" Non vi sarebbe alcun nome unico, foss'anche il nome dell'essere. Ed occorre pensarlo senza nostalgia, cioè fuori dal mito della lingua puramente materna o puramente paterna, della patria perduta del pensiero. Occorre al contrario affermarlo, nel senso in cui Nietzsche mette l'affermazione in gioco, con un certo riso e con un certo passo di danza " ("La différance").
L'elisione del significato trascendentale è intesa come rapporto con un
nulla: e se "non c'è nulla fuori del testo" ad arrestare il rinvio, il testo non
è che una deriva di sensi, vale a dire disseminazione. Il vocabolo
"disseminazione" è assunto da Derrida mettendo consapevolmente in comunicazione
due termini tra cui non c'è etimologicamente alcuna parentela: "sema" e "semen".
Ma proprio questo "slittamento" e questa "collusione puramente esteriore",
questa esplicita "devianza dal voler-dire", fanno del termine "disseminazione"
una parola particolarmente adatta a significare quella dispersione del senso
("sema") che, come nel caso della semente ("semen"), è sempre inscritta in ogni
aspettativa di fruttificazione. La disseminazione non è quindi la polisemia:
mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile
(diremmo: ubbidisce a un qualche "principio di realtà"), la disseminazione non è
mai riconducibile all'ordine, si abbandona a un "principio di piacere"
dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di
morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione
configura il testo (e qui la differenza tra "linguaggio" o "scrittura" e
"realtà" viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni,
formazioni "mostruose", che costituiscono una contestazione quanto mai radicale
di due assunti della razionalità metafisica: 1) quello dell'identità e
dell'identificazione, della possibilità di "definire", operazione rassicurante
che tende a difendere dall'alterità, a rimuoverla. In "Spettri di Marx" Derrida
assimila la stessa ontologia al bisogno di identificazione (a tutti i livelli,
da quello logico a quello politico), di purezza contro ogni forma di
contaminazione, come difesa dall'evenienza dell'altro, il che si configura come
un lavoro del lutto mai finito, e in particolare come difesa dalla sua
possibilità di ritorno. L'identità si costituisce a prezzo di un'esclusione. Si
tratta di un orizzonte - quello di una "ontologia" del fantasma (in francese
"revenant") - che Derrida chiama hantologie , termine formato sul
francese "hanter", che significa principalmente "ossessionare" (una casa "hantée
par les fantomes" è una casa abitata dai fantasmi): la hantologie non è altro
che la stessa grammatologia. Si capisce bene come, lungi dall'essere
"rassicurante", una tale hantologie sia invece inevitabilmente perturbante: il
riferimento al saggio di Freud "Il perturbante" - in cui Freud analizza quel
particolare fenomeno per cui in una situazione familiare si prova
improvvisamente e inspiegabilmente una sensazione di "estraneità" e che ha molto
a che fare con l'ossessione fantasmatica - è in Derrida esplicito; 2) quello
della "linearità del significante, principio fondamentale dello strutturalismo,
con cui viene sancito il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e
una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di
istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari
livelli e in più direzioni (possibilità che Derrida riscontra ad esempio nella
scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un
centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone. Si tratta di
una concezione che, nella sua forma radicale - spesso praticata da Derrida come
possibilità di leggere un testo in più modi diversi (sempre in "Spettri di
Marx", la non identificabilità ultima del senso fa sì che esso sia sempre più
d'uno) - ha portato a una deriva interpretativa non priva di problematicità. I
presupposti strutturalisti - antifenomenologici e antiermeneutici - di questo
discorso sono chiari: lo strutturalismo ha inteso il processo di significazione
come funzione del sistema, e quindi come indipendente dall'intenzionalità di un
soggetto o di una "coscienza", come un processo impersonale e quasi meccanico.
La testualità generale come disseminazione è quindi il risultato di una doppia
breccia che la decostruzione opera nella tradizione filosofica: contro l'idea
fenomenologico-ermeneutica della coscienza come luogo in cui il senso trova il
suo aggancio, o la sua possibilità di riattivazione, al di là di ogni possibile
perdita (e ciò, abbiamo visto, è conseguenza della critica derridiana al
logocentrismo), e contro l'idea strutturalista che fa del sistema un principio
ordinatore in cui la differenzialità è allo stesso tempo comunque condizione di
identificazione (di definizione, di istituzione di un limite), conseguenza,
questa, dell'inserimento nelle nervature apollinee dello strutturalismo di una
forza dionisiaca allergica a qualsiasi forma. Alcune affermazioni di Derrida
consentono però di circoscrivere la deriva interpretativa della decostruzione:
come scrive ad esempio in "Firma evento contesto", " in questa tipologia, la
categoria di intenzione non scomparirà, essa avrà il suo posto, ma da questo
posto, essa non potrà più comandare tutta la scena e tutto il sistema
dell'enunciazione ". Non si tratterebbe dunque tanto della semplice
eliminazione di un termine o di una funzione che nella storia della metafisica
ha giocato un ruolo fondamentale (anzi Derrida mette in guardia contro il
carattere semplicistico di una tale operazione), ma di negare ad esso una tale
fondamentalità, un ruolo egemonico, trascendentale, vale a dire astorico. Se il
conflitto fra Dioniso e Apollo non può essere risolto attraverso un rapporto di
subordinazione o di rimozione è perché esso è la storia stessa, e cioè, m un
senso paradossale perché ossimorico, la condizione trascendentale della storia:
" la divergenza, la differenza tra Dioniso e Apollo, tra lo slancio e la
struttura non si cancella nella storia, poiché essa non è nella storia. È
anch'essa, in un senso insolito, una struttura originaria: l'apertura della
storia, la storicità stessa " ("Forza e significazione"). Questo passaggio
ci permette alfine di individuare il punto in cui il gioco differenziale, il
tessuto di rinvii che caratterizza la testualità generale, assume una
connotazione storica, riportando in primo piano il senso temporale della nozione
di différance. La storia è una rete di rinvii, di invii, di destinazioni (è
evidente la risonanza dell'associazione heideggeriana tra Geschickte, storia, e
Geschick, invio o destino), ma, conformemente al carattere non unitario, ma
ibrido, frutto di una serie di innesti senza corpo principale, della testualità
generale, in tale concezione della storia non è possibile ravvisare alcun
"telos" fondamentale, alcun destino (come la heideggeriana "storia
dell'essere"), concezione che sottolinea una volta di più uno dei caratteri più
marcatamente postmoderni della filosofia di Derrida: " se la posta (tecnica,
posizione, metafisica) si annuncia al 'primo invio', allora non vi è più LA
metafisica ecc. [...] e nemmeno L'invio, ma degli invii senza destinazione.
Poiché ordinare le diverse epoche, soste, determinazioni, insomma tutta la
storia dell'essere, a una destinazione dell'essere, è forse l'illusione postale
più inaudita. Non c'è nemmeno la posta o l'invio, ci sono le poste e gli invii.
[…] In breve, non appena vi è, vi è différance [...]; e vi è ordinamento
postale, relais, ritardo, anticipazione, destinazione, dispositivo
telecomunicante, possibilità e quindi necessità fatale di dirottamento ecc.
" ("Envois"). Questa concezione della storia rappresenta una sorta di
iperbolizzazione delle due assenze strutturali della scrittura: assenza del
destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente). La storia è
davvero quel testo generale il cui senso non è mai definitivamente dipendente da
una coscienza, poiché una coscienza non può mai dominarla: se la scrittura ha
una dimensione imprescindibilmente testamentaria, è perché nessuna coscienza
vivente le può mai sopravvivere, salvaguardandone il senso, secondo una pretesa
che, come abbiamo visto, appare piuttosto come un tentativo di rimozione e che
agiva nella condanna socratico-platonica, e idealistica in generale, della
scrittura.