Tra i tanti critici che abbiamo alle calcagna ci sono coloro i quali, pur allattatisi al nostro seno e scopiazzando qua e la quanto andiamo sostenendo da anni, ci accusano di aver dimenticato la centralità del “fattore di classe”. Cosa questi critici intendano per “fattore di classe” non è affatto chiaro, dal momento che non sono in grado di dare rigore logico alle loro critiche. Tuttavia è evidente come essi ci stiano lanciando la scomunica: saremmo eretici perché il nostro discorso rivaluta i concetti di popolo e nazione “a spese” di quelli di classe operaia e rivoluzione comunista. L’accusa di eresia (una variante tutto sommato garbata dell’accusa di “rossobrunismo”) implica ci sia una “ortodossia”, ma non chiedete loro, tra i disparati marxismi, quale sia il loro. Non lo sanno, e quel che è peggio, non gli interessa saperlo. Ai faciloni basta e avanza aggrapparsi a certa vulgata. Comunque sia, ove essi, invece di procedere per frasi fatte, accettassero un serrato confronto teorico, qui siamo ed a loro dedichiamo queste riflessioni.
No al pressapochismo teorico
Com’è che Marx è considerato un gigante rivoluzionario nonostante non abbia guidato né un movimento di rivolta né tantomeno alcuna rivoluzione sociale? Polemista implacabile bisticciò con la maggior parte dei socialisti del tempo. Morì in esilio e nel massimo isolamento. AI suoi funerali c’erano poco più di dieci persone.
Egli fu rivoluzionario a causa delle sue idee e della grandezza della sua visione teorica. In altri tempi questa precisazione sarebbe stata pleonastica — Lenin: “senza teoria rivoluzionaria non c’è azione rivoluzionaria”. Non è così oggi, dove tutti sono stati infettati dall’analfabetismo funzionale, dal pressapochismo teorico. E’ triste dirlo ma ciò vale anche per tanti militanti marxisti che di Marx conoscono, sì e no, l’abc. L’alibi di chi non ha profondità teorica è mascherare questa deficienza apponendo i dati di fatto, i risultati pratici ai principi teorici. E’ vero che il pensiero da solo non cambia il mondo, ma non si è mai visto cambiarlo da chi pensiero profondo non possedeva. L’America ha vinto anche grazie all’egemonia della sua peculiare filosofia, il pragmatismo: meglio l’uovo oggi che la gallina domani, la prassi trasmutata in calvinistica operosità performativa, la filosofia disprezzata come superflua metafisica.
Esula da questo breve saggio, poiché chiederebbe molto più spazio, un’indagine sistematica sulle idee fondamentali di Marx — per meglio dire, e non è la stessa cosa, quelle che gli epigoni han fatto diventare fondamentali a spese di altre sottacendo le evidenti antinomie marxiane —, quelle che hanno dilagato nel ‘900, in molti casi diventando egemoniche. Dobbiamo limitarci, per stare ai nostri critici, a quella che può essere definita la madre di tutte le idee marxiste: il mito della classe operaia.
Dei miti e delle loro funzioni
I seguaci che considerano il marxismo una scienza — nel senso di una concezione esatta e infallibile della storia — sobbalzeranno sulla sedia, ci accuseranno di blasfemia. Per essi il mito è per sua natura irrazionale, fantasticheria primitiva, un’anticaglia seppellita da progresso. Per essi dunque, affermare che Marx (lo scienziato!) abbia fondato un mito, significa squalificarlo, attribuirgli una tremenda nota di demerito. Per noi è l’esatto contrario: una delle ragioni della grandezza di Marx è proprio quella di avere fabbricato il potente mito di una classe che per sua stessa natura era destinata a riscattare tutti gli oppressi ed a salvare il mondo.
L’essere umano, data la sua natura antropologica, ha bisogno di miti in cui credere e per cui battersi; essi sono infatti espressioni simboliche di istanze psichiche profonde, istintive e emotive, archetipi che soggiacciono, come strati nascosti, alle sovrastrutture ideologiche successive, che dunque preesistono all’esperienza. Jung avrebbe parlato di “inconscio collettivo”.
Il Sorel, checché se ne possa pensare della commistione tra marxismo e vitalismo bergsoniano, è stato quello che con più forza ha sottolineato la potenza demiurgica e creativa del mito sociale, come figura che spinge le masse all’azione, per lui quindi opposta a quella dell’utopia —dove utopia sta per la credenza che si possa cambiare il mondo senza rivoluzione:
«Si può parlare all’infinto di rivolte sociali senza mai provocare un movimento rivoluzionario, fin tanto che non vi sono miti accettati dalle masse […] Il mito è un’organizzazione di immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra intrapresa dal socialismo contro la società moderna». [Georges Sorel, Riflessioni sulla violenza]
Ciò che sterminate masse, anche negli angoli più sperduti del pianeta, accettarono come mito nel secolo grandioso che ci siamo lasciati alle spalle, è l’idea che vi fosse una classe, quella degli operai dell’industria, destinata a liberarci una volta per tutte dalla catene dell’oppressione e dell’abiezione, e quindi a condurre l’umanità al socialismo. Non è che nella modernità fosse scomparso il mito: merito di Marx è averlo strappato dal cielo facendolo scendere sulla terra, costruendolo come mito storico-sociale.
Vale la pena soffermarsi su come Marx sia giunto a tanto. Basti dire che come materiali grezzi ha usato, genialmente assemblandoli, la filosofia finalistica della storia hegeliana (con la sua dialettica del negativo come motore del progresso storico) e la sociologia positivistica di Saint Simon (col suo culto dell’industria, delle forze tecnico-scientifiche, delle moderne classi produttive).
Ogni teoria politica ha una base filosofica. Prima di diventare marxista, ovvero prima di individuare la classe operaia industriale come la moderna e peculiare forza sociale levatrice del socialismo, nei vulcanici scritti giovanili, Marx così pose filosoficamente la questione:
«La liberazione è la liberazione dal punto di vista di quella teoria che proclama l’uomo la più alta essenza dell’uomo (…) la condizione operaia è la perdita completa dell’uomo, e può dunque guadagnare se stessa soltanto attraverso il completo recupero dell’uomo. (…) Quando il proletariato annunzia la dissoluzione dell’ordinamento tradizionale del mondo, esso esprime soltanto il segreto della sua propria esistenza, poiché esso è la dissoluzione effettiva di questo ordinamento del mondo». [K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Dicembre 1843-Gennaio 1844].
Evidente la matrice umanistica e idealistica di questo filosofare. Pochi mesi dopo il nostro, riflettendo sulle prime rivolte operaie in Germania, ribadiva questa matrice filosofica:
«Una rivoluzione sociale si trova dal punto di vista della totalità perché — se pure essa ha luogo solo in un distretto industriale — essa è una protesta dell’uomo contro la vita disumanizzante, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale, perché la comunità, contro cui la separazione da sé l’individuo reagisce, è la vera comunità dell’uomo, l’essenza dell’uomo». [ K. Marx, Glosse critiche all’articolo di un prussiano. Agosto 1844 ]
Qui, con le categorie di essenza umana, di comunità e totalità, sta la sorgente filosofica del successivo mito della classe operaia, qui abbiamo già, infatti, la figura simbolica di una classe sociale dalla missione salvifica e universale. E’ a questo punto che Marx compie una seconda mossa filosofica: l’innesto su questa matrice umanistica della dialettica hegeliana servo-signore, radicalizzandola:
«Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano come tali un tutto. Entrambi sono figure del mondo della proprietà privata. Ciò che conta è la posizione determinata che entrambi occupano nell’opposizione. Non basta dire che sono lati di un tutto. (…) Il proletariato è costretto è costretto a togliere sé stesso e con ciò l’opposto che lo condiziona e lo fa proletariato, la proprietà privata. Esso è il lato negativo dell’opposizione, la sua irrequietezza in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi». [K. Marx, La sacra famiglia. Settembre 1844]
Da questa mossa Marx ricava e propone una versione estrema di teleologia deterministica:
«Ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è cosa esso è e che cosa sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere». [ K. Marx, Ibidem]
… e in quello “maturo”
Come si vede qui non abbiamo nessuna analisi del capitalistico modo di produzione, nemmeno un riferimento alle sue leggi di movimento tra cui la presunta essenziale contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione. Non abbiamo le categorie di merce, di valore e plusvalore, nessun accenno al lavoro astratto come fonte del valore. Pur tuttavia, come detto, è qui che vengono gettate le basi filosofiche del mito della classe operaia come soggetto che proprio in base alla sua intrinseca essenza, pur senza averne coscienza, quali che siano le sue rivendicazioni, è destinato, anzi costretto, a compiere la propria missione. Non si discute quindi di possibilità, qui c’è il dogma finalistico della necessità. Usando il paradigma di Carl Schmitt, per cui le moderne categorie del Politico non sono che concetti teologici secolarizzati, dovremmo parlare di una visione soteriologica ed escatologica.
C’è qui, infine, implicita un’idea, anzi un teorema: che la battaglia dei proletari in difesa dei propri interessi immediati, anche meramente sindacali, sia consustanziale a quella ideale e rivoluzionaria per il comunismo. Sarà Lenin a prendere atto che così purtroppo non è, che le lotte sindacali ed economiche sono “la politica borghese in seno alla classe operaia”, che la coscienza rivoluzionaria non sorge spontaneamente ma “può essere portata solo dall’esterno” dei meri rapporti di fabbrica. [ V.I.Lenin, Che fare ]
Chiediamoci: il Marx maturo, quello del Capitale, quello che pretese di aver trasformato il socialismo da utopia a scienza, rinnegò forse, come ebbe a sostenere Luis Althusser, la sua visione filosofica originaria? Per niente. Egli utilizzerà le sue analisi empiriche del capitalismo e le sue scoperte scientifiche, come conferme a fortiori della sua visione finalistica della storia. Solo si sbarazzerà di certo linguaggio astratto e concetti metafisici — ad esempio l’idea del proletario come agente di una rivoluzione sociale che nel suo essere totale e radicale doveva addirittura fare a meno di essere politica — affinché il mito di una classe rivoluzionaria in sé potesse essere più solido e quindi penetrare tra le masse, affinché diventasse una forza invincibile.
Il proletariato della fase idealistica subiva un processo di transustanziazione, il suo carattere provvidenziale dipendeva ora non più dall’essere la parte più alienata e abietta della società, bensì dal posto centrale che esso deteneva nel processo di produzione sociale, in quanto incarnazione della forza produttiva generale.
«Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente». [K. Marx F, Engels, L’ideologia tedesca, 1845-46]
Spazzato via, a favore dell’oggettivismo storicista hegeliano, ogni dualismo kantiano tra essere e dover essere. E’ l’essere stesso così, il movimento oggettivo della storia, a procedere, motu proprio, verso il comunismo.
Una forza è tanto più invincibile se crede nel mito di sé medesima, se si convince che la propria liberazione non è mera possibilità — che quindi dipende dall’incontro di molteplici fattori — ma risponde a necessità, ad un movimento oggettivo, ad un ordine destinale della storia. Invincibile poiché addirittura impersona la spinta delle moderne forze produttive. Di qui la tesi che il socialismo sia l’ineluttabile frutto dello stesso sviluppo delle forze produttive capitalistiche; di qui il mito che la classe operaia (orami individuata negli operai dell’industria moderna) abbia intrinseca la missione di sopprimere, col capitale, se stessa, in vista del definitivo approdo al “regno della libertà”. Il comunismo come inveramento in terra della “città di Dio”.
Non abbiamo così solo un mito, ma mito raddoppiato in quanto si addobba coi paramenti sacerdotali della scienza. Un mito che sarà poi Engels a giustificare, fabbricando un marxismo come sintesi di storicismo, positivismo e evoluzionismo — con ciò aggiungendo al corpo teorico marxiano ulteriori antinomie.
Che qualche dubbio si sia insinuato già in Marx sulla natura e il ruolo attribuito alla classe operaia è certo. Non ci spiegheremmo altrimenti il seguente lapidario giudizio:
«La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla».[ Karl Marx a Schweitzer, 13 febbraio 1865 ]
Né capiremmo il ricorso di Marx (nei Grundrisse) alla categoria del “general intellect”, che infatti verrà utilizzata da certo operaismo italiano, dopo la sbornia fabbrichista, come controfigura e successore della classe operaia. Anche questo tentativo era il sintomo del tramonto di un mito, anzi il tentativo, disperato quanto elegante, d’inventarsene uno nuovo.
E’ proprio così, la classe operaia o è rivoluzionaria o non è nulla, per la precisione, e stando alle categorie del Marx maturo, solo la parte variabile del capitale. E quando questa classe è riuscita a svolgere, momentaneamente, un ruolo rivoluzionario è stato grazie all’esistenza, nel suo seno, di un’avanguardia organizzata, un’avanguardia forte appunto dell’arma del mito.
Dopo l’oblio, quale mito?
Ha resistito il mito della classe operaia — quello che il postmodernista Francois Lyotard ridenominò “meta-narrazione” — alla prova della storia? La risposta è no. Non solo non ha resistito, dopo essersi appassito è stato dimenticato dalle masse, abbandonato anzitutto dalla classe operaia medesima, stanca di portare addosso quella pesante croce. Quel mito è stato condannato alla desuetudine, è oramai un’arma scarica, un’idea priva di ogni potenza evocativa.
C’è stato un momento storico decisivo in cui il mito della classe operaia è stato messo alla prova: dopo la rivoluzione bolscevica. Davanti a quel poderoso assalto al cielo, compiuto per nome e per conto della classe operaia mondiale, di quella europea anzitutto, questa classe, nella sua maggioranza, è restata appresso ai socialdemocratici, in Italia e Germania subendo addirittura un processo di fascistizzazione, così che l’avanguardia russa è stata lasciata drammaticamente sola, fino a collassare su sé stessa. Oggi possiamo dirlo: quello fu un colpo letale, un colpo dal quale il grande mito non si riprenderà più.
Nulla di nuovo che ci siano in giro testardi i quali, sordi alle lezioni della storia, non vogliano riconoscerlo, che sperano nel miracolo della sua palingenesi. Che si rifiutano di ammettere che la dipartita di quel mito è forse la ragione fondamentale del supplizio subito dal marxismo, poiché esso era il vero e proprio fulcro su cui poggiava l’intera costruzione teorica.
Nulla di strano che i miti siano destinati ad appassire per poi soccombere all’opera distruttrice del divenire storico. L’umanità, le civiltà, molti ne hanno conosciuti, rimpiazzando miti vecchi con miti nuovi.
Del fatto che gli umani abbiano bisogno di miti, di simboli che indichino orizzonti di senso alla storia, lo vediamo anche nei nostri tempi. In barba ai sapientoni liberali che considerano i miti arcaiche fantasie, vediamo oggi che il mito a cui la civiltà occidentale (e non solo quella) consegna il suo destino è quello della scienza, per la precisione della potenza della tecnica e dei suoi prodigi. Ogni civiltà ha un suo mito, che corrisponde al suo proprio spirito. E’ un paradosso solo apparente che il mito che nella modernità abbia resistito sia proprio quello della scienza, che proprio questa sia diventata la religione civile, con la sua corte dei miracoli di apostoli, sacerdoti e ministri del culto. Non cadete nell’inganno: il mito della tecno-scienza non cade dal cielo, è la maschera dietro alla quale la nuova borghesia nasconde sé stessa, spacciandosi come agente del progresso universale.
Ma che sia un travestimento ingannevole non deve impedirci di smentire quella che Marx considerava come la principale contraddizione sistemica, quella tra rapporti di produzione e forze produttive, per cui il capitalismo sarebbe diventato una camicia di forza del “progresso”. In verità il capitale è per sua natura dinamico, mosso anzi da un frenetico impulso vitale. Esso non può infatti fare a meno di sviluppare le sue forze produttive, quindi ad utilizzare pro domo sua ogni scoperta scientifica per accrescere la propria produttiva potenza. Il capitalismo è una “brutta bestia” per diverse ragioni, ma la prima delle quali è proprio che in fatto di progressismo batte in breccia ogni concorrente.
Così forse ci spieghiamo come mai, siccome questo progressismo si manifesta come spietato Moloch che sacrifica ai suoi piedi tutto quanto di propriamente umano incontra sulla sua strada, s’avanza nelle viscere del mondo un comune sentire anti-progressista e tradizionalista, che certe élite politiche tentano di usare come carburante reazionario.
Il fatto è che avendo la storia scippatoci il vecchio mito, non abbiamo un contro-mito da opporre a quello di cui il capitale si serve per giustificare la propria supremazia. E non si vede all’orizzonte, né questo contro-mito, né un profeta che lo annunci.
Per questo dovremmo forse chiuderci in un cenacolo? No, l’umanità è sempre in cammino e noi dobbiamo procedere con essa, sapendo anzi che siamo dentro una crisi di civiltà, che il mondo conoscerà nuove scosse telluriche, che dentro questo gorgo siamo condannati a stare, a pensare, ad organizzarci per agire. Dobbiamo accendere il fuoco con la legna che abbiamo in cascina. E che legna abbiamo? Quanta ne abbiamo?
Abbiamo un neo-capitalismo che nel suo vorticoso sviluppo, come non mai, ha ammucchiato ricchezza smisurata ad un polo e miseria crescente a quello opposto. Abbiamo un sistema che mentre ha neutralizzato la classe operaia salariata ha creato una moltitudine di dannati costretti a loro volta a mettersi in vendita per tirare a campare. Non è propriamente una classe, è una nuova plebe. Una poltiglia sociale che tuttavia recalcitra, si oppone come può allo stato di cose presente. Queste plebe rifiuta tuttavia questa condanna, sa che oggi non è nulla ma vuole essere tutto, inizia lentamente a sentirsi popolo, vuol diventare popolo ed in quanto tale chiede democrazia reale e sovranità. Questa consapevolezza può sembrare poca cosa, in verità porta seco un impulso che, per quanto frammisto a diversi detriti, sta entrando in rotta di collisione con la nuova aristocrazia liberal-capitalistica, perché contiene un’eccedenza comunitaria e democratica che non può essere esaudita dal sistema, che quindi può (sottolineiamo può) avere una dimensione rivoluzionaria.
Da qui occorre partire, dal fatto di sentirsi e voler essere popolo di questi nuovi e tiranneggiati plebei, dal loro considerarsi l’anima stessa della comunità nazionale, dall’aver scoperto che loro è la nazione, che anche per questo il super-capitalismo globalista (di cui la Ue è protesi) vuole mandare in frantumi.
Crescono i populismi delle più diverse fattezze, ed i nazionalismi con loro. Siamo nella fase di ascesa di questi populismi non quindi per un accidente, ma perché il populismo è la modalità funzionale, la forma politica più adeguata che questa plebe ha partorito, per dimostrare di esistere, per sfidare il potere dell’élite, per rivendicare giustizia sociale. Se le sinistre sono escluse da questa sfida è perché si sono messe di traverso alla riscossa plebea, quelle di regime per ovvie ragioni, quelle radicali anche per essere restate aggrappate a mito morto della “classe operaia”, riciclato e sputtanato in quello del “povero migrante”, così che la lotta di classe è diventata la pietistica e impolitica “accoglienza” a prescindere, con la violazione delle frontiere come simbolo di massimo antagonismo (sic!).
Classe e nazione
Maggio 2004, era il tempo dei 21 giorni di lotta allo stabilimento FIAT di Melfi, in Lucania. Uno sciopero prolungato animato da un pugno di sindacalisti della FIOM. Si concluse con una sostanziale vittoria. Avvenne un fatto che ci colpì profondamente. Davanti alla carica della polizia gli operai si sedettero a terra e mentre i celerini si accanivano con i loro manganelli gli operai, tutti assieme, intonarono non Bandiera Rossa ma… Fratelli d’Italia.
AI critici che ci dicono che dimentichiamo il “fattore di classe” diciamo che è l’esatto contrario, poiché questa lotta plebea è, nelle concrete condizioni, una forma, per quanto sui generis, di lotta di classe. Il compito non è quello di trasformare questa plebe in classe, ma di sostenere l’impulso di questa plebe a diventare popolo, affinché diventi una forza rivoluzionaria. Affinché ciò sia possibile occorre oggi, non un riverniciato partito comunista, ma un partito che invece di fare spallucce davanti ai fenomeni populisti, agisca per dividere il grano dal loglio, per depurare l’impulso democratico implicito nel populismo dai detriti anche reazionari che lo contaminano. Un partito populista di massa, rivoluzionario e democratico.
Avremo convinto i nostri critici? Ne dubitiamo. Come minimo le loro critiche ci son servite a precisare quanto pensiamo. Per noi è abbastanza.
Tuttavia, dato che essi vogliono trastullarsi al gioco del chi è più “fedele alla linea” chiudiamo con una citazione di Engels, che mentre era convinto della missione salvifica della classe operaia, sapeva altrettanto bene che per farlo detta classe doveva appunto diventare l’avanguardia politica della nazione, il campione di altre classi popolari.
“Come si può uscire da questa miseria? Solo una via è possibile. Una classe deve diventare abbastanza forte da far dipendere dalla sua ascesa quella di tutta la nazione, dal progresso e dallo sviluppo dei suoi interessi il progresso degli interessi di tutte le altre classi. L’interesse di questa unica classe deve diventare per il momento interesse nazionale”. [F. Engels, Lo status quo in Germania, 1847]
Ammesso che gli operai assumano un ruolo dirigente, non ci riusciranno mai con un classismo ottuso, sezionale e corporativo, non sotto la bandiera dei propri interessi particolari ma, al contrario, nel nome dei diritti universali della società, della nazione e dei suoi cittadini.