidi che in quel testo c'è l'essere (la verità): ma così facendo conferisci a quel testo un valore di verità che esso non ha. Il colpo di dadi, la decisione senza motivo, avviene perché non si è perfettamente coscienti che la verità è nello "spazio vuoto" che è in mezzo a "indecidibili opposti". E' così o cosà? Dentro o fuori? Prima o dopo? La risposta è né l'uno né l'altro, ma lo spazio che è tra l'uno e l'altro, la "sbarra" che divide l'opposizione (quando scrivo dentro/fuori metto tra la parola "dentro" e la parola "fuori" una "sbarra" trasversale: la risposta è in "quella sbarra"), l'interlinea, l'indecidibile, il qualcosa che non sopporta la decisione. Derrida cerca una via media tra nichilismo e ontologia, fra strutturalismo e metafisica della presenza e lo fa nella direzione della decostruzione del discorso basato sul testo scritto. E' in fondo una forma di apofatismo , posizione per cui la verità non può essere detta. Forse la verità si coglie ma non si può dire (già Gorgia ipotizzava che se anche l'essere potesse essere colto, non sarebbe comunicabile). E' una forma di scetticismo, seppure molto raffinato. In sintesi, dunque, per Derrida, questa strada è percorribile non costruendo nuove teorie, incentrate sulla violenza del logos che pretende di essere cogente e definitivo, ma adottando una diversa strategia di lettura dei testi, che egli chiama decostruzione e che ha avuto notevole influenza anche sulla critica letteraria, soprattutto nordamericana. Derida non definisce né analizza articolatamente che cosa significhi decostruzione, ma lo mostra in atto nelle letture a cui sottopone testi della tradizione filosofica o letteraria. In generale, si può dire che la decostruzione è l'atto di compiere il processo inverso rispetto a quello che ha condotto alla costruzione del testo, smontandolo e rovesciandone le gerarchie di significato, che la metafisica della presenza tende a privilegiare, trattando le opere di filosofia come opere di letteratura e viceversa, giocando sulle opposizioni, sui rimandi, sulle somiglianze casuali, su ciò che sta ai margini nel testo, in modo da sottrarsi al desiderio della definitezza. La decostruzione, più che una pratica teorizzabile e ripetibile, è qualcosa di simile all'esecuzione artistica. Attraverso la decostruzione è possibile, secondo Derrida, che si aprano varchi attraverso i quali intravedere ciò che viene dopo il compimento della nostra epoca, ossia al di là dell'epoca della metafisica. Conosciamo la realtà ma ciò che è possibile lo conosciamo appena; l'ambito del possibile è quasi illimitato, quello del reale è molto limitato perché di tutte le possibilità è sempre una soltanto quella che si può trasformare in realtà.

POLITICHE DELL'AMICIZIA

Viviamo in un'epoca che non ama i confini. Destra e sinistra, conservatori e progressisti: le grandi opposizioni lasciano il posto a una conflittualità che ha smarrito le coordinate dell'antagonismo, ma non per questo risulta meno feroce. La confusione di ruoli e identità alimenta un odio tanto più accanito quanto meno fondato su opzioni ideologiche; e nelle molte voci che condannano consociativismi e trasformismi si avverte la nostalgia per una sana iniziativa. I teorici della democrazia sembrano dunque garantire le profezie di Carl Schmitt, il più antidemocratico dei filosofi della politica: meno c'è politica più ce n'è, meno ci sono nemici più ce n'è. Ma perché la coppia concettuale amico-nemico sarebbe inevitabilmente intrecciata? Derrida affronta il problema nel suo libro "Politiche dell'amicizia", un'opera che al corpo a corpo con Schmitt dedica tre capitoli, ma che prende le mosse da un detto di Aristotele: "o miei amici, non c'è nessun amico". Detto controverso, in quanto attribuito ad Aristolete da Diogene Laerzio, il quale attinge a fonti indirette. Accantonando i dubbi, Derrida assume la citazione a emblema del paradosso che insidia il tema dell'amicizia. A un primo esame il lamento aristotelico suona: chi ha troppi amici non ha nessun vero amico, l'amicizia è un bene raro, non si ha mai più d'un vero amico. Ma poi, fa notare Derrida, lo stesso Aristotele moltiplica il numero, affermando che l'arte della politica consiste nel creare quanta più amicizia possibile. Inseguendo questo enigma numerico attraverso la storia del pensiero, Derrida dimostra che esso trae origine da un'idea di comunità politica che ha assunto costantemente i tratti della fraternità; il politico slitta verso una configurazione "familiare" fondata su un tacito presupposto "naturalista": famiglia, Stato, nazione, sono intrecciati nel nodo della nascita, del mito della terra e del sangue. Per scavare negli effetti di questo "paradigma fraterno", Derrida rilancia il grido di Nietzsche in "Umano, troppo umano", "nemici, non ci sono nemici" l'invito nietzschiano a sbarazzarsi del "cattivo gusto di voler andare d'accordo con molti" è lo spunto che gli consente di approfondire la critica di Schmitt alla fraternità democratica: l'amicizia fraterna esiste solo come sospensione della virtualità sempre presente dell'assassino; la guerra è il presupposto ineludibile della politica; l'eccezione fonda la regola. Ecco perché una certa sinistra si è innamorata dell'ultra-conservatore Schmitt; ecco perché le sue parole ci sembrano tanto attuali nel momento storico in cui le democrazie occidentali, senza più nemico, invece di avanzare verso la pace, sprofondano nella violenza di un'ostilità non più regolata dalle regole della guerra. E' possibile andare oltre la cruda verità della coppia amico-nemico? La risposta di Derrida è un "forse" che ricorre in tutto il libro come annuncio di una " democrazia a venire ", capace di proiettarsi oltre il principio di fraternità, di accettare la spoliticizzazione senza sprofondare nel conflitto senza regole: "è possibile pensare e mettere in pratica la democrazia, sradicandovi quel che tutte queste figure dell'amicizia (filosofica e religiosa) vi prescrivono di fraternità?". La risposta è ancora un "forse" che rinvia alla speranza che un giorno sia possibile salvare libertà e uguaglianza dall'abbraccio mortale della fraternità. Speranza in una democrazia che non solo resterà indefinitamente perfettibile, dunque sempre insufficiente e futura, ma, appartenendo al tempo della promessa, resterà sempre, in ciascuno dei suoi tempi futuri, "a venire".

XENOS

Durante un seminario svoltosi nel 1996, Derrida affronta il tema dello Straniero e dell'Ospitalità, e lo fa mostrandoci come nei dialoghi di Platone proprio la "figura dello straniero" (Xenos) sia quella che porta con sé e pone le domande fondamentali. In primo luogo, nel Sofista è proprio lo Straniero di Elea a porre la questione parricida che contesta la tesi ontologica di Parmenide, il logos del padre Parmenide: l'essere è, il non-essere non è. In secondo luogo, nell'Apologia di Socrate il ruolo dello straniero è rappresentato dallo stesso Socrate che, di fronte all'assemblea destinata a giudicarlo, dichiara di essere privo, estraneo, alla logica e al linguaggio retorici, e di essere come uno straniero. Ora, spiega Derrida, il primo problema è quello della lingua: "l'impossibilità di comunicare e di poter interagire con norme imposte dallo Stato, dal potere". E qui comincia la reale questione dell'ospitalità: davvero è sufficiente che lo straniero parli la nostra lingua e si muova nelle nostre categorie per comprenderlo, accoglierlo e dargli ospitalità? Il secondo punto riguarda l'effettiva difesa di Socrate, che, di fronte alla prospettiva di essere condannato a morte, prega gli Ateniesi di considerarlo come se fosse davvero uno straniero, sia per l'età, sia per l'unica lingua che egli conosce: quella della filosofia e quella del popolo. "Socrate: dunque è semplice, mi sento spaesato nel linguaggio in uso qui. Come se, nella realtà, fossi uomo di un altro paese: penso che avreste indulgenza se mi esprimessi con l'accento e nel dialetto, nei giri di frase del mio ambiente nativo". Oggi sappiamo grazie a numerosi studi che allo straniero giunto ad Atene si attribuivano precisi diritti e doveri che venivano automaticamente estesi anche alla sua stirpe. Ma, allora, come intendere autenticamente lo Straniero? L'accoglienza di qualcuno che dapprima appare come assolutamente Altro e Sconosciuto in realtà implica un obbligo di uniformazione: il diritto all'ospitalità impegna un gruppo etnico che accoglie un altro gruppo etnico "chiamandolo per nome e riconoscendone l'identità, accogliendolo in famiglia". Si tratta di ospitalità di diritto. Ciò che d'impatto può apparire ospitalità senza limiti (chiunque giunga ad Atene viene accolto), in realtà impedisce l'autentica ospitalità: senza riconoscimento e identità nominale, essa infatti non è possibile. L'ospitalità assoluta esige apertura e offerta a chiunque, e più precisamente, come afferma Derrida, "all'altro assoluto, sconosciuto, anonimo, e che gli dia luogo, che lo lasci venire, che lo lasci arrivare e aver luogo nel luogo che gli offro, senza chiedergli né reciprocità (assumere doveri per avere diritti) né il nome". Tornando a Socrate, lo Straniero che il filosofo auspica di essere è qualcuno da cui si pretende identità per essere riconosciuto: gli si chiede quindi il nome. Ma, allora, l'ospitalità consiste nell'interrogare chi arriva? La domanda può apparire molto umana, esprimere un autentico interesse: chi sei? come ti chiami? Oppure la vera ospitalità accoglie senza domande, viene offerta ad un soggetto non identificabile, si dona? È soprattutto nella cultura che questo dilemma appare nella sua complessità, quando cioè un singolo uomo sfugge momentaneamente alla propria identità nominale per diventare testimone di un popolo proveniente da tradizioni contemporanee e al tempo stesso ataviche. Fino a che punto è lecito forzare la comprensione di una cultura "Altra"? Fino a che punto le domande desiderano dischiudere autenticamente una cultura e non assimilarla nelle proprie categorie per trarne spunti di rapido consumo? La risposta è nell'individuo che, di fronte a etnie e culture diverse si ritrova ad essere egli stesso Altro e Diverso, e quindi nella propria volontà non di ri-conoscere, ma di conoscere e di farsi conoscere, nell'integrità e nel rispetto che ogni essere umano e quello che porta con sé merita.

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