JACQUES DERRIDA
A cura di Diego Fusaro
DIFFERENZA, TRACCIA E
SUPPLEMENTO
Nell'analisi
genealogica della filosofìa socratico-platonica, condotta in "La farmacia di
Platone", Derrida mostra un'attitudine tipicamente nietzscheana. Ma l'emergenza
del tema della scrittura sposta l'attenzione verso un ambito tematico più
propriamente psicoanalitico: la messa in luce di uno schema familiare, al fondo
della cosiddetta metafisica della presenza - schema in cui il logos occupa la
posizione del padre - si avvale di tutto un armamentario interpretativo in cui
concetti psicoanalitici come "rimozione", "castrazione", "sublimazione",
"pulsione di morte", "coazione" ecc. giocano un ruolo di primo piano. L'analisi
stessa del testo è condotta come un tentativo di individuazione di atti mancati,
lapsus, mascheramenti, sintomi e brecce che la decostruzione sfrutta per
inserirsi in sistemi che a prima vista - diremmo, nei loro "meccanismi di
difesa" - appaiono solidi e inattaccabili. Di questa deriva psicoanalitica
Derrida aveva dato una chiara anticipazione già in "La voce e il fenomeno",
scrivendo: " ed è proprio intorno al privilegio dell'adesso, dall'adesso, che
si svolge, in ultima istanza, questo dibattito, che non può somigliare a nessun
altro, tra la filosofia, che è sempre filosofia della presenza, e un pensiero
della non-presenza, che non è forzatamente il suo contrario, né necessariamente
una meditazione dell'assenza negativa, anzi, una teoria della non-presenza come
inconscio " ("La voce e il fenomeno"). Questa teoria della non-presenza è
riassunta nel concetto di "traccia". La traccia (e qui Derrida riprende la
definizione di Emmanuel Lévinas) è " un passato che non è mai stato
presente ", cioè la dimensione di un'alterità che non si è mai presentata ne
potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione
psicoanalitica di inconscio: " con l'alterità dell'"inconscio" abbiamo a che
fare non con degli orizzonti di presenti modificati - passati o a venire - ma
con un "passato" che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui
"avvenire" non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della
presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di
ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare
la traccia - e dunque la différance - a partire dal presente, o dalla presenza
del presente " ("La diffèrance"). Come la nozione freudiana di inconscio, il
concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che
costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o
rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni: " e per
descriverle, per leggere le tracce delle tracce "inconsce" (non c'è traccia
"cosciente"), il linguaggio della presenza o dell'assenza, il discorso
metafisico della fenomenologia è inadeguato ". Ed è infatti proprio questo
l'esito principale consentito dalla nozione di traccia: quello di far intendere
l'ordine del senso - della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema
concettuale da esse regolato, cioè l'insieme stesso della metafisica - come un
ordine supplementare, radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale
metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che
l'impresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o
rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia "originaria", la
sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo
famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in "La
scrittura e la differenza", è la traccia "visibile" dell'inconscio. Questa
"logica del supplemento" è ovviamente impensabile all'interno della logica
("Della grammatologia"): il supplemento supplisce una mancanza, una
non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non
preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa "appare". " Il
supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un
non-rappresentato, di una non-presenza. Non c'è nessun presente prima di esso, è
quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento
è sempre il supplemento di un supplemento ". Una tale "logica del
supplemento" o della traccia (supplementarità originaria) è quindi il "concetto
fondamentale" di una nuova scienza (se essa fosse possibile), che Derrida chiama
"grammatologia": la grammatologia fa dell'essere dell'ontologia - di "ciò che
c'è" - la traccia di ciò che "non c'è", che non si presenta ne può mai
presentarsi; la grammatologia costituisce in breve l'introduzione, all'interno
dell'ontologia da sempre dominata dal principio di identità, di una
differenzialità originaria, di uno scarto, di una cesura, che Derrida riassume
nella nozione di différance. Una comprensione della nozione derridiana di
différance - argomento di una famosa conferenza tenuta il 27 gennaio 1968 e poi
compresa in "Margini" - non può che partire dal suo statuto di "scrittura", dal
modo in cui la parola stessa viene scritta, prima e piuttosto che dal suo
contenuto "concettuale": la sua "concettualità" è anzi tutta nella sua
scritturalità. La différance è innanzitutto quel "lavoro" silenzioso che la
scrittura opera al di là di ogni possibile concettualizzazione. Il termine
francese usato da Derrida è volutamente scritto con la "o" anziché con la -e-,
come sarebbe la sua forma corretta (différencè). Questa "violenza grafica" non
ha conseguenze fonetiche percepibili, e perciò intelligibili: con ciò Derrida
intende segnare uno scarto dal fonologocentrismo, ovvero dal privilegio del
logos nel sistema concettuale dell'Occidente, di cui è diretta conseguenza - o
addirittura causa - l'uso della scrittura fonetica. Privilegio del logos
significa: a) privilegio del concettuale, del soprasensibile; b) solidarietà
sistematica tra il concettuale (lo spirituale) e il fonetico (la voce, l'ascolto
ecc.); e) centralità della coscienza nella fondazione della verità in quanto
garante della prossimità tra il significante e il significato; d) condanna della
scrittura in quanto possibilità di sviamento dalla verità, perché svincolata o
pur sempre svincolabile dalla presenza di una coscienza; e) concezione della
verità come rapporto a un'origine riattivabile; f) determinazione di questa
origine come "presenza". Con il suo lavoro "silenzioso", la différance segna uno
scarto rispetto a tutti questi punti, non però nella forma di una "opposizione",
bensì di un'alterità eccentrica rispetto al sistema oppositivo su cui si regola
il logocentrismo. Questa eccentricità, è quella di un alterità non riconducibile
all'identità, o meglio di un "luogo" altro come può essere l'inconscio o la
"materia". Si tratta di una collocazione che Derrida definisce a come "la voce
media" (né...né...), e che nella parola stessa différance è espressa dalla
terminazione -ance, propria di parole che, formate sul participio presente,
restano sospese tra l'attivo e il passivo. Ma insieme al suo senso grammaticale,
è il senso logico della terminazione media che qui importa: essa corrisponde
alla forma indecidibile del "né...né... ", del tertium datur con cui e
scardinata la razionalità metafìsica, fondata sui princìpi di non contraddizione
e del terzo escluso. L'indecidibile è la "logica" stessa del decostruzionismo,
un' alogica che anziché scegliere tra due elementi opposti, appartenenti, per la
loro stessa solidarietà sistematica, a un medesimo ordine concettuale, tende a
farli collidere o a intrecciarli in maniera chiasmatica: il chiasma è la "x",
figura dell'incognita e della barratura dell'indecidibile. Da questo punto di
vista la decostruzione è atetica, non approda cioè a nessuna tesi. La
decostruzione della metafisica della presenza non può essere più radicale: non
potendosi esprimere nella forma del discorso letico e apofantico "S è P" la
decostruzione, attraverso l'indecidibile, si richiama a forme di discorso
tradizione mente non apofantiche: quelle, come vedremo, dell'invocazione, del
giuramento dell'invito, del ringraziamento, del perdono e finanche della
preghiera Nella sua medietà, la provenienza terminologica dal participio del
verbo différer allude al doppio significato, a un tempo sincronico e diacronico,
di différance: 1) sincronico: la différance è da questo punto di vista una
radicalizzazione (e perciò anche una decostruzione) di quel gioco sincronico
delle differenze in cui lo strutturalismo saussuriano faceva consistere il
significato. " Nella lingua non ci sono termini positivi, ma solo
differenze ", scriveva Saussure: è dal rapporto sincronico tra i vari
termini, nel loro gioco differenziale, che si genera l'identità di un
significato (è noto esemplo di Saussure della lettera "t", che può essere
scritta in mille modi diversi ma l'importante è che "non si confonda", cioè si
differenzi dalle altre lettere)- 2) diacronico-, la différance indica il
movimento di "differimento" temporale (ritardo o anticipazione) che disloca
continuamente l'origine in un altrove, in un luogo e in un tempo "altri". Anche
qui abbiamo a che fare con una radicalizzazione, quella della "differenza
ontologica" heideggeriana, che si risolve iperbolicamente, e dunque
paradossalmente, nella sua cancellazione: il senso ultimo (il significato
trascendentale) non è "riappropriabile", la differenza resta "assoluta", e
perciò cancellata (Derrida si richiama al proposito al concetto hegeliano di
"differenza", nella "Scienza della Logica"). Questo espacement (semento in sé
privo di significato, ma condizione del significato: Derrida ricorda la funzione
della spaziatura nella scrittura) indica quindi allo stesso tempo un
differimento temporale e spaziale: ciò che è percepibile, intelligibile,
cosciente ecc. non e che traccia di questo movimento, traccia della différance.
In tal modo Derrida capovolge il sistema logocentrico, facendo del logos la
traccia di un'origine perduta e portando m primo piano questo sistema di tracce
in quanto scrittura. La scrittura è la traccia di un'origine assente,
differenzialità pura, traccia che ha cancellato la sua origine come la ricerca
della verità in Nietzsche, così la ricerca dell'origine giunge qui a un esito
nichilistico, quello di risolvere o dissolvere il fondamento nel gioco dei
rimandi senza termine ultimo. E, questa, quella nozione di "testualità generale"
cui il decostruzionismo di Derrida è approdato e che ha avuto ampi sviluppi
soprattutto in sede di critica letteraria.
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