"Du droit à la philosophie" è stato all'inizio il titolo di un seminario che ho tenuto a partire dal gennaio 1984 in una situazione istituzionale assai singolare. All'inizio dell'anno accademico ero ancora, per il ventesimo anno, "maitre-assistant" all'Ecole Normal Supérieure - e questo seminario si tenne presso l'Ecole sotto i suoi auspici ma anche sotto quelli del Collège Internationa de Philosophie che io, insieme con altri, avevo appena fondato il 10 ottobre 1983 e di cui, nello stesso giorno, ero stato eletto direttore. Sapevo già che successivamente avrei lasciato l'Ecole Normal Supérieure per l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove ero stato nominato "directeur d'études" (nella sezione Le istituzioni filosofiche). Non ho ancora potuto preparare per la pubblicazione i materiali predisposti per quel seminario. Nel corso di questa prefazione ne ricorderò soltanto i principali argomenti. In questa raccolta di testi ho conservato il titolo del seminario dell'84 e credo sia quindi opportuno riprodurre qui l'annuncio descrittivo del seminario che allora venne diffuso a cura del College International de Philosophie:
"Du droit à la philosophie (destiner, enseigner, instituer)"
La domanda, più ampia, circa la destinazione incrocerà quella sulla fondazione o sull'istituzione, in particolare sull'istituzione filosofica (scuola, disciplina, professione, e così via). Una simile istituzione è possibile? Per chi? Da parte di chi? Come? Chi decide? Chi legittima? Chi impone le proprie valutazioni? All'interno di quali condizioni storiche, sociali, politiche, tecniche? Al di là di una alternativa tra problematiche "interne" o "esterne", sarà posta in questione la costituzione dei limiti tra l'interno e l'esterno del testo detto "filosofico", i suoi modi di legittimazione e di istituzione. Saranno richiamati alcuni elementi della sociologia della conoscenza o della cultura, della storia della scienza e delle istituzioni pedagogiche, della politologia della ricerca: ma la di là della epistemologia di questi saperi, si comincerà col collocare la loro professionalizzazione e la loro trasformazione in discipline, la genealogia dei loro concetti operativi (per esempio "obiettivazione" "legittimazione", "potere simbolico", ecc.), la storia della loro assiomatica e gli effetti della loro appartenenza istituzionale.
In questo spazio davvero ampio, sotto il titolo "Du droit à la philosophie" sarà tracciato lo schizzo di due percorsi divergenti:
1. Studio del discorso giuridico che, senza occupare il primo posto sulla scena, fonda le istituzioni filosofiche. Quali sono i suoi rapporti con il campo storico, sociale e politico? con le strutture dello "Stato moderno"?
2. Studio delle condizioni di accesso alla filosofia, al discorso, all'insegnamento, alla ricerca, alla pubblicazione, alla "legittimità" filosofica. Chi ha diritto alla filosofia? Chi ne detiene il potere o il privilegio? Che cosa limita di fatto l'universalità dichiarata della filosofia? Come si decide che un pensiero o un enunciato sono classificabili come "filosofici"? Anche se questa rete di domande non si distingue da quella che chiamiamo la filosofia stessa (se qualcosa di simile esiste e ha la pretesa dell'unità), si possono tuttavia studiare in contesti determinati le modalità di determinazione del "filosofico", le divisioni che questo implica, i modi di accesso riservati all'esercizio della filosofia: le strutture d'insegnamento e di ricerca in cui la filosofia è dispensata come una disciplina, principale o complementare, gli ambienti extra-scolastici o extra-universitari, i "supporti" orali, quelli a stampa e così via. La questione del "supporto" (parola, libro, rivista, giornale, radio, televisione, cinema) non è puramente tecnica o formale. Riguarda il contenuto, la costituzione e i modi di formazione o di ricezione dei temi, degli enunciati, del corpus filosofico. Sono sempre gli stessi, dal momento che essi non sono più dati, dominati e accumulati, sotto forma di archivio librario, all'interno di istituzioni specializzate, sotto il controllo di persone o di comunità di "guardiani" autorizzati e, si suppone, competenti? Si partirà dai numerosi segni di mutamento osservabili almeno a partire dal XIX secolo, in modo più accelerato negli ultimi vent'anni.
Filo conduttore per questo approccio preliminare: l'esempio del Collège Internazionale de Philosophie. E' una nuova "istituzione filosofica"? Sono possibili molteplici interpretazioni sulla sua origine, sulle sue condizioni di possibilità, di destinazione".
Titolo, capitolo, avvio del capitolo, ciò che è posto all'inizio, che è fondamentale, capitale: le domande sul titolo saranno sempre domande legate all'autorità, al privilegio e al diritto, al diritto al privilegio, alla gerarchia o all'egemonia. Il titolo "Du droit à la philosophie" ("Del diritto alla filosofia") , ad esempio, ha nelle sue pieghe un capitale fatto di una molteplicità di possibili sensi, lì pronti per essere fatti valere. Si dovrebbe cominciare col decapitalizzarli. Bisognerebbe impiegare o spiegare questi significati. Ma questa forma, "Du droit à la philosophie", può qui restare ciò che è, nella sua sintesi, soltanto nella misura in cui essa rimane la forma propria di un titolo: da questo deriva la sua autorità, dunque il potere, il credito - il privilegio di cui gode - di non poter mai diventare una semplice frase ed essere spiegata. Il suo privilegio, appunto, che è proprio della sua unicità come della posizione che occupa, è di poter tacere in modo da far credere - a giusto titolo, è da supporsi - di aver molto da dire. Questo privilegio è sempre garantito da convenzioni, quelle che regolano l'uso dei titoli nella nostra società, che si tratti di titoli di opere o di titoli sociali. Ma quando si parla di opere, la libera scelta, la virtù singolare di ciascun titolo è un privilegio, se così si può dire, legale e autorizzato. Si riceve il titolo di dottore, ma, per diritto e per principio, si sceglie sovranamente il titolo di un discorso o di un proprio libro - titolo che lui solo porterà. Non appena con queste parole, "Du droit à la philosophie", si costruisce una frase, non appena la si espone, sicché l'equivoco comincia a sciogliersi, il potere del titolo comincia a dissolversi e la discussione ha inizio. Ed anche la democrazia, senza dubbio, ed in certo modo la filosofia stessa. Fin dove può andare questo movimento? La filosofia infatti, ed è questa la mia tesi, tiene al privilegio che espone. Essa sarà ciò che cerca di proteggere, dichiarandolo, con quest'ultimo o primo privilegio che consiste nell'esporre il privilegio che le è proprio alla minaccia o alla presentazione, talvolta al rischio della presentazione. Costruiamo delle frasi. Se io ad esempio dico, ed è il primo senso del mio titolo, "come si passa dal diritto alla filosofia?", viene introdotta una certa problematica. Si tratterà per esempio dei rapporti che permettono di passare dal pensiero, dalla disciplina o dalla pratica giuridica alla filosofia e alle questioni "quid juris" in cui da tanto tempo si dibatte. Con maggiore precisione si tratterà del rapporto che va dalle strutture giuridiche che sostengono, implicitamente o esplicitamente, le istituzioni filosofiche (insegnamento o ricerca) alla filosofia stessa, se qualche cosa di simile esiste al di fuori, prima o al di là di una istituzione. In questo primo senso il titolo "Du droit à la philosophie" annuncia un programma, una problematica e un contratto: si tratterà dei rapporti tra il diritto e la filosofia. Ogni contratto implica del resto una questione di diritto e un titolo è sempre un contratto. Che, nel caso unico della filosofia, questo contratto sia destinato a più di un paradosso, ebbene è proprio questo il nostro tema privilegiato, il privilegio come nostro tema. In questo primo senso della frase, una sola delle cinque parole, la lettera à, si fa carico di tutta la determinazione semantica. Il senso qui ruota sui differenti valori che può assumere una à. Infatti il rapporto del diritto con la filosofia è concepito come quello di una articolazione in generale: tra due domini, due campi, due strutture o due dispositivi istituzionali. Ma con la stessa determinazione semantica di à, con lo stesso valore di in rapporto a, un'altra frase può annunciare un altro programma - e un'altra problematica. Si può a buon titolo osservare, infatti, che per analizzare questi problemi (diritto istituzionale e istituzioni filosofiche di ricerca e di insegnamento), bisogna parlare del diritto ai filosofi, bisogna parlare del diritto alla filosofia. Bisogna richiamare le questioni del diritto, l'enorme continente della problematica giuridica di cui i filosofi in generale - e soprattutto in Francia - parlano troppo poco, anche se e senza dubbio perché il diritto parla tanto attraverso loro: bisogna parlare del diritto alla filosofia, bisogna parlare alla filosofia del diritto, far discorso alla filosofia e ai filosofi dell'immensa, vasta questione del diritto. La "à" esprime ancora una articolazione, ma questa volta in un altro senso, quello del discorso rivolto a qualcuno, della parola detta verso qualcuno: bisogna parlare del diritto alla filosofia. Ma tutto questo non esaurisce affatto il rapporto "du droit à la philosophie". Il sintagma francese "du droit à" può significare altre cose e portare ad un altro accesso semantico. Si dice "aver diritto a" per indicare l'accesso garantito per legge, il diritto di passaggio, il lasciar passare, lo Shibboleth, l'introduzione autorizzata. Chi ha diritto alla filosofia oggi, nella nostra società? A quale filosofia? A quali condizioni? In quale spazio privato o pubblico? Quali luoghi di insegnamento, di ricerca, di pubblicazione, di lettura, di discussione? Attraverso quali istanze e quali filtri di mediazione? Avere "diritto alla filosofia" significa avere un accesso legittimo o legale a qualche cosa la cui singolarità, identità e generalità resta tanto problematica che la si chiama con questo nome: la filosofia. Chi dunque può pretendere legittimamente alla filosofia? A pensare, dire, discutere, apprendere, insegnare, esporre, presentare o rappresentare la filosofia? Questo secondo valore di "à" (il rapporto non più come articolazione, ma come l'indirizzarsi verso) mette in luce un'altra possibilità. Ricapitolando, fin qui abbiamo tre frasi tipiche:
1. Qual rapporto lega il diritto alla filosofia?
2. Bisogna parlare del diritto alla filosofia - e dunque ai filosofi.
3. Chi ha diritto alla filosofia e a quali condizioni?
Se ora circoscriviamo il sintagma "diritto alla filosofia", cosa che permette di fare della parola diritto tanto un avverbio quanto un nome, noi generiamo o riconosciamo lo spazio di un'altra frase e dunque di un altro campo di domande: è possibile andare diritto alla filosofia? di recarvisi immediatamente, direttamente, senza passare per nient'altro? Questa possibilità o questo potere garantirebbe di colpo l'immediatezza, cioè l'universalità e la naturalità dell'esercizio della filosofia. E' questo che si vuol dire? E' davvero possibile, come credono alcuni, far filosofia di colpo, direttamente, immediatamente, senza la mediazione della formazione, dell'insegnamento, delle istituzioni filosofiche, senza neppure la mediazione dell'altro o della lingua, di questa o quella lingua? Presa così, tra virgolette, l'espressione "diritto alla filosofia" in cui la parola "diritto" è presa come avverbio, ci dà la matrice di una quarta frase, di un quarto tipo di frase, ma anche l'avvio di un'altra problematica, che finisce con l'arricchire e sovradeterminare le precedenti. Alcuni sono dunque impazienti di accedere-direttamente-alle-cose-stesse-e-senza-attendere-tendere-direttamente-verso-il-vero-contenuto-dei-problemi-urgenti-e-gravi-che-si-pongono-a-tutti-ecc. Queste persone non mancheranno certo di giudicare scherzosa, affettata o formale, perfino inutile, una analisi che dispieghi questo ventaglio di significati e di possibili frasi: "Perché questa lentezza e questo compiacimento? Perché queste tappe linguistiche? Perché non si parla finalmente in modo diretto delle vere questioni? Perché non andar dritti alle cose stesse?" Ben inteso, si può condividere questa impazienza e pensare tuttavia - ed è il mio caso - che non soltanto non ci si guadagna niente a cedere immediamente ad essa, ma che questa illusione ha una storia, degli interessi, una sorta di struttura ipocritica che è sempre meglio cercare di riconoscere dandosi il tempo per il lavorio e l'analisi. Ne va infatti di un certo diritto alla filosofia. L'analisi dei valori potenziali che dormono o che giocano un ruolo al fondo dell'espressione francese "diritto alla filosofia" deve essere un esercizio di vigilanza e deve "essere in gioco" soltanto nella misura in cui il "gioco" è qui dei più seri. Per almeno due ragioni. L'una riguarda la questione del titolo, l'altra la questione della lingua.
1. "Diritto di...", "diritto a...": la presupposizione istituzionale
Avere il diritto di, il diritto a, significa essere autorizzati, giustificati a fare, a dire, a fare dicendo questo o quello. Un titolo autorizza, legittima, dà valore e unifica. Questo vale per qualche cosa, che perciò non è mai una semplice cosa, o per qualcuno che diviene allora "qualcuno". Per qualcosa che non è mai una cosa: il titolo di un discorso o di un'opera, di un discorso in quanto opera, di una istituzione che è allo stesso tempo in qualche modo discorso e opera perché ha una storia che la sottrae all'ordine detto naturale e dipende da un atto del linguaggio. Il titolo è il nome dell'opera, in qualsiasi senso la si intenda (opera d'arte, opera politica, istituzione), unifica l'opera dandole un nome e fa sì che, così identificata, essa faccia valere il suo diritto all'esistenza e al riconoscimento: legalizzazione o legittimazione. Ciò che vale per l'opera (questa "cosa" che non è affatto una e non appartiene alla natura nel senso moderno del termine) vale anche per qualcuno, per il titolo di qualcuno, a dire, a fare, a dire facendo questo o quello, a fare delle "cose" con delle parole. Ma il titolo dato (o rifiutato) a qualcuno suppone sempre, ed è un circolo, il titolo di un'opera, cioè una istituzione, che sola può essere autorizzata a farlo. Solo una istituzione (titolo del corpo autorizzato a conferire i titoli) può dare a qualcuno il suo titolo. Questa istituzione può senza dubbio incarnarsi in persone, persino in una sola persona, ma questa stessa incarnazione deriva essa stessa da una qualche istituzione o costituzione. Che il titolo sia dato (o rifiutato) a qualcuno da parte di un corpo istituzionale significa che la custodia dei titoli, come la loro garanzia, spetta a chi, in quanto istituzione, detiene già il titolo. L'origine del potere di dare titoli o di legittimarli non può dunque mai mostrarsi fenomenicamente come tale. La legge della sua struttura - o la struttura della sua legge - implica che essa scompaia. Questo non è soltanto un circolo. Quanto meno il pensiero di un tale "circolo" obbliga a riformulare le immense questioni già "classificate" sotto i titoli classici di "rimozione", di "repressione" o di "sacrificio".
I testi qui riuniti tentano, ciascuno alla sua maniera, di farsi carico di questa paradossale topica della presupposizione istituzionale. Una tale topica definisce così la struttura dell'istituzione come archivio (niente di meno di ciò che gli storici, insomma, chiamano storia): una istituzione custodisce la memoria, certo, è fatta per questo. Dei nomi e dei titoli ne fa dei monumenti, di quelli che ha dato, di quelli da cui ha ricevuto il suo.
Ma, nel difendersi, può sempre capitare qualcos'altro, e la struttura del suo spazio interno ne viene modificata. Una istituzione può innanzitutto dimenticare i suoi stessi eletti: si sa che essa ne perde talvolta il nome in profondità sempre più inaccessibili. E questa selettività richiama innanzitutto, senza dubbio, la finitezza di una memoria istituzionale. Tuttavia il paradosso è altrove, benché esso sia anche l'effetto di una finitezza essenziale: ciò che si chiama una istituzione deve talvolta custodire la memoria di ciò che essa esclude e tenta selettivamente di consegnare all'oblio. La superficie del suo archivio è allora caratterizzata da ciò che essa tiene al di fuori, che espelle o non tollera più. Essa assume la figura inversa del rifiuto, si lascia identificare attraverso ciò che la minaccia o che essa sente come una minaccia. Per identificarsi, per essere ciò che è, per delimitare se stessa e riconoscersi nel suo nome, deve - per così dire - portare il suo avversario nel suo seno. Deve assumerne i tratti, persino sopportarne il nome come un marchio negativo. E capita che l'escluso, quello i cui tratti sono pesantemente scolpiti nel seno dell'archivio, iscritti nella superficie istituzionale, finisca col divenire a sua volta colui che porta la memoria del corpo istituzionale. Questo vale per la violenza fondatrice degli Stati, per le nazioni e i popoli che essa non manca mai di opprimere o di distruggere - e questo non ha mai luogo una volta per tutte, ma deve necessariamente avvenire continuamente o ripetersi secondo processi e ritmi diversi. Ma questo vale anche, su una scala in apparenza più modesta, per le istituzioni accademiche, l'istituzione filosofica in particolare. Di più, l'esempio accademico richiama strutturalmente l'esempio politico-statale. Per restare al di fuori della Francia e limitarci al passato, diciamo che l'Università di Francoforte non è soltanto, ma è anche l'istituzione che ha rifiutato di conferire a Walter Benjamin il titolo di dottore. Essa ha certo altri titoli per essere richiamata alla memoria, all'attenzione o all'ammirazione, ma se ci si ricorda di essa - e di alcune esclusioni per le quali è precisamente identificata - è anche grazie a una nota nelle opere complete di Benjamin. Saremmo in molti a conoscere il nome di Hans Cornelius se, alla fine del volume, una nota dell'editore delle opere complete di Benjamin non fosse dedicata a questo avvenimento, esemplare sotto diversi aspetti, e cioè il rifiuto dell'"Origine del dramma barocco tedesco" come tesi di dottorato?
Come ogni pubblicazione, un insegnamento, per esempio un seminario sulla questione del diritto alla filosofia può, oserei dire dovrebbe sempre, problematizzare, cioè mettere in luce, per farne oggetto di una ricerca, i propri limiti e caratteri: a che titolo e in base a quale diritto noi siamo qui riuniti per fare esperienza del disaccordo o della discordia o per costatare che le premesse di una discussione non ci sono affatto o che non possiamo affatto intenderci sul senso e i termini di una simile costatazione? A che titolo e in base a quale diritto siamo qui, voi e io, io che prendo e tengo per il momento la parola senza averne apparentemente chiesto l'autorizzazione? Almeno in una certa misura si tratta di una apparenza: di fatto si sa bene che un processo lungo e complicato di autorizzazione (implicitamente richiesta a numerose istanze - accademiche, editoriali, dei media, e così via - più o meno d'accordo su questo o su quello) ha avuto luogo in precedenza, certo in modo assai poco naturale.
Questo spazio (seminario, prefazione o libro), il luogo in cui questo atto ha luogo, niente ci assicura che appartenga alla filosofia e che abbia titolo a portarne il titolo. Come appunto annuncia il suo titolo, la questione trattata può portare al di là o al di qua del "filosofico" - di cui per il momento, e in linea di principio, non dobbiamo dare il senso. Infatti, la domanda "che cosa è filosofico?" appartiene alla filosofia? Si e no: risposta formalmente contraddittoria, ma per nulla vuota o evasiva. Appartenere alla filosofia non significa certamente fare parte di un tutto (una proprietà, uno Stato o una nazione, una molteplicità, una serie o un insieme di obiettivi, il campo di un sapere, il corpo di una istituzione, o anche di totalità aperte). Dalla necessità o dalla possibilità di questo "sì e no", dell'impreciso limite che l'attraversa o l'istituisce, del pensiero di ciò che è filosofico che sembra qui essere richiamato, da tutto questo dipendono oggi la posta in gioco e le responsabilità più gravi. Quando si pone al soggetto di una scienza o di un'arte, la domanda "che cos'è ...?" appartiene sempre, secondo i filosofi, alla filosofia. Le appartiene a pieno diritto. C'è qui il diritto della filosofia. Poiché ritiene di essere la sola a detenerlo, allora è un privilegio. La filosofia sarebbe questo privilegio. Essa non lo riceverebbe, sarebbe piuttosto questo potere ad essere in accordo con essa. Vi si ritrova il più antico tema della filosofia: la domanda "che cos'è la fisica, la sociologia, l'antropologia, la letteratura o la musica?" sarebbe di natura filosofica.
Ma si può dire altrettanto della domanda: "che cosa è filosofico?" E' la più e la meno filosofica di tutte, bisogna tener conto di questo. Questa domanda si distribuisce presso tutte le decisioni istituzionali: "Chi è filosofo? Che cos'è un filosofo? Che cosa ha diritto a ritenersi filosofico? Da che cosa si riconosce un enunciato filosofico, in generale e oggi? Da quale segno (c'è un segno?) si riconosce che un pensiero, una frase, una esperienza, una operazione, per esempio una didattica, è filosofica? Che vuol dire questa parola? Può essere intesa in riferimento a se stessa e ai luoghi stessi a partire da cui queste domande si formano e si legittimano?"
Senza dubbio queste domande si confondono con la filosofia stessa. Ma per questa incertezza essenziale dell'identità filosofica, forse non sono già più filosofiche. Forse restano al di qua della filosofia che esse interrogano, a meno che esse non portino al di là di una filosofia che non sarebbe più la loro ultima destinazione.
Una domanda posta alla filosofia sulla sua identità può rispondere almeno a due figure dominanti. Altri approcci sono senza dubbio possibili, ed è per identificarli preliminarmente che stiamo adesso lavorando. Ma intanto le due figure che possiamo osservare nella tradizione sembrano opporsi come essenza e funzione. Da un lato, quello dell'essenza (che è anche quello della storia, dell'origine, dell'evento, del senso e dell'etymon) si tenta di pensare la filosofia come tale, come ciò che essa è, ciò che essa sarà stata, ciò che essa avrà progettato di essere sin dalla sua origine - e precisamente a partire da un evento che ha luogo, nell'esperienza di una lingua, a partire dalla questione dell'essere o della verità dell'essere. C'è qui, in modo del tutto schematico, la figura heideggeriana della "distruzione". Dall'altra parte, quella della funzione, e in uno stile all'apparenza più nominalista, si comincia col denunciare questo richiamo alle origini: esso non ci direbbe nulla sulla verità pragmatica della filosofia, cioè su ciò che essa fa o su ciò che si fa sotto il suo nome, sulle conseguenze che ne derivano, sulle scelte che essa compie o che qualcuno compie nell'atto del discorso, della discussione, delle valutazioni, nelle pratiche sociali, politiche e istituzionali. Bisogna piuttosto innanzitutto riafferrare la differenza piuttosto che il filo genealogico che la legherebbe a una qualche dimenticata origine. Questo pragmatismo funzionalista è il modello quanto meno implicito per le numerose interrogazioni moderne riguardo alla filosofia, siano essere condotte da filosofi, da sociologhi o da storici.
Al di là di tutte le differenze e di tutte le opposizioni, in realtà trascurabili, queste due figure della questione riguardo alla filosofia (Che cosa è? Che cosa fa? Che cosa si fa di essa o con essa?) si presuppongono sempre l'un l'altra, per cominciare o per finire. Il pragmatismo nominalista deve ben darsi prima una regola per impegnarsi nelle proprie operazioni e per riconoscere i propri oggetti, ed è sempre a partire da un concetto della filosofia, esso stesso legato alla presupposizione di un senso o di una essenza, che si pensa l'essere-filosofico della filosofia. Il percorso che si richiama alle origini (e questo vale anche per Heidegger) deve presupporre a sua volta un evento, una concatenazione di eventi, una storia nella quale un atto filosofico non si distingue affatto da un "atto linguistico" reso possibile da una condizione arci-convenzionale o quasi contrattuale all'interno di una lingua data. Esso deve dunque presupporre questo momento in quanto istituente una "funzione" sociale e istituzionale, anche se i nomi più appropriati a queste cose vengono dati dopo una prova di "distruzione".
Se dovessimo elaborare o adattare un altro tipo di posizione problematica, sempre che questo sia possibile, bisognerebbe cominciare con il comprendere e formalizzare la necessità, se non l'ineluttabilità, di questo presupposto comune. E' proprio su questa via che ci troviamo. Tutti i dibattiti richiamati in questo libro ce lo ricordano, che si tratti delle parole inaugurali del Greph, dell'Introduzione agli Stati Generali della filosofia, della fondazione del Collegio Internazionale di Filosofia o del rapporto della Commissione di Filosofia e di Epistemologia. Ogni volta io mi sono associato con vigore e senza equivoci alle lotte tendenti a difendere e a sviluppare ciò che spesso si chiama la "specificità" della disciplina filosofica oggi minacciata: contro la sua dispersione, o persino dissoluzione nell'insegnamento delle scienze sociali o umane; talvolta, rischio più tradizionale in Francia, nell'insegnamento delle lingue e delle letterature. Ma nello stesso tempo a coloro che vogliono fare un uso soltanto difensivo e conservatore, talvolta strettamente dogmatico o addirittura corporativo di questo argomento, bisogna ben ricordare che questa "specificità" deve restare la più paradossale. La sua esperienza è così quella di una aporia attraverso la quale è sempre necessario reinventare un cammino senza certezze. Questa non è soltanto la specificità di una disciplina tra le altre (anche se conviene ricordare che questa disciplina è così) con il suo campo di oggetti e il suo insieme di regole trasmissibili. Se essa deve restare aperta a tutte le interdisciplinarietà senza disperdersi, essa non si presta come una disciplina tra le altre alla tranquilla e regolare transazione tra i saperi alle frontiere stabilite tra i territori assegnati alle diverse discipline. Ciò che si è chiamato "decostruzione" è allora l'esposizione di questa identità istituzionale della disciplina filosofica: ciò che essa ha di irriducibile deve essere esposto come tale, cioè messo in luce, protetto, rivendicato, ma questo deve avvenire mentre l'identità di ciò che le è proprio si allontana da se stessa per riappropriarsi di sé - innanzitutto sin dalla più piccola delle domande che riguardano la sua natura. La filosofia, l'identità filosofica, è così un nome per un'esperienza che, nell'identificazione in generale, comincia con l'es-porsi: in altri termini, con l'andar via dalla propria terra. Aver luogo dove essa non ha luogo, là dove il luogo non è né naturale né originario né dato.
Le questioni del titolo e del diritto hanno sempre una dimensione topologica. Nessuna istituzione fa a meno di un luogo simbolico di legittimazione, anche se l'assegnazione può essere sovradeterminata, all'incrocio di dati empirici e simbolici, fisico-geografici e ideali, all'interno di uno spazio omogeneo o eterogeneo. Un seminario può aver luogo (fisicamente, ma non senza trarne un beneficio simbolico che diventa la posta in gioco delle transazioni e dei contratti) in una istituzione determinata, tenuto da qualcuno che non vi appartiene (Jacques Lacan all'Ecole Normale Supérieure per parecchi anni, ad esempio), o da qualcuno che, "ancien élève" dell'Ens, tiene un insegnamento in nome di quell'altra istituzione pubblica che è l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales o perfino di una istituzione che non possiede alcun luogo fisico proprio e che, come il Collège International de Philosophie, fondato nel 1983, è a tutti gli effetti una associazione privata (regolata dalla legge del 1901), autonomo nel suo funzionamento e nei suoi orientamenti benché nel suo Consiglio di amministrazione siedano, statutariamente, i rappresentanti di quattro ministeri! La carta di questi "luoghi" richiede una descrizione sottile e le interferenze dei percorsi favoriscono una turbolenza propizia alla riflessione sulla storicità delle istituzioni, soprattutto delle istituzioni filosofiche. Se queste sono storicamente definite, questo significa che né la loro origine né la loro solidità sono naturali; e soprattutto che i processi per cui si stabilizzano sono sempre relativi, minacciati, essenzialmente precari. Là dove esse si mostrano ferme, stabili, durevoli o resistenti, ebbene questo tradisce innanzitutto la fragilità della fondazione. E' sullo sfondo di questa "decostruttibilità" teorica e pratica, è proprio contro questa che l'istituzione si istituisce. E' questo sfondo che la sua elevazione tradisce: essa lo segnala, come fa un sintomo, e lo rivela dunque, ma allo stesso tempo lo nasconde.