JACQUES DERRIDA

A cura di Diego Fusaro



LA TESTUALITA' GENERALE

Concepito come un insieme di sostituzioni e di rinvii per i quali non è possibile alcun approdo ad una presenzialità ultimativa (un fondamento o un'origine che non siano a loro volta presi nel gioco differenziale), cioè come scrittura, il testo della metafisica assume i caratteri di ciò che Derrida chiama "testualità generale". La testualità generale è la conseguenza, in sede linguistico-semantica, dell'affermazione nietzscheana della "morte di Dio": essa comporta la cancellazione del significato e del significante trascendentali (come ancora per l'ermeneutica del primo Heidegger poteva essere l'essere), il loro "sprofondamento" ("mise-en-abìmè") o la loro "messa in disparte" ("mise a l'écart"), cancellazione che Derrida accompagna con un atteggiamento che ricorda non a caso quello del nichilismo compiuto e dell'oblio attivo:

" Non vi sarebbe alcun nome unico, foss'anche il nome dell'essere. Ed occorre pensarlo senza nostalgia, cioè fuori dal mito della lingua puramente materna o puramente paterna, della patria perduta del pensiero. Occorre al contrario affermarlo, nel senso in cui Nietzsche mette l'affermazione in gioco, con un certo riso e con un certo passo di danza " ("La différance").

L'elisione del significato trascendentale è intesa come rapporto con un nulla: e se "non c'è nulla fuori del testo" ad arrestare il rinvio, il testo non è che una deriva di sensi, vale a dire disseminazione. Il vocabolo "disseminazione" è assunto da Derrida mettendo consapevolmente in comunicazione due termini tra cui non c'è etimologicamente alcuna parentela: "sema" e "semen". Ma proprio questo "slittamento" e questa "collusione puramente esteriore", questa esplicita "devianza dal voler-dire", fanno del termine "disseminazione" una parola particolarmente adatta a significare quella dispersione del senso ("sema") che, come nel caso della semente ("semen"), è sempre inscritta in ogni aspettativa di fruttificazione. La disseminazione non è quindi la polisemia: mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche "principio di realtà"), la disseminazione non è mai riconducibile all'ordine, si abbandona a un "principio di piacere" dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra "linguaggio" o "scrittura" e "realtà" viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni "mostruose", che costituiscono una contestazione quanto mai radicale di due assunti della razionalità metafisica: 1) quello dell'identità e dell'identificazione, della possibilità di "definire", operazione rassicurante che tende a difendere dall'alterità, a rimuoverla. In "Spettri di Marx" Derrida assimila la stessa ontologia al bisogno di identificazione (a tutti i livelli, da quello logico a quello politico), di purezza contro ogni forma di contaminazione, come difesa dall'evenienza dell'altro, il che si configura come un lavoro del lutto mai finito, e in particolare come difesa dalla sua possibilità di ritorno. L'identità si costituisce a prezzo di un'esclusione. Si tratta di un orizzonte - quello di una "ontologia" del fantasma (in francese "revenant") - che Derrida chiama hantologie , termine formato sul francese "hanter", che significa principalmente "ossessionare" (una casa "hantée par les fantomes" è una casa abitata dai fantasmi): la hantologie non è altro che la stessa grammatologia. Si capisce bene come, lungi dall'essere "rassicurante", una tale hantologie sia invece inevitabilmente perturbante: il riferimento al saggio di Freud "Il perturbante" - in cui Freud analizza quel particolare fenomeno per cui in una situazione familiare si prova improvvisamente e inspiegabilmente una sensazione di "estraneità" e che ha molto a che fare con l'ossessione fantasmatica - è in Derrida esplicito; 2) quello della "linearità del significante, principio fondamentale dello strutturalismo, con cui viene sancito il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in più direzioni (possibilità che Derrida riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone. Si tratta di una concezione che, nella sua forma radicale - spesso praticata da Derrida come possibilità di leggere un testo in più modi diversi (sempre in "Spettri di Marx", la non identificabilità ultima del senso fa sì che esso sia sempre più d'uno) - ha portato a una deriva interpretativa non priva di problematicità. I presupposti strutturalisti - antifenomenologici e antiermeneutici - di questo discorso sono chiari: lo strutturalismo ha inteso il processo di significazione come funzione del sistema, e quindi come indipendente dall'intenzionalità di un soggetto o di una "coscienza", come un processo impersonale e quasi meccanico. La testualità generale come disseminazione è quindi il risultato di una doppia breccia che la decostruzione opera nella tradizione filosofica: contro l'idea fenomenologico-ermeneutica della coscienza come luogo in cui il senso trova il suo aggancio, o la sua possibilità di riattivazione, al di là di ogni possibile perdita (e ciò, abbiamo visto, è conseguenza della critica derridiana al logocentrismo), e contro l'idea strutturalista che fa del sistema un principio ordinatore in cui la differenzialità è allo stesso tempo comunque condizione di identificazione (di definizione, di istituzione di un limite), conseguenza, questa, dell'inserimento nelle nervature apollinee dello strutturalismo di una forza dionisiaca allergica a qualsiasi forma. Alcune affermazioni di Derrida consentono però di circoscrivere la deriva interpretativa della decostruzione: come scrive ad esempio in "Firma evento contesto", " in questa tipologia, la categoria di intenzione non scomparirà, essa avrà il suo posto, ma da questo posto, essa non potrà più comandare tutta la scena e tutto il sistema dell'enunciazione ". Non si tratterebbe dunque tanto della semplice eliminazione di un termine o di una funzione che nella storia della metafisica ha giocato un ruolo fondamentale (anzi Derrida mette in guardia contro il carattere semplicistico di una tale operazione), ma di negare ad esso una tale fondamentalità, un ruolo egemonico, trascendentale, vale a dire astorico. Se il conflitto fra Dioniso e Apollo non può essere risolto attraverso un rapporto di subordinazione o di rimozione è perché esso è la storia stessa, e cioè, m un senso paradossale perché ossimorico, la condizione trascendentale della storia: " la divergenza, la differenza tra Dioniso e Apollo, tra lo slancio e la struttura non si cancella nella storia, poiché essa non è nella storia. È anch'essa, in un senso insolito, una struttura originaria: l'apertura della storia, la storicità stessa " ("Forza e significazione"). Questo passaggio ci permette alfine di individuare il punto in cui il gioco differenziale, il tessuto di rinvii che caratterizza la testualità generale, assume una connotazione storica, riportando in primo piano il senso temporale della nozione di différance. La storia è una rete di rinvii, di invii, di destinazioni (è evidente la risonanza dell'associazione heideggeriana tra Geschickte, storia, e Geschick, invio o destino), ma, conformemente al carattere non unitario, ma ibrido, frutto di una serie di innesti senza corpo principale, della testualità generale, in tale concezione della storia non è possibile ravvisare alcun "telos" fondamentale, alcun destino (come la heideggeriana "storia dell'essere"), concezione che sottolinea una volta di più uno dei caratteri più marcatamente postmoderni della filosofia di Derrida: " se la posta (tecnica, posizione, metafisica) si annuncia al 'primo invio', allora non vi è più LA metafisica ecc. [...] e nemmeno L'invio, ma degli invii senza destinazione. Poiché ordinare le diverse epoche, soste, determinazioni, insomma tutta la storia dell'essere, a una destinazione dell'essere, è forse l'illusione postale più inaudita. Non c'è nemmeno la posta o l'invio, ci sono le poste e gli invii. […] In breve, non appena vi è, vi è différance [...]; e vi è ordinamento postale, relais, ritardo, anticipazione, destinazione, dispositivo telecomunicante, possibilità e quindi necessità fatale di dirottamento ecc. " ("Envois"). Questa concezione della storia rappresenta una sorta di iperbolizzazione delle due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente). La storia è davvero quel testo generale il cui senso non è mai definitivamente dipendente da una coscienza, poiché una coscienza non può mai dominarla: se la scrittura ha una dimensione imprescindibilmente testamentaria, è perché nessuna coscienza vivente le può mai sopravvivere, salvaguardandone il senso, secondo una pretesa che, come abbiamo visto, appare piuttosto come un tentativo di rimozione e che agiva nella condanna socratico-platonica, e idealistica in generale, della scrittura.

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