FILOSOFIA ISLAMICA
“Sgorga da Lui ciò che pensa, in un ordine determinato e secondo la forma del bene nella maniera più perfetta che Egli pensa ed in una emanazione che nella più perfetta maniera induce l’ordine, in quanto ciò è possibile” (Avicenna, La guarigione)
LA FILOSOFIA ARABA
Il rientro di Aristotele nel mondo di lingua latina – dopo secoli di assenza – avviene soprattutto attraverso la mediazione della cultura araba. Anche la religione araba, come quella ebraica e quella cristiana, è una religione del libro e il suo libro sacro è il Corano, nel quale sono raccolte le visioni e le rivelazioni divine che Maometto (nato alla Mecca, in Arabia, nel 571 e morto nel 632) avrebbe ricevuto, tramite l’arcangelo Gabriele, a partire dal 612. Il termine “corano” significa testo da recitare: infatti, il libro, trasmesso dapprima oralmente e poi riordinato dai successori di Maometto, è composto di 114 capitoli, detti “sure”, ognuno formato da versetti in prosa ritmica. Maometto predica l’unità e l’onnipotenza di Dio, il cui nome è Allah, e l’Islam, ossia la sottomissione dei credenti e, in generale, di tutti gli esseri alla volontà di Dio, in cui il credente trova la vera pace. Musulmani sono coloro che sono sottomessi alla volontà divina, ma tutti, nel giudizio finale, credenti e infedeli, riceveranno da Dio premi e castighi. Maometto è l’ultimo profeta, dopo Mosè e Gesù: egli ripristina il monoteismo nella purezza e semplicità originaria, mentre i cristiani, introducendo i misteri della Trinità divina e dell’Incarnazione, hanno in qualche modo tradito la concezione monoteistica primigenia. La religione islamica permea con una serie di norme tutti gli aspetti della vita del mussulmano, anche nel suo svolgimento quotidiano: la preghiera cinque volte al giorno, il digiuno nel mese del Ramadàn, l’obbligo dell’elemosina, il pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, il divieto di bere alcolici e di mangiare carne di maiale, la liceità della poligamia e il ripudio della propria moglie. La religione islamica è in certo senso combattiva, mira alla conversione o alla sottomissione degli infedeli, in nome di Allah, e a chi muore nella “guerra santa” essa promette il paradiso: negli anni in cui i Cristiani intraprendevano la scellerata via delle Crociate, con le quali massacravano tutti i non-cristiani, gli Arabi, a seguito delle loro conquiste, si limitavano a convertire gli infedeli, senza massacrarli. In questo orizzonte di fede, non c’è distinzione tra potere religioso e civile: i successori di Maometto, detti califfi, sono al tempo stesso capi religiosi, politici e militari e guidano i fedeli alla conquista della Siria, della Palestina e dell’Egitto, giungendo in Oriente sino all’India e in Occidente nell’Africa settentrionale e in Spagna. In tal modo, l’originario nucleo arabo nel mondo musulmano si allarga e accanto alla lingua araba, che è quella del Corano e, dunque, la parola di Dio, diventano componenti importanti della cultura musulmana anche altre lingue, in particolare quella persiana. In questo mondo più ampio si vengono costituendo anche orientamenti religiosi diversi, talvolta in contrasto tra loro: i sunniti sono coloro che si attengono fedelmente alla sunnah, ossia all’insieme della tradizione riguardante la vita e l’insegnamento del profeta Maometto, mentre gli sciiti, pur riconoscendo la sunnah, ritengono che fonte del sapere teologico sia non soltanto l’accordo fra i dotti, ma anche il successore del profeta, detto “imam”, dotato d’infallibilità, capace d’interpretare allegoricamente il significato nascosto della Scrittura e di guidare la comunità dei musulmani. Le conquiste territoriali pongono i musulmani a contatto con la cultura del mondo greco, e ciò che di questa li interessa sono non tanto le espressioni artistiche e letterarie, quanto le scienze e la filosofia. Tutte le scienze rivelano l’unità della natura, poichè essa rimanda all’unità del principio divino di cui è, appunto immagine. Ciò a cui mira l’uomo di scienza, che raggiunge il culmine della sua attività nella contemplazione, è cogliere questa unità, realizzando così integralmente la sottomissione e l’abbandono a Dio. Questo spiega, da una parte, il peso centrale rivestito dall’esperienza mistica nella cultura islamica: il “sufi” (termine che probabilmente allude al saio da lui indossato) è colui che, per via di purificazione e ascesi abbandonandosi alla misericordia di Dio, allenta i legami col mondo, supera la propria individualità sino a raggiungere l’unità divina. Uno dei Sufi più famosi è al-Hallag nato in Persia, fautore di un’ascesa mistica incentrata sull’amore, che verrà perseguitato e poi decapitato nel 922. La tesi dell’unità assoluta di Dio è anche alla base dell’interesse nutrito dagli arabi per le scienze della natura e per la matematica, considerate come vie d’accesso all’unità della natura nella totalità dei suoi aspetti. Essi daranno, infatti, decisivi contributi all’astronomia e alla medicina, ma anche nell’ottica, grazie soprattutto a colui che i latini conosceranno come Alhazen, vissuto tra il X e l’XI secolo. Particolare impulso ricevette anche l’alchimia, intesa come tecnica in grado di trasformare le sostanze naturali, per esempio, i metalli in altre sostanze più nobili (come l’oro). Il presupposto di essa è l’antica concezione di una simpatia che legherebbe tra loro tutte le cose, sicchè l’azione esercitata su una di esse produce i suoi effetti anche su altre; inoltre, attraverso le operazioni alchemiche, l’ anima purificherebbe se stessa e ascenderebbe, quindi, verso l’unità divina. Già nell’ VIII secolo, con Gabir ibn Hayyan, l’alchimia ha un notevole sviluppo, come sarà poi, nel X sec., nel sud della Spagna ad opera di al-Magriti. Uno scritto, a lui erroneamente attribuito, dal titolo “Lo scopo del sapiente”, sarà tradotto in latino col titolo “Picatrix” e diventerà un testo classico dell’alchimia e della magia in Occidente. Agli Arabi si deve anche l’elaborazione dell’algebra, ignota agli antichi e “destinata all’estrazione di incognite numeriche e geometriche” secondo la definizione datane da uno dei maggiori autori di algebra, il poeta persiano Omar Khayyam, vissuto tra l’XI e il XII secolo. In questa direzione egli era stato preceduto da al-Khuwarizimi, già operante nella prima metà del IX secolo e dal cui nome deriva il termine “algoritmo” per indicare una particolare tecnica di calcolo. La matematica, inclusa l’algebra, appariva nel mondo arabo come una via privilegiata di accesso al mondo intelligibile, secondo l’antico insegnamento platonico. Il primo rilevante contatto degli arabi con i testi filosofici greci avviene nel IX secolo, in parte attraverso la meditazione della cultura siriaca. Già nella seconda metà del IV secolo, il cristianesimo si era diffuso in Siria e ad Odessa si era costituita una scuola dedita anche alla traduzione in siriaco di opere di Aristotele, considerato ben più di Platone, il vero filosofo. Aristotele, infatti, forniva gli strumenti logici e concettuali con i quali affrontare le dispute teologiche. Quest’opera di traduzione continuò anche dopo la conquista araba, avvenuta nel VII secolo. Giacomo e Giorgio di Odessa, morti nei primi decenni dell’VIII secolo, Traducono e commentano soprattutto opere logiche di Aristotele, mentre pressoché ignote rimangono le opere non logiche. Verso la metà dell’VIII secolo, la capitale del dominio arabo viene trasferita da Damasco a Bagdad. Qui, nell’815, è istituita dal califfo al-Ma’mun la Casa della Sapienza, con annessi una biblioteca e un osservatorio astronomico; in essa, viene avviato un intenso lavoro di traduzione di testi greci dal siriaco o direttamente dal greco. Propulsore di questa attività è un cristiano, Hunain ibn Isaaq (810-877), noto ai latini col nome di Joannitius. Il suo obiettivo, perseguito anche dal figlio e dal nipote, è la traduzione sistematica di quasi tutte le opere note di Aristotele, ma già nel X secolo, queste traduzioni erano divenute rare e se ne dovettero intraprendere altre. L’immagine di Aristotele che ne risultava era però intrisa di forti elementi di provenienza neoplatonica: infatti, ad Aristotele erano anche attribuite una teologia, che è in realtà un insieme di estratti dalle “Enneadi” di Plotino e da commentari diPorfirio, e un “Libro sul Puro Bene”, che sarà poi noto ai latini col titolo di “Liber de causis”, il cui contenuto deriva dagli “Elementi di teologia” di Proclo. Questi testi consentivano di porre a coronamento del pensiero aristotelico una teologia che concepisce Dio non soltanto come causa finale, bensì anche come sorgente dalla quale emana il tutto. L’interesse iniziale per la filosofia e la scienza greche deriva in gran parte dalle dispute che avevano luogo a Damasco o a Bagdad tra cristiani, ebrei e musulmani, nel corso delle quali, per evitare di avere la peggio, questi tentarono d’impadronirsi delle tecniche argomentative elaborate dai greci, in particolare da Aristotele. Il problema che nasceva da questo incontro con la filosofia greca, era che queste tecniche, ritenute valide, portavano a volte a conclusioni che potevano apparire incompatibili con i contenuti della religione rivelata nel Corano. In generale i filosofi arabi intesero non tanto mettere in discussione o addirittura abbandonare questi contenuti, quanto individuare connessioni possibili tra il piano dell’esperienza religiosa , comune a tutti i fedeli , e il piano della riflessione filosofica , destinato a pochi . Non si deve tuttavia pensare che quest’aspetto sia stato più rilevante nell’esperienza religiosa e nella riflessione teologica dell’Islam; i filosofi arabi inclini a ripercorrere le orme degli antichi, in particolare di Aristotele, furono una minoranza, che non riuscì, e forse soprattutto non mirò, a diffondere la propria riflessione in vaste cerchie. Tuttavia é proprio questa minoranza di filosofi che rivestì notevole importanza per gli sviluppi della ricerca filosofica nell’Occidente medioevale. Personaggi dal magnifico ingegno, quali Averroè, Avicenna e al-Gazali, segnano l’apice e, al contempo, l’ultimo stadio della cultura islamica: dopo che essi – grani ammiratori di Platone, di Aristotele e dell’intero mondo greco – (soprattutto Averroè) portarono la ragione umana alle stelle (per Averroè vale più la ragione che non il Corano), avviando una riflessione di altissimo livello (per alcuni aspetti anche superiore a quella che in contemporanea andava elaborando l’Occidente cristiano), ci fu un brusco declino, dovuto alla religione islamica, per sua natura oppressiva e avversa ai dettami della ragione. L’Islam tacitò ben presto la ragione, ripristinando l’indiscusso primato della fede e condannando duramente le teorie razionalistiche di Averroè (la cui fama – non è un caso – si diffuse più nell’Occidente cristiano che non nel mondo arabo): questo ripiegarsi sulla religione, mettendo al bando la ragione e le sue illuminanti trovate, costò caro al mondo arabo, che da allora precipitò in una chiusura soffocante, avviandosi ad essere definitivamente sopraffatto sul piano filosofico dal mondo occidentale, il quale – un po’ alla volta (l’Illuminismo segnerà il momento culminante) – riuscì a liberarsi da quell’orpello che era la religione cristiana, avversa anch’essa ai dettami della ragione e mirante a sottomettere l’uomo alla fede. Nell’Occidente la modernità si aprirà appunto con una netta separazione tra la fede e la ragione (separazione teorizzata filosoficamente da Guglielmo di Ockham), le quali procedono da quel momento autonomamente su binari paralleli; nel mondo islamico, invece, dopo una breve fioritura del pensiero filosofico (Averroè, Avicenna), la religione tornerà a dominare incontrastata, rendendo statica e poco vivace una società in cui Aristotele, Platone e gli altri filosofi greci sono scalzati dal monopolio del Corano, dove il pensiero è sottomesso all’autorità del verbo divino.
AL-KINDI
A cura di Alessandra Nisticò
“E’ bene che noi tentiamo […] di richiamare ciò che concerne gli antichi,i quali hanno detto tutto nel passato – che è la via più facile e la più breve da adottare per coloro che li seguono – e progredire in quelle zone dove loro non hanno detto nulla”.
AL-KINDIConsiderato il primo filosofo musulmano, Al-Kindi (nato a Bassora nell’801 e morto a Baghdad verso l’873) operò all’interno della cerchia dei traduttori operanti a Baghdad; spirito assai poliedrico, egli si interessò di matematica, di medicina e di astronomia, oltrechè di filosofia. A lui si deve il primo grande tentativo di costruire una terminologia filosofica in arabo: a ciò è dedicato il suo scritto Le definizioni e le descrizioni delle cose. Uno dei suoi scritti più noti verrà in Occidente tradotto col titolo Sull’intelletto: in esso, Al-Kindi affronta una questione che farà storia e che sarà ripresa puntualmente – prospettando soluzioni spesso diversissime – da tutti i filosofi arabi successivi; si tratta della questione dell’intelletto, proposta (e lasciata in sospeso) da Aristotele nel III libro del De anima, in cui si accenna espressamente ad un intelletto attivo proveniente dall’esterno. Al-Kindi riprende da Aristotele la tesi secondo cui vi sarebbe nell’anima umana un intelletto potenziale che, per passare all’atto (ossia per conoscere di fatto gli oggetti intelligibili), richiede l’intervento di qualcosa che sia già in atto. Questo qualcosa già in atto è l’intelletto agente (o attivo), il quale conosce sempre in atto gli oggetti intelligibili, è distinto dall’anima ed è ad essa superiore. Tale intelletto è connesso alle sfere celesti incorruttibili e deriva direttamente da Dio, come i raggi che emanano dal sole.
VITA, OPERE E PENSIERO
Al-Kindi nacque e crebbe a Kufah, che nel IX secolo fu un centro arabo di cultura e sapere. Questo fu certamente il miglior posto per Al-Kindi per ottenere la migliore preparazione possibile al tempo. Sebbene ci siano pochi dettagli (e leggende) sulla vita di Al-Kindi in varie fonti, queste non sono tutte consistenti e attendibili. Il padre di al-Kindi era il governatore di Kufah, come suo nonno lo era stato prima di lui. Certamente tutti concordano nell’affermare che al-Kindi discendesse dalla tribù Royal Kindah originaria dell’Arabia meridionale. Tale tribù aveva riunito un certo numero di clan e raggiunto una posizione di preminenza nel V e VI secolo, ma dalla metà del VI secolo perse rapidamente potere e prestigio. Nonostante ciò, i discendenti della tribù Royal Kindah continuarono ad avere ruoli preminenti a corte anche nell’era musulmana. Dopo avere iniziato la sua formazione a Kufah, Al-Kindi si trasferì a Baghdad per completare i suoi studi e in seguito acquistò fama per la sua formazione scolastica. Venne all’attenzione del Califfo al-Ma’mun, il quale stava costruendo la “Casa della Saggezza” a Baghdad. Al-Ma’mun era uscito vincitore dalla lotta armata contro suo fratello nel 813 e divenne Califfo nello stesso anno. Governò il suo impero, prima da Merv poi, dopo l’818, governò da Baghdad dove dovette recarsi per metter fine ad un tentato colpo di stato. Al-Ma’mun era il patrone di un’accademia del sapere da lui fondata e chiamata “Casa della Saggezza” dove venivano tradotte le opere filosofiche e scientifiche greche. Al-Kindi venne assunto da al-Ma’mun nella “Casa della Saggezza” insieme a al-Khwarizmi e i fratelli Banu Musa: il compito principale in cui Al-Kindi e i suoi colleghi erano impegnati nella Casa della Saggezza consisteva nella traduzione di manoscritti scientifici greci. Al-Ma’mun aveva costruito una biblioteca di manoscritti, la più grande biblioteca costruita dai tempi di quella di Alessandria, che raccoglieva opere importanti da Bisanzio. Oltre alla Casa della Saggezza, al-Ma’mun aveva costruito anche osservatori in cui gli astronomi musulmani potevano lavorare sulle conoscenze acquisite dai popoli antichi. Nel 833 al-Ma’mun morì e gli successe il fratello al-Mu’tasim. Al-Kindi continuò a godere di favori e al-Mu’tasim lo assunse come tutore di suo figlio Ahmad. Al-Mu’tasim morì nel 842 e gli successe al-Wathiq al quale, a sua volta, gli successe come Califfo al-Mutawakkil nel 847. Sotto entrambi questi Califfi, Al-Kindi si trovò decisamente meno bene. Non è del tutto chiaro se ciò fu dovuto alle sue vedute religiose o a causa di litigi e rivalità con altri studiosi all’interno della Casa della Saggezza. Certamente al-Mutawakkil perseguitò tutti i gruppi non-ortodossi e non-musulmani, allo stesso tempo distrusse tutte le sinagoghe e le chiese di Baghdad. Certo è che molti degli scritti filosofici di Al-Kindi sembrano destinati a mostrare che egli credeva che la ricerca filosofica sia compatibile con l’Islam ortodosso. Questo sembra dimostrare che molto probabilmente al-Kindi sia divenuto la vittima di rivali come i matematici Banu Musa e l’astronomo Abu Ma’shar. E’ provato che i fratelli Banu Musa provocarono la perdita di favore di Al-Kindi presso al-Mutawakkil fino al punto che lo cacciò e diede la sua biblioteca ai fratelli Banu Musa. Al-Kindi fu più famoso come filosofo ma fu anche un matematico e uno scienziato importante. Presso il suo popolo fu conosciuto come il filosofo degli Arabi. E’ piuttosto sorprendente che un uomo di tale cultura venne impiegato per tradurre testi greci: Al-Kindi non sembra abbastanza fluente in greco da fare egli stesso le traduzioni. Piuttosto egli rifiniva le traduzioni fatte da altri e scriveva commenti su molte opere greche, rivelando grande padronanza del bagaglio concettuale greco (soprattutto aristotelico). Proprio dagli scritti di Aristotele egli fu fortemente influenzato, ma anche l’influenza di Platone, Porfirio e Proclo non manca. Non dobbiamo avere l’impressione che Al-Kindi prese in prestito le idee di questi filosofi antichi, perchè egli inserì le loro idee in uno schema generale che fu certamente di sua invenzione. Al-Kindi scrisse molte opere di aritmetica che includevano manoscritti di numeri indiani, l’armonia dei numeri, linee e moltiplicazioni con numeri, quantità relative, misuranti proporzioni e tempo,e procedure neumeriche e cancellazioni. Egli scrisse anche sullo spazio e sul tempo, entrambi dei quali egli credeva finiti, ‘dimostrando’ la sua tesi con il paradosso dell’infinito. In geometria al-Kindi scrisse, tra le altre opere, sulla teoria delle parallele. Egli ricercò la possibilità di esibire un paio di linee nel piano che non fossero parallele e che non si intersechino. Collegate con la geometria furono anche le due opere che egli scrisse sull’ottica, pur confondendo (secondo la prassi dell’epoca) la teoria della luce con la teoria della vista. Forse le parole di al-Kindi danno la migliore indicazione di ciò che egli cercò di fare nelle sue opere. Nell’introduzione ad uno dei suoi libri egli scrisse: “è bene… che noi tentiamo in questo libro, come è nostro costume in tutte le materie, di richiamare ciò che concerne gli Antichi che hanno detto tutto nel passato, che è la via più facile e la più breve da adottare per coloro che li seguono, e progredire in quelle zone dove loro non hanno detto nulla”. Certamente al-Kindi cercò con tenacia di seguire questo percorso. Per esempio, nella sua opera sull’ottica egli è critico riguardo una descrizione greca di Anthemius di come uno specchio venne usato per incendiare una nave durante una battaglia. Al-Kindi adotta un approccio più scientifico: “Anthemius non avrebbe dovuto accettare informazioni senza prove… Ci dice come costruire uno specchio dal quale 24 raggi sono riflessi in un singolo punto, senza mostrare come stabilire il punto in cui i raggi si uniscono ad una data distanza dal centro della superficie dello specchio. Noi, d’altro canto, abbiamo descritto ciò con tanta prova quanto la nostra abilità ce lo consente, fornendo ciò che mancava, poichè egli non ha menzionato una distanza definita”.
AL-RHAZI
Nato in Iran nell’865 e morto tra il 925 e il 935, al-Razi (noto ai latini come Rhazes o col soprannome di “Galeno arabo”) rappresenta un caso sui generis nel mondo musulmano. Infatti, al-Razi, che fu il medico più celebre dell’antichità dopo Galeno, non intende – come fecero parecchi suoi colleghi in quegli anni – la filosofia come una rilettura e una chiosa della Rivelazione in chiave razionale; al contrario, egli vede la filosofia come autonomia totale della ragione, come sola via per la verità. Per la sua filosofia s’ispirò non tanto ad Aristotele quanto a Platone e soprattutto ai naturalisti greci, integrandone le dottrine con la tradizione pitagorica ed ermetica, nonché con alcune credenze gnostiche, manichee, sabee, braminiche; anch’egli ebbe modo di costruirsi un patrimonio culturale che gli permise di elaborare teorie in ogni settore della filosofia.
In etica al-Razi si opponeva all’eccessivo ascetismo e si faceva interprete di una rivalutazione della medietà, sulla scia di Aristotele, ma anche di Epicuro. L’aspetto più celebre della filosofia di Razi è l’ammissione di cinque principi eterni (ammissione che egli fa ispirandosi al Timeo platonico e opponendosi al Corano): Dio, la materia, lo spazio, il tempo e l’anima. Al-Razi parla sì di creazione, ma non di creazione ex nihilo; Dio è incapace di creare dal nulla. Anche quando parla di creatore, pensa in realtà ad un demiurgo che, sul modello di quello del Timeo di Platone, plasma una materia preesistente. Il Dio a cui al-Rhazi fa riferimento è dunque assai più simile al Demiurgo platonico che non al Dio del Corano. Al-Rhazi rifiutò recisamente ogni possibilità di compenetrazione fra fede e ragione, legge religiosa e filosofia. Caso più unico che raro in filosofia islamica, infatti egli privilegia la ragione in quanto posseduta indistintamente da tutti gli uomini. La scienza ha un valore terapeutico rispetto all’anima, in quanto le consente di allontanarsi dal mondo materiale e di riavvicinarsi a quello da dove è venuta: per cui una volta che il processo di purificazione sarà completato, anche il mondo materiale si annullerà. Ma in attesa di questo momento, le anime individuali sono soggette a trasmigrare dall’uno all’altro corpo; ed è proprio in questo contesto che al-Rhazi ravvisò una sia pur parziale giustificazione morale dell’uccisione degli animali, per il resto da lui aspramente avversata. Se, infatti, l’uccisione degli animali feroci può essere motivata da legittima difesa, questo non vale certo per gli animali domestici: l’unico vantaggio che essi avrebbero nell’essere uccisi, sarà che la loro anima potrà, in tal modo, liberarsi dal corpo e accedere a una dimora “superiore” (come ad esempio un corpo umano), avanzando così nel processo di purificazione. Molto contrastavano con le generali idee musulmane anche le idee di al-Rhazi sulla metempsicosi; e soprattutto, com’è naturale, il fatto che egli avesse posto oltre a Dio altri quattro principi eterni. D’altra parte – e questo è davvero un aspetto sorprendente del suo pensiero – al-Rhazi criticò duramente tutte le religioni, che, essendo necessariamente in contraddizione fra loro, risultano contrarie all’unica autentica verità (quella colta dalla ragione), e sono motivabili solo in forza della tradizione e dell’abitudine. Esse (e il nostro autore attacca anche le varie forme di profetiamo) sono foriere solo di distruzioni e guerre e ostacolano il progresso della filosofia e della scienza: certo Platone e Aristotele o Euclide e Ippocrate furono più utili all’umanità che non gli autori dei Vangeli. Ma al-Rhazi arrivò addirittura a negare il carattere fondamentale della religione musulmana, cioè il profetismo. E se è dubbio che egli possa essere considerato ateo, però, almeno per questo aspetto, sarà stato considerato kafir dai Musulmani. Si tenga presente che kafir, comunemente tradotto con “infedele”, in senso proprio è colui che rifiuta la grazia concessa da Dio al profeta nel momento in cui lo rende depositario della Rivelazione. Comunque anche per il “laico” al-Rhazi, il massimo obiettivo intellettuale coincide con la conoscenza del creatore, ancora una volta posta in cima a un curriculum di scienze. In virtù della sua radicalità, la posizione di al-Rhazi non ebbe alcun peso nel mondo musulmano.
AL-ASHARI
Al-Ashari – di cui conosciamo la data della morte (936) ma non quella della nascita – è stato il fondatore di una delle principali sette mussulmane e ha ottenuto il titolo di “terzo riformatore dell’Islam”. Dal suo punto di vista, ogni cosa è stata creata soltanto dal fiat divino: Dio è assolutamente onnipotente, non vi è nulla che non dipenda dal suo potere absolutum. Il bene e il male esistono soltanto per sua volontà. Questi princìpi venivano sviluppati – da lui e dai suoi discepoli – in direzioni metafisiche inaspettate, prospettando una concezione dell’universo molto originale: tutto è disarticolato nel tempo e nello spazio, in modo che Dio, nella sua onnipotenza sciolta da ogni vincolo, possa circolarvi a proprio agio, senza limiti di alcun tipo. La materia è composta da atomi disgiunti e dura in un tempo costituito da istanti anch’essi disgiunti: ogni momento è indipendente da quello precedente e senza effetti su quello seguente; il tutto – sia sul piano materiale, sia su quello spaziale – è tenuto insieme solo e soltanto dalla volontà di Dio. Il mondo è quello che è in virtù dell’onnipotenza divina, che lo tiene insieme e lo fa procedere con la regolarità a cui siamo abituati. Dio mantiene il mondo al di sopra del nulla e lo anima con la sua efficacia: senza l’intervento divino, il mondo si disgregherebbe, poiché manca di una sua unità e di una sua continuità. È questa la prospettiva filosofico-metafisica di al-Ashari e degli Ashariti, suoi seguaci: una prospettiva che, indubbiamente originale nel mondo mussulmano, ha attirato l’attenzione del pensatore ebraico Maimonide e, successivamente, dello stesso Tommaso d’Aquino. Se volessimo comprendere la posizione di al-Ashari e degli Ashariti facendo riferimento a categorie filosofiche anche successive, potremmo dire che la loro prospettiva metafisica era incentrata, da un lato, su un atomismo di tipo democriteo-epicureo, in forza del quale il mondo materiale veniva concepito come un aggregato di atomi tra loro disgiunti; e, dall’altro lato, su una sorta di “occasionalismo” che precorreva, per alcuni versi, quello successivo di Malebranche e tale da richiedere un intervento costante di Dio nel mondo, in modo che il mondo stesso fosse tenuto insieme e non si disgregasse nel nulla.
AL-FARABI
Al-Farabi nacque a Wasij, nella provincia di Farab nel Turkestan nel 872 da famiglia nobile. Il padre, di origine persiana, era militare alla corte turca. Trasferito a Baghdad, studiò grammatica, logica, filosofia, musica, matematica e scienze. Era il pupillo di Abu Bishr Matta bin Yunus. Studiò anche sotto il chierico nestoriano Yuhanna bin Haylan ad Harran. Fu affiliato alla scuola di filosofia Alessandrina che aveva sede ad Harran, Antiochia e Merv prima di stabilirsi definitivamente a Baghdad. In seguito agli anni di studi accumulò tale conoscenza della filosofia da essere apostrofato come “il secondo maestro”, in riferimento ad Aristotele, “il primo maestro”. Fu ad Aleppo nell’anno 943 e fece parte del circolo letterario della corte di Sayf al-Dawla Hamdani. Fu probabilmente la disperazione nel riformare la società in cui viveva a farlo inclinare verso il sufismo. I suoi viaggi lo portano in Egitto e a Damasco nel 950 dove egli muore all’età di 80 anni. Stando ad al-Farabi la filosofia esisteva anticamente presso i caldei , popolo dell’ Iraq , e successivamente giunse in Egitto , poi in Grecia e , infine , presso gli arabi . Egli colloca dunque se stesso in linea di continuità con la tradizione filosofica greca , il cui vertice é rappresentato ai suoi occhi da Aristotele . Sull’ insegnamento di Aristotele modella le linee fondamentali della sua classificazione delle scienze nello scritto ” L’ enumerazione delle scienze ” ( noto ai latini come ” Sulle scienze ” ) , e , non a caso , metà delle sue opere sono dedicate alla logica . Ma se Aristotele é colui che gli offre i più importanti strumenti concettuali , l’ obiettivo perseguito da al-Farabi é emblematicamente espresso dal titolo di un’ altra sua opera , ” Sulle concordanze di Platone e Aristotele ” . Al-Farabi distingue negli esseri finiti tra esistenza ed essenza . In un uomo , per esempio , si possono distinguere l’ insieme delle proprietà costitutive ( non accidentali ) che fanno di lui un uomo e il fatto di esistere . Non necessariamente l’ insieme di tali proprietà , che possono essere pensate , comporta l’ esistenza di quell’ individuo singolo . Questa distinzione si collega ad un’ altra , formulata da al-Farabi , tra essere possibile ed essere necessario . Tutti gli esseri finiti , che popolano il mondo , sono suscettibili di nascere e perire : ciò significa che essi sono contingenti , possono essere e cessare di essere , ossia la loro essenza non implica necessariamente la loro esistenza . In quanto contingenti o soltanto possibili , possono passare all’ esistenza soltanto in virtù di una causa , che , invece , non ha bisogno di altro per esistere . Quest’ ultima é l’ essere necessario per sé . E’ assurdo supporre che l’ essere necessario non esista : l’ essenza di ciò che é necessario é il non poter non essere . In questo essere necessario , cioè Dio , essenza ed esistenza fanno tutt’ uno ; egli , dunque , esiste necessariamente ed é unico . Sarà pertanto Dio a conferire esistenza alle essenze : tutto dipende da Dio , anche se ciò non significa che Dio crei direttamente tutte le cose . Su questo punto al-Farabi riprende la dottrina plotiniana dell’ emanazione : per sovrabbondanza da Dio emana necessariamente un primo intelletto , questo é capace di pensare Dio e da ciò deriva un nuovo intelletto , ma é anche capace di pensare a se stesso e da ciò deriva il primo cielo . Così , per emanazioni successive , si originano gli altri intelletti sino a quest’ ultimo , il decimo : essi sono associati , via via , al cielo delle stelle fisse , poi a Saturno , a Giove , Marte , Sole , Venere , Mercurio e Luna . L’ ultimo intelletto , proprio della sfera della Luna , é l’ intelletto agente , che produce le forme delle cose ed é unico e separato dalla molteplicità delle anime umane . Per spiegare come si forma la conoscenza umana al-Farabi riprende , nell’ ” Epistola sull’ intelletto ” , la distinzione già presente in al-Kindi fra 4 intelletti . L’ intelletto materiale o in potenza é l’ unico di cui l’ uomo dispone : esso ha possibilità di astrarre le forme , ossia gli universali , dalle cose . L’ intelletto in atto é quello che conosce di fatto queste forme intellegibili . Ma l’ intelletto potenziale umano può passare all’ atto non in virtù di se stesso , bensì solamente ad opera dell’ intelletto agente , che é sempre in atto e illumina l’ intelletto umano . Esercitandosi sulle forme intellegibili , quest’ ultimo può allora pervenire a nozioni sempre più alte , sempre più separate da riferimenti alla materia : si ha allora l’ intelletto acquisito . Tutto il processo della conoscenza ha dunque il suo motore nell’ azione esercitata dall’ intelletto agente , che é divino . E’ questo intelletto che , in congiunzione con l’ immaginazione , guida il profeta , l’ imàm , colui che ha purezza di cuore . Si ha allora il vertice supremo dell’ intelletto santo , capace di interpretare allegoricamente il Corano . Ricollegandosi alle tendenze sciite , al-Farabi attribuisce all’ imàm la funzione di capo della vera comunità ; infatti , essendogli concesso di accedere alla visione di Dio , egli é in grado di ricevere le leggi , che devono stare a fondamento della società . Questi temi sono affrontati da al-Farabi nell’ opera intitolata ” La città perfetta ” , contrapposta alla città errante , nella quale é diffusa una falsa nozione di Dio ed é guidata da falsi profeti . Per delineare la figura del profeta , al-Farabi non esita a ricorrere al filosofo-re della ” Repubblica ” di Platone ; d’ altra parte tra le sue opere si annoverano anche uno scritto ” Sulla filosofia di Platone ” e un ” Commento alle Leggi di Platone ” . Al-Farabi ritiene che Platone mescoli nei suoi scritti espressioni chiare ed esplicite con allegorie ed enigmi per non divulgare e svilire le scienze consegnandole nelle mani di uomini ignoranti . Dalla lettura di Platone egli fa dunque emergere un altro problema importante per la futura filosofia araba e la filosofia ebraica in terra musulmana : se la scienza possa e debba essere destinata a tutti o solo ai pochi in grado di intenderla senza corromperla .
AVICENNA
Nome latinizzato del filosofo, medico e letterato persiano Abu Ali al-Husain Ibn Sina (Afshana, presso Buhara, 980 – Hamadan 1037). Figlio di un funzionario della dinastia persiana dei Samanidi, manifestò fin da fanciullo una spiccata attitudine per gli studi filosofici e scientifici e in particolar modo per la medicina. Attivo sostenitore del patriottismo iraniano, fu ministro (wazir) sotto i Buwaihidi a Hamadan, ma dopo la conquista della città da parte del sultano turco gasnavide Mahmud, si trasferì a Esfahan, dove divenne consigliere del principe kakuyide !Ala’ ad-Dawlah. Morì durante una campagna per la riconquista di Hamadan. Le opere specificamente filosofiche di Avicenna sono il Libro della Guarigione e il Libro della Liberazione, scritte in arabo, che era la lingua dotta dell’epoca, e il Libro della Sapienza, in persiano, un’esposizione semplificata del suo sistema filosofico, dedicata al principe !Ala’ ad-Dawlah.
IL FILOSOFO
In filosofia Avicenna non intese costruire un sistema originale ma, negando all’aristotelismo (che pur egli professa nel Libro della Liberazione) la qualifica di verità completa, volle limitarsi a esporre il pensiero di Aristotele come uno dei gradi della verità. Principio di questa filosofia è Dio, come essere necessario, da cui emanano in ordine gerarchico le Intelligenze e quindi gli esseri materiali. Dio, come essere necessario, è identità di soggetto e oggetto, di intelletto intelligente e oggetto dell’intellezione. Egli non agisce che necessariamente e i suoi prodotti, essendo inferiori alla causa da cui emanano, si dispongono in una scala discendente. Conseguentemente non v’è un inizio temporale del mondo, perché Dio agisce dall’eternità e i suoi effetti gli sono contemporanei. La necessità così affermata del mondo come di Dio è tuttavia in essi differente: Dio è necessario in sé, gli enti creati in sé sono solo possibili, mentre divengono necessari solo a causa di Dio. V’è inoltre un’altra distinzione tra gli enti creati: le Intelligenze motrici e le loro sfere hanno un’esistenza eterna e un’azione costante, non dipendendo da alcuna materia e non provenendo il loro moto da una decisione nel tempo come per l’intelligenza umana. Per esse si può parlare di creazione in modo del tutto diverso che per le cose materiali; in queste la forma intelligibile è accolta da una materia determinata da particolari condizioni di spazio e tempo, da una certa miscela di elementi. Ora, la materia è ciò che è unico in tutti gli enti materiali, mentre diverse sono le forme che essa può accogliere. Causa della materia sarà quindi ciò che v’è di uguale e uniforme nei cieli, il movimento circolare, che si trasmette mediante il cielo della Luna. Causa delle forme, quindi della diversità, sarà l’influsso dei diversi astri che giunge alle cose materiali parimenti attraverso il cielo della Luna. L’uomo ha un posto determinato in questa struttura universale: la sua anima non può conoscere che gli oggetti dei sensi, eppure attraverso questi ha accesso agli intelligibili. La conoscenza pura di questi le potrà convenire solo quando sarà separata dal corpo. Due sono le vie della conoscenza umana. Mediante la prima l’uomo giunge alla conoscenza dei principi comuni del pensiero, che si ritrovano sin da principio in tutti gli uomini: ciò avviene per una diretta emanazione divina. Mediante la seconda invece l’uomo astrae dai dati sensibili le forme delle cose, dapprima ottenendone i principi universali, poi agendo liberamente e cogliendo agevolmente le forme di tutti gli oggetti. Ciò avviene perché l’intelletto potenziale, che è presente in ogni uomo, viene fatto passare all’atto e diviene così identico alle forme degli oggetti che pensa. L’intelletto potenziale si muta in intelletto in atto non per sé solo, ma per effetto di un intelletto attivo non commisto alla potenzialità. Separata dal corpo, l’anima può meglio unirsi all’intelletto attivo e proseguire senza intralci nella conoscenza. Nei sogni e nelle visioni profetiche questa più intima unione è già in atto durante la vita.
IL LETTERATO
L’opera poetica persiana attribuita ad Avicenna comprende dodici quartine, un ghazal, un frammento (ma c’è chi pensa che sia l’autore di una parte del corpus di Umar Hayyam); quella prosastica è composta da alcuni affascinanti racconti allegorici. Nella quartina la riflessione lirica fa da supporto ad aforismi scettici, amari, lucidamente materialistici, più ammonitori nei riguardi delle illusioni umane che non moraleggianti nel senso usuale del termine.
IL MEDICO
Nella medicina Avicenna è considerato uno dei massimi esponenti del periodo migliore della scuola medica araba; in arabo scrisse i suoi studi di anatomia, fisiologia, patologia e farmacologia, raccolti nel testo Il canone che, tradotto in latino nel sec. XII da Gherardo da Cremona col titolo di Liber canonis medicinae e ritradotto da Andrea Alpago nel sec. XV, influenzò per lungo tempo la medicina europea. La medicina di Avicenna, in buona parte di derivazione galenica, appare come una costruzione unitaria paragonabile, per il rigore scientifico svincolato da influenze filosofiche, a una disciplina matematica. Avicenna ci ha lasciato anche numerosi scritti riguardanti l’astronomia, la matematica e le scienze naturali, contenuti specialmente nel Libro della Guarigione.
AL-GAZALI
La reazione più dura contro Avicenna e contro la pretesa dei filosofi, cultori del pensiero greco , in particolare aristotelico , di accedere alla verità , avviene nell’ XI secolo ad opera di al-Gazali , detto ” ornamento della fede ” . Nato nel 1058 presso Tus , nel Khorasan , da una famiglia di giuristi e di ” sufi ” , dopo aver studiato con un teologo asharita e un sufi , insegnò a Baghdad , ma poi ebbe una crisi , lasciò l’ insegnamento , rinunciò ai beni e si dedicò a vita contemplativa , rimanendo due anni su un minareto della moschea di Damasco . Dopo essersi recato a Gerusalemme e in pellegrinaggio alla Mecca e a Medina , riprese l’ insegnamento nel 1106 , ma morì poco dopo nel 1111 . Al-Gazali é autore di un’ autobiografia intitolata ” Salvezza della perdizione ” , nella quale racconta il suo itinerario spirituale . Dalla fiducia iniziale nei poteri conoscitivi dei sensi , egli passò ben presto al dubbio e muovendo alla ricerca di una verità indubitabile , si rese conto che i più pretendono indebitamente di saperla cogliere: i teologi enunciano verità , ma accettate sulla base della Scrittura o del consenso della comunità ; alcuni di essi praticano l’ interpretazione allegorica , ma anche questa non ha criteri di certezza , se non l’ infallibilità riconosciuta alla figura dell’ ” imam ” ; i filosofi , invece , pretendono di valersi della sola ragione . Al-Gazali ne studia ed espone oggettivamente le dottrine nell’ opera intitolata ” Le tendenze dei filosofi ” ; alla loro confutazione egli invece provvede con l’ opera successiva intitolata ” L’ incoerenza dei filosofi ” , nota ai latini come ” La distruzione dei filosofi ” . In essa , impiegando tecniche argomentative filosofiche , egli mostra che la filosofia non é in grado di pervenire a conoscenze autentiche su Dio e sui contenuti della fede religiosa . Ciò vale per i materialisti , che negano addirittura l’ esistenza di un Dio creatore , e per quei filosofi , che nonostante l’ammissione di un Dio creatore , negano l’ immortalità dell’ anima , ma vale anche per i teisti , come Platone e Aristotele e i loro seguaci . Della filosofia aristotelica , al-Gazali accetta soltanto quanto é attinente alla logica e alla dialettica . Egli procede a confutare una ventina di tesi filosofiche incompatibile , ai suoi occhi , con le credenze religiose : tre in particolare , l’ eternità del mondo , la limitazione della conoscenza di Dio agli universali e la negazione della resurrezione dei corpi . In generale , queste tesi contrastano con il Corano e portano a limitare il potere di Dio ; infatti , sostenere che il mondo sia eterno equivale a dire che Dio non é causa di esso , perchè di due entità eterne una non può essere causa dell’ altra , così come parlare di emanazione del mondo dall’ unità significa escludere da Dio la volontà . Altrettanto , la tesi che Dio non può conoscere le cose e gli eventi individuali é in conflitto con l’ onnipotenza e la provvidenza di Dio . Secondo al-Gazali , il fatto che gli oggetti conoscibili siano diversi e molteplici non introduce mutamenti nell’ essenza divina che li conosce , altrimenti Dio non potrebbe conoscere neppure gli universali , dato che questi sono infiniti di numero , mentre egli é unico . Analoga limitazione all’ onnipotenza di Dio introduce la negazione della resurrezione dei corpi . Al-Gazali muove anche una critica radicale al concetto cardine della fisica aristotelica , il concetto di causalità e per questo sarà duramente attaccato da Averroè . La relazione di causa-effetto deriva , secondo al-Gazali , dall’ abitudine ad osservare eventi concomitanti . In realtà , quelle che chiamiamo causa ed effetto sono due entità distinte : l’ esistenza della prima non comporta l’ esistenza della seconda . Le entità naturali non hanno potere causale ; é solo Dio che può agire come causa direttamente o attraverso suoi intermediari ( gli angeli ) . In questo senso , egli può anche infrangere in qualsiasi momento la connessione per noi abituale , tra eventi e , quindi , operare miracoli : ciò che al-Gazali intende così affermare , contro le dottrine dei filosofi , é l’ assoluta onnipotenza di Dio . La strada per arrivare a Dio é dunque indicata non dai filosofi , ma dai sufi . L’ unica via di salvezza é data dalla fede religiosa , che ha il suo culmine nell’ esperienza mistica . Ad illustrare questo aspetto al-Gazali dedica varie opere , dalla ” Rivivificazione delle scienze religiose ” , all’ ” Epistola mistica ” e alla ” Rivelazione dei cuori ” . Dio abita nell’ anima dell’ uomo , che occupa una posizione intermedia nella gerarchia degli esseri . Il fine dell’ uomo é pervenire all’ unità divina , che é il sommo bene , non tanto tramite la conoscenza , quanto tramite la volontà e l’ amore . A tale scopo , occorrono il pentimento , la purificazione e la rinuncia al mondo per sentirsi sottomessi al volere di Dio . Il culmine della relazione tra l’ uomo e Dio é raggiunto nella confidenza in Dio , dalla cui grazia dipende ogni nostra buona azione , e nell’ annullamento in lui . L’ opera di al-Gazali troncò nettamente i tentativi di innestare l’ aristotelismo e , in generale , la filosofia greca e le sue tecniche argomentative , sul terreno dell’ Islam .
IBN BAGIAH (AVEMPACE)
La figura di Avempace (Ibn Yahyâ Ibn al-Sâ’igh Ibn Tujîbî Ibn Bâjja), è tuttora problematica e oscura a causa della frammentarietà delle fonti di cui disponiamo. Avempace si colloca cronologicamente tra il 1085-1090 e il 1138-1139 (anno 533 dell’Hégira), in un contesto storico segnato dalla grave instabilità politica nella Spagna musulmana, denominata al-Andalus, seguita alla caduta del califfato omayyade di Cordova, e alla conseguente crisi del potere musulmano nella penisola iberica nell’epoca, di grossa frantumazione politica, dei reyes de taifas (“re dei piccoli stati”). L’intervento degli Almoravidi, già costituitisi in impero nell’Africa settentrionale, invocato dalle città stato per far fronte alla Reconquista cristiana della penisola iberica, sembra segnare una nuova stagione di unità politica, con la limitazione graduale di tutte le autonomie delle singole città stato che si erano costituite a seguito della caduta degli omayyadi e con la cessazione quasi totale dell’avanzata cristiana verso il centro-sud. Il clima culturale che sembra segnare la vita di Saragozza, la città natale di Avempace, è vivace ma, al tempo stesso, complesso e problematico: senza dubbio è rintracciabile la presenza, favorita anche dalla serena convivenza tra ebrei, cristiani e musulmani, di scuole ad orientamento filosofico di buona rilevanza, non solo islamiche, ma anche giudaiche, di cui l’esponente maggiormente rilevante può certamente essere considerato Ibn Gabirol (1022-1058), noto ai latini con il nome di Avicebron. D’altra parte, al graduale affermarsi dell’insegnamento dei falâsifah, i filosofi, corrisponde la presenza, in netta convergenza ideologica con il potere almoravide, della scuola giuridico-religiosa mâlikita, diffidente e particolarmente rigida nei confronti della libera attività razionale. Resta il fatto che Avempace dovette entrare ben presto in contatto con le varie fonti arabe della tradizione neoplatonica, segnate, circostanza spesso ricorrente nel caso della filosofia islamica, dalla convergenza sincretica tra indicazioni platoniche e aristoteliche (si pensi al Liber de causis ed alla Theologia Aristotelis). Sotto questa forma, ma è certa la presenza e la disponibilità anche di opere integrali, Avempace entra in contatto con il patrimonio costituito dalla tradizione greco-ellenistica, occupandosi non solo specificamente di filosofia, ma anche di scienze astronomiche, musica e medicina, attirandosi ben presto, accanto all’ammirazione dei governatori almoravidi, anche le critiche violente, probabilmente per l’eterodossia che molti intravedevano nell’affermarsi graduale di una tradizione specificamente filosofica, dei giurisperiti di tradizione mâlikita. Non ci sono prove decisive per ritenere fondate tali accuse (non è rinvenibile, nei testi di Avempace a noi giunti, né una negazione dell’unicità di Dio né la negazione della verità costituita dalla rivelazione coranica). Tuttavia, nonostante buona parte delle fonti sulla vita di Avempace risultino compromesse dall’ostilità di buona parte dell’ambiente religioso, Resta il fatto che Avempace non solo dovette essere probabilmente uno dei primi commentatori di Platone e di Aristotele in al-Andalus, ma costituisce anche una testimonianza fondamentale per la comprensione di alcune peculiarità specifiche del pensiero islamico in ambito specificamente filosofico.
Individuare in modo immediato il nucleo tematico del Regime del solitario (la grande opera di Avempace) è problematico. Al centro dell’opera vi è un individuo solitario che, isolato dalla società e dai vizi in essa serpeggianti, percorre il suo itinerario fino all’unione con l’intelletto agente; Aristotele viene da Avempace letto in una prospettiva schiettamente religiosa, tale per cui il fine ultimo è da ravvisarsi nella contemplazione di Dio. Il centro della riflessione di Avempace sembra essere il ruolo e la posizione del filosofo all’interno della società civile. L’orizzonte metafisico, in cui emerge e si colloca tale riflessione, è segnato da una struttura del reale ipostaticamente gerarchizzata, cardine della tradizione neoplatonica. La definizione preliminare del tadbîr, regime, come “organizzazione degli atti in vista di un fine” introduce un’analisi tassonomica delle diverse tipologie si società possibili, postulando, in diretta continuità con la Repubblica platonica, l’esistenza di quattro tipologie di città imperfette e una tipologia di città perfetta, in cui la verità e il bene trovano il loro pieno compimento come forma di massima armonia sociale, e in cui il filosofo trova realizzata nella sua possibilità ultima la propria perfezione spirituale. Tuttavia, nonostante il richiamo diretto alla tradizione platonica, la trattazione non sembra poggiare né su di un mero intento analitico-descrittivo, riguardo il quale Avempace sembra riconoscere nella Repubblica un’opera definitiva, né essa sembra condividere dell’impostazione platonico-aristotelica (ma è difficile stabilire se Avempace abbia letto o meno la Politica di Aristotele) il progetto fondativo e costruttivo che sembra sorreggere la riflessione politica dei grandi filosofi greci. Il presupposto fondamentale della riflessione condotta da Avempace nel Regime del solitario, e che sembra predeterminare la stessa posizione della domanda circa il nesso tra filosofia e politica, appare radicalmente opposto: la città perfetta costituisce una prospettiva di società civile assolutamente e irrimediabilmente utopica, irraggiungibile. Una società in cui la politica si costituisca come garante della perfetta armonia e della felicità del filosofo non sembra, agli occhi di Avempace, concretamente realizzabile. La questione fondamentale del pensiero greco, platonico e aristotelico, appare, dunque, totalmente ridislocata in un contesto in cui la domanda sul ruolo del filosofo nella costruzione di una forma perfetta di convivenza civile si ripropone come domanda sulla posizione del filosofo all’interno di una società civile costitutivamente destinata alla corruttela. La risposta di Avempace a tale questione, risposta che costituisce la tesi di fondo del Regime del solitario, sembra essere la seguente: in una società imperfetta, in cui non sussiste alcuna connessione reale tra politica e ricerca della felicità, intesa come perfezione spirituale e intellettuale, il filosofo può optare in via esclusiva per una scelta di isolamento dalla realtà mondana, nell’ottica di perseguire il compimento ultimo della propria essenza specifica, la libera attività razionale, nella contemplazione del mondo intellegibile e del Divino. In questa prospettiva, la figura del solitario è la sola che può caratterizzare il modus vivendi proprio del filosofo, il solo che possa dirsi autenticamente uomo, a cui spetta, come fondamentale scelta esistenziale, un percorso etico-gnoseologico di emarginazione e di, tratto tipicamente neoplatonico, risalita dal mondo delle apparenze ad una realtà attingibile solo mediante il libero uso della razionalità, pervenendo così ad una condizione paragonabile a quella di Dio.
La parte del Regime del solitario pervenutaci sotto la denominazione di Trattato delle forme spirituali, specifica ulteriormente, con l’esposizione della teoria avempaciana dell’intelletto, la cifra e l’orizzonte metafisico della proposta avanzata da Avempace.
Le forme spirituali costituiscono una serie di gradi conoscitivi ipostaticamente e gerarchicamente organizzati, in linea ascensionale, in proporzione al loro grado di immaterialità. Dunque, esistono forme spirituali in misura maggiore o minore condizionate e determinate da elementi materiali, e forme spirituali che, prive di materialità, possono dirsi pure o universali. Le prime possono dirsi relate sotto una duplice prospettiva: individualmente, come forma di un oggetto sensibile; in modo “accidentalmente” universale, nella misura in cui tali forme vengono percepite dal senso comune. La seconda tipologia di forme, quelle universali, si costituisce per il fatto che tali forme appaiono sussistenti di per sé e aventi esclusivamente una relazione con l’individuo umano, che le intende per astrazione dalla materia. Il movimento conoscitivo, mediante il quale quest’ultima tipologia di forme è accessibile, è in realtà duplice: tali forme possono essere intese, per l’appunto, a partire da un processo astrattivo mediato da facoltà naturali, quali il senso comune, l’immaginazione, la memoria. Tuttavia, tale processo non è sufficiente perché le forme intese secondo questa modalità si diano secondo il loro carattere universale. La cifra del processo astrattivo, secondo Avempace, è la costituzione di una disposizione al ricevimento di un apporto attualizzante in qualche modo estrinseco. Viene introdotto in questo modo una delle problematiche maggiormente ricorrenti nei falâsifah della tradizione arabo-islamica, seppure secondo modalità spesso differenti e in contrasto tra loro: il ruolo dell’intelletto agente. Tale principio, nell’orizzonte metafisico tipico del pensiero filosofico islamico, possiede una sua precisa collocazione all’interno dell’universo cosmologico (e dunque si costituisce come una vera e propria intelligenza agente), costituendosi come principio supremo dell’intelligibilità delle cose, garante epistemico della conoscenza umana in quanto responsabile sia dell’informazione della materia che dell’elemento che completa il movimento astrattivo posto in essere dall’uomo, ossia dell’emanzione dei corrispondenti contenuti noetici in un intelletto in disposizione nei confronti di tale attività emanativa. A partire da questa duplice motilità noetica, in cui al momento specificatamente astrattivo subentrerebbe un momento intuitivo, Avempace sembra qui saldare le indicazioni aristoteliche, in qualche modo divergenti, del De anima e degli Analitici Secondi (II, 19), in un contesto in cui la verità, e allo stesso tempo il raggiungimento della felicità come compimento dell’essenza specifica dell’uomo in quanto tale (la razionalità), si costituisce come l’esito di un percorso intellettuale in cui il filosofo, risalendo nella gerarchia delle forme spirituali dall’ordine materiale delle cose a quello intellegibile, perviene alla congiunzione (ittihâd) con la stessa intelligenza agente, con il supremo principio di ogni intellegibilità. Sotto questa prospettiva i singoli atti noetici personali, nella congiunzione con l’intelligenza agente, sembrano perdere il loro specifico carattere individuale per diventare sostanzialmente impersonali. Il solitario, il filosofo, non solo è colui il quale, nel libero esercizio della propria razionalità (del divino che è in noi, secondo le indicazioni aristoteliche dell’Ethica Nicomachea), diviene puro pensiero nell’unione con l’intelligenza agente, ma è anche colui che, in tale congiunzione, libero da ogni elemento materiale (compresa la materialità derivata dall’individualità dell’intellezione), perviene all’immortalità a partire da un percorso puramente intellettuale e, soprattutto, in un contesto primariamente terreno e intramondano. L’importanza e la peculiarità della testimonianza di Avempace è facilmente esplicitabile secondo due direttrici: il Regime del solitario non sembra riducibile alla tradizione dei trattati di siyâsah shar‛iyah, in cui il fondamento della dottrina dello stato è ricercato direttamente nel Corano e nelle elaborazioni teoriche delle scuole giuridiche sunnite (vedi al-Ghazâlî), né è inscrivibile in maniera diretta ed immediata nell’orizzonte della tradizione filosofica specificamente greca, Platone e Aristotele su tutti. Al contrario, Avempace, pur in continuità con alcuni tratti essenziali del mondo greco, quale la matrice divina dell’attività razionale e una comprensione, tutt’altro che secondaria, dell’attività teoretico-filosofica come suprema dimensione esistenziale, sembra mettere radicalmente in discussione una delle implicazioni fondamentali della tradizione platonico-aristotelica: la possibilità che la costituzione essenzialmente razionale dell’uomo possa trovare il suo compimento ultimo all’interno di una qualche dimensione sociale o politica. Questa frattura, forse non consumata fino in fondo, segno della vicenda biografica dello stesso Avempace, costituisce l’eredità forse maggiormente affascinante che ci lascia il filosofo andaluso. Attraverso Averroè, il quale si richiama spesso, negli scritti giovanili, ad indicazioni avempaciane, e, soprattutto attraverso la diffusione dell’averroismo nell’occidente latino, la proposta di “felicità mentale” che si evince dalla lettura del Regime del solitario troverà vasta eco, pur secondo modalità eterogenee, in tutta la storia del pensiero medievale, finanche, forse, all’interno della Divina Commedia di Dante. L’interessante e provocatoria implicazione primaria di tale proposta, che sembra giustificarne la sua talvolta traumatica messa in discussione tanto nel mondo islamico, quanto in quello cristiano, sembra risiedere nell’aspetto fondamentale che ne costituisce anche l’eredità forse più affascinante: la priorità del filosofo e della filosofia sul resto dell’umanità e sulle restanti scienze rispetto all’ambito del divino. In tale prospettiva solo il filosofo, il solitario, è colui il quale è in condizione di elevarsi sino al supremo grado di conoscenza, in uno stato quasi profetico, fino a divenire simile a Dio; solo al filosofo (in una prospettiva che di fatto svincola qualsiasi possibilità escatologica da ogni matrice teologica), come guadagno radicalmente ed esclusivamente intellettuale, spetterà autenticamente l’immortalità e la salvezza, solo la filosofia potrà dirsi propriamente “scienza divina”.
IBN TUFAYL
La vita e le opere:
Abu Bakr Muhammad Ibn ‘Abd al-Malik Ibn Muhammad Ibn Muhammad Ibn Tufaylal-Qaysi è noto all’Occidente come Abubacer. Si è stimato che possa essere nato nel XII secolo d.C., sulla base del fatto che egli fosse sulla sessantina quando incontrò Ibn Rushd nel 564 ah/1169 d.C.. nato a Wadi Ash (Guadix) un paesino spagnolo situato a circa sessanta chilometri da Granata in direzione nord-est, morì in Marocco nel 1185 d.C.. Ibn Tufayl fu il secondo più importante filosofo di religione mussulmana in Occidente, dopo Ibn Bajja. Eccezion fatta per alcuni frammenti di poesia, l’unica sua opera rimasta è Havy Ibn Yaqzan (Il Figlio vivente del Vigilante). Il titolo e i nomi dei personaggi della sua opera sono presi in prestito da due dei trattati filosofici di Avicenna, Havy Ibn Yaqzan and Salaman e Absal, mentre la struttura è tratta da un antico racconto orientale: La storia dell’Idolo e di sua figlia Kingand. Il titolo dell’opera coincide con il nome del personaggio principale, Havy Ibn Yaqzan. Nell’introduzione e nella conclusione, l’autore si rivolge direttamente al lettore. In altre parti dell’opera utilizza un “velo sottile”, una forma simbolica, per esprimere il suo pensiero filosofico.
Breve introduzione
Allievo di ibn Bagiah (noto ai latini come Avempace), Ibn Tufayl (Abubacer per i latini) è autore di un’importante romanzo filosofico intitolato, come un’opera di Avicenna, Il Figlio vivente del Vigilante. In esso, egli immagina un bambino (di nome Havy ibn Yaqzan) che vive in un’isola dove si nasce senza padre e senza madre; egli apprende a conoscere gli animali e la natura, a costruirsi strumenti e a scoprire via via l’esistenza dell’anima e di un Dio creatore, buono e sapiente, alla cui contemplazione egli giunge progressivamente. Verso i cinquant’anni, Havy ibn Yaqzan incontra un saggio allevato nella religione di un profeta (cioè Maometto) e giunto per questa via alle sue stesse conclusioni. In questa maniera, ibn Tufayl intende riconoscere una concordanza di fatto tra religione e filosofia: la ragione umana porta allo stesso punto a cui porta la religione rivelata, senza che sussistano conflitti tra le due. La via della ragione è quella filosofica del puro concetto; quella della religione rivelata è invece la versione diretta al popolo che non sa fare buon uso della ragione. Il romanzo sarà tradotto nel XVI secolo col titolo Il filosofo autodidatta e si è anche pensato che, in tale forma, esso abbia influenzato Daniel Defoe nella stesura del suo Robinson Crusoe.
Riassunto dell’opera
Nell’introduzione dell’opera l’autore illustra alcune delle dottrine dei suoi predecessori, al-Farabi, Avicenna, al-Ghazali e Ibn Bajja. Al-Farabi è oggetto di una forte critica per la presunta inconsistenza della sua visione della vita ultraterrena. Non compare invece nessuna critica di Avicenna: al contrario, viene detto che la sua saggezza orientale verrà esposta nel corso dell’opera. Le idee di Ibn Bajja sono definite incomplete, in quanto esse menzionano il più alto grado della speculazione ma non quello ad esso ancora superiore, cioè quello della “testimonianza” o esperienza mistica. Sebbene l’esperienza mistica in al-Gazhali non venga messa in dubbio, pare che nessuna delle sue opere sulla conoscenza mistica siano mai giunte fino a Ibn Tufayil. L’introduzione si propone di annunciare gli intenti dell’autore, il quale intende esporre l’elaborazione della saggezza orientale di Avicenna e mostrare quanto l’opera si differenzi rispetto a quella dei suoi predecessori. La storia di Havy Ibn Yaqzan si svolge su di un’isola situata nei pressi dell’equatore sulla quale non vi sono esseri umani: fu lì che il piccolo Havy, appena bambino, venne trovato. I filosofi erano del parere che il neonato Havy fosse nato sull’isola spontaneamente, nel momento in cui la miscela degli elementi aveva raggiunto un equilibrio tale da essere degna di ricevere un’anima umana dal mondo divino. I tradizionalisti credevano invece che fosse il figlio di una donna che aveva deciso di tener segreto il suo matrimonio con un parente, Yaqzan, al fratello, che regnava su di un’isola vicina e non aveva trovato un uomo all’altezza di sposare sua sorella. Dopo aver allattato con cura Havy, la donna lo aveva deposto in una scatola e quindi abbandonato alle acque, che lo portarono fino sulle sponde dell’isola deserta. Una cerva che aveva appena perso il suo piccolo e sentiva ancora prepotente l’istinto materno sentì il pianto di Havy. Lo allattò, lo protesse dai pericoli e si prese cura di lui fino a che essa non morì, quando Havy aveva raggiunto i sette anni d’età. Ormai aveva imparato ad imitare i versi degli altri animali ed aveva coperto alcune parti del corpo, avendo notato che negli animali quelle parti sono coperte da pelo o piume. La morte della cerva trasformò la vita di Havy da un’esistenza di dipendenza in una di esplorazione e scoperta. Nello sforzo di capire quale fosse la ragione della morte della cerva, che non riusciva ad individuare osservando il suo aspetto esteriore, la sezionò con pietre appuntite e canne secche. Notò che ogni organo del suo corpo aveva una sua peculiare finzione e che la cavità sinistra del cuore era vuota. Perciò concluse che la sorgente della vita doveva essersi trovata in quella cavità, che ora aveva abbandonato. Egli rifletté sulla natura di quella sostanza vitale, sul suo legame con il corpo, sulla sua fonte, sul luogo che aveva abbandonato, sul modo in cui lo aveva fatto e così via. Realizzò che non era il corpo, bensì la sua entità vitale a costituire la cerva e la fonte delle sue azioni. In seguito a questa scoperta, perse l’interesse per il corpo della cerva, cui egli ora guardava come ad un semplice strumento. Benché Havy non arrivasse a decifrare la natura di questa sostanza vitale, osservò che tutti gli altri cervi assomigliavano alla cerva morta. Da ciò dedusse che tutti i cervi fossero animati dalla stessa sostanza vitale che aveva guidato l’esistenza della sua madre adottiva. Dopo questa scoperta della vita, si imbatté in un fuoco. Osservò che, al contrario degli altri oggetti naturali, che si muovono dall’alto verso il basso, il fuoco si muoveva dal basso verso l’alto. Questo gli suggerì che l’essenza del fuoco dovesse essere diversa da quella degli altri oggetti di natura. Continuò ad investigare altri aspetti del mondo naturale: gli organi degli animali, il loro ordine, numero, dimensione e posizione, così come le qualità che gli animali, le piante e gli oggetti inanimati hanno in comune tra loro e quelle che invece sono peculiari degli uni o degli altri. Grazie ad un perseverante, assiduo ragionare riuscì ad afferrare i concetti di materia e forma, causa ed effetto, unità e molteplicità, così come altri concetti generali riguardanti la terra e i cieli. Una volta giunto alla conclusione che l’universo fosse uno a dispetto della molteplice varietà dei suoi oggetti, si volse a considerare se esso fosse eterno o creato. Attraverso un ragionamento estremamente sofisticato scoprì che né l’idea di eternità né quella di creazione sono immuni da obiezioni. Per quanto non potesse razionalmente decidere se l’universo fosse eterno o creato, concluse che esso dovesse avere un causa dalla quale rimane dipendente e che questa causa o essere necessario non ha natura fisica e oltre a ciò ha essenza, anche se non nel tempo. Concluse inoltre che la cosa in lui che conosceva questa causa doveva essere di natura non fisica. Quanto più lontana dai sensi era questa cosa non fisica in lui, tanto era più chiara la sua visione di questa causa, una visione tale da infondergli la gioia più alta. Sebbene le sensazioni ostacolassero la sua visione, si sentì obbligato ad imitare gli animali provando sensazioni per conservare la sua anima animale, che gli avrebbe consentito di imitare i corpi celesti. L’imitare corpi celesti muovendosi, ad esempio, in circolo, gli fornivano visioni continue ma impure, perché l’attenzione in questo tipo di imitazione è ancora rivolta all’io. Con la conoscenza dell’essere necessario, Havy tentò di imitare gli attributi positivi dell’essere; con un tentativo di trascendere il mondo fisico, cercò di imitarne quelli negativi. L’imitazione dell’essere necessario per l’essere necessario, ovvero l’imitazione totalmente gratuita, implicava che Havy non prestasse attenzione all’io. Tale pratica gli consentì di attingere ad una visione pura. Non era soltanto l’io o l’essenza di Havy ad essere dimenticato in quello stato, ma la stessa sorte toccava a tutto ciò che non fosse l’essere necessario. Nessuna visione umana, nessun ascolto e nessun discorso potevano raggiungere quello stato, poiché esso si pone al di là, oltre il mondo della natura e dell’esperienza sensibile. Pertanto non può essere fornita nessuna descrizione dell’essere necessario, ma solo semplici segni, come Avicenna sostiene in Annotazioni e ammonimenti. Chi cerca una spiegazione di quello stato è simile a colui che cerca “il gusto dei colori in quanto colori”. Le verifiche richiedono esperienza diretta. Utilizzando il linguaggio degli uomini, che è descritto come uno strumento inadeguato, per suggerire la verità di cui si dice Havy abbia fatto esperienza, si afferma dell’essere necessario che esso pervade l’universo così come la luce del sole pervade il mondo fisico. Cercando di esprimere l’inesprimibile, l’autore racconta che Havy comprese in quello stato che tutto è uno, infatti l’unità e la molteplicità, come altri contrari, esistono soltanto per la percezione sensibile. La tendenza panteistica neoplatonica è in questo punto evidente (fare riferimento a Essere necessario; Neoplatonismo). Su di un’isola vicina un gruppo di persone, tra le quali il re, Salaman, praticavano una religione ancora salda, che forniva alla gente simboli, non verità. Absal, un amico di Salaman, osservava i rituali di questa religione, ma, al contrario degli altri che si attenevano al suo significato letterale, egli indagò in profondità sulle sue verità nascoste. Inclinando per natura alla solitudine, che era in accordo con alcuni passi della Scritture, Absal si trasferì sull’isola su cui viveva Havy. Quando lo incontrò provò spavento, mentre Havy gli fece chiaramente intendere di non avere cattive intenzione. Absal allora insegnò ad Havy il linguaggio umano indicandogli gli oggetti e pronunciando le parole corrispondenti. Con l’acquisizione del linguaggio, Havy fu in grado di spiegare ad Absal il suo progresso nella conoscenza. All’udire ciò, Absal realizzò che ciò di cui Havy aveva fatto esperienza erano le realtà descritte dalla sua propria religione: Dio, gli angeli, i libri santi, i profeti, la vita oltre la morte e così via. Quando Absal descrisse le verità così come riportate dalla sua religione, anche Havy trovò che queste verità ben si accordassero con quanto aveva vissuto. Havy comunque non riusciva ancora a capire perché la religione di Absal si servisse di simboli e mostrasse indulgenza riguardo alle cose materiali. Havy si era dimostrato interessato a visitare l’isola vicina al fine di spiegare alla popolazione la verità pura. Absal, che conosceva la natura della gente, lo accompagnò riluttante. Quando di rivolse al gruppo di persone più intelligenti dell’isola, queste gli portarono rispetto fino a quando non provò ad andare oltre il significato letterale delle Scritture. Ma a quel punto cominciarono ad evitarlo, ciascuno distolto dalla verità dall’attività commerciale. Havy comprese allora che simili persone non erano in grado di cogliere direttamente la verità e che la religione è necessaria per la stabilità sociale e la sicurezza della società in cui vivono. Stabilità sociale e protezione, tuttavia, non sono in nessun modo garanti di certa felicità nella vita ultraterrena. Soltanto la cura del divino, che è rara tra gente di quel tipo, può dare una tale garanzia. Al contrario, la preoccupazione per le cose di questo mondo in cui indulge la maggioranza delle persone non conduce che all’oscurità o all’inferno. Benché le verità della ragione e la religione rivelata coincidano, la maggior parte di quanti aderiscono alla religione lo fanno per guadagnarsi successi terreni e pertanto non raggiungono che un’eterna miseria. Avendo realizzato che un tentativo di illuminare quegli individui incapaci di attingere la visione della verità pura avrebbe solamente sortito l’effetto di destabilizzarli senza prepararli alla felicità, Havy chiese alla gente di continuare a praticare la loro religione, limitandosi a metterli in guardia contro l’indulgenza per le cose del mondo. Havy e Absal fecero quindi ritorno sull’isola deserta per praticare il loro misticismo nella solitudine. Ibn Tufatl conclude la sua opera descrivendola come un qualcosa che “contiene una parte di discorso mai trovata in un libro né ascoltata in un’ordinaria conversazione”. Come va interpretata questa affermazione alla luce di quanto dichiarato nell’introduzione, ovvero che l’opera consisteva in un’elaborazione della saggezza orientale di Avicenna? Forse la risposta può essere rintracciata nell’enfasi di Ibn Tufayl nella novità di un certo tipo di “discorso” o “conversazione”, piuttosto che nella novità del suo contenuto. Se così fosse, l’originalità del lavoro sembrerebbe risiedere unicamente nella sua forma.
IBN KHALDUN
La vita:
IBN KHALDUNNel XIV secolo, l’Impero Almohade, che aveva realizzato l’unificazione del Maghreb, era scomparso da circa sessant’anni ed il periodo del suo splendore era ancora più antico. Le rivalità dinastiche fra grandi stati dividevano il nord Africa: in Marocco la dinastia Merinide, nell’attuale Algeria il regno di Tlemcen, Bougie e Constantine, città-stato che basavano le loro ricchezze sul commercio dell’oro e dell’avorio proveniente dal Sudan, e in Tunisia la dinastia Hasfide. In Occidente la Riconquista cristiana cercava di mettere fine al destino dell’Andalusia (Al – Andalus), quasi ridotta alla gloria di Granada, mentre l’Oriente arabo subiva la terribile invasione mongola di Timur Lang (meglio conosciuto come Tamerlano). L’unità dell’Occidente arabo-musulmano, divenuto il simbolo del suo splendore, apparteneva al passato. Il pensiero e l’arte in genere subirono una fase di stasi; il conservatorismo aveva prosciugato la riflessione teologico-dogmatica, raggelato la controversia giuridica, ridotto le scienze e le lettere. E’ in questi tempi di lacerazione che si colloca la figura di Ibn Khaldun; egli nacque a Tunisi da una famiglia andalusa d’origine araba (della regione dell’Hadramaut), da molto tempo insediata a Siviglia. La famiglia Khaldun era una delle tre più potenti della città di Siviglia e contava grandi letterati, alti funzionari e politici. Non aveva però, un prestigio solo politico, il padre di Ibn Khaldun per esempio, come alcuni suoi avi, ad un certo punto della vita, abbandonò la carriera politica per consacrarsi interamente agli studi di grammatica e di filologia e soprattutto per darsi alla meditazione mistica. Quando Ibn Khaldun nacque, la famiglia si era da qualche tempo trasferita a Tunisi, dove la corte pullulava di rinomati scienziati e dove egli poté dedicarsi a svariati ed approfonditi studi filosofici, teologi ed astronomici. Già in questi anni, pare che egli si rendesse conto di quanto fosse importante un nuovo sforzo di conoscenza da parte dell’Islam, ma la difficile situazione socio-storica e politica pesava ancora sull’esercizio della ragione e sembrava impedirlo. Nel 1348 scoppiò la peste in Africa, molti familiari e amici di Ibn Khaldun morirono. A Tunisi l’ecatombe fu particolarmente estesa. A quest’epidemia si aggiunse la carestia. Niente più tratteneva Ibn Khaldun a Tunisi che decise di raggiungere Abelli, uno dei più celebri filosofi dell’epoca e seguace dei filosofi razionalisti come Averroé ed Avicenna, a Fes, in Marocco. Dal 1350 al 1372 fu al servizio di parecchie dinastie del Maghreb o della Spagna con diversa fortuna; percorse una carriera politica ricca di avventure e di intrighi, prese di contatti ed arbitraggi, con la segreta ambizione di trovare un uomo potente che gli permettesse di giocare un degno ruolo all’interno della corte. E’ proprio in questi anni di servizio presso le varie corti che egli poté farsi un’idea dei giochi politici e sociali che reggono i meccanismi della storia. Nel 1372 si ritirò nella fortezza di Ibn Salama nella regione di Orano al confine tra Algeria e Tunisia. Là, quest’uomo diviso tra scienza e azione, dotato di un’intelligenza imbrigliata negli schemi della tradizione, si ritirò a vita privata e in quattro anni di lavoro pensò e preparò il lavoro che lo portò alla gloria: la “Muqaddima”, ossia l’introduzione alla voluminosa storia universale: “Kitab al-‘Ibar” (1375-1379). Di ritorno a Tunisi, cominciò a dare dei corsi di storia suscitando l’entusiasmo degli studenti, ma l’ostilità dei gruppi conservatori fu forte. In questo periodo di inaridimento, infatti, si guardava in maniera negativa ad un pensiero “creatore” ed innovatore come quello di Ibn Khaldun. D’altra parte, la personalità stessa di quest’uomo non piaceva ai suoi colleghi. La reazione dei giuristi provocò la sua partenza definitiva. Al Cairo, ottenne la cattedra di diritto ed un incarico dal grande qadi malikita, la cui amicizia perderà e ritroverà a più riprese. Per quattordici anni, si dedicò ai suoi corsi, rivide la sua storia universale alla quale aggiunse, verso il 1395, un’appendice biografica: il Ta’rif, introduzione alla sua opera, comunicazione di una coscienza creatrice qualcosa di più di un’autobiografia. Nel 1400, incontrò il mongolo Timur Lang che, presto, avrebbe conquistato Damasco. E’ questo un dramma che non dovette stupirlo ma che concluse la curva della sua riflessione e della sua vita (1406).
Il pensiero
Il primo passo di Ibn Khaldun fu di ordine epistemologico: assegnare alla storia un posto nell’organizzazione della conoscenza. D’altra parte, definendo il suo oggetto come se fosse la realtà vissuta dagli uomini, egli fissò i limiti e i modi di un’indagine atta a definire l’intelligibilità storica; ma bandì razionalmente un disegno fondato su ogni speculazione filosofica e la ricerca di una finalità. La riflessione sulla materia storica, i suoi fenomeni, le leggi d’evoluzione, non includono notizie di problematica filosofica. Ristretto nei limiti concettuali della sua epoca, il suo disegno si poneva come esplicativo di una realtà socioculturale. Grazie ai suoi tanti anni di esperienza presso le corti maghrebine ed andaluse, Ibn Khaldun comprese che esistono dei rapporti di causalità che reggono la realtà. Cosi, nacque in lui la concezione di una scienza nuova, quella del ‘umran, studio di una socievolezza naturale, della comunità, che permette di comprendere il meccanismo dei comportamenti storici, ma, soprattutto, astrae la singolarità dei fatti per ricollocarli nella totalità che li contiene. Questo procedimento razionale, se esclude ogni esame della natura umana, sembra deviare anche da ogni ricorso ad un fondamento religioso. Il comportamento socio-politico del gruppo, come è descritto nella Muqaddima, è analizzato con la premessa della nascita di un ‘asabiyya, coesione di sangue, identità di interessi e di comportamenti che fonda un gruppo, il quale cerca di imporre la sua sovranità (mulk). In questo momento entra in gioco un altro fattore di civiltà: la religione, sovrastruttura sottomessa alle determinazioni di base (geografiche, socioeconomiche, ecc.) ed alle loro sollecitazioni. Ad ogni fase dell’evoluzione sociale corrisponde un tipo di comportamento religioso, dunque, la religione si inserisce in una situazione dove ha una funzione di ordine politico. Questo è ciò che sottende il movimento di un’asabiyya verso il mulk, di qui l’importanza del da’wa, propaganda ideologica che permette al clan, al tempo stesso, di manifestare il suo potere e di affermare il carattere ideale della sua consacrazione. Ibn Khaldun considerava la religione senza pretendere di ritrovare nella storia qualche grande disegno di Dio o un piano misterioso di cui provare a decifrare il progetto costrittivo. Egli, quindi, notava che il sentimento religioso si snatura e si scioglie nello stesso momento in cui si allentano i legami di solidarietà dell’asabiyya. Dalla premessa dell’asabiyya e della concezione del gruppo Ibn Khaldun passò ad esaminare le diversità tra città e campagna, tra sedentari e beduini, tra berberi ed arabi. Proprio quest’ultimo argomento ha creato non pochi problemi e facili speculazioni da parte di chi continua a sottolineare le diversità tra queste due etnie che sono presenti in nord Africa. Alcuni passi in cui egli parla della conquista araba come di una catastrofe o delle differenze tra nomadi e sedentari, arabi e berberi, sono stati male interpretati per interesse, da teorici del colonialismo come il Gautier; ma si tratta di affermazioni non veritiere e del tutto interessate. Dando al suo pensiero questa dimensione che elevava la storia al rango di una scienza, Ibn Khaldun non poteva mancare di sottolineare con forza le esigenze scientifiche della conoscenza storica. Egli fu un critico severo nei confronti dei suoi predecessori, denunciando i loro errori, la loro ignoranza, la parzialità e, soprattutto, l’incapacità a sottomettere i fatti al giudizio della ragione. In questo senso fu davvero innovativo. Nonostante le premesse teoriche della Muqaddima, però, la sua “Storia Universale” è stata duramente criticata, poiché contravviene ai principi esposti nell’introduzione. In effetti, l’autore sembra adottare lo stesso procedimento della storiografia araba: una cronologia imprecisa o sbagliata, giustapposizioni di versioni differenti, totale assenza di sintesi, analisi molto elementare delle cause e dei comportamenti. D’altro canto Ibn Khaldun è stato molto preciso sulla storia maghrebina e sui meccanismi che regolavano i rapporti sociali ed etnici. E’ in ogni caso indiscutibile che abbia gettato le basi per lo studio scientifico della storia e soprattutto della sociologia. L’Europa ha scoperto questa interessante figura di studioso ed uomo politico nel XIX secolo, negandogli inizialmente la grande influenza ed il pensiero geniale. Egli fu tra l’altro accusato da molti critici di “machiavellismo”, “duplicità”, mancanza di senso morale o di patriottismo. Niente è meno giusto. In effetti, è un abuso il voler trasporre nell’ambito maghrebino del XIV secolo delle nozioni di patriottismo che appariranno, almeno in Europa, molto più tardi. Per Ibn Khaldun la causa del sovrano di Fes o quella di Tlemcen non possedevano alcun contenuto ideologico particolare. Egli usava la stessa abilità in tutte le situazioni e al servizio di chiunque fosse.
AVERROE’
Averroè nacque in una famiglia di famosi giuristi della scuola malikita; sia il nonno paterno che il padre erano autorità locali incaricate di amministrare la giustizia nella Cordova almohade. Divenne medico, giurista e filosofo. Fu anch’egli qadi di Siviglia e poi di Cordova. Scrisse numerosi commenti su Aristotele, alcune opere filosofiche originali e una enciclopedia di medicina. L’opera filosofica più importante di Averroè fu L’incoerenza dell’incoerenza (Tahafut al-tahafut), diventata in lingua latina la Destructio destructionis philosophorum, in cui egli prese le difese della filosofia aristotelica contro le critiche esposte da al-Ghazali nel trattato L’incoerenza dei filosofi (Tahafut al-falasifa), che in latino era diventata la Destructio philosophorum, in cui si sosteneva che il pensiero di Aristotele, e la filosofia in generale, fossero in contraddizione con l’Islam. La tesi fondamentale di Averroè era esattamente opposta: egli sosteneva che la verità può essere raggiunta sia attraverso la religione rivelata sia attraverso la filosofia speculativa. Durante l’ondata di fanatismo religioso che attraversò al-Andalus alla fine del XII secolo, egli fu esiliato e tenuto sotto controllo fino alla morte. Molte delle sue opere di logica e metafisica furono distrutte dalla censura. La morte di Averroè, in esilio, si può considerare come simbolo della fine della cultura liberale nella Spagna islamica. Storicamente, Averroè fu importantissimo per le sue traduzioni e commenti delle opere di Aristotele, che in Occidente erano state quasi completamente dimenticate (prima del 1150 solo pochissime opere aristoteliche erano accessibili nell’Europa latina). Il recupero della traduzione aristotelica in Europa deve moltissimo alla traduzione in latino degli scritti di Averroè, iniziata nel XII secolo. Fra gli altri, Tommaso d’Aquino fu influenzato dalle idee di Averroè; il filosofo cristiano lo riteneva così importante da non chiamarlo per nome, bensì “il Commentatore”, con la stessa deferenza con cui chiamava Aristotele “il Filosofo”. I suoi scritti furono tradotti in ebraico da Jacob Anatoli nel XIII secolo e influenzarono la filosofia ebraica da Maimonide fino a Spinoza. Averroè divenne medico del califfo Abu Yaqub Yusuf e fu nominato giudice a Siviglia e poi a Cordova; il califfo stesso gli diede il compito di commentare le opere di Aristotele. La sua situazione favorevole non mutò nei primi anni di regno del nuovo califfo al-Mansur, successo al padre nel 1184, ma verso il 1194 Averroè dovette subire un processo e varie sue opere furono distrutte. Per questa ragione, una parte di esse é sopravvissuta solo in versioni ebraiche e latine. Esiliato nei pressi di Cordoba , Averroè concluse la sua vita a Marrakesh in Marocco. Averroè diventerà noto presso i latini soprattutto come commentatore di Aristotele. Dante stesso nell’ Inferno (IV, 144) lo definisce come colui "che ‘ l gran comento feo" . I suoi commenti sono di tre tipi : 1) commenti brevi , consistenti in sommari, parafrasi ed estratti di passi dalle opere commentate; 2) commenti medi e, infine, 3) commenti grandi, di maggiore estensione e complessità. Sono stati conservati tra gli altri i commenti medi alle "Categorie" , alla "Retorica", alla "Poetica", alla "Fisica", al "De caelo" e a "Generazione e corruzione", oltre ai commenti grandi al "De anima" e alla "Metafisica" di Aristotele; Averroè scrive anche un "Commento alla Repubblica" di Platone e uno all’ "Isagoge" di Porfirio. Ma il filosofo per eccellenza rimane ai suoi occhi Aristotele: egli mira a comprenderne il pensiero autentico, convinto che le verità acquisite per via filosofica non siano in contrasto con la rivelazione del Corano, che é infallibile . Erroneamente nell’Occidente latino sarà attribuita ad Averroè la cosiddetta dottrina della doppia verità, secondo la quale la verità a cui si può pervenire con la ragione per via puramente filosofica é diversa e talora contrastante con la verità di fede: come a dire, la ragione mi porterebbe a dire certe cose (per esempio che l’anima non è immortale), ma la fede mi fa dire l’opposto. In realtà, per Averroè, la verità é una, non c’é maggior verità nella filosofia rispetto alla religione o viceversa; piuttosto , la filosofia deve essere riconosciuta come legittima anche dal credente, in quanto non contrasta, bensì conferma la rivelazione. Questa tesi é argomentata da Averroè in un’opera, composta fra il 1177 e il 1180, intitolata "Libro della distinzione del discorso e della determinazione della conoscenza tra legge religiosa e filosofia" . La verità é una, ma molteplici sono i gradi e i modi in cui si accede ad essa. A tale proposito Averroè riprende da Aristotele la distinzione tra tre tipi di argomentazione : a) dimostrativa o scientifica, che parte da premesse vere; b) dialettica, che parte da premesse condivise dai più o dai più autorevoli; c) retorica , che parte da premesse che paiono persuasive all’auditorio. Esse rappresentano tre vie attraverso le quali ci si accosta alla verità: quella dimostrativa é propria del filosofo, quella dialettica lo é del teologo e quella retorica é appropriata ai più, inclini ad immaginarsi in maniera antropomorfa la divinità. I tre livelli e modi di comprensione della verità corrispondono a tre livelli di una gerarchia tra uomini, ma tutti i modi pervengono a riconoscere – anche se per vie diverse – che Dio esiste ed é uno e ha creato il mondo, di cui si prende cura provvidenzialmente; che Maometto é il suo profeta; che dopo la morte l’uomo sarà giudicato da Dio e destinato all’Inferno o al Paradiso e che avverrà la resurrezione finale . E’ una concezione aristocratica della verità: i migliori, ossia i filosofi, raggiungeranno una verità di più alto livello – guidati dalla sola ragione – , mentre i peggiori (gli uomini comuni) raggiungeranno attraverso la religione una verità meno elevata, quasi divulgativa. La fede, tuttavia, é necessaria e obbligatoria per tutti, anche per i filosofi, secondo Averroè; ma, per questi ultimi, é anche lecita la ricerca razionale, che perviene a conclusioni cogenti. Il problema é non commettere l’errore dei teologi, che, divulgando i punti oscuri e segreti dell’interpretazione del testo sacro anche a quanti non sono in grado di comprenderli, fanno nascere le eresie. La stessa cosa avverrebbe se la filosofia mettesse in mano ai più, incapaci di usarli propriamente, i propri strumenti argomentativi: ogni tipo di discorso deve quindi essere adeguato ai propri destinatari. La filosofia , in particolare , deve indirizzare le proprie dimostrazioni solo a quanti sono in grado di seguirle e con ciò Averroè ribadisce la propria concezione elitaria del sapere filosofico. Il filosofo, che si comporta seguendo queste indicazioni, tributa a Dio il culto migliore, che consiste nel conoscere le sue opere e, attraverso di esse, Dio stesso: in tal modo, Averroé accoglieva da Aristotele la tesi del primato della vita teoretica. L’assunzione di questa prospettiva conduce inevitabilmente Averroè a prendere posizione contro le critiche mosse da al-Gazali ai filosofi nello scritto su l’ "Incoerenza dei filosofi". A tale scopo Averroè scrive un’opera intitolata "Incoerenza dell’ incoerenza", che sarà nota ai latini come "Distruzione della distruzione". Averroè rifiuta la concezione di Dio, proposta da al-Gazali, come di un Signore dotato di arbitrio assoluto, e di una natura nella quale i fenomeni non presentano alcun rapporto causale . Certo la natura dipende da Dio, ma ciò significa che essa é organizzata da lui come un insieme di fenomeni caratterizzati dalla regolarità e da relazioni causali stabili, secondo un ordine necessario: per questo la natura può essere oggetto di conoscenza. Il rapporto di dipendenza del mondo da Dio, secondo Averroè, non può essere propriamente spiegato mediante la dottrina della creazione. Parlare di creazione é solamente un modo figurato, adatto per i semplici, perchè, attraverso l’immagine dell’attività produttrice umana, serve a far comprendere ai più che il mondo non é e non può essere causa di se stesso, ma dipende da Dio. Se invece per creazione si intende un atto volontario, con il quale Dio dà inizio al mondo nel tempo, allora nascono delle difficoltà. Questa tesi comporta, infatti, che Dio subisca un mutamento, decida e faccia qualcosa di diverso e nuovo, o per motivi esterni alla sua natura o in virtù della sua natura; ma entrambe le alternative sono insostenibili: Dio infatti non può mutare nè ha nulla fuori di sè, quindi il volere di Dio é continuo ed eterno, non dipende da intenzioni particolari mutevoli. Ma, se é così, ne deriva che anche ciò che esso vuole é eterno: dunque, aveva ragione Aristotele a dire che il mondo é eterno. Averroè fa così propria la dimostrazione aristotelica dell’esistenza di un primo motore immobile, poichè, in quanto é atto puro, Dio é eterno principio di movimento. Questo movimento viene trasmesso, attraverso quelle sostanze immateriali che sono le intelligenze motrici, ai vari cieli, da quello delle stelle fisse (” la pelle del mondo”) ai pianeti sino alla Luna, e, poichè ogni cielo é mosso eternamente dalla sua intelligenza motrice, il mondo nel suo complesso é eterno. Un secondo punto sul quale al-Gazali attaccava i filosofi era la loro negazione del fatto che Dio conoscesse i particolari. Anche in risposta a questa accusa Averroè si richiama a tesi aristoteliche, in particolare, egli condivide con Aristotele la tesi che le sostanze vere e proprie sono le realtà individuali, in opposizione ad Avicenna,per il quale il mondo é una struttura gerarchica di essenze, alle quali, in virtù dell’essere necessario, é conferita esistenza. Per Averroè, gli universali non sono un mondo di essenze separate, come sosteneva la tradizioneplatonica, ma soltanto il risultato di un’operazione di astrazione di ciò che é comune a sostanze individuali. In realtà, la scienza di Dio é diversa e superiore a quella degli uomini, in quanto Dio conoscendo se stesso, conosce anche tutte le cose, dal momento che ne é la causa prima, da cui tutte dipendono. Ciò, però, non significa che egli conosca o debba conoscere le cose individuali e accidentali, in quanto conoscere le cose individuali nella loro accidentalità é solo un modo imperfetto di conoscere. La conoscenza perfetta di Dio riguarda, invece, ciò che é necessario ed immutabile; con la sua conoscenza del mondo Dio é al tempo stesso causa del mondo e, poichè l’oggetto di essa é il necessario, il mondo che dipende da essa é un ordine necessario. La conseguenza é che la provvidenza divina non riguarda le cose individuali e gli eventi accidentali, che non rientrano nell’ordine necessario del tutto, e si spiega l’esistenza del male nel mondo e il margine di libertà concesso all’uomo. In quanto inserito nell’ordine necessario del mondo, tuttavia, anche l’agire umano é predestinato, in conformità a quanto insegna il Corano. Il terzo capo d’accusa di al-Gazali riguardava l’immortalità dell’ anima. Per affrontare questo problema, Averroè riprende anch’egli, come i suoi predecessori, la teoria aristotelica dell’ intelletto, contenuta nel "De anima". Egli ritiene che l’intelletto, la funzione più alta dell’anima, in quanto incorporeo, sia immortale e che, quando sarà separato definitivamente dal corpo, esso potrà attingere direttamente gli intelligibili, ossia gli universali, che sono gli oggetti veri e propri della conoscenza intellettiva. Ma di quale intelletto si tratta? Aristotele aveva riconosciuto nella materia il principium individuationis, dunque, un intelletto separato dal corpo e , quindi , dalla materia non può essere individuale , ma universale. Si tratta del nouV poihtikoV (intelletto attivo o produttivo): io ho intelletto in potenza e con le esperienze sensibili diventa intelletto in atto, ma ci deve essere qualcosa in atto che consenta il passaggio: ecco allora che interviene il nouV poihtikoV (che compare una volta sola in tutte le opere di Aristotele), quel qualcosa che essendo già in atto (ha cioè già in atto tutte le forme) mi consente il passaggio; che cosa sia il nouV poihtikoV Aristotele lo dice solo di sfuggita, asserendo che è qualcosa che sopravviene dall’esterno ed è incorruttibile. Da questo breve passaggio del "De anima" si discuterà per migliaia di anni, riempiendo intere biblioteche (da Alessandro di Afrodisia a Simplicio, da Filopone ad Averroè a Pomponazzi). Le possibilità sono diverse: 1) il nouV poihtikoV é una parte dell’anima umana, ma se è parte dell’anima umana, sembra che ci sia un pezzetto di anima umana immortale, che già quando nasciamo ha tutte le forme . 2) Tale nouV poihtikoV è uno solo, esterno all’anima: a questo punto si tratterebbe allora di una divinità. Ma si tratta forse del Dio di cui Aristotele parla come "pensiero di pensiero" nel libro XII della "Metafisica"? Se così fosse, cadremmo di nuovo in contraddizione, perchè il Dio della "Metafisica" pensava solo a se stesso, mentre il nouV poihtikoV no, aiuta gli uomini a pensare, ed è perciò provvidenziale. Averroè dirà che il nouV poihtikoV si identifica con la divinità: è unico e separato. Accettata quest’ ipotesi viene comunque negata l’immortalità dell’anima : il nouV poihtikoV è qualcosa al di fuori dell’uomo. Averroè diceva a tal proposito che "chi pensa è immortale , chi non pensa muore": se pensando si partecipa dell’attività del nouV poihtikoV, si partecipa allora all’immortalità che gli è propria: si ha una forma di immortalità; é un immortalità "aristocratica", riservata ai pochi che sanno usare il cervello. Tale intelletto , anche per Averroè , come per vari suoi predecessori , é unico per tutti gli uomini , ingenerabile e incorruttibile . Nuova é invece la tesi che l’intelletto materiale o potenziale é unico, non solo l’intelletto attivo o agente (il nouV poihtikoV). Anche l’intelletto materiale, quindi, non coincide con l’anima umana individuale, poichè esso può cogliere gli intelligibili solo grazie all’illuminazione che gli proviene dall’intelletto attivo. Quando avviene la connessione tra intelletto agente e intelletto materiale, si ha l’intelletto acquisito. Averroè intende quindi sostenere che se per ogni individuo ci fosse un intelletto materiale, esso sarebbe legato alla corporeità e alla materia , in quanto questa é principium individuationis. Ma dal momento che gli oggetti della conoscenza intellettuale sono le forme intelligibili, le quali sono universali ed eterne, queste non sarebbero più tali se dovessero seguire il destino dell’anima individuale, proprio perchè sarebbero diverse per ciascun individuo e, inoltre, potrebbero sussistere così come potrebbero non sussistere. Alla tesi dell’unicità dell’intelletto materiale si potrebbe obiettare che se un individuo coglie un intelligibile, allora esso é necessariamente colto anche da tutti gli altri individui. A questo argomento Averroè risponde che l’intelletto passivo é una semplice disposizione a ricevere immagini, la quale é legata al corpo e quindi varia da individuo a individuo. In ogni individuo, quindi, l’intelligibile viene a connettersi con immagini che non sono identiche a quelle degli altri individui, anche se l’intelletto materiale é comune ad entrambi; d’altra parte, se l’intelligibile fosse diverso per ciascun individuo, non sarebbe neppure impossibile insegnare nulla a nessuno. I principi universali sono pertanto unici in rapporto all’intelletto che li riceve, ma sono molteplici in rapporto alle forme immaginative da cui sono ricavati per astrazione; tali forme, infatti, sono molteplici come gli individui. Per via razionale si arriva, dunque, a concludere che l’intelletto é uno e che l’immortalità é prerogativa di esso; infatti, l’anima propriamente individuale é quella vegetativa e sensitiva, che é appunto forma del corpo, mentre l’intelletto, sia materiale sia agente, ha la prerogativa di essere separato. In quanto connessa al corpo, l’anima individuale perisce dunque con esso; immortale é invece l’intelletto , che é unico: sia quello agente, che é divino, sia quello materiale, proprio dell’intera specie umana e nel quale si accumulano le conoscenze acquisite dall’umanità. La scienza presente in ciascun individuo perisce con l’individuo stesso , ma non perisce la scienza che é nell’intelletto. La specie umana e la scienza sono pertanto eterne come sono eterni il mondo e Dio, da cui tutto dipende. Averroè, tuttavia, non esclude – anche sulla scia del Corano – qualche forma di immortalità individuale. Con Averroè la penetrazione della filosofia greca nel mondo islamico raggiunge il suo culmine, ma in esso questa posizione rimarrà marginale e non avrà mai realmente seguito: anzi, l’Islam condannerà le tesi di Averroè, le quali riscuoteranno invece grande successo nel mondo latino. Con Averroè la ragione raggiunge l’apice nel mondo arabo, ma dopo tale grande successo si eclissa, sotto il peso di una religione soffocante e avversa al libero pensiero quale è quella islamica. In Occidente, invece, dopo i secoli bui del Medioevo e del prepotente dominio del Cristianesimo la fede si stacca dalla ragione e ciascuna diventa autonoma.
SOHRAVARDI
Tra le varie correnti di pensiero , si svilupperà anche quella che vede nella mistica la via maestra , soprattutto nell’ area iranica a partire dalla scuola illuminativa , che ha il suo capostipite in Sohravardi . Nato nel nord della Persia nel 1153 , studiò a Isfahan e compì viaggi in Persia , stabilendosi poi in Siria , dove diventò maestro del figlio del Saladino ; ma inseguito , a causa delle sue dottrine , considerate pericolose per l’ Islam , fu imprigionato e morì , probabilmente di morte violenta , nel 1191 ; dai suoi seguaci fu definito martire . Molti dei suoi scritti sono andati perduti e parecchi sono ancora manoscritti , mai stampati . Essi non furono tradotti in latino e pertanto rimasero sconosciuti all’ Occidente medievale . I principali sono ” La teosofia dell’ illuminazione ” , il ” Libro delle passeggiate e delle conversazioni ” e il ” Libro dei confronti ” . Pur riprendendo una tripartizione della filosofia teoretica , che richiama quella aristotelica , Sohravardi prosegue l’ opera di al-Gazali nella confutazione della filosofia peripatetica . Egli intende richiamarsi all’ antica sapienza indiana e persiana , in particolare in Zoroastro . Al centro della sua riflessione vi sono , infatti , le nozioni di luce e tenebra , che egli introduce come assi portanti di uno schema emanativo , che gli proviene in buona parte da Avicenna . Quello che i neoplatonici avevano chiamato Uno diventa in Sohravardi , la Luce della luce , proprio come il Corano ( XXIV , 35 ) chiama Dio : essa é una e genera la prima luce , anch’ essa una . Rispetto alla Luce della luce essa é mancanza e , consapevole di ciò , genera pertanto la prima penombra , che Sohravardi chiama istmo , ma in quanto guarda alla Luce della luce essa genera anche la seconda luce e così via . La luce é pertanto l’ elemento più importante anche per gli esseri del mondo sublunare , in particolare per l’ uomo che é il più perfetto in tale ambito . Essa entra infatti nella composizione di tutti gli esseri , in misura variabile a seconda del posto occupato nella gerarchia dell’ universo : tutti gradi della realtà si configurano , dunque , come gradi diversi di luce e tenebra . La luce propria dell’ uomo é l’ anima . Nella ” Storia dell’ esilio occidentale ” , Sohravardi racconta in forma simbolica il viaggio che conduce l’ anima umana a Dio . L’ Oriente é il mondo della pura luce in opposizione all’ Occidente , dove tutto é mescolato di oscurità e materia ; il viaggio si configura dunque come un’ ascesa verso la Luce della luce , un ritorno all’ origine e una seconda nascita . Questa dottrina illuminativa , continuata nei secoli successivi da altri autori , é ancor oggi fortemente presente nell’ Iran sciita .
IBN ARABI
Ibn Arabi diede enorme peso alla sfera mistica, in contrasto con le posizioni razionalistiche maturate da Averroè (e destinate a non avere seguito nel mondo musulmano): nelle sue numerose opere – soprattutto in Le gemme della sapienza – egli insiste sull’unità dell’essere. Dio si moltiplica, attraverso i suoi attributi, nella creazione, ma il mondo sensibile è solamente un’ombra di esso. La natura è da ibn Arabi definita come il “respiro del Misericordioso”. L’uomo occupa una posizione centrale nel creato e i profeti sono espressioni della stessa realtà divina. Il fine dell’uomo consiste nell’unirsi misticamente a Dio nell’amore.
Ibn `Arabi (Abu Bakr Muhammad ibn al-`Arabi al-Hatimi al-Ta’i) (1165-1240), insignito dei titoli onorifici di al-Shaikh al-akbar (“Il più grande maestro “) e di Muhyi al-Din (“Colui che fa rivivere la religione “), nacque in Murcia nella regione andalusiana del sud della Spagna in una famiglia di puro sangue arabo (da qui il suo nome),e fu istruito a Siviglia. Alla sola età di vent’anni già possedeva profonde vedute interiori spirituali: incontrò il grande filosofo aristotelico Averroè, il quale rimase molto colpito dall’incontro con un “così divino maestro”. Fino al 1198 Ibn `Arabi trascorse la sua vita in Andalusia e nel Nord Africa, incontrando altri sufi e scolastici e, talvolta, misurandosi in dibattiti. Per tutto questo tempo ebbe varie visioni mistiche. Durante quell’anno ebbe una visione che gli ordinava di partire verso est, ove avrebbe passato il resto dei suoi giorni. Dopo alcuni anni di viaggio attraverso Arabia, Egitto, Asia Minore e altri posti , ormai maestro di grande fama, alla fine nel 621 si stabilì a Damasco dove trascorse il resto della propria vita. Durante questo periodo completò la sua opera principale, I dodici volumi al-Futuhat al-Makkiyah (“Le Rivelazioni della Mecca”), la quale non solo era un’enciclopedia esaustiva del credo e delle dottrine del sufismo, ma anche un diario trentennale delle sue esperienze spirituali; un compendio delle scienze esoteriche nell’Islam che sorpassò qualsiasi altra opera precedente ma anche successive che trattasse degli stessi argomenti. La produzione di Ibn `Arabi fu copiosissima. E’ testimoniato che abbia scritto 289opere, di cui circa 150 esistono tuttora. Con Ibn `Arabi abbiamo per la prima volta un’esposizione completa della dottrina del sufismo, una monumentale sintesi che racchiude teologia, metafisica, cosmologia, psicologia pratica spirituale e molto altro. Anche se i precedenti scrittori sufi discussero le questioni metafisiche o le dottrine cosmologiche, non furono mai al suo livello: la maggior parte dei primi scritti del sufismo sono o guide pratiche o espressioni estatiche del trascendentale o stati mistici di consapevolezza. Toccò a Ibn `Arabi allora formulare in modo esplicito ciò che era solo implicitamente contenuto negli insegnamenti dei primi maestri del sufismo e, attraverso lui , la dimensione esoterica dell’Islam fu, per la prima volta, espressa apertamente.
La dottrina del logos
Una delle più importanti – forse la più importante e centrale – delle idee di Ibn Arabi fu quella del Logos, un termine greco da lui preso nel doppio significato di “eterna saggezza” e di “parola”. Fluttuando tra riferirsi al Logos come prima manifestazione della divinità o come anima semplicemente umana o universale, Filone alessandrino si riferiva al Logos come Il Grande Sacerdote, l’Intercessore o Paracleto, il Vicereggente , la Gloria di Dio, l’Ombra di Dio, l’Idea Archetipica, Il Principio della Rivelazione, il Figlio Primogenito di Dio, il Primo degli Angeli e così via. Qui abbiamo una confusione di termini mitologico – religiosi , teologici e cosmologici, molti dei quali furono presi dal Cristianesimo. Ibn Arabi mostra la netta influenza subita dalla dottrina di Filone nella propria dottrina del Logos; molti dei suoi termini descrittivi sono identici, ma propone anche idee tratte dal Corano, teologiche, tratte dal sufismo, neoplatoniche ed altre ancora. Parla del Logos (kalimah) come “Realtà delle Realtà” (Haqiqatu’l Haqa’iq) in contrasto col sufista Hallaj che utilizzava l’espressione molto simile “Realtà della Realtà” (Haqiqatu’l Haqiqah) che si riferisce a Dio stesso, la Realtà di Maometto, lo Spirito di Maometto, il Primo Intelletto, Il Più Potente Spirito, la Più Infervorata Penna (cioè la Penna che usa Dio per scrivere il destino di tutte le cose), il Trono di Dio, l’Uomo Perfetto, il Vero Adamo, L’Origine dell’Universo, Il reale che è strumento per la Creazione, Il Pilastro (Qutb, su cui ruota tutto il creato), l’Intermediario ( tra Dio ed il Creato), LA Sfera Della Vita, il Servo dell’Uno che abbraccia tutto, e così via. Qui, come con Filone, c’è una marcata confusione o esitazione tra l’idea emanazionista della prima manifestazione della divinità e la dualista-monoteistica idea della prima creatura che, pur ancora estremamente sublime, è nondimeno separata da Dio da un abisso inaccessibile. In alter parole, c’è confusione tra le ipostasi; in alcuni appellativi il “Logos” si rifà alla divinità celeste, in altri ad una mera emanazione e neanche la più alta (il Vicereggente, il Servo, ecc.) di quella divinità. Questa è la reale debolezza di ogni metafisica teistica; l’assolutezza e la trascendenza della persona divina agisce come una camicia di forza che è restia o impossibile a rompersi. Il Logos di Ibn Arabi ha tre aspetti ( o può essere considerato da tre punti di vista):
l’aspetto metafisico , come Realtà delle Realtà;
l’aspetto mistico, come Realtà di Maometto;
l’aspetto di perfezione umana , come L’Uomo Perfetto.
Considerando il primo di questi aspetti , la Realtà delle Realtà (Haqiqatu’l Haqa’iq), Ibn Arabi afferma che questo è Il Primo Intelletto, il Principio Immanente Razionale nell’Universo ( idea Stoica),l’ “Idea Delle Idee” (o Archetipo degli Archetipi, il grande teologo cristiano alessandrino Origine si riferisce al Logos allo stesso modo cioè come Idea Ideon). Comprende tutti gli archetipi e tutte le cose esistenti in modo assoluto, non è nè un intero nè una parte, non si allarga nè si restringe. Contiene gli archetipi delle realtà (haqa’iq) delle cose, ma è se stesso omogeneo. E’ il sapere divino, il contenuto e la sostanza della divinità. E’ la prima manifestazione o epifania di Dio ; Dio come Principio auto-rivelantesi dell’Universo; Dio manifesta se stesso come universale sapienza. Mentre per il secondo o mistico aspetto , la Realtà di Maometto (al Haqiqatu’l Mohammadiyyah), il Logos non è l’attuale fisico o umano Maometto , ma la Realtà (haqiqa) dietro Maometto, il Principio Attivo di ogni rivelazione divina ed esoterica. Il Logos come Realtà Di Maometto ha le caratteristiche di essere il rivelatore permanente di Dio, il “trasmettitore” di ogni sapienza divina e la causa cosmologica di ogni creazione. E’ il principio attivo della sapienza divina. Questa distinzione tra il Maometto umano e quello trascendente fu popolare nel sufismo e nel pensiero esoterico Ismaili, attraverso cui i sufisti furono capaci di riconciliare il veicolo storico esoterico dell’Islam con l’esperienza esoterica interiore del divino. La stessa tendenza si verificò nella dottrina buddista Mahayana del Trikaya o dei tre corpi del Buddha, secondo la quale il Buddha storico era solo il membro meno, il Nirmanakaya o “corpo dell’emanazione”quello del Buddha principale, sopra tutti il Nirmanakaya era il Sambhogakaya o ” Corpo Divino Celestiale”; e ancora più su il Dharmakaya o “Vero Corpo”, che era della natura della “Realtà Assoluta”. Anche nel primo cristianesimo, specie nel cristianesimo gnostico, si verificò questa separazione dell’umano dal divino principio della Rivelazione. L’ortodossismo e il fondamentalismo cristiano chiamarono questa idea “docetismo” e la considerarono eresia grave. Raggiunse il suo Massimo sviluppo tra I cristiani gnostici del secondo e terzo secolo , con la loro distinzione tra Cristo uomo e Cristo veramente trascendente , che poneva su Gesù solo un “vestito ” o “travestimento”. Più recentemente , un’idea simile è apparsa tra i cristiani teosofisti come Rudolph Steiner e Alice Bailey. Nell’insegnamento di Ibn Arabi, ogni profeta è chiamato logos ma non il Logos, che, termine più ampio, si riferisce al principio spirituale o Realtà di Maometto. Ibn Arabi definisce ogni cosa “logos” – “Parola” di Dio – poichè ogni cosa partecipa del principio universale della ragione e della Vita, ma profeti e santi sono distinti dal resto perchè manifestano le attività e perfezioni del Logos universale Maometto al massimo grado. La differenza tra spirito o realtà di Maometto e il resto dei profeti è come tra il tutto e le sue parti ; lui unisce ciò che esiste in modo separato. Infine, per quanto riguarda il terzo o individuale aspetto, la possibilità di diventare logos che potenzialmente esiste per ogni musulmano. La differenza tra uno che dorme e uno che è spiritualmente sveglio e i diversi livelli raggiunti dal secondo dipendono dal grado di preparazione. Ogni sufi cerca di diventare il logos. Nella gerarchia mistica, il Qutb o Pilastro è la Testa Spirituale della gerarchia dei profeti e dei santi, il livello intermedio tra divinità e mondo fenomenico, tra eterno e temporale. Secondo il sufismo, il Pilastro si realizza nell’uomo perfetto, l’espressione umana individuale del Logos. Nell’insegnamento di Ibn Arabi, ogni profeta è chiamato logos ma non il Logos, che, termine più ampio, si riferisce al principio spirituale o Realtà di Maometto. Ibn Arabi definisce ogni cosa “logos” – “Parola” di Dio- poichè ogni cosa partecipa del principio universale della ragione e della Vita, ma profeti e santi sono distinti dal resto perchè manifestano le attività e perfezioni del Logos universale Maometto al massimo grado.La differenza tra spirito o realtà di Maometto e il resto dei profeti è come tra il tutto e le sue parti ; lui unisce ciò che esiste in modo separato. Infine , per quanto riguarda il terzo o individuale aspetto, la possibilità di diventare logos che potenzialmente esiste per ogni musulmano. La differenza tra uno che dorme e uno che è spiritualmente sveglio e i diversi livelli raggiunti dal secondo dipendono dal grado di preparazione.Ogni sufista cerca di diventare il logos. Nella gerarchia mistica, il Qutb o Pilastro è la Testa Spirituale della gerarchia dei profeti e dei santi, il livello intermedio tra divinità e mondo fenomenico , tra eterno e temporale. Secondo il sufismo, il Pilastro si realizza nell’uomo perfetto , l’espressione umana individuale del Logos. Come il Pilastro della Creazione , il Qutb è comparabile all’asse del mondo dello Sciamanismo ( che sopravvive nella mitologia scandinava come albero-del-mondo o e nella cosmografia Hindu e buddista come Monte Meru), il Tai Ch’i o “Grande Cardine” o “Grande Trave” della cosmologia cinese ( Neo-taoista e neo-confuciana), “Il Sole Centrale”di Blavatsky, che regge il Cosmo. Come il sole è cardine centrale e fonte di vita ed energia per il sistema solare , così il Qutb è come un sole nel centro della piana dell’Essere. Ma nel dire questo , bisogna essere attenti a non sostenere , come alcuni teosofisti e neo-teosofisti davvero fanno, che ci sia un sole fisico posto al centro. Questa è solo una metafora , come “Pilastro” o “Montagna del Mondo”. Il Logos Divino perciò si manifesta come innumerevoli Avatars, Maestri Perfetti , Divine Presenze , e così via; sia in forma umana come un Avatar fisico e reale , sia in una forma non incarnata come cioè una Presenza che si muove in modo nascosto nel cuore spirituale (Qalb) di ogni essere individuale. Questo è un processo continuo , poiché è sempre una Divina Presenza nel mondo , anche se in alcuni periodi può essere più accessibile che in altri – perciò gli Ismaeliti parlano di Cicli dell’Epifania e Cicli del Nascondimento, e I Cabbalisti parlano di “Dio che svela il Suo Volto ma poi lo volge altrove” -ma anche in questi periodi di nascondimento della Luce , ci dovrebbero essere comunque avatars e maestri per coloro che sono sinceri. Le anime non inciampano mai nel mondo dell’Oscurità lasciate senza guida o senza grazia divina. Si potrebbe addirittura dire che chiunque aspiri alla spiritualità , attraverso il suo (di lei o di lui) sincero ardore e la mistica devozione ed arrendevolezza al divino , diventa un Qutb minore, aiutando così a mantenere i mondi attraverso totale affidamento a Dio e svuotamento di sé; il sacrificio del “sé minore” sull’altare del “sé più alto” e del divino che risiede ancora più in alto.
Dualismo, Monismo, e dottrina del Logos
La religione esoterica pone un vasto “golfo” ontologico tra Dio e la creazione. Dio è Dio, perfetto , assoluto ed eterno; la creazione è la creazione , imperfetta e finita. Questo è il Dualismo. Da qui il bisogno di una rivelazione ( da parte della sacra scrittura, di un profeta, del Messia, o di un avatar) per coprire la distanza tra le due nature. in contrasto col dualismo, il Monismo afferma che esiste una sola realtà , che è Dio o l’Assoluto che racchiude sia Dio che il mondo. Ma queste filosofie monastiche creano un chiasmo tra l’Assoluto ed il mondo fenomenico in modo negativo così come accade per quello creato dai dualisti religiosi. Il monista indiano Shankara per esempio distingue tra la sola ed assoluta realtà , che lui chiama Nirguna Brahman o “dio senza qualità”, ed l’apparenza irreale del mondo che è Maya, o la realtà relativa. Anche se ontologicamente ( in termini di assolutezza dell’essere) il relativo è infine lo stesso che l’assoluto (“questo mondo è Brahman”), non ci sono connessioni reali o gradi tra i due. Maya, la realtà finita, è semplicemente un’indeterminata “sovrapposizione” sopra Brahman, la realtà infinita.. La teoria della natura di Allah di Ibn al-Arabi è conosciuta come wahdat ul-wujud, o Unità dell’Esistenza. Tuttavia nella posizione emanazionista, ogni livello sfuma nel livello superiore ed in quello inferiore. Così le dualità tra finito ed infinito, o realtà relativa e realtà assoluta, sono collegate da un principio intermedio , o da una serie di principi intermedi. Perciò i Shaiviti e I tantrici Shakta prendono la dualità di Shankara dell’assoluto ed infinito Nirguna Brahman e del finito e relativo mondo-dell’apparenza o Maya, ed inseriscono tra i due una serie di evoluzioni intermedie , le “pure tattwas”, tracciando i piani da dove l’assoluto gradualmente si limita e diviene il relativo. Allo stesso modo Ibn ‘Arabi distingue tra Haqq e Khalq; il reale e l’apparenza , il divino ed il mondo esterno, l’uno ed il molteplice , l’unità e la diversità, l’eesenza ed I fenomeni, il creatore e le creature; e come Shankara asserisce che solo l’assoluto(Haqq) è reale, il molteplice (Khalq) è , o meglio sono, semplici attributi di esso; nondimeno pone un livello intermedio che collega i due. Questo è il Logos , la realtà delle realtà; o in alternativa è i al-ayan thabitah, gli eterni prototipi o essenze immutabili; che in ambedue I casi funge da mediatore tra l’Uno ed il mondo fenomenico. Questo principio è passivo o ricettivo in relazione al divino, ma attivo in relazione al mondo. .
IIBN HAZM
A cura di Mari Iaria
Ibn Hazm (An 384-456/994-1064 CE) – nome completo Abu Muhammad ‘Ali ibn Ahmad ibn Sa`id ibn Hazm – fu teologo Musulmano ed uomo di lettere. Nato a Cordova da una famiglia ricca ed influente, Ibn Hazm ricevette un’ottima istruzione per quanto concerne la teologia,la letteratura e la poesia.Ciò nonostante, crebbe in un periodo in cui imperversavano feroci contrasti etnici e tribali che videro il declino del califfato Omayyade a Cordova e la sua frammentazione in piccolo regni in guerra tra loro.La sua infanzia fu segnata dalla rovina del padre in seguito alla caduta del califfato di Hisham II e dalla distruzione della casa paterna di Balat Mughith nel corso di una cruenta battaglia tra Arabi e Berberi.
Come risultato del suo attivismo politico nel partito dei legittimisti (Omayyade), Ibn Hazm andò incontro alla prigionia ,all’esilio ma,allo stesso tempo fu designato per incarichi rilevanti,infatti occupò il posto di visir almeno due volte,durante il regno di ‘Abd al-Rahman III al-Murtada e ‘Abd al-Rahman V al-Mustazhir,e forse una terza volta sotto l’ultimo califfo , Hisham al-Mu’tadd. Profondamente deluso dale sue esperienze politiche ed indignato per la condotta dei suoi contemporanei,Ibn Hazm abbandonò la scena politica e dedico gli ultimi trent’anni della sua esistenza all’attività letteraria..I suoi scritti sono di taglio autobiografico,modellati sull’intensità delle proprie emozioni e alla condanna di ciò ke in realtà è la natura umana. Tawq al-hamamah (Il collare della colomba) fu sicuramente rivisitato più tardi,a più riprese.In quanto raccolta di brani di prosa e di squarci poetici sull’amore e gli amanti,offre una trattazione abbastanza tipica di un tema caro a tanta letteratura araba.Ciò che la contraddistingue è invece la spiccata propensione di Ibn Hamz allo scavo psicologico,una caratteristica che si denota specie nei suoi ultimi studi sui caratteri ed i comportamenti Kitab al-akhlaq wa-al. Sotto l’affacinate prosa e la delicata poesia di “Il collare delle colomba” si cela una sensibilità tormentata.Ad esempio,interrogandosi sulla genuinità dell’amore tra uomo e donna,egli riscontra una discrepanza tra ciò che viene ditto e ciò ke realmente si pensa,giungendo alla conclusione che il linguaggio è solo uno strumento volto a mascherare ciò che realmente pensiamo. Questo,che potrebbe sembrare un luogo commune,gli fornisce le basi per una riflessione profonda sul linguaggio ed il suo uso comune, ed è qui che egli introduce il concetto di Zahir,” l’apparente” ovvero il significato letterale delle parole.
Questa linea di pensiero subisce uno sviluppo concreto nel momento in cui Ibn Hazm passa ad esaminare la parola di Dio.In contrasto con la Malikiya,egli afferma che I fedeli devono obbedire solo alla parola di Dio,nella sua Zahir o senso letterale,senza alcuna restrizione,aggiunta o modifica.Benchè all’inizio egli fosse vicino ai Sufi,si indirizzò poi verso la scuola Zahiri,conferendogli una struttura logica sistematica.Per quanto riguarda l’esegesi delle sacre scritture,compilò una grammatical Zahiri in cui elimina appositamente tutte quelle ambiguità che i grammatici usavano per spiegare alcune forme sintattiche.Egli è certo che il linguaggio in sé sia uno strumento adatto alla comprensione del suo contenuto ed inoltre che Dio,che ha dettato il Corano in un Arabo limpido,si è servito del linguaggio per esprimere chiaramente ciò che intendeva comunicare. Ogni versetto dovrebbe essere inteso nel suo immediato senso grammaticale e sintattico: nel momento in cui Dio desidera che l’interpretazione vada oltre quella letterale,è egli stesso a fornire nello stesso verso o più avanti indicazioni che autorizzano una lettura diversa Il significato del Corano può solo essere determinato da un Hadith riconosciuto autentico dopo un attento esame critico;un verbo all’imperativo,per esempio,può essere inteso come un intimazione,ma anche come un consiglio:il significato si può determinare soltanto in relatione al contesto letterario in cui è collocato.Da quanto affermato,consegue che Ibn Hamz era molto critico nei confronti dell’uso del ragionamento analogico ed all’interpretazione soggettiva: la ricerca del bene,la ricerca di valori tesi al bene comune ,e sprattutto,il ricorso all’opinione personale,con cui i giuristi pretendono di estendere la legge divina a casi non menzionati nelle scritture.Con lo stesso spirito,egli limita le basi del consenso ai seguaci del Profeta; l’accordo della comunità intellettuale su una questione legale,non ne autorizza l’investimento a legge. In Al-ihkam fi usul al-ahkam (Giudizio sui principi di Ahkam), Ibn Hazm sviluppa il proprio metodo per la classificazione degli atti umani entro le cinque canoniche categorie giuridiche di obbligatorio,raccomandato,sconsigliato,proibito e legale: affinchè un comportamento ricada all’interno di una delle prime Quattro categorie deve esserci un testo(Il Corano o un autentico hadith)che stabilisce quello status;altrimenti l’atto è legale.Codesto metodo è largamente applicato nel suo voluminoso trattato sulla legge Zahiri ”il libro degli ornamenti”.
Ibn Hazm è anche noto per la sua grande opera,il Fisal (Dettagliato esame critico), in cui offere un’indagine critica di differenti teorie filosofiche concernenti credenze religiose tra gli schepti,gli aristotelici,I bramini,I Zoroastri ed altri dualisti,gli ebrei ed I cristiani.Usando l’esame di queste religioni per sancire la superiorità dell’Islam,non manca di scagliarsi contro i teologi musulmani,il Mu’tazilah e lo Ash’ariyah in particolare,in accordo con I filosofi ed I mistici.La sua maggior obiezione è che ognuno di loro solleva questioni riguardo al testo sacro che possono essere risolte solo con il ricorso a facoltà umane.Ibn Hamz non nega il ricorso alla ragione,poichè il Corano stesso invita alla riflessione,ma questa riflessione deve essere necessariamente limitata a due dati,la rivelazione e la sensibilità,poichè I principi della ragione derivano anch’essi intermente da questa.Quindi la ragione non è una facoltà adatta alla ricerca indipendente,tantomeno alla scoperta.Sottomettendo completamente l’uomo alla parola di Dio,Ibn Hamz con la sua opera lo libera dalla possibilità di ogni scelta autonoma.La sua propensione alla sintesi lo porta a dimostrare l’armonia e l’organicità di tutto il Corano e dei testi profetici grazie all’applicazione dei principi Zahiri.Il risultato che ne consegue è che la sua opera rappresenta una delle testimonianze più importanti ed originali del pensiero musulmano.
IBN TAYMIYA, Taqi al-Din
A cura di Mari Iaria
Uno sguardo generale
Ibn Taymiya era uno strenuo seguace dell’Islam sunnita,improntato a grande fede ed obbedienza ai precetti del Corano ed all’esempio del profeta Maometto.Era convinto che da queste due fonti si potesse attingere quanto necessario a garantire la salvezza del muslim nell’Aldilà. Era pure convinto che la ragione non fosse lo strumento più idoneo ad un corretto approccio alla Verità religiosa,da lui ritenuta l’unica valida,e che anzi l’intelletto dovesse essere sottomesso alla fede stessa(ci troviamo ancora dinanzi al concetto scolastico di filosofia come ancilla theologiae n.d.t).Anzi,si è spesso trovato in dissenso con gli altri intellettuali Sunniti del suo tempo a causa della sua avversione all’austerità della scuola di giurisprudenza islamica .Era infatti convinto che le quattro scuole ufficiali fossero diventate stagnanti e settarie,e pure che esse erano erroneamente influenzate da alcuni aspetti della Logica greca come dal misticismo Sufi.La sfida che egli lanciava agli intellettuali coevi era quella di propiziare un ritorno alla comprensione dell’Islam basata esclusivamente sulla lettura del Corano e l’osservazione della sunna.
Vita e pensiero
Ibn Taymiya nacque ad Harran,Siria,e morì a Damasco attorno al 1328. Visse in un periodo in cui il mondo Islamico era dilaniato da aggressioni esterne e da conflitti interni. I crociati non erano stati ancora del tutto espulsi dalla Terra Santa,ed i Mongoli presero Baghdad nel 1258. In Egitto,I Mamelucchi erano appena giunti al potere e stavano consolidando il proprio dominio in Siria. Nella società Musulmana,gli Ordini Sufi stavano diffondendo concezioni e pratiche non contemplate dall’Islam più ortodosso,mentre le scuole di giurisprudenza più tradizionaliste si trovavano in uno stato di arretratezza e ristagno culturale. E’ in questa situazione di scompiglio che Ibn Taymiya formulò il suo pensiero sulle cause della decadenza del mondo musulmano e sulla necessità di ritrovare il Corano e la sunna,intesi come unico strumento di rinascita.
Nonostante Ibn Taymiya si fosse formato nella scuola di pensiero Hanbali,raggiunse presto un livello di erudizione che superava di gran lunga quello fornitogli da questa scuola.Divenne completamente esperto di tutto ciò che le quattro scuole offrivano, e ciò lo portò alla conclusione che la stretta aderenza ad una sola di esse condurrebbe il Muslim a trovarsi in conflitto con il verbo e lo spirito della Legge Islamica basata sul Corano e la sunna.Allo stesso modo,acquistò una buona padronanza dei testi mistici e filosofici.In particolare,si concentrò sulle opere di Averroè e di Ibn Arabi in quanto rispettivamente esempi di deviazione filosofica e mistica dai veri principi dell’Islam. Entrambe queste tendenze erano infatti giunte ad esercitare grande influenza sia sugli eruditi musulmani che sulla società.
Ibn Taymiya assegnava importanza fondamentale alla rivelazione quale unico mezzo affidabile per la vera conoscenza di Dio e dei doveri del fedele verso di Lui. L’intelletto umano(‘aql)ed il suo potere ragionativo devono essere sottomessi alla rivelazione. Secondo Taymiya,l’unico uso legittimo dell’intelletto umano è quello indirizzato alla comprensione dell’Islam così come questo fu compreso dal Profeta e dai suoi seguaci e di difenderlo da ogni possibile devianza. Quando si disserta attorno alla natura di Dio,sosteneva egli,bisogna attenersi a quanto scritto nel Corano e quanto insegnato nella sunna,ed attenersi alla visione ortodossa secondo cui non si deve chiedere come gli attributi particolari esistano in Dio. Vale a dire che un fedele deve credere in tutte le qualità che il Corano e la sunna attribuiscono a Dio,senza interrogarsi circa la natura di essi, giacchè questi trascendono la capacità di comprensione della mente umana,che è anche inetta a comprendere l’Eternità di Dio. Ad esempio,si crede che Dio si trovi su di un trono in cielo,ma non bisogna chiedersi come ciò accada. Questo atteggiamento deve essere tenuto verso tutti gli attributi divini,compresa la facoltà visiva,quella uditiva e la tattile.
Questa concezione è del tutto opposta alla visione filosofica di Dio come Causa Prima e di essere sprovvisto di attributi .Così l’argomentazione che l’Unità di Dio esclude una moltitudine di attributi è inaccettabile per il nostro,poiché Dio stesso afferma di essere uno e di avere molteplici attributi.La negazione degli attributi di Dio su base razionale era affermata dal Mu’tazila,verso cui Taymiya era particolarmente critico.Persino le più strette concezioni dell’ Ash’aris,che accettava l’esistenza di sette attributi basilari,erano da lui respinte. Comunque,non si spinse mai tanto oltre da dichiarare eretici questi due gruppi,in quanto erravano solo nella definizione degli attributi divini. Al contario,non mancò di etichettare come apostati filosofi quali Farabi ed Avicenna che, oltre a negare gli attributi di Dio,negavano anche l’increatezza del mondo e credevano nella teoria dell’emanazione dell’universo da Dio.
Ibn Taymiya attaccava l’idea dell’emanazione non solo nell’accezione filosofica ma pure mistica,così come era intesa dai Sufi.Era convinto che le credenze e le pratiche dei Sufi potessero essere ben più pericolose delle idèe dei filosofi. Questi ultimi rappresentavano un’esigua elite che aveva ben pochi risvolti sulla massa.I Sufi,al contrario,avevano ampio seguito presso gli strati popolari. Tuttavia Ibn Taymiya vide una connessione tra le idee dei filosofi e quelle dei Sufi, benché ad un’analisi poco attenta avessero ben poco in comune.
Il caposaldo del pensiero dei Sufi ,come ci risulta da Ibn Al Arabi è il concetto dell’unicità dell’esistente.Attraverso questa concezione,i Sufi ritengono di poter sperimentare la fusione della loro anima con l’essenza di Dio.Questo significa che,quando Dio si rivela ad un individuo,questa persona comprende che non c’è differenza alcuna tra Dio stesso ed il suo essere. Ibn Taymiyya vide un nesso tra la credenza Sufi del wahdat al-wujuded,il concetto dell’unicità dell’esistente, ed il concetto filosofico di emanazione. Benchè un filosofo negherebbe che l’anima umana possa riversarsi in quella divina ed essere quindi la Causa Prima,l’esperienza mistica dei Sufi li portò al di là del dominio razionale.Per Taymiya,sia i filosofi che i mistici erano in errore,i primi poiché riponevano fiducia nel limitato intelletto umano,i secondi per l’eccessiva irrazionalità.
La critica che Ibn Taymiya muove verso i Sufi si aviluppa su due piani.In primis,c’è la discussione teologica sulla questione che Dio possegga degli attributi,uno dei quali è quello di creatore.Egli riteneva che il Corano affermi innegabilmente che Dio è il creatore e l’ente ordinatore dell’Universo.Vige quindi una distinzione tra il creatore e le creature,e tra le due cose non c’è alcuna possibilità di fusione.Continua poi ritenendo che coloro che privano Dio dei suoi attributi e ritengono che non sia il Creatore sono solo ad un passo dal cadere nella credenza del wahdat al-wujud.Da questa base prende le mosse per la seconda parte della critica.Ibn Taymiya credeva che un Sufi è soltanto un individuo che si lascia trasportare da una forte carica emotiva. Ad esempio,si potrebbero negare gli attributi di Dio ma poi essere sopraffatti da un sentimento d’amore verso di Lui .Tuttavia la base della conoscenza che questo individuo possiede non è quella autentica che si trova solo nel Corano,per cui le loro vane congetture intellettuali vengono a cadere al cessare dell’attacco emotivo. Secondo Ibn Taymiya la percezione dei sensi ed i sentimenti non possono essere ritenuti affidabili,e la probabilità di essere fuorviati da essi aumenta man mano che la conoscenza che si possiede prescinde quella autentica contenuta nel Corano e nella sunna.è questa conoscenza,infatti, la base di una corretta fede in Dio e di ogni rapporto che si voglia stabilire con Lui.