IL ROMANTICISMO
“La filosofia è il proprio tempo appreso nel pensiero” (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)
INTRODUZIONE
DAL CRITICISMO KANTIANO ALL’IDEALISMO
Sul finire del Settecento, i contemporanei di Kant erano pienamente consapevoli dell’enorme importanza del pensiero critico, tanto da accostare, per il radicale cambiamento introdotto, la rivoluzione copernicana operata dal pensatore tedesco in ambito gnoseologico alla rivoluzione francese. Tuttavia, si era convinti che con Kant il criticismo non avesse raggiunto la sua piena formulazione, in quanto continuavano a vivere dualismi inconciliabili (sensibilità/intelletto, soggetto conoscente/soggetto agente, noumeno/fenomeno), ecc. Muovendo da queste considerazioni, alcuni pensatori della Germania a cavallo di secolo, generalmente indicati col nome di post-kantiani, diedero vita ad una vivace discussione sul valore del criticismo e sulla necessità di effettuare una revisione del kantismo. In realtà, con il passaggio di secolo cambia quello che Hegel definirà lo spirito del mondo: cominciano ad affacciarsi prospettive romantiche, con l’inevitabile conseguenza che molte delle tesi esposte da Kant e perfettamente accettabili in un panorama illuministico, diventano ora improponibili. Uno dei primi ad intervenire, quando Kant era ancora in vita, nel dibattito sul criticismo fu KARL LEONHARD REINHOLD (1758-1823), con il Saggio di una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione (1786-1788). Reinhold non aveva la pretesa di presentarsi come pensatore originale: lasciatosi convincere dalle tesi kantiane, egli sente il dovere di divulgarle e lo fa inserendo, inavvertitamente, alcuni elementi nuovi, che apriranno la strada all’idealismo. Reinhold sottolinea che il soggetto e l’oggetto non sono pensabili separatamente : non potrei mai pensare il soggetto senza tener conto dell’oggetto, e, viceversa, non potrei mai pensare l’oggetto senza tener conto del soggetto. Ne consegue inevitabilmente che soggetto e oggetto vengono da Reinhold concepiti e pensati come due facce della stessa medaglia, come se essi facessero riferimento ad un unico principio: la coscienza , intesa come facoltà della rappresentazione. Il soggetto costituisce la forma della conoscenza, cioè l’attività tramite la quale il molteplice viene unificato in un concetto, mentre l’oggetto ne costituisce la materia, cioè il contenuto rappresentativo che viene unificato. Questa indissolubile relazione, all’interno della rappresentazione, dell’elemento soggettivo-formale e di quello oggettivo-materiale giustifica la stretta connessione tra le diverse facoltà conoscitive: nella sensibilità l’oggetto prevale sul soggetto, nell’intelletto vi è equilibrio e nella ragione vi è un predominio della libera attività del soggetto. Secondo Kant, noi costruiamo l’oggetto fenomenico, ma a monte di esso esiste comunque una cosa in sè (noumeno), indipendente dal soggetto e dalla sua attività costitutiva: proprio con questa distinzione Kant prendeva le distanze dall’idealismo berkeleiano. Ora, Reinhold, concependo il soggetto e l’oggetto come facce di un’unica azione (la rappresentazione), fa venir meno la netta distinzione kantiana tra soggetto e oggetto. Sebbene Reinhold si consideri pienamente kantiano, egli apre la strada all’idealismo e alla sua tesi fondamentale: secondo la tesi idealista, è il soggetto che costruisce l’oggetto partendo da zero. A ben pensarci, una sorta di perdita della cosa in sè c’era già stata in Kant: più passava il tempo e più egli si convinceva che la cosa in sè fosse un concetto puramente negativo (noumeno è ciò che non è fenomeno), con un’attenuazione dell’autonomia dell’oggetto. E il passaggio all’idealismo consiste proprio in una progressiva eliminazione della cosa in sè kantiana ; non a caso, l’idealismo tedesco di fine settecento può essere definito come il progressivo tentativo di identificare l’oggetto con il soggetto, con una sfumatura tipicamente monistica : l’obiettivo ultimo, infatti, è trovare un principio che possa spiegare tutto quanto. Occorre dunque superare la sfilza di dualismi irrisolti lasciati in eredità da Kant (primo fra tutti quello soggetto/oggetto) riconducendoli, come tutto il resto, ad un unico principio. Queste problematiche sono già in parte avvertite da Reinhold, il quale risolve il problema della cosa in sè con questo ragionamento: l’aspetto formale della conoscenza, imputabile esclusivamente al soggetto, rientra nell’ambito della rappresentazione, al contrario, la materia conoscitiva deriva da una cosa in sè intesa come un qualcosa di assolutamente indeterminato e inconoscibile; in quanto tale, essa non è nemmeno rappresentabile, cioè cade al di fuori della rappresentazione stessa. E, non essendo rappresentabile, essa non è alcunchè di reale, poichè, se lo fosse, sarebbe un oggetto e rientrerebbe nella rappresentazione. La cosa in sè è dunque solo un concetto che, per quanto necessario alla giustificazione dell’elemento materiale della conoscenza, per la sua stessa impensabilità va al di là della rappresentazione e, quindi, della realtà. Autore di grande rilievo per il passaggio dal kantismo all’idealismo è anche GOTTLOB ERNST SCHULZE (1761-1833), il cui pseudonimo fu Enesidemo. Nel 1792 apparve anonimo il suo scritto Enesidemo, ovvero sui fondamenti della filosofia degli elementi sostenuta a Jena dal sig. prof. Reinhold, assieme a una difesa dello scetticismo contro le pretese della critica della ragione . Nella filosofia critica, da lui intesa come fusione del pensiero di Kant e di Reinhold, Schulze rinviene una serie di contraddizioni che giungono all’apice con l’affermazione della cosa in sè. Egli difende le posizioni dello scetticismo e vede in Reinhold un difensore ortodosso del criticismo, senza tener conto delle modifiche che ha apportato. Nel testo poc’anzi citato, Schulze muove una critica esplicita alla cosa in sè , mettendo in evidenza le contraddizioni scaturite dal criticismo. Kant ha mostrato razionalmente come la categoria di causalità sia applicabile legittimamente solo in ambito empirico, però poi ne ha fatto un uso meta-empirico applicandola alla cosa in sè: dicendo che la conoscenza altro non è se non il frutto dell’elaborazione del materiale d’esperienza, a sua volta frutto della cosa in sè , non è forse vero che Kant ha fatto un uso della cosa in sè come causa? La cosa in sè è infatti intesa come un qualcosa che causa, in maniera oscura, l’emergere dell’esperienza. Se la cosa in sè modifica i nostri organi di senso poichè da essa ricevono il materiale dell’esperienza, vuol dire che la cosa in sè agisce causalmente su di noi. Il paradosso colto da Schulze è che la cosa in sè resta inconoscibile, ma attorno ad essa Kant costruisce l’intero processo conoscitivo. Altro paradosso: Kant dice che si può conoscere solo se si unificano dati dell’esperienza con l’intelletto, con la conseguenza che dove non c’è esperienza non c’è conoscenza; tuttavia egli ammette la conoscibilità delle categorie, le forme a priori dell’intelletto, riconoscendo dunque che si può avere conoscenza anche senza l’apporto della sensibilità. L’intera Critica della ragion pura è proprio questo, un tentativo di conoscere le forme della conoscenza, quando Kant ha spiegato, paradossalmente, che le forme prive di dati sensibili sono inconoscibili. Tutto ciò porta Schulze a rifiutare l’esistenza della cosa in sè poichè, ammettendola, si cadrebbe inevitabilmente in contraddizione. Ecco che con Schulze entriamo pienamente nell’idealismo: tutti gli autori di questo periodo (Schulze compreso) hanno la pretesa di essere, per così dire, più kantiani di quanto non fosse Kant stesso, quasi come se il pensatore di Königsberg fosse stato ispirato dallo spirito giusto (l’idealismo), ma non avesse avuto il coraggio di spingersi oltre: la spinta idealistica, in effetti, è presente in Kant, soprattutto quando egli afferma che la conoscenza ruota tutta attorno al soggetto; ammettendo però l’esistenza di una cosa in sè, egli si è macchiato di pavidità, non avendo avuto il coraggio di riconoscere che tutto dipende dal soggetto. Sulla strada iniziata da Schulze si inoltra, percorrendola fino in fondo, Salomon ben Joshua, un ebreo lituano studioso di Mosè Maimonide, dal quale assunse lo pseudonimo di SALOMON MAIMON (1754-1800). Il suo pensiero trova l’espressione più matura nello scritto Ricerche critiche sullo spirito umano (1797). Se le contraddizioni del criticismo portavano Schulze a propendere per lo scetticismo di stampo humeano, Maimon è del parere che si possa restituire piena validità al criticismo, a condizione di una completa eliminazione della cosa in sè , la quale altro non è che un assurdo residuo di dogmatismo, quasi come se Hume non fosse stato in grado di svegliare del tutto Kant dal sonno dogmatico in cui era sprofondato. Se tutto ciò che è rappresentabile è contenuto nella coscienza, come asseriva Reinhold, allora la cosa in sè , cadendo al di fuori della coscienza ed essendo irrappresentabile, è una non-cosa (in tedesco Unding ) e una mostruosità inaccettabile. Essa viene accostata da Maimon ai numeri immaginari, alla radice quadrata di un numero negativo, che sono nella loro stessa essenza impossibili. Ma l’eliminazione totale della cosa in sè significa riconoscere che l’intera conoscenza, per quel che riguarda i suoi princìpi e i suoi contenuti, cade nella sfera della coscienza. Il dato non proviene da fuori, ma è ciò di cui, all’interno della coscienza, abbiamo ancora una conoscenza imperfetta e incompiuta: più precisamente, esso è l’elemento indeterminato della conoscenza, quel che non è ancora stato determinato dalle forme a priori dell’ Io. Al di fuori della coscienza non c’è nulla: nel caso della conoscenza meramente intellegibile (matematica) il soggetto può determinare del tutto il proprio oggetto, nel caso della conoscenza sensibile, invece, è possibile solo un avvicinamento indefinito alla completa determinazione, senza poterla mai ottenere. Se penso ad un triangolo, il mio intelletto inquadra totalmente l’oggetto in questione; ma quando ho un approccio conoscitivo con l’oggetto sensibile che mi sta di fronte (ad esempio il libro), una parte di esso sarà inquadrata dalle mie facoltà conoscitive, mentre una parte ne resterà esclusa e costituirà la famigerata cosa in sè . Questo residuo di indeterminatezza è ciò che ci fa apparire l’oggetto come dato, e non come prodotto del soggetto. Così facendo, Maimon sgancia il criticismo dal suo ancoraggio empirico e lo avvia verso esiti idealistici. Maimon porta alle estreme conseguenze il fatto che la cosa in sè sia un concetto puramente negativo, arrivando a concepirla come assolutamente relativa: la cosa in sè altro non è se non quel residuo non perfettamente inquadrato dalle forme conoscitive dell’uomo; è ciò che resta fuori dall’inquadramento categorico. Il processo conoscitivo va avanti all’infinito e, proprio per questo, non potrà inquadrare tutto nelle sue forme: ciò che resta non-inquadrato è appunto la cosa in sè . L’espunzione della cosa in sè dal quadro del criticismo viene ribadita anche da JACOB SIGISMUND BECK (1761-1840) , autore di uno scritto dal titolo L’unico punto di vista dal quale può essere giudicata la filosofia kantiana (1796). Beck si propone di interpretare il pensiero kantiano in modo da coglierne la verità essenziale e rimanere fedele ad esso, ma, ciononostante, egli finisce per compiere un ulteriore passo verso l’idealismo: a ragion veduta, dunque, egli viene sconfessato da Kant. Beck, in modo simile a Fichte, distingue due momenti nello sviluppo del processo conoscitivo: la produzione originaria e il riconoscimento. Se la cosa in sè non esiste, ne deriva necessariamente che il processo con cui il soggetto genera l’oggetto non è più una costruzione (organizzazione intellettuale di dati sensibili), ma una produzione: non lavoro su materiale che mi è dato (come credeva Kant), ma lo costruisco io stesso, sto all’origine dello stesso materiale che poi dovrò conoscere. Ne consegue che l’oggetto è una produzione del soggetto, il quale produce sia la forma sia il materiale della conoscenza. Il mondo che mi circonda è una mia produzione: non è vero che esiste un mondo e noi lo vediamo in modo diverso da come è (come credeva Kant); al contrario, il mondo lo produciamo noi (produzione originaria). Sembra un paradosso, poichè, se io come soggetto produco il mondo, come mai quando nasco sono convinto che esso esista indipendentemente da me, ovvero come oggetto a sè stante? Perchè abbiamo l’impressione di avere di fronte un mondo da noi indipendente? Beck lo spiega con con il secondo passo dello sviluppo nel processo conoscitivo, il riconoscimento: il soggetto produce l’oggetto (produzione originaria), ma lo fa in modo inconscio, dopo di che lo riproduce, ovvero lo riconosce (riconoscimento). L’illusione che esista una cosa in sè, un mondo da noi indipendente nasce proprio dal fatto che la produzione originaria sia inconscia, produciamo il mondo senza rendercene conto. Fichte spiegherà anche il senso di questa operazione, Beck si limita a proporla. In lui è implicita anche l’idea che vi sia una sorta di processo triadico per cui il soggetto pone l’oggetto, e poi lo riconosce, quasi come se lo recuperasse, in una sorta di processo triadico: prima c’è il soggetto che sta in sè, poi c’è il soggetto che pone l’oggetto e, infine, c’è il soggetto che recupera l’oggetto riconoscendolo. Questo, peraltro, è molto vicino alla Trinità cristiana: c’è il Padre, poi il Padre che genera il figlio e infine l’amore tra i due (Spirito Santo). Ad esplicitare quest’idea, presente embrionalmente in Beck, sarà Hegel. Su queste basi finora esposte nascerà la celebre triade degli idealisti, costituita da Fichte, Schelling e Hegel. Essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicchè la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall’appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l’esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perchè il periodo che segue alla filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l’intelletto, ovvero contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca dell’infinito, all’intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà di cogliere l’infinito, l’assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi rifiuterà sia l’intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel, riconoscerà l’inferiorità dell’intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica all’intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finchè all’intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell’indagine razionale; se però, oltre a criticare l’intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell’ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità. Tornando ai tre idealisti, l’unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della religione, Schelling dell’arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all’arte (Schelling).
IL ROMANTICISMO
Sul finire del Settecento la Germania conosce una formidabile fioritura culturale e la filosofia tedesca assurge a vero e proprio centro della filosofia mondiale, tant’è che si è spesso parlato di età classica tedesca . Sul piano filosofico il periodo è contrassegnato da tre diverse manifestazioni: 1) il criticismo (che nasce e muore con Kant) 2)l’idealismo (di cui abbiamo parlato poc’anzi), che muove dalla riorganizzazione sistematica dell’opera kantiana per approdare alla negazione della cosa in sé 3) il romanticismo, che sfugge ad ogni precisa determinazione cronologica e contenutistica. Mancano infatti date precise dello sviluppo di tale movimento ma, come se non bastasse, mancano anche criteri oggettivi per decretare la romanticità degli autori. Se nell’Illuminismo regnava l’idea di uscire dalla precedente epoca buia grazie ai lumi della ragione, nel Romanticismo la questione è invece più complessa. Si può tentare di stabilire un raffronto, cogliendone il rapporto, tra Romanticismo e idealismo. L’idealismo è a pieno titolo la filosofia dell’età romantica, eppure non tutto l’idealismo è filosofia romantica: ovvero, l’idealismo nasce e vive in età romantica, ma non per forza esso costituisce la filosofia romantica. Hegel stesso, il più grande idealista, muove pesanti critiche al Romanticismo, pur essendo per molti aspetti egli stesso romantico. Forse l’elemento che meglio contraddistingue il Romanticismo è la vivace polemica anti-intellettualistica, combattuta contro l’intellettualismo illuminista. L’intera filosofia kantiana, massima espressione dell’età illuministica, rivendicava l’assoluto privilegiamento dell’intelletto (facoltà del finito) a discapito della ragione (facoltà dell’infinito), nella convinzione che la conoscenza umana, per essere legittima, non poteva mai assumere carattere infinito. I Romantici stravolgono l’insegnamento kantiano, convinti che attingere l’infinito sia azione legittima: ne consegue inevitabilmente che, essendo legittimo l’uso sia dell’intelletto sia della ragione, si preferirà la ragione, in grado di mettere l’uomo in contatto con l’infinito. Tuttavia, se buona parte dei Romantici (Hegel in primis) si schiererà a favore della ragione intesa come facoltà dell’infinito e contro l’intelletto inteso come facoltà del finito, un’altra grande fetta di intellettuali dell’epoca si lascerà troppo prendere dalla foga contro l’intelletto e finirà per polemizzare contro le facoltà razionali in generale (compresa la ragione): ora, è evidente che se ci si allontana dall’intelletto ma si resta fedeli alla ragione si può pur sempre elaborare un sistema filosofico, e non a caso Hegel, acerrimo nemico dell’intelletto, darà vita alla più grande elaborazione filosofica razionale mai esistita. Se però, accanto all’intelletto, si respinge anche la ragione, si esce dalla sfera filosofica e si sfocia in ambiti mistici. Se l’idealismo, nel complesso, tendeva a travolgere l’intelletto nella sua polemica ma riconosceva la validità della ragione, i Romantici, per lo più, si scaglieranno sia contro l’intelletto sia contro la ragione , decretando, paradossalmente, l’impossibilità di una filosofia romantica: ecco perché il più grande filosofo dell’età romantica, Hegel, sarà nemico del Romanticismo. Della triade idealista, i due più strettamente romantici sono proprio Fichte e Schelling, il cui pensiero giunge a staccarsi completamente dalle facoltà razionali, mentre il meno romantico (Hegel) è quello che resta più razionale. Forse l’elemento più comune ai pensatori romantici è l’accesa polemica contro il razionalismo . Alla ragione, dichiarata incapace di cogliere l’essenza più profonda della realtà e della natura umana, vengono contrapposti il sentimento, l’istinto e la passione. Si è spesso detto che la contrapposizione tra Illuminismo e Romanticismo risiede proprio nella riscoperta romantica della passione e del sentimento in antitesi alla fredda e rigorosa ragione illuministica: in realtà, con i Romantici vengono approfonditi e portati alle estreme conseguenze la passione e il sentimento, che però erano già stati scoperti e valutati positivamente da Illuministi quali Rousseau ( La nuova Eloisa ). Una differenza forse meno lampante ma senz’altro più corretta sta nella tendenza romantica a rivendicare la spiritualità a discapito del materialismo illuministico. Già Kant aveva timidamente aperto spiragli verso l’interiorità e la soggettività attuando la rivoluzione copernicana del pensiero; ora, i Romantici approfondiscono la questione e portano a compimento la progressiva attenzione alla soggettività avviata da Petrarca. Va però precisato che per soggettività bisogna intendere l’interiorità, il cuore delle passioni, e che l’esaltazione di tale componente della natura umana porta ad una rilevante rivalutazione dell’individualità . L’Illuminismo tendeva a far prevalere (perfino in ambito politico) ciò che era uguale, universale e valido ovunque, nella convinzione che vi fossero cose buone o cattive, giuste o sbagliate, in assoluto, a prescindere dalla specificità delle condizioni: secondo gli Illuministi si trattava di scegliere sempre e ovunque il giusto seguendo i dettami della ragione, senza tener conto della realtà o del periodo storico in cui si fosse. Il Romanticismo, invece, esalta la dimensione dell’individualità, facendo però delle distinzioni: ci sarà l’individualità singola, e da essa nascerà l’idea, tipicamente romantica, del genio , ovvero la convinzione che vi siano individui privilegiati e superiori agli altri (da cui spesso non vengono compresi) poiché capaci di cogliere l’essenza più intima della realtà. Non a caso sorge il desiderio di originalità e sempre più frequente diventa l’accusa di plagio, fino ad allora pressochè sconosciuta, in un clima in cui si vuole reagire all’incipiente massificazione avviata dall’appiattimento borghese della Rivoluzione Francese. Va poi ricordato che, dopo il 1815, siamo negli anni della Restaurazione ed è forte la delusione per il fallimento del progetto napoleonico, sicchè alcuni spiriti più sensibili sentono il desiderio di ribellarsi al clima soffocante della Restaurazione e lo fanno con opere d’arte fuori dal comune, degne di un genio. Vi è poi anche esaltazione dell’individualità collettiva : in reazione all’universalismo propugnato dagli Illuministi, si rivalutano le unità collettive, le distinzioni tra popoli e tra culture. Nasce l’idea che ciò che è giusto a Parigi può non esserlo a Napoli, sostiene Vincenzo Cuoco, a sottolineare che è assurda l’universalità astratta degli Illuministi. Non è vero che ciò che la ragione addita come giusto sia giusto ovunque e comunque, senza tener conto delle condizioni materiali effettive: ciò che è giusto a Parigi può esserlo anche a Napoli a patto che lo si cali nella concretezza della situazione, tenendo conto delle differenze effettive che intercorrono tra le due città. Connesso alla soggettività è anche il concetto di infinito , uno dei più Romantici: venendo meno la cosa in sé kantiana, il soggetto può legittimamente aspirare ad attingere l’infinito attraverso la ragione, la quale assurge così in posizione dominante rispetto all’intelletto. Perchè però si predilige proprio in età romantica la ragione, ovvero la facoltà dell’infinito? Finchè ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell’intelletto) perchè vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l’oggetto dentro di sè, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l’inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà possibile solo un conoscenza finita e l’intelletto sarà lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa l’idealismo, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall’esterno), allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l’intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. L’uomo può e deve tendere all’infinito: eppure vi saranno pensatori che riterranno impossibile il raggiungimento dell’infinito, con la conseguenza che la loro filosofia sarà venata di pessimismo. Ci sarà dunque un Romanticismo pessimista , nato dall’aspirazione non realizzata all’infinito, e un Romanticismo ottimista poiché convinto che l’uomo possa raggiungere l’infinito. Le ultime lettere di Jacopo Ortis rappresentano un fulgido esempio di Romanticismo pessimista, in cui il protagonista perviene al suicidio dopo essersi capacitato dell’impossibilità di cogliere l’Infinito. Il pessimismo cosmico di Leopardi poggia su basi analoghe: l’uomo aspira all’infinito, eppure non può mai spingersi oltre al finito, dunque la sua vita è tormentata dal dolore e dalla sofferenza per non potersi spingere laddove vorrebbe. Hegel rappresenta invece il caso più lampante di Romanticismo ottimista: egli è convinto che l’uomo possa, avvalendosi della ragione, raggiungere l’infinito ed è uno dei filosofi più ottimisti della storia, tanto da arrivare a dire che ‘ ogni negativo è anche positivo ‘. Anche pensatori quali Fichte e Schelling sono fortemente ottimisti, sebbene per essi l’Infinito sia raggiungibile esclusivamente con strumenti extra-razionali (religione e arte). Ecco dunque che in alcuni pensatori prevale la fede come rapporto immediato (non mediato dalla ragione) con l’Assoluto; Schelling, per dirne uno, troverà un rapporto immediato e diretto con l’Assoluto nell’arte, tramite il genio creativo. Altri due concetti tipicamente romantici su cui spesso si è voluta costruire la contrapposizione con l’Illuminismo sono la storia e la natura. In età illuministica era prevalso il meccanicismo materialista e la sua visione del mondo come grande macchina costituita da singoli ingranaggi, per cui a prevalere sul tutto erano appunto questi ultimi (in fisica gli atomi, in politica i singoli individui); questo modello appare sorpassato ai Romantici, i quali ad esso preferiscono l’ organicismo , ossia la concezione secondo la quale a contare non sono le singole parti (come era per gli Illuministi), ma il tutto preso nel suo insieme. Era stato, ancora una volta, Kant ad aprire spiragli verso questa prospettiva, quando, nella Critica del Giudizio , aveva ammesso che un essere vivente, per quanto semplice possa essere, non potrà mai essere spiegato fino in fondo dalle leggi meccanicistiche. Se il meccanicismo, poi, tendeva a concepire come macchina anche ciò che macchina non era (gli esseri viventi), l’organicismo spinge nella direzione opposta, tendendo a concepire come organismo anche ciò che organismo non è. La natura non è più, dunque, una grande macchina che si muove secondo le leggi di Newton, bensì si connota come enorme essere vivente, essa stessa riflesso di una qualche spiritualità. E così, in campo letterario, viene esaltata la corrispondenza dello stato interiore dell’uomo e della natura, strettamente connessi tra loro. A questa interpretazione ha portato l’idealismo: nel momento in cui la natura è filosoficamente dichiarata prodotto del soggetto, Io capovolto, allora è evidente che anch’essa è spirituale, basta saperlo coglierlo (e proprio qui sta la difficoltà): a cogliere la verità riusciranno di più il poeta e l’artista che non lo scienziato. La natura assume una coloritura spirituale e vitalistica: in questo panorama, tornano in auge pensatori quali Giordano Bruno (riscoperto da Schelling) e Spinoza, accomunati dalla concezione panteista della natura. Rispetto all’età razionalista e illuminista vi è un radicale capovolgimento: la scienza stessa assume una nuova veste. Se Cartesio, nella sua foga meccanicistica, era arrivato a interpretare il cuore umano come un motore a scoppio, in età romantica la natura diventa viva e divina, come l’avevano intesa Bruno e Spinoza. Gli scienziati di quest’epoca (tra cui Volta), dunque, non si interesseranno tanto di meccanica (come invece avevano fatto gli scienziati del Seicento e del settecento) quanto di magnetismo e di elettricismo, i campi meno facilmente riducibili alla meccanica, aborrita in quanto emblema del meccanicismo. Il magnetismo e l’elettricismo, poi, sono accomunati dal fatto che entrambi suggeriscono una sorta di quella vitalità della natura ricercata dai Romantici: da Talete in poi, del resto, il magnete, con la sua capacità di attirare il ferro, era spesso stato concepito come vivente e animato. Si tende con insistenza a ricercare una polarità nella natura che corrisponda a quella ravvisata da Fichte tra Io e non-Io, con la pretesa di trovare una corrispondenza tra pluralità dell’attività spirituale e pluralità della natura. Gli interessi dei Romantici si concentrano anche sulla storia , particolarmente cara anche agli Illuministi: tuttavia, come nella concezione della natura, anche in quella della storia vi sono differenze. Gli Illuministi guardavano alla storia come storia degli errori umani del passato, nella convinzione che vi fossero modi razionali e naturali per vivere e che nel passato essi fossero stati compromessi da superstizioni e credenze: la storia si configurava allora come la progressiva liberazione dell’uomo dalle superstizioni e imperava la convinzione che nel passato stesse il male, nel futuro il bene e che il presente altro non fosse se non una tappa verso il bene. Sempre gli Illuministi vedevano come attore della storia l’umanità, concepita però, sulla scia del modello meccanicistico, come somma dei singoli individui e non come tutto organico. Per i Romantici non è vero né che la storia sia una sfilza di errori a cui guardare per non commetterli nuovamente né che l’umanità, l’attore della storia, sia una pura e semplice somma di individui. Vige la convinzione che l’attore della storia è uno solo e, in merito, Hegel parlerà di spirito del mondo e dirà di averlo visto a cavallo quando scorgerà Napoleone. L’attore della storia è qualcosa di più complesso rispetto alla sommatoria degli individui, è lo spirito del mondo: la storia è dunque governata non già dai singoli, bensì da un’entità superiore e su questi presupposti fioriranno le interpretazioni provvidenzialistiche (ad esempio, Manzoni ne I promessi sposi ). Resta però da chiarire se tale attore della storia sia trascendente o immanente: per i Cristiani sarà trascendente, starà cioè al di là del mondo (e per Manzoni è così), per molti altri sarà immanente, ovvero governerà la storia dell’umanità dall’interno. Da questa concezione emerge la superiorità dello spirito del mondo rispetto agli individui singoli (uomini) e collettivi (stati), sebbene resti vero che gli Stati valgono più dei singoli (in antitesi alla concezione meccanicistica). Per quel che riguarda la religione e la politica, gli Illuministi erano convinti che vi fosse in assoluto qualcosa di buono e di giusto (la religione naturale e lo stato giusto) rispetto a cui le realtà storiche erano tentativi mal riusciti: per lo più gli Illuministi erano deisti e consideravano le religioni storiche come tentativo mal riuscito di riprodurre l’unica vera religione, quella razionale, che dimostrava l’esistenza di Dio ricorrendo esclusivamente alla ragione. Allo stesso modo vi era a loro avviso un modello razionale di stato giusto che bisognava applicare ugualmente in tutte le realtà. I Romantici, dal canto loro, sono del parere che a contare sia solo l’unico attore della storia, che si realizza sempre e soltanto attraverso gli individui: Hegel, ad esempio, respingerà la distinzione tra religione applicata e religione ideale, convinto che una religione è quella che è nella sua applicazione concreta, non ve n’è una ideale. Sempre Hegel parla di spirito del mondo ma anche di spirito del popolo , che sono poi la stessa cosa: infatti lo spirito del mondo, di volta in volta, si realizza in un determinato spirito del popolo. All’epoca di Pericle lo spirito del popolo greco era l’incarnazione dello spirito del mondo, come Napoleone, a suo tempo, era l’incarnazione dello spirito del mondo. Tutto questo mette in evidenza che non può esservi uno spirito del mondo ideale, staccato dalla realtà. Dunque la religione esiste sempre e solo nelle singole realizzazioni storiche , sicchè non ha senso alcuno parlare di Cristianesimo ideale a sottolineare la distinzione tra la teoria del Cristianesimo e la sua concreta applicazione: il Cristianesimo è quello che è e che è stato nella prassi, nella sua applicazione. Lo stesso vale anche per gli individui: Napoleone ha incarnato in quel preciso momento lo spirito del mondo; esso era tutto lì, in Napoleone. Se ogni popolo rappresenta in un dato momento lo spirito del mondo, ciò significa che quel che la Grecia ha fatto l’ha fatto per se stessa ma soprattutto per lo spirito del mondo intero. Ecco perché in età romantica affiora l’idea che i popoli abbiano una missione: Mazzini credeva di poter riconoscere una missione dell’Italia, investita di valore universale. La tendenza di Mazzini era democratica e tale sarà anche quella di Fichte e di Schelling, mentre quella di Hegel sarà più aggressiva e poggerà sulla convinzione che il popolo che incarna lo spirito del mondo ha anche il compito di schiacciare gli altri popoli. Se gli Illuministi non nutrivano grande simpatia verso il passato, l’atteggiamento dei Romantici oscilla tra due diverse posizioni, aventi corollari politici differenti (il che spiega, tra l’altro, perché potevano essere romantici sia i progressisti sia i reazionari). Vi furono pensatori che provarono esplicita nostalgia verso il passato : in un’epoca in cui regna l’organicismo, è normale che si guardi con simpatia a quelle epoche in cui sono nate le collettività, i popoli, nella fatti specie al medioevo, che torna così in auge dopo la svalutazione rinascimentale e illuministica. Il medioevo gode delle simpatie di molti Romantici un po’ perché è l’epoca in cui son nati i popoli e le nazioni, un po’ perché la società stessa era vissuta come un tutto organico e non come un luogo in cui gli egoismi personali trovavano equilibri (come era la società illuministica), e un po’ anche perché i più reazionari guardavano con simpatia e rimpianto al feudalesimo medievale, ormai definitivamente scalzato dalla Rivoluzione Francese. Ci furono anche Romantici che ebbero un atteggiamento progressista e talvolta rivoluzionario nei confronti del passato : in un’epoca in cui è sempre più sentita l’idea di nazione, si guarda al passato medievale in cui le nazioni eran nate e c’è volontà di far parte di una nazione in chiave progressista, spesso dandosi alle rivoluzioni (il Risorgimento). Una dimensione rivoluzionaria è anche presente sul piano psicologico: non potendo essere per molti soddisfatto il naturale desiderio di raggiungere l’infinito, ci si sente spiazzati nella realtà circostante e ci si ribella. In questa prospettiva, possiamo citare ancora Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo: vi si trova il tema dell’esilio politico ed esistenziale al tempo stesso. Il protagonista, Jacopo Ortis, aspira all’Assoluto ma è relegato a realtà piuttosto modeste, sicchè opta per la rivolta e si toglie la vita. Si può essere progressisti anche per altra via, in modo connesso all’organicismo: se ammettiamo, come fa Hegel, l’esistenza di uno spirito del mondo, finiremo inevitabilmente per applicare un modello antropomorfo della storia , ovvero concepiremo le fasi storiche compiute dallo spirito del mondo come la vita di un individuo, caratterizzata da una nascita, da una crescita e da una morte. Non solo: la storia dell’individuo può anche essere vista in chiave finalistica (come faceva Aristotele) e ciò influirà sull’educazione che si impartirà ai bambini. Infatti, in chiave finalistica il bambino viene concepito in vista dell’uomo, cosicchè, propriamente, ad avere un valore è solo l’uomo compiuto. Ma se la storia può essere vista come la vita di una persona e se la vita di una persona è vista finalisticamente, allora anche la storia può essere vista finalisticamente. E proprio per questo la maggior parte dei Romantici non nega che vi sia finalismo nella storia : Hegel è convinto che vi sia un fine ultimo immanente ed intrinseco dell’umanità generale, presente embrionalmente fin dagli albori della storia e destinato ad essere, prima o poi, realizzato. A contare, però, in questa prospettiva, così come nella vita finalisticamente intesa non è il bambino ma l’uomo, dovrebbe essere il futuro, recante la realizzazione della finalità, e il passato dovrebbe avere minor valore, come credevano gli Illuministi. E invece i Romantici vivono nella convinzione che tutte le tappe della storia siano importanti: Hegel, non a caso, dirà che il vero è l’intero , a sottolineare che la verità c’è solo alla fine e risiede nella storia presa nella sua interezza. Certo, anche per Hegel e per altri Romantici come per gli Illuministi la situazione storica attuale è migliore rispetto alle precedenti, che però, seppur inferiori, non sono errori bensì sono tutte tappe necessarie, gestite provvidenzialmente dallo spirito del mondo. Ecco perché ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘ (Hegel): anche le guerre, le rivoluzioni, le violenze e tutte le altre cose negative sono positive perché estrinsecazione necessaria e provvidenziale dello spirito del mondo; non ci sono errori nella storia perché tutto rientra nella finalità. Proprio per questo motivo in età romantica pullulano i romanzi storici, in cui gli smarrimenti del protagonista sono necessari e giusti. Questa concezione hegeliana è per alcuni versi progressista (perché legge la storia come processo che tende verso un fine), per altri conservatrice (ciò che è successo e che succede è sempre giusto perché tappa necessaria dell’umanità: non ha senso essere rivoluzionari), ma non è mai reazionaria (non ha senso guardare con nostalgia al passato). Ecco che affiora un’altra diversità: per gli Illuministi il progresso non andava verso un fine retto da un attore divino e a farlo erano i singoli e non l’umanità come tutto organico. Ad aprire la strada al Romanticismo è lo Sturm Und Drang, una forma di proto-romanticismo estremistico, che spesso sfiora il titanismo: l’individuo si innalza da solo contro la realtà. Ed è nello Sturm Und Drang che affiora per la prima volta il panteismo, l’identificazione della natura con Dio. Il processo che porta al panteismo prende il via con Fichte: spiritualizzata la natura, il passaggio all’identificazione con Dio è dietro all’angolo. In età romantica fioriscono dunque principalmente due atteggiamenti, il panteismo e il fideismo; resta escluso il deismo, che troppo puzzava di Illuminismo. Il panteismo troverà in Goethe uno dei suoi massimi esponenti e sarà caratterizzato dall’idea che a reggere la storia sia uno spirito immanente, all’interno del mondo. Il fideismo troverà invece in Jacobi e Hamann i suoi baluardi e rivendicherà la priorità della fede su tutto, nella convinzione che non vi sia altro strumento per entrare in contatto con l’assoluto. E’ bene ricordare la vivace polemica sul panteismo che nacque in età romantica: si rinvengono dei documenti in cui il filosofo illuminista Lessing confessava di essersi convertito allo spinozismo. Da qui scaturisce il dibattito, che segna, tra l’altro, il ricomparire di Spinoza sulla scena filosofica, dopo circa un secolo di assenza per via del suo presunto ateismo. Ci sarà chi si schiererà al fianco di Spinoza e chi lo criticherà, ma, è interessante, tutti ne riconosceranno la grandezza e l’importanza. Chi vedrà in lui un puro e semplice meccanicista lo criticherà, ma chi scorgerà in lui un grande panteista (Goethe) come fu Giordano Bruno lo apprezzerà. Con il filosofo HERDER e con HAMANN si stabilisce un’indisgiungibile connessione tra ragione e linguaggio. Hamann, in Metacritica del pluralismo della ragione (1784), critica la presunta purezza della ragione e finisce, come Herder, per sostenere l’inesistenza della ragion pura. Come lo spirito del mondo esiste sempre e solo incarnato, allo stesso modo non esiste una ragione che si incarna in singole manifestazioni linguistiche. Non è vero che c’è una ragione pura che effettua il ragionamento e poi esso viene meccanicamente tradotto in Italiano, in Francese e in Spagnolo. Parlare in una lingua significa, al contrario, pensare in una maniera. La ragione è, cioè, sempre calata nei suoi contenuti, proprio come la religione. E’ bene accennare a due vocaboli tipicamente romantici ed hegeliani, con significati diversi rispetto a quelli che siamo soliti attribuire noi : astratto (dal latino abstrahere ) significa ‘tirato via’, concreto (dal latino concresco ) significa ‘cresciuto insieme’. Saranno astratte cose concepite separatamente le une dalle altre; concrete saranno invece cose concepite le une in relazione alle altre. Ora, la ragione non esista mai separatamente dal linguaggio ed è dunque concreta, ovvero è concepita in relazione al linguaggio poiché è già operante in esso: ‘ senza il linguaggio l’uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il linguaggio ‘ . La ragione kantiana era astratta, poiché concepita scevra da legami con il resto. In questa prospettiva, il meccanicismo è astratto (i singoli pezzi sono concepiti separatamente) mentre l’organicismo è concreto (ogni pezzo non è concepibile se non in riferimento a tutti gli altri e, soprattutto, al tutto). E’ interessante notare che, accanto ad una posizione romantica in senso stretto, vi è anche, ad essa contrapposta, una posizione classicista che muove critiche formali al Romanticismo. Ad aderire a tale corrente di pensiero fu Goethe stesso, distaccatosi dallo Sturm Und drang e dal Riomanticismo, come anche, sul versante italiano, Foscolo. Tuttavia non è del tutto corretto scorgere una netta contrapposizione tra classicismo e Romanticismo, come se non avessero aspetti comuni. Infatti, se il classicismo guarda con grande simpatia al mondo classico, anche i Romantici, seppur in una maniera tutta loro, apprezzeranno il mondo della classicità. La figura di GOETHE è interessante perchè segna il passaggio dai movimenti culturali più disparati, partendo dallo Sturm Und Drang, passando per il Romanticismo e approdando al neoclassicismo. Molto interessante è la sua filosofia della natura, poichè rivela la piena adesione ai modelli organicisti allora in auge. Goethe spiega che tutte le espressioni della natura sono variazioni di un unico prototipo originario, una pianta ( Urplanz ) da cui tutti i vegetali derivano. E’ una concezione tipicamente romantica poichè rappresenta uno dei tanti tentativi di eliminare ogni dualismo, nella convinzione che tutto sia riconducibile ad un unico principio: con Fichte e l’idealismo si è superata la contrapposizione soggetto/oggetto, con il panteismo quella natura/Dio e Goethe, panteista convinto, tenta addirittura di ricondurre ogni vegetale ad una pianta originaria. Goethe, fra le altre cose, scrive anche un opuscolo sulla teoria dei colori, in cui contesta l’interpretazione newtoniana secondo la quale i colori sono tanti e, se mescolati, danno la luce bianca: ad essa contrappone la teoria secondo la quale, viceversa, all’origine vi è la luce bianca, vista non come il risultato di una composizione; al contrario, sono i colori che derivano dalla scomposizione di essa. Sembra una diatriba puramente scientifica, ma in realtà riveste un ruolo importantissimo in ambito filosofico: si tratta infatti del sistema meccanicistico (Newton), secondo cui a contare effettivamente sono i singoli (i colori), contrapposto a quello organicistico (Goethe), secondo cui il parziale, dotato di esistenza depotenziata, è mera manifestazione particolare della totalità. Nel contesto classicista si inquadra perfettamente anche SCHILLER , che elabora il concetto di anima bella , riprendendo un atteggiamento grecizzante verso la morale. Noi siamo abituati all’idea che un’anima possa essere buona o cattiva, ma Schiller asserisce che può anche essere bella. Questa sua presa di posizione è riconducibile ad un una netta contestazione della morale kantiana all’epoca imperante, secondo la quale non poteva essere moralmente valutata la bontà naturale. Una persona a cui venga spontaneo essere buono, secondo Kant, non è moralmente valutabile, dal momento che non risponde alla legge morale ma all’istinto. Nell’ottica kantiana è invece passibile di giudizio morale chi, in contrasto alla propria natura di essere fisico che tende alle passioni, si rivolge alla parte di sè razionale e in base a ciò sceglie, magari contrapponendosi alla propria natura. Schiller non è affatto d’accordo e, proprio per questo, introduce il concetto di anima bella, alludendo a quelle anime che aderiscono spontaneamente al dovere morale, senza doversi sforzare. E’ un’anima ‘bella’ nel senso che, nella terminologia kantiana, presenta un’armonia spontanea, priva di costrizioni. Da qui scaturisce la convinzione schilleriana che per creare un’anima bella sia indispensabile un’educazione di tipo estetico: l’etica, cioè, viene vissuta secondo un’interpretazione estetica e in un tale ambito trova un suo spazio anche il gioco, peraltro già rivalutato da Rousseau nell’ Emilio . La valenza educativa del gioco, spiega Schiller, risiede nel fatto che in esso si manifesta la spontaneità, caratteristica peculiare dell’anima bella, e si abbattono i dualismi, secondo la migliore tradizione romantica, dal momento che nel gioco la spontaneità naturale è completamente fusa con la dimensione intellettuale: intelletto e sensibilità, proprio come nell’arte, fanno nel gioco un tutt’uno. Schiller contrappone poi, anticipando il Leopardi, la poesia ingenua alla poesia sentimentale : sarà ingenua quella poesia che fa appello alla natura, sentimentale quella che si richiama alla cultura. La poesia antica (Omero) era ingenua, mentre quella moderna è sentimentale: è tipicamente romantica l’idea che in ogni aspetto vi sia sempre una prima fase spontanea e immediata e che essa ad un certo punto vada irrimidiabilmente e necessariamente perduta. Per quanto ci si sforzi di recuperarla, il recupero non sarà più immediato, bensì sarà mediato, non vi sarà cioè più quella situazione originaria ma ve ne sarà una nuova. Ciononostante il recupero è necessario perchè non potrebbe non avvenire ed è anche positivo perchè, sebbene certo Romanticismo esalti la spontaneità e l’intuizione, vi sono anche Romantici convinti che lo smmarrimento e la mediazione siano fattori positivi, in quanto si instaura un processo di arricchimento che porta ad avere di più di quanto si avesse all’inizio. La storia stessa, come abbiamo visto, è per i Romantici di stampo finalistico: tutte le epoche hanno la loro dignità, anche se il pieno sviluppo del valore è nell’età adulta. Allo stesso modo, il recupero del punto di partenza assume più valore rispetto al punto di partenza stesso perchè arricchisce . Non a caso, in ambito musicale, le sinfonie dell’età romantica cominciano spesso con un motivo appena accennato, che viene poi perso per alcuni movimenti per poi ricomparire sul finale, arricchito rispetto all’inizio: è una riproduzione della filosofia romantico-hegeliana, secondo la quale vi è una dimensione originaria che viene smarrita (il mondo classico) per poi venire riacquisita a seguito di un processo di recupero che l’ha perfino arricchita. Secondo la prospettiva di noi moderni, un vaso rotto e reincollato è peggiore rispetto a prima che si rompesse; secondo molti Romantici (Hegel compreso), invece, è migliore perchè arricchito. Vi saranno Romantici ottimisti che diranno che il mondo classico è perfetto e deve e può essere imitato; ci saranno Romantici pessimisti che, pur riconoscendo la grandezza del mondo classico e la necessità di imitarlo, sosterranno che sia impossibile farlo. Infine, vi sarà chi dirà che il mondo classico è andato perduto e deve essere recuperato e tale recupero lo arricchirà perfino. Del resto secondo i Romantici vale più la virtù dell’innocenza: quest’ultima, infatti, altro non è se non l’ingenuità primordiale, il non aver ancora avuto l’opportunità di sbagliare e, non a caso, il suo rappresentante è Adamo che, non appena ne avrà l’occasione, sbaglierà. La virtù, invece, permette di recuperare l’innocenza, ma è anche stata intaccata dall’esperienza negativa: si tratta dunque di un recupero mediato del punto di partenza partendo però non dall’ingenuità primordiale, ma da esperienze negative che si trasformano in positive ( ogni negativo è anche positivo ). E lo stesso vale per il recupero del mondo classico. A cavallo tra Romanticismo e classicismo, tra poesia e filosofia troviamo la personalità di HÖLDERLIN . Tipicamente romantica è la sua concezione del poeta come vate , nata dalla convinzione che più il poeta del filosofo possa cogliere a fondo l’intima essenza della realtà, il panteismo e, soprattutto, la tragicità della realtà, nella convinzione che il positivo possa nascere solo dallo smarrimento totale: è nei momenti più tragici, afferma Hölderlin, che può nascere una speranza di redenzione. Un concetto romantico che si afferma sempre più è quello dell’ ironia , della dissimulazione, l’autodimnuirsi come faceva Socrate di fronte ai suoi interlocutori (ironia socratica): l’ironia è il tipico atteggiamento dell’uomo romantico che, presa coscienza del carattere non infinito delle cose in cui vive e che lui stesso crea, si accorge della propria limitatezza. Più poeta che filosofo, come Hölderlin, è anche NOVALIS , panteista ed estimatore del Medioevo. Uno dei suoi contributi più rilevanti sul versante della filosofia romantica è senz’altro il cosiddetto idealismo magico , secondo il quale il soggetto produce l’oggetto ma non in modo inconscio (come sosteneva Fichte), bensì in modo conscio. Novalis, e in questo si capisce come sia più poeta che filosofo, non si fa alcuno scrupolo ad affermare che il mondo è una produzione conscia del soggetto, in particolare del poeta, inteso quindi come produttore di mondi. Inquadrato nel contesto romantico è pure SCHLEIERMACHER , che vede la religione come sentimento di dipendenza verso l’infinito da parte del finito (l’uomo). La definisce anche sentimento trascendentale , a sottolineare che si tratta di un sentimento costitutivo della natura umana, un sentimento che si manifesta in tutti gli uomini. Egli elabora, inoltre, il concetto di ermeneutica, ovvero la teoria generale della comprensione: nel tradurre i testi di Platone, infatti, elaborò una chiave interpretativa (che resse per 150 anni circa) secondo la quale si doveva interpretare Platone basandosi esclusivamente sugli scritti (secondo il motto luterano del sola scriptura ), sebbene il filosofo greco avesse dato maggior peso alla parte orale. E fu proprio dall’interpretazione di Platone che a Schleiermacher balenò l’idea dell’ermeneutica, già peraltro attuata dai Padri della Chiesa nell’interpretazione dei Testi Sacri: essi tenevano infatti conto del fatto che la Bibbia, nel suo complesso, è data dalla sommatoria dei significati dei singoli libri e che, al tempo stesso, si devono leggere i singoli libri guardando al tutto, con la conseguenza che, se si esamina la questione in termini meccanicistici, ci si trova di fronte ad un apparente circolo vizioso. In realtà, quando esamino una parte della Bibbia, un senso generale ce l’ho già e leggendo i singoli libri non faccio altro che approfondire lo studio del tutto. L’ermeneutica è applicabile, oltre che all’interpretazione dei testi, anche all’interpretazione della realtà, poichè mi permette di comprendere meglio le singole parti conoscendo in termini generali il tutto e, al tempo stesso, mi consente di approfondire lo studio del tutto esaminando le singole parti. E’ un processo di forte sapore romantico, che rientra a tutti gli effetti nell’organicismo in quanto, in fin dei conti, a contare non sono le singole parti, ma il tutto.
JOHANN JOAQUIM WINCKELMANN
“Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interiore”.
VITA E OPERE
Joaquim Winckelmann nacque a Stendal (Magdeburgo) nel 1717, da una famiglia modesta. Fece studi irregolari. Nel 1754 soggiornò a Dresda presso l’ambasciatore vaticano Albertino Archinto, che gli affidò la sua biblioteca. Nel 1755 dopo essersi convertito al cattolicesimo si trasferì a Roma dove entrò come bibliotecario al servizio del cardinale Alessandro Albani. Nel 1762 nel primo dei suoi viaggi a Napoli, visitò Pompei e Ercolano, spingendosi fino a Paestum, di cui fu il primo a svelarne l’importanza storico-archeologica. Nel 1764 divenne sovrintendente ai monumenti antichi di Roma. Morì assassinato (forse per una rapina) in una locanda di Trieste, nel 1768, di ritorno da un viaggio in Germania. Considerato il fondatore dell’archeologia scientifica, ebbe una fortissima influenza sulle posizioni artistiche letterarie e filosofiche del suo tempo. I suoi scritti Considerazioni sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (Gedanken über die Nachahmung der griechischen Werke in der Malerei und Bildhauerkunst, 1755) e “Storia dell’arte nell’antichità (Geschichte der Kunst des Altertums, 1764) posero in primo piano l’arte greca, anche se solo conosciuta attraverso le copie romane: in essa, Winckelmann vide realizzato l’ideale della bellezza come specchio di una umanità autonoma, caratterizzata da una armonica fusione di corpo e di spirito, da un nobile dominio delle passioni. Le sue idee si inserirono nell’idealizzazione della grecità propria di tutto il XVIII secolo tedesco, fino al classicismo di Weimar e al primo romanticismo. Furono tra le fonti principali della poetica neoclassicista, e della visione della grecità come serena olimpica e superiore armonia: una visione che sarà poi aspramente criticata dal tardo romanticismo e da Nietzsche, che svelerà – in La nascita della tragedia (1871) – come i Greci avessero piena percezione della tragedia esistenziale . La sua immagine dell’arte greca ebbe larghissima risonanza. Nel campo della storia dell’arte, il suo contributo andò nella direzione di una storia oggettiva, incentrata sulle opere e sull’evoluzione degli stili. Sottolineando dal punto di vista artistico l’aspetto creativo e non puramente mimetico dell’opera d’arte. Winckelmann è il fondatore della moderna archeologia, che non diventa più un interesse di natura antiquaria, ma un vero e proprio programma d’indagine. E’ il primo che rintraccia una linea coerente, finalizzata a scoprire “l’essenza dell’arte” attraverso le opere classiche, quali esempi di perfezione assoluta e ideale estetico. Inoltre, è il primo ad analizzare le opere d’arte antica seguendo un criterio stilistico e formale. La fortuna delle sue teorie contribuisce a determinare una vera corrente di gusto, il neoclassicismo, anche perché con lui la storia dell’arte diventa anche il fine dell’acquisizione estetica. In questo periodo, le grandi scoperte di Pompei ed Ercolano, il vento esotico delle campagne napoleoniche in Egitto, che valsero la scoperta dell’importantissima Stele di Rosetta, l’interesse per l’arte e l’archeologia coinvolsero gli uomini di cultura, come, ad esempio Goethe e Mérimée. Questo interesse non poteva prescindere dall’eredità winckelmanniana. Winckelmman morì a Trieste, tra dolori atroci, nello squallore di una camera d’albergo, per mano di un popolano butterato, proprio lui, che aveva mitizzato la bellezza di Apollo, senza “tendini né vene”, sublime, incontaminata da sangue e umori.
IL PENSIERO
Celeberrima è la definizione di Winckelmann delle statue greche come espressione di “nobile semplicità e serena grandezza”: semplicità nel senso di essenzialità, universalità e non esagerazione, naturalezza e spontaneità, naturale sviluppo di una forma verso la sua perfezione; grandezza, invece, nel senso di onnicomprensività, magnanimità, frutto di un animo lungimirante che tutto abbraccia e nulla esclude, una grandezza serena che è tale poiché di nulla abbisogna. Ciò si traduce nello sguardo di beata introversione con cui – egli nota – queste statue ci osservano, paghe della propria perfezione, in antitesi con la lacerazione che caratterizza gli uomini comuni; esse sono del tutto transumanizzate, raffigurano un’umanità che non è in lotta con le proprie passioni, ma che le ha già sopite. L’interruzione medievale – con il suo temporaneo smarrimento del mondo antico – non implica una frattura nella continuità che lega antichi e moderni grazie alla ragione di cui essi sono parimenti dotati; ed è per questo motivo che il neoclassicismo settecentesco condivide, per un verso, la concezione del ritorno agli antichi come riattualizzazione della ragione, ma, per un altro verso, presenta spiccate varianti nazionali: così in Francia e in Germania esso si rivela particolarmente interessato alla sfera etica, prendendo gli antichi a modello di comportamento. Ma – chiediamoci – da dove trae origine questo improvviso interesse per il mondo greco? Soprattutto dagli scavi di Ercolano e di Pompei che si stavano a quei tempi realizzando e che inducono a far cambiare radicalmente i gusti per quel che concerne l’arredo: dal barocco si passa rapidamente alla linea dritta, con un maniacale attaccamento allo stile greco. I Francesi, poi, guardano soprattutto alle virtù civili e repubblicane degli antichi, che sono una “scuola di costumi” (Diderot) da prendere come esempio per il proprio comportamento; così gli eroi di cui parla Plutarco nelle sue Vite parallele (Muzio Scevola, Attilio Regolo, ecc) assurgono ora – grazie soprattutto ai capolavori di David – a modelli comportamentali imprescindibili per i Francesi; è, in certo senso, la borghesia che rivendica i suoi diritti di contro ad un’aristocrazia sempre più antiquata e soffocante, che si ostina a conservare un ruolo che più non le compete, coprendosi sempre più spesso di ridicolo, come lascia trasparire Parini in Il giorno. Il proposito è dunque quello di edificare con l’arte il cittadino, ed è in questo clima che nasce e si sviluppa a dismisura il museo, come luogo di conservazione e di tesaurizzazione di questi modelli greci che non finiscono mai di istruirci. Sull’altro versante, il neoclassicismo tedesco non guarda tanto alle virtù civiche quanto piuttosto all’uomo greco in quanto tale, oggetto di ammirazione, imitazione e nostalgia: la bella umanità dei Greci suscita un profondo senso di nostalgia e di rimpianto, e ad attirare i Tedeschi non è la filosofia o l’arte greca in quanto tali, ma è l’uomo greco stesso, nella sua perfezione stupefacente, di contro al classicismo rinascimentale che invece si proponeva di riattualizzare innanzitutto la cultura antica. Ciò implica un’accesa polemica contro il cristianesimo in favore della cultura greca (o, meglio, dell’uomo greco), sfociante in un generalizzato tentativo di tornare ai greci imitando le loro opere: la cosa forse più interessante è che i Tedeschi imitano le opere greche in maniera funzionale, e, più precisamente, per cercar di essere Greci, quasi come se ciò fosse il tramite che conduce all’imitazione di quell’umanità. La stessa bellezza dell’arte greca è del tutto dovuta alla bellezza di cui gli uomini greci rifulgevano in modo abbagliante: un’arte che ci presenta in maniera sorprendente l’uomo quale deve essere, forse quale veramente è stato e, magari, quale potrebbe tornare ad essere. Là dove interviene la nostalgia, essa non fa che segnalare che c’è stata una frattura tra il presente ed il passato, a cui si vorrebbe tornare, consapevoli di quanto esso fosse diverso (e migliore): da ciò si evince come gli antichi fossero altri rispetto ai moderni; in particolare, la differenza è data da una diversa esperienza della finitezza. Infatti, quella greca è un’umanità capace, pur nei propri limiti, di una pienezza d’essere pressoché divina in cui trovare appagamento, sicchè a quell’umanità resta completamente estranea la percezione della propria finitezza come di un limite al raggiungimento della propria perfezione (cosa peraltro su cui Nietzsche avrà da ridire): ai Greci manca, dunque, quell’anelito all’infinito che caratterizza la dilacerata umanità dei moderni, consapevoli della propria limitatezza e, perciò, infelici. Ciò che ai greci manca è la consapevole distinzione tra finito e infinito, distinzione di cui solo la filosofia greca è conscia: ma la filosofia greca, per quanto importante, non può essere in alcun caso fatta coincidere con l’uomo greco in quanto tale, quale lo troviamo nell’epoV omerico. Si tratta in certo senso di un’autentica greco-mania dilagante nella Germania di quegli anni, in cui i più vivaci ingegni avvertono la propria finitezza di moderni come un doloroso limite al raggiungimento della perfezione, onde il loro anelito all’infinito. Così scrive Herder: “i greci non ammettevano nessuna sfrenatezza, si fosse anche trattato di indagini su Dio; ritenevano anzi che queste ultime fossero contrarie alla natura dell’uomo, alla misura delle sue forze, alla durata della sua vita […]. Ciò che s’aveva da fare era riconoscere la propria dimensione umana […]. Si direbbe che noi abbiamo alquanto perso di vista i placidi contorni di questa esistenza umana, giacché a quei limiti preferiamo di gran lunga l’infinito e crediamo che l’unica occupazione della Provvidenza debba essere di sottrarci a quei limiti”. Nel 1805, Goethe scrive un saggio su Winckelmann e il suo secolo, in cui afferma: “mentre l’uomo, moderno quasi in ogni sua meditazione, si lancia verso l’infinito per poi far ritorno – quando gli riesce – ad un punto delimitato, gli antichi, senza perdersi in ulteriori deviazioni, si sentivano immediatamente e pienamente a proprio agio entro gli amabili confini di questo che era un mondo bello”. Augusto Gustavo Schlegel così si esprime in merito: “presso i Greci, la natura umana era autosufficiente e non aspirava ad altra perfezione che non fosse quella realmente raggiungibile con le proprie forze […]. Nella prospettiva cristiana tutto si è capovolto […]. La poesia degli antichi era poesia del possesso, la nostra della nostalgia”. Scrive ancora Federico Schlegel: “l’antichità è compiuta rappresentazione della vita, reale conciliazione di finito e infinito, e, perciò, immune dal loro conflitto” e quindi da ogni tensione del finito verso l’infinito; nel mondo greco viene ravvisato un autentico teomorfismo in cui l’uomo, perfetto, può bearsi di se stesso, in quanto egli è, in primis, pieno e armonico sviluppo di tutte le parti umane, cosicchè “solo l’armonica temperanza di tutte le facoltà può produrre uomini felici e perfetti” (Schiller) ed è appunto in ciò che risiede la perfetta natura dei greci di cui parla Winckelmann. Federico Schlegel così si esprime: “come nell’animo del Diomede omerico tutte le forze si accordano perfettamente, così l’intera umanità si sviluppò in Grecia in maniera armonica e perfetta”, poiché risultato dell’armonia di tutte le facoltà. In secundis, il prodursi di siffatta armonica perfezione non poteva che essere naturale, ossia immediato e irriflesso. “Il moderno ebbe assegnato dall’intelletto che tutto separa le proprie forme”, nota Schiller, e di conseguenza “il moderno non sviluppa mai l’armonia del suo essere” a causa della riflessione, sicchè mentre il moderno è dominato dal nefasto intelletto, “l’individuo greco ebbe assegnate le sue forme dalla natura che tutto unisce”. Federico Schlegel asserisce a tal proposito che “l’arte greca è libera dalla signoria dell’intelletto” e perciò non è impacciata dalla riflessione intellettuale e può svilupparsi liberamente alla stregua di un organismo; infatti – prosegue Schlegel – “in Grecia la bellezza crebbe senza cure artificiali e – per così dire – allo stato brado. Sotto questo cielo felice, l’arte figurativa non fu abilità appresa, ma natura originaria; la sua formazione non fu che il liberissimo sviluppo di una felicissima disposizione”. La contrapposizione tra la cultura naturale degli antichi e quella artificiale dei moderni non può non richiamare alla memoria Rousseau e la sua tesi, seppur qui arricchita dal mondo greco. L’intelletto produce infatti indebite divisioni e mescolanze, cosicchè all’armonia dell’uomo greco doveva corrispondere una coscienza in cui la riflessione discorsiva ancora non spadroneggiava ed egli si trovava sospeso in una percezione beatifica della propria perfezione naturale, a tal punto che – per dirla con Schiller – “quell’uomo era uno con se stesso e felice nel sentimento della propria umanità”, di contro alla riflessione che distingue e contrappone finito ed infinito, dando all’uomo la dolorosa percezione della propria limitatezza. Tale riflessione mancava ai greci e, quindi, presso di loro non vi era contrapposizione tra sensibilità e ragione né, di conseguenza, il prevalere dell’una sull’altra, come invece avviene ai moderni, divisi o per un unilaterale sviluppo del sensismo materialistico o per via di un unilaterale razionalismo sfociante nel rigorismo etico a cui era approdato Kant. I Greci di cui qui Winckelmann, Schiller, Schlegel e Goethe parlano non sono tuttavia quelli della filosofia – anch’essi già alle prese con la riflessione -, ma piuttosto quelli di Omero e della statuaria, cosicchè la filosofia greca subentra come un elemento di disturbo proveniente dall’Oriente, e non tanto come una componente che porta all’apice il mondo greco. Già nella tragedia e nella poesia lirica, del resto, si palesa la contrapposizione tra finito e infinito, quella contrapposizione che porterà alla morte dell’umanità greca. Per i filosofi greci – perfettamente consapevoli della distinzione tra finito e infinito – la perfezione dell’arte è già un ideale, e non qualcosa di realmente esistente nella natura, tant’è che l’artista è da essi concepito come colui che raffigura una perfezione fittizia, che mai potrà darsi in questo mondo. Secondo Winckelmann, invece, l’artista greco non faceva altro che cogliere l’umanità greca nella sua reale (e non ideale) bellezza, dando vita a statue raffiguranti un uomo perfetto che è tale perché non ancora signoreggiato da quella riflessione che, dove presente, rende insicuri e sofferenti. Merito storico di Winckelmann è soprattutto la scoperta e la rivelazione della grecità e della sua perfezione; egli intende se stesso, più che come archeologo o storico dell’arte, come pedagogo che rivela l’uomo greco e tale è lo scopo che affida alle sue veementi descrizioni delle opere greche; la grecità quale egli la concepisce non è un passato ineluttabilmente trascorso, ma è piuttosto una forza viva e presente, un modo d’esser uomini che può e che deve tornare ad essere operante, educando l’uomo a raggiunger la sua vera umanità. Nei suoi scritti – soprattutto in Storia dell’arte e dell’antichità (1764) -, Winckelmann attacca duramente il barocco e sostiene che l’arte greca racchiude in sé un’etica e una pedagogia, cosicchè all’opera d’arte spetta – in quanto veicolo dello spirito greco – uno statuto e una funzione sacramentale, e tale è l’esperienza personale che Winckelmann ha avuto, vivendo in sé l’accendersi di una interiore e latente grecità che torna a rivivere al contatto con quella esteriore delle opere d’arte greche; ed egli invita tutti a rivivere ciò che egli ha vissuto, giacchè la grecità è una possibilità perenne dell’uomo, innata e coltivabile: si tratta di assimilarsi all’uomo greco, facendo rivivere in sé ciò che si imita, cosa possibile appunto perché il greco è virtualmente presente in ciascuno di noi. Si tratta solo di risvegliarlo e, per far ciò, occorre entrare in intimo contatto con le opere greche e con il mondo che da esse trasuda: è, questa, una rivisitazione del concetto cristiano dell’imitazione di Cristo, secondo cui l’incontro col Cristo annunciato dalle Scritture ridesta in noi il Cristo, quella scintilla divina rimasta latente nell’uomo nonostante il peccato originale. Come il vero imitatore di Cristo è colui in cui Cristo rinasce e rivive, così il vero imitatore dei Greci è chi si trasmuta in essi, facendoli rivivere entro di sé, in tutta la loro bella umanità; e in Winckelmann l’imitazione dei greci non fa che scacciare e rimpiazzare quella di Cristo, cosicchè la salvezza dell’uomo è racchiusa nei greci stessi. Ma si tratta di una grecità aspaziale e atemporale (Winckelmann mai giunse in Grecia), che in realtà finisce per identificarsi con Roma; egli contrappone gli antichi e i moderni e, per di più, scalza il cristianesimo, sostituendolo con la grecità, accentuando al massimo l’immanentismo, di contro al trascendentismo a cui porta il cristianesimo: l’uomo è, grecamente, artefice e creatore di sé e della propria humanitas, e la paideia dell’arte antica mira appunto ad educare a questo ideale per cui l’uomo diventa veramente uomo e mito al tempo stesso, tramutandosi in essere prometeico. Nella lirica I segreti così scrive Goethe: “allorchè la sana natura dell’uomo agisce come un tutto, allorchè egli si sente nel mondo come in un grande tutto e allorchè l’armonico equilibrio produce in lui una pura e libera estasi, allora il cosmo, se mai potesse aver sentimento, esulterebbe perché avrebbe raggiunto il proprio fine”. L’uomo greco, così inteso, appare come teofania del nuovo dio della religione umanistica quale appare nell’arte. Così si interroga Hölderlin: “perché son legato alle coste della Grecia e le amo più della mia stessa patria? Perché sono il paradiso e il regno di Dio”. Così concepita, la grecità non è un mero passato, ma anzi si configura come un possibile futuro: significativamente, Quasimodo ha intitolato una sua raccolta di versi L’antichità come futuro, con un titolo che ben rispecchia la concezione di questi autori, per cui la nostalgia non è sterile, ma produttiva, tesa a ripartorire quell’uomo ideale che visse coi Greci. Un punto nodale del pensiero di Winckelmann è dato dalla sua dura critica ai danni del barocco, età in cui – egli nota amaramente – trionfano i due grandi errori condannati dal classicismo: l’eccessivo naturalismo e il dilagare incontrollato della soggettività dell’artista; nell’arte barocca – l’arte della controriforma, tendente dunque ad una serrata propaganda religiosa – l’uomo è raffigurato nella sua finitezza peccaminosa e, al contempo, nella sua redentrice relazione con Dio: in questo modo, egli è homo viator, colto in tutta la sua contraddittorietà derivantegli dalla sua finitezza, cosicchè ci si trova dinanzi ad un’umanità in lotta tra sensualità e ascesi, tra gioia di vivere e negazione del mondo, in costante tensione e in perenne sforzo. Non è un caso che la cifra dell’arte barocca sia la torsione: così, in torsione sono le statue (pensiamo all’Estasi di S. Teresa del Bernini) ed esse non fanno altro che raffigurare un’umanità contorcentesi in preda a lacerazioni irrisolte, mai in quiete (non a caso i personaggi sono spesso raffigurati col corpo voltato, in preda allo stupore, o col corpo perigliosamente poggiante su di un sol piede): Ninfe rapite e Santi martirizzati ben simboleggiano questo turbinio di movimento incessante di un’arte che è analoga all’umanità che raffigura. Winckelmann asserisce che quest’arte (ai suoi tempi divenuta rococò), lungi dal condurre l’uomo a se stesso, lo perde nel contraddittorio labirinto della sua finitezza, salvo poi predicare la redenzione divina (e qui sovvengono i dipinti barocchi dei cieli divini sulle volte affrescate). La seconda caratteristica deteriore del barocco è il suo soggettivismo, il narcisismo di cui l’autore si macchia, come ben sapeva il Marino quando predicava che “è dell’artista il fin, la meraviglia”. Mentre l’artista classico è preso dalla contemplazione e dalla raffigurazione della bellezza, sgombrando l’opera dalla sua presenza, l’artista barocco visibilizza innanzitutto se stesso e non l’oggettiva bellezza, e, così facendo, mantiene il fruitore dell’opera d’arte nella sua soggettiva finitezza. La bella umanità dei Greci è tale perché totalità e armonia delle facoltà e ciò è stato possibile perché tale era realmente la natura greca: in questa maniera, Winckelmann fa proprie alcune notazioni di Montesquieu sull’influenza del clima nell’evolvere delle culture che in esso si sviluppano. Il clima greco è il clima dell’eterna primavera, ottimale per la nascita di una cultura strepitosa: di qui – secondo Winckelmann – i corpi snelli dei Greci che, sotto il loro cielo azzurro e terso, rispecchiante il loro beato stato d’animo, hanno raggiunto in pieno l’umanità. Beffardamente interrogato se tutti i Greci fossero belli quali li si osservano nelle statue, Winckelmann rispose causticamente che magari non tutti eran così belli, ma che comunque davanti a Troia vi era un solo Tersite. Winckelmann identifica di volta in volta la propria concezione dell’umanità greca in diversi topoi, uno dei quali è dato dall’Apollo adolescente, raffigurazione tipica dell’armonia, in quanto nell’adolescente è raffigurata la tipica totalità aurorale di chi è giovane; si tratta dello svelarsi di un cosmo virtuale, che fa sì che l’adolescente sia un plesso di possibilità ancora inespresse, giacchè è ancora un tutto non specializzato, si trova in uno stato di grazia scevro di scissioni e contrapposizioni. In questo senso, è colta l’eterna giovinezza di questa umanità eterna e priva di artificio, poiché la riflessione c’è, sì, ma non domina ancora incontrastata, senza comunque che vi siano eccessi di spontaneità. Tale condizione di puer aeternus appare sì come un dono di quel cielo azzurro e terso che risplende sulla Grecia, ma è un dono coltivato e sviluppato opportunamente, e tal bellezza è massima espressione di benessere; ne emerge quella che Winckelmann definisce come la nonchalance dei Greci, e che ancora Kierkegaard – quando parla di Socrate – battezza come “noncuranza” greca. “Nel contegno delle figure antiche, non si vede il piacere manifestarsi col riso, ma esso mostra soltanto la serenità della contentezza interiore” e – prosegue Winkelmann – “nella quiete e nella tranquillità del corpo si palesa la grandezza posata dell’animo, sublime e nobile immagine di una così perfetta natura”; quello che leggiamo sulle statue greche è l’atteggiamento di chi, lungi dal nuotare faticosamente contro corrente, si lascia portare dalla corrente, galleggiando con leggerezza perché è già compiutamente se stesso. Così, gli eroi greci son sempre colti in posa, stanno e sono se stessi, dunque in riposo, appoggiati, “gli dei e gli eroi sono rappresentati in piedi come nei luoghi sacri ove alberga la quiete, e non come nel gioco dei venti o in una sbandierata”, come invece vengono tratteggiati nell’arte barocca (pensiamo ai suoi mantelli svolazzanti). Sono in pace con se stessi perché in loro essere e dover essere coincidono, sicchè siamo lontanissimi da una vita febbrile e fabbrile, con un evidente parallelismo con la polemica rousseauiana condotta contro il modus vivendi della borghesia. Quella dei Greci era una vita trascorsa in ozio (la scolh greca), una vita in cui non ci si occupava che della propria umanità e del resto Winckelmann, nel suo epistolario, ringrazia di continuo i suoi protettori, che gli han consentito l’ozio romano, quel dolce far niente italiano, senza scomposte agitazioni e sfociante nell’olimpica serenità del meridionale (non è un caso che Winckelmann viva in anni che costituiscono i prodromi della rivoluzione industriale). Quando egli parla dell’umanità dei meridionali, intende dire che essi son più uomini di quanto non lo siano i moderni suoi conterranei, sempre più integrati, come ingranaggi, nei ranghi della trionfante borghesia, sicchè il benessere di cui Winckelmann parla non è esente da coloriture epicuree. “A Roma sono vissuto”, egli nota beatamente, e non diversamente Goethe dirà: “a Roma sono rinato”. E’ infatti l’ozio – nella fattispecie quello vissuto a Roma – ad illuminare sul vero valore dell’esistenza, che deve essere coltivata e non sprecata. Nel paradiso dell’umanità si gioca e non si lavora, perché il gioco – in antitesi col lavoro – impegna e insieme non impegna tutte le facoltà dell’uomo, rendendo la sua vita un po’ come una festa giocosa. Ma le feste, come tutti sappiamo, son sempre minate dagli spettri del passato e da quelli del futuro, cosicchè il loro carattere peculiare è la costante delusione rispetto all’attesa (tematica brillantemente colta da Leopardi). Le feste risultano infatti perennemente insidiate dallo spauracchio del lavoro, di cui sono solo una vuota interruzione; si limitano a soppiantare temporaneamente l’angoscia con il vuoto. E tale vuoto della festa è un vano diversivo, astratto dal lavoro ma ad esso connesso, cosicchè nella festa il lavoratore si sente fuori luogo: l’autentica festa – nota Winckelmann – è l’ozio, reso possibile dalla pienezza e dalla compattezza che fan sì che si sia presenti a se stessi e non proiettati nel passato o nel futuro. Ciò avviene quando si contempla l’opera d’arte e, del resto, l’etimologia stessa di negotium (il termine latino che noi traduciamo con “lavoro”, “impegno”) è nec otium, il che rivela come il lavoro altro non sia se non la corruzione dell’ozio, quella condizione originaria dell’uomo celebrata anche da Federico Schlegel. Schiller, dal canto suo, cercherà una democratizzazione di quest’ozio elitariamente inteso da Winckelmann, che esalta sempre e di nuovo la libertà di Roma e della Svizzera, di contro al dispotismo nordico e francese. Si tratta della libertà non solo da mode, costumi, educazioni e morali soffocanti, ma anche dallo Stato e da una legislazione oppressiva, sicchè in questo senso Winckelmann apre veri e propri spiragli in direzione liberale; la libertà così intesa era a suo avviso presente presso i Greci, tant’è che la tunica greca non costringeva i corpi e così pure la nudità fisica era orientata ad un libero sviluppo psicologico. Dunque il contatto con quell’arte antica è di importanza vitale, e nell’Ottocento si darà vita ad una variante estetizzante del pensiero di Winckelmann, massimo esponente della quale fu Walter Pater col suo romanzo Mario l’epicureo. Schiller invece darà della visione di Winckelmann un approfondimento filosofico e soprattutto tenterà di coniugarla con la rigorosa prospettiva morale di Kant, fuggendo perciò agli estetismi.
FICHTE
Il primo della triade dei tre grandi idealisti è Fichte, e riflettendo sulla sua posizione filosofica Hegel la definirà come una sorta di idealismo soggettivo . Fichte esordisce sulla scena filosofica come seguace di Kant, delle cui teorie si professa propugnatore: a dimostrazione del suo tentativo di rifarsi a Kant si può ricordare un episodio interessante. Fichte pubblicò anonimamente un testo che, per le evidenti vicinanze al pensiero kantiano, fu scambiato dal pubblico per un testo scritto dallo stesso Kant, il quale dovette intervenire per spiegare che quel testo non era suo e per fare comunque degli apprezzamenti positivi su di esso. Partito da posizioni kantiane, però, Fichte muterà rapidamente il proprio pensiero, giungendo all’idealismo soggettivo, dal quale poi si allontanerà. E’ interessante il fatto che Fichte abbia preso parte alla polemica sull’ateismo: subì una pesante critica per via della pubblicazione di un’opera, di forte sapore kantiano, in cui finiva per identificare Dio con l’ordine morale del mondo. Si tratta di una prospettiva evidentemente kantiana, in cui la religione è derivata dalla morale: Dio esiste per l’uomo nella misura in cui egli ha l’esperienza morale, poichè senza Dio il mondo sarebbe moralmente disordinato. In molti han notato che vi è nel cristianesimo una perenne evoluzione, un continuo passaggio da ciò che Dio è in sè a ciò che Dio è per noi: Lutero stesso si interessava non tanto di Dio in sè, quanto piuttosto di Cristo, ovvero di Dio come ci appare; con Kant stesso si va in quella direzione, in quanto il Dio da lui (e dal Fichte dello scritto citato poc’anzi) riconosciuto è il garante dell’ordine morale del mondo. Ora, è evidente che identificando Dio con l’ordine morale del mondo si può facilmente essere accusati di ateismo: e fu questo che capitò a Fichte. Tuttavia, la posizione centrale del pensiero di Fichte è quella etica, che costituisce il centro della sua riflessione: ed è, tra l’altro, l’aspetto per cui poteva considerarsi allievo fedele di Kant. Tuttavia, Kant si accorse che Fichte si stava sempre più discostando dal suo pensiero e sostenne che la sua intelligenza avrebbe meritato di essere impegnata su terreni migliori di quelli su cui stava camminando, avvolti dalle nebbie della metafisica. Pur discostandosi da Kant e imboccando la via dell’idealismo, Fichte resta kantiano nello spirito riconoscendo il primato della ragion pratica, quella che anche per Kant valeva più di ogni cosa perchè la volontà buona era l’unico elemento buono di per sè e perchè essa permetteva di sapere cose inconoscibili (Dio e l’immortalità dell’anima). La celebre triade degli idealisti è costituita da Fichte, Schelling e Hegel: essi si succedono in tempi molto ravvicinati, cosicchè la parabola discendente dei primi due è molto rapida, poichè di volta in volta il nuovo arrivato oscura la fama del suo predecessore. E così il periodo culminante della riflessione fichteana si colloca negli ultimissimi anni del Settecento, quando sarà surclassato dall’appena venticinquenne Schelling, il cui predominio si estenderà fino al 1807 e non oltre: a questo punto entrerà in gioco Hegel. Dopo la fatidica data del 1800, quando ormai il suo astro è declinato, l’esito del pensiero di Fichte prende una coloritura teologico-religiosa: è interessante, perchè il periodo che segue alla filosofia kantiana è caratterizzato da una polemica anti-intellettualistica, una polemica contro l’intelletto, ovvero contro la facoltà conoscitiva del finito; in età romantica, dove è particolarmente sentita la ricerca dell’infinito, all’intelletto, che era la facoltà preferita da Kant e dagli illuministi, subentra la ragione, ovvero la facoltà di cogliere l’infinito, l’assoluto. In questo panorama vi saranno due atteggiamenti diversi: ci sarà chi rifiuterà sia l’intelletto sia la ragione, avvicinandosi in tal modo alle posizioni mistico-intuitive; ci sarà poi chi, come Hegel, riconoscerà l’inferiorità dell’intelletto rispetto alla ragione e, dunque, si dedicherà interamente ad essa. Il rischio della critica all’intelletto è, per così dire, di farsi troppo coinvolgere e di finire per travolgere con tale critica anche la ragione, negandole ogni legittimità conoscitiva. Resta però vero che tutta la cultura romantica sarà anti-intellettualistica, ma non tutta sarà anti-razionalistica (Hegel in primis). Naturalmente, finchè all’intelletto contrappongo la ragione e mi attengo ad essa, resto pur sempre nella sfera della filosofia, dell’indagine razionale; se però, oltre a criticare l’intelletto, critico anche la ragione, ecco che non mi muovo più nell’ambito della filosofia, la quale affonda le sue radici nella razionalità. Tornando ai tre idealisti, l’unico che resta coerentemente fedele alla ragione, fino in fondo, è Hegel (la sua scala gerarchica sarà 1 filosofia, 2 religione, 3 arte); Fichte e Schelling, invece, partono entrambe dalla filosofia per poi sconfinare in campi che esulano dalla ragione: Fichte riconoscerà il privilegiamento della religione, Schelling dell’arte. In questi due pensatori è come se, paradossalmente, la ragione decretasse essa stessa il proprio suicidio, appellandosi alla religione (Fichte) e all’arte (Schelling). Detto questo, Fichte ritiene che il grande merito di Kant sia stato quello di aver spalancato le porte all’individuazione di un unico principio assolutamente primo e indeterminato da cui tutto deriva: certo Kant non ha esplicitato l’idea fino in fondo, dice Fichte ritenendosi più kantiano di Kant stesso, eppure se nella gnoseologia tradizionale soggetto e oggetto avevano pari peso, ebbene Kant ha maestralmente riconosciuto maggiore importanza al soggetto, il quale autoproietta le sue leggi nella natura (rivoluzione copernicana). Kant non ha però avuto il coraggio di compiere fino in fondo il passo decisivo di rottura con il passato e ha mantenuto un oggetto (la cosa in sè) esistente indipendentemente dal soggetto. Ora Fichte elimina del tutto la cosa in sè , che a suo avviso è un assurdo residuo mentale privo di significato. Effettuando tale eliminazione (peraltro già iniziata nel Kant della vecchiaia), Fichte può procedere alla costruzione di un sistema della scienza unitario, spiegando l’intera realtà con un unico principio (e non più con due): il soggetto. Se per Kant il mondo altro non era che l’unione costante di soggetto e oggetto attraverso le forme del pensiero, ora per Fichte è uno solo il princìpio necessario per spiegare la realtà. Il che permette di spiegare l’intero sistema della realtà con quell’unico principio esistente: il sapere che ne deriva Fichte lo definisce dottrina della scienza , espressione che dà il titolo, con qualche variazione a seconda dei casi, a gran parte delle opere fichteane. Da notare che l’espressione ‘dottrina della scienza’ è affine a quella kantiana ‘riflessione trascendentale’, con la grande differenza, però, che in Fichte non vi è una cosa in sè esistente autonomamente; questo implica che, a differenza della prospettiva kantiana avente le due diverse fonti conoscitive della forma (soggetto ) e del contenuto (l’oggetto), nell’idealismo fichteano l’unica fonte conoscitiva è il soggetto, il quale sarà sì all’origine della forma della conoscenza (come in Kant), ma sarà anche all’origine del contenuto. Non avremo più, come invece era in Kant, un soggetto che riceve dati dalle inconoscibili cose in sè, li riorganizza secondo le sue forme mentali e ottiene la conoscenza; al contrario, ci sarà il soggetto che organizza formalmente i contenuti che non derivano da presunte cose in sè, ma che lui stesso si crea dal nulla con un’attività produttiva. Ne consegue che le sensazioni stesse non derivano più dall’oggetto, ma dal soggetto stesso; in parole povere, sia la materia sia la forma della conoscenza derivano dal soggetto . Come mai in quest’epoca si predilige la ragione (facoltà che aspira a cogliere l’infinito) all’intelletto (facoltà che aspira a cogliere il finito)? Finchè ritengo, sulle orme di Kant, che vi siano due princìpi della realtà (soggetto e oggetto) e due della conoscenza (forma e contenuto) radicalmente separati, tale ammissione comporterà che la mia conoscenza sia finita (privilegiamento dell’intelletto) perchè vi sarà pur sempre qualcosa fuori di me e che non potrò mai del tutto riassorbire nella mia testa: se conoscere significa, per così dire, introdurre l’oggetto dentro di sè, inquadrarlo, per Kant possiamo solo conoscere ciò che abbiamo messo noi, con le leggi del nostro pensiero, nel mondo, con l’inevitabile conseguenza che di ciò che non ho messo io nel mondo non potrò avere conoscenza certa. Ne consegue che sarà possibile solo una conoscenza finita e l’intelletto sarà lo strumento più adatto. Se però ammetto che tutto deriva dal soggetto, come fa Fichte, ovvero se ammetto che il soggetto non costruisce (cioè non organizza con le forme materiale che riceve dall’esterno), allora il mondo che vedo è un prodotto del soggetto e, proprio in quanto sono io stesso a produrlo, potrò conoscerlo perfettamente, totalmente, assolutamente, senza limite alcuno, con la conseguenza che la ragione (non l’intelletto) diviene lo strumento gnoseologico più adatto. Si capisce allora benissimo perchè si passa dal privilegiamento dell’intelletto a quello della ragione : produco l’oggetto e, proprio per questo, lo posso conoscere infinitamente, senza limiti, tant’è che Fichte dice che, vedendo le cose in questa prospettiva in cui tutto deriva da un unico principio, non ci sarà più la filosofia, bensì ci sarà la scienza (Dottrina della scienza). ‘Filosofia’ ( filoV amante + sofia sapere ) significa amare il sapere ( sofia ) di cui si è sprovvisti e che solo Dio ha, dicevano gli antichi; ora, eliminata la cosa in sè, l’uomo, divenuto produttore degli oggetti, non si limita ad amare e ad aspirare alla sofia , ma la possiede lui stesso, ha la scienza. Ecco dunque che il soggetto diventa capace di cogliere la totalità da Kant dichiarata incoglibile. E’ dunque il soggetto a produrre l’ oggetto: ed è per questo che si parla di idealismo soggettivo, a sottolineare che l’identità tra soggetto e oggetto, perno dell’idealismo, si fonda sul fatto che il soggetto pone l’oggetto. Si tratta di un idealismo perchè vi è identità tra soggetto ed oggetto ed è un idealismo soggettivo perchè è il soggetto appunto a porre l’oggetto. Ne consegue che prima che il soggetto ponga l’oggetto, solo il soggetto esiste assolutamente, mentre l’oggetto esiste nella misura in cui viene posto. Ecco perchè l’oggetto altro non è che il soggetto che tira fuori una parte di sè stesso (l’oggetto) e si identifica con essa. Soffermiamo la nostra attenzione sul soggetto, che può essere visto come la trasformazione dell’ Io penso kantiano. Non a caso Fichte il soggetto lo chiama Io (e non ‘soggetto’), con la i maiuscola a sottolineare che non si tratta dei singoli soggetti empirici, ma di qualcosa di più importante. L’ Io penso di Kant era un soggetto (e non una cosa), era l’attività unificatrice, l’azione dell’unificare il materiale della conoscenza; per Kant vi era un Io penso identico in tutti gli uomini, tant’è che le categorie, estrinsecazioni dell’ Io penso appunto, erano uguali in tutti, seppur ognuno aveva le sue. Ora in Fichte, non essendoci più la cosa in sè, l’attività dell’ Io penso non può essere un’attività unificatrice di un materiale dato proprio perchè non esiste più un materiale dato dalla presunta cosa in sè; l’ Io di Fichte non solo unifica il materiale, ma lo produce anche: pone la forma ma anche il materiale della conoscenza. Pensare in Kant significava unificare e l’ Io penso si chiamava così proprio perchè unificava; ora in Fichte esso non solo unifica, ma pone anche il materiale, dunque non può essere chiamato Io penso e Fichte preferisce definirlo semplicemente Io . In assenza di un oggetto autonomo, poi, tutta la dimensione empirica viene meno e risulta essere un puro e semplice derivato dal soggetto, il che vuol dire che il carattere di molteplicità del mondo empirico non è caratteristica dell’Io: la molteplicità nasce con la dimensione empirica (la quale non è autonoma) con la conseguenza che il soggetto (l’ Io), oltre a dare forma e contenuto, è privo di molteplicità. Riassumendo quanto detto:
Ecco dunque che l’Io non è riconducibile ai singoli io empirici, non si identifica con ciascuno di noi, bensì è uno solo. Ma, in definitiva, che cosa è l’Io? Esso non è una cosa, bensì è un’azione o, meglio, per usare le parole di Fichte, è un atto, un unico atto che pone non solo la forma ma anche la materia dell’oggetto. Come agisce l’Io penso? L’azione dell’Io è triplice e si esprime nei tre princìpi :
Sullo sfondo vi è il neoplatonismo (con la sua concezione della realtà che emana dall’Uno) e il cristianesimo, sul quale Fichte insisterà soprattutto in età avanzata: tesi, antitesi e sintesi sono l’equivalente del Padre (soggetto in sè), del Figlio (il soggetto che pone l’oggetto) e dello Spirito Santo (il legame che intercorre tra Figlio e Padre). In base ai 3 princìpi appena esposti, dunque, l’Io compie tre azioni: pone se stesso; poi all’Io è opposto assolutamente un non-Io (ovvero è l’Io, attore del processo, che contrappone a se stesso un non-Io) e, infine, all’interno dell’Io, l’Io oppone all’Io divisibile un non-Io divisibile. I 3 princìpi di Fichte li si trovano, per la prima volta, già nell’antico Parmenide e, in un secondo tempo, in Aristotele: essi costituivano per lo Stagirita i princìpi della logica, identità (A è uguale ad A), non-contradditorietà (A non è B) e principio del terzo escluso (A o è A o non è A). Tuttavia per Aristotele al posto di A si poteva sostituire qualsiasi cosa, ovvero si esprimeva il principio di identità prescindendo dal contenuto e badando solo alla forma: supposto che mi sia dato qualcosa, questo qualcosa sarà necessariamente identico a se stesso. Veniva cioè dato per scontato che qualcosa ci fosse. Fichte, invece, non dice che A è uguale ad A, bensì asserisce che l’Io è uguale all’Io (identità), che l’Io è diverso dal non-Io (non-contraddizione): la differenza è che il principio come lo poneva Aristotele era puramente formale, mentre Fichte, oltre a spiegare che se è dato qualcosa per esso valgono necessariamente le leggi della logica, spiega anche che necessariamente ci è dato qualcosa : l’Io pone se stesso, la sua attività non è solo formale, bensì è anche sostanziale. Fichte stabilisce che l’Io è uguale a se stesso ma anche che l’Io pone se stesso. Vi è sì una formulazione dei princìpi della logica, ma essa è rivestita di carattere anche materiale. Il primo atto dell’Io è una posizione, una tesi. Il secondo atto consiste nel porre contro se stesso un non-Io, un non-soggetto, ovvero un oggetto. Con il primo principio dunque Fichte dice che l’Io pone se stesso, con il secondo dice invece che l’Io pone l’oggetto (non-Io). Con il terzo principio invece spiega che l’Io ha opposto a sè un non-Io; l’Io, essendo puramente un atto, è anche uno sforzo, uno slancio infinito: infinito perchè non ha ancora nulla fuori di sè e, di conseguenza, uno slancio dove non è ancora stato posto nulla non può che essere infinito. Bisogna però rispondere ad una domanda non da poco: perchè l’Io oppone a sè un non-Io? Nel momento in cui contrappone a sè un non-Io, Io e non-Io si limitano a vicenda, lo spirito e la natura si limitano e in virtù di tale ‘lotta’ nessuno dei due è infinito. Si frantumano, si finitizzano a vicenda con l’inevitabile conseguenza che ciascuno di loro si spezzetta moltiplicandosi. Ecco dunque che con il 3° principio Fichte precisa che con l’opposizione Io e non-Io diventano divisibili, senza però che tale processo esca dall’interno dell’Io: si tratta, per così dire, di un gioco tutto interno all’Io. Il non-Io (oggetto) diventa divisibile dando origine al mondo e alla sua molteplicità; l’Io, frantumandosi, dà origine ai singoli io empirici e finiti, ai soggetti molteplici, ovvero ai singoli uomini. Ecco dunque che si spiega la derivazione dei tanti io dall’unico Io assoluto e infinito. L’Io è dunque per Fichte un soggetto unico e infinito, mentre gli io empirici sono manifestazioni particolari e finite dell’Io assoluto, definito anche, sulla scia di Kant, Io trascendentale . Lo chiama anche egoità per insistere sul fatto che non si tratta dell’io come individualità, ma è il soggetto nella sua concezione più astratta. Che rapporto c’è, dunque, tra soggetto e oggetto? Si tratta di un rapporto di duplice natura che ricorda molto la distinzione kantiana tra ragion pratica e ragion pura: infatti, da un lato, il soggetto determina l’oggetto (attività etica), dall’altro lato, l’oggetto determina il soggetto (attività teoretica). Per quel che riguarda la funzione conoscitiva , Fichte distingue tra immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva . In primis vi è dunque una produzione originaria ed inconsapevole in cui il soggetto pone l’oggetto (2° principio) con l’ immaginazione produttiva : è un atto inconsapevole, e non potrebbe essere altrimenti, sennò non si spiegherebbe perchè, appena nati, non riconosciamo che il mondo, il non-Io, non ha esistenza autonoma ma siamo noi a porlo e siamo convinti che esso esista indipendentemente da noi. Vi è poi la immaginazione riproduttiva , attraverso la quale riconosciamo come nostra produzione quel che abbiamo inconsapevolmente posto (il non-Io). Resta da chiarire perchè sia una posizione inconsapevole e si faccia fatica a capire che l’oggetto è una produzione del soggetto: tutto si spiega se teniamo presente che l’io empirico e finito deve riconoscere un qualcosa che non ha posto lui, ma che è stato posto dall’Io assoluto (di cui l’io empirico è manifestazione). L’io empirico ha difficoltà a riconoscere l’oggetto come suo prodotto proprio perchè, paradossalmente, non l’ha prodotto lui, bensì l’ha prodotto l’Io. Ecco perchè, a livello conoscitivo, il mondo ce lo troviamo già costruito e siamo convinti che sia indipendente da noi, anche se le cose non stanno così. Per capire che il non-Io è una nostra produzione entra in gioco l’ intuizione intellettuale , che Kant aveva radicalmente respinto (poichè convinto che fosse impossibile cogliere la realtà meta-fenomenica). Fichte ammette l’intuizione intellettuale proprio perchè per lui non esiste alcuna cosa in sè, non vi sono limiti esterni alla conoscenza: il potere dell’Io diventa assoluto e, se ben usato, si può capire, con un’intuizione intellettuale, che l’oggetto è stato posto dal soggetto. Ma tutto questo perchè avviene? La risposta risiede nell’attività etica, fondamentale nella filosofia di Fichte. Il suo, infatti, è un idealismo soggettivo, ma è anche un idealismo etico e in questo rapporto privilegiato con l’etica si vede come Fichte resti fedele a Kant. L’ Io è uno slancio verso l’infinito, un’attività che può dunque configurarsi come libertà poichè si dice infinito ciò che non può avere confini e costrizioni esterne. Essendo dunque uno slancio per sua natura infinito e libero, il suo scopo è la realizzazione all’infinito della libertà. Il modo in cui esso avviene lo si può accostare alla potenza di un corso d’acqua che, per poter esprimere tutta la propria forza, deve essere incanalato altrimenti tende a stagnare: proprio come il corso d’acqua, anche l’Io penso, per potersi realizzare, ha bisogno di argini, ovvero di ostacoli, altrimenti sarebbe indefinito (e non infinito) e si disperderebbe come l’acqua del ruscello privo di argini. Tuttavia li ostacoli non li può trovare fuori di sè, poichè non esiste nulla oltre a lui stesso: non avendoli, li crea lui stesso e dà origine al non-Io, al mondo. Il non-Io è dunque l’ostacolo che l’Io si pone per potersi realizzare nel successivo superamento di tale ostacolo. Il che spiega anche il perchè la posizione del non-Io da parte dell’Io sia un atto inconscio: l’Io non deve sapere che gli ostacoli (la realtà) in cui si imbatte se li è posti lui stesso, sennò sarebbero dei finti ostacoli, privi di ogni significato. Quindi, l’Io pone gli ostacoli (non-Io) in modo inconscio, in modo tale da superarli come se fossero dei veri ostacoli autonomi. Si tratta di uno sforzo etico, un tentativo di cambiare la realtà riassorbendone tutte le molteplici contraddizioni: è l’Io che prova a riassorbire dentro di sè il non-Io. E’ una concezione, anche questa, di remota ascendenza neoplatonica (la realtà deve ritornare all’Uno) e cristiana (l’amore unisce il Padre e il Figlio): vi è prima una rottura e poi una ricomposizione. Con l’attività teoretica quel che è prodotto inconsciamente viene poi riconosciuto come prodotto dell’Io, con un assorbimento dell’intera realtà nell’Io stesso. Con l’attività etica si compie la stessa cosa, recuperando ciò che si è frantumato in una miriade di pezzi (la realtà). L’affinità con Kant risulta notevole anche nell’indefinitezza dello sforzo: come le idee kantiane, anche lo sforzo dell’Io di riassorbire la realtà, si accorge Fichte, non può mai essere completato, sennò verrebbero meno l’attività dell’Io e la sua libertà, la quale si estrinseca nell’aver ostacoli da superare. Ne consegue che l’attività etica e teoretica dell’Io è rappresentabile con una semiretta, ovvero ha un inizio ma non una fine, prosegue cioè all’infinito. Tuttavia, Hegel criticherà Fichte, biasimandone il cattivo infinito . Anche Hegel aspira all’infinito, ma non apprezza quello di Fichte: il Romanticismo è sì cultura dell’infinito, ma anche della totalità. Ora, pur essendo presente la sfera dell’infinito, in Fichte manca quella della totalità e, anche in questo, è ancora una volta vicino a Kant (le idee kantiane erano infinite ma costruibili parzialmente): Fichte parla sì di uno slancio infinito, ma tale slancio non si realizza mai nella sua totalità, resta parziale. In questa prospettiva etica, il male non è nient’altro che l’inerzia: se la natura dell’Io, infatti, è essere uno slancio infinito, un’attività libera, il peccato più grande che si possa commettere è l’inerzia, il non agire, il non seguire le istanze di movimento infinito dell’Io. E in questa concezione si possono scorgere gli elementi tipici del titanismo romantico (Hölderlin, in una lettera a Hegel, scrive che ‘ Fichte è un titano che lotta per l’umanità ‘), del principio soggettivo che si espande all’infinito. Finora abbiamo esaminato il pensiero del Fichte classico, ma egli, ormai surclassato da Schelling, elabora ulteriori riflessioni particolarmente interessanti perchè portano la sua filosofia a naufragare in una deriva religiosa. Tale periodo va sotto il nome di Filosofia dell’Assoluto ed è appunto caratterizzato da un abbandono totale alla dimensione religiosa, sebbene Fichte ci tenga a specificare che non vi è mai stata una svolta radicale nel suo pensiero: l’abbandono alla religione non è una rinuncia alle sue posizioni filosofiche, bensì l’inevitabile conseguenza di esse, sicchè non vi è rottura col passato ma continuazione. Pur essendo prossimo al neoplatonismo e al cristianesimo, è pur vero che permane in Fichte un elemento di distacco da essi: certo, per alcuni versi l’Io è accostabile a Dio, però la grande differenza è che Dio è una cosa (l’essere supremo), l’Io è un’attività (uno slancio infinito). Il discorso che Fichte ha finora imbandito tende a stravolgere il comune modo di pensare, secondo cui prima vi sono le cose e poi le azioni da esse compiute: in Fichte, al contrario, prima c’è l’atto (l’Io) e poi da esso derivano le cose (il non-Io). Egli ha sempre sostenuto che ‘ la scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che lo fa suo. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato o dalla servitù spirituale non potrà mai elevarsi all’idealismo ‘: e infatti Fichte ha contrapposto all’idealismo (prima gli atti, poi le cose) il materialismo (prima le cose, poi gli atti); la filosofia di cui ci facciamo portavoci dipende dalle persone che siamo nel senso che si può essere liberi e attivi solo se si è disposti a riconoscere che il fondamento della realtà non è un insieme di cose (come crede il materialismo), ma è un atto libero, uno slancio infinito; solo così possiamo anche noi essere liberi. Vedere la realtà come agglomerato di cose (materialismo) porta a tarpare le ali allo spirito. E del resto, l’idealismo presenta un grandissimo vantaggio rispetto al materialismo: può spiegare il suo opposto. Se vediamo la realtà in termini materialistici non riusciamo in alcun modo a dare una spiegazione della spiritualità (Hobbes in primis non c’era riuscito), mentre se la vediamo come un libero slancio (in termini idealistici), ecco che possiamo anche dare una spiegazione della realtà materiale (il non-Io, autocontrapposizione che l’Io si dà). L’idealismo di Fichte pone al centro la coscienza e vede la realtà che ci circonda come un’autoillusione che l’Io si pone di fronte per poterla superare e tale idealismo è superiore sul piano etico (chi ha concezione idealistica è una persona eticamente migliore) e sul piano teoretico (rende conto anche delle filosofie ad esso opposte, in primis il meccanicismo). Nell’ammettere che l’Io non è una cosa ed è superiore a tutte le cose (all’essere in generale) Fichte si avvicina in modo impressionante al neoplatonismo, secondo il quale l’Uno era ad un livello superiore rispetto all’essere; e tuttavia il Fichte della Filosofia dell’Assoluto si rende conto che non ha senso parlare di uno slancio infinito se non si ammette un essere infinito, poichè uno slancio è infinito se tende verso una realtà infinita (Dio) . Ecco che Fichte si avvicina sempre più alla religione distaccandosi dalla filosofia e, in un certo senso, ha ragione a dire che si tratta semplicemente di una necessaria conseguenza del suo pensiero: infatti l’ammissione di Dio, di una realtà infinita verso la quale possa tendere lo slancio, non è altro che un passo successivo del ragionamento filosofico fichteano. L’Io non è il principio supremo, bensì vi è un essere supremo ed infinito (Dio) che sta a fondamento dello slancio infinito e assoluto dell’Io. Tuttavia, a ben pensarci, con l’ammissione di una sostanza autonoma che sta a fondamento dello slancio infinito dell’Io, Fichte fa un passo falso e cade in contraddizione reintroducendo una cosa in sè (Dio appunto) e mettendo in crisi il suo sistema filosofico, basato interamente sull’inesistenza di cose in sè. Detto questo, il Dio di cui parla Fichte si identifica a tutti gli effetti con quello della tradizione cristiana, tant’è che l’ultima fase della riflessione fichteana è anche nota come dottrina giovannea , proprio perchè nel Vangelo di Giovanni si dice che in principio era il Logos, cioè la sapienza, come se essa fosse un rispecchiamento di Dio: la sapienza, per così dire, altro non è che la mente di Dio. Quanto dice Giovanni corrisponde al pensiero filosofico di Fichte: prima il principio assoluto era la coscienza (l’Io), ora è subentrato un essere infinito (Dio), che si colloca al vertice della scala gerarchica: il rispecchiamento di Dio per Giovanni era il Logos, per Fichte è l’Io. Da notare che anche nel neo-platonismo dall’Uno procedeva prima di ogni altra cosa il nouV , ovvero l’intelletto. Il nucleo della questione resta comunque il passaggio di Fichte dall’idealismo etico o soggettivo all’interpretazione religiosa, il che, tra l’altro, si inquadra perfettamente nel panorama romantico: nella foga dello spazzar via l’intelletto illuministico, c’è chi finisce per spazzar via anche la ragione, e Fichte fa proprio questo. Considerando l’impianto generale della filosofia fichteana, pare evidente che il fine della storia non può che essere la libertà. In concreto, essa si cala nella storia e a questo punto Fichte espone il suo pensiero politico , suddiviso in due fasi:
Il giusnaturalismo, teoria politica tipicamente seicentesca e settecentesca, consiste nell’ammettere che vi siano diritti naturali e che alla base della società vi sia un contratto stipulato tra gli individui per creare la società civile. Questa prima fase del pensiero politico fichteano è di forte derivazione illuministica e si basa sulla convinzione che a contare davvero sono i singoli individui, dotati di diritti naturali, alcuni inalienabili, altri alienabili: i diritti, almeno in partenza, non sono della società, ma dei singoli individui, i quali danno vita alla società rinunciando a parte di quei diritti che la natura stessa ha dato loro. Ciò implica che società e stato si giustificano solo nella misura in cui sono funzionali alle esigenze degli individui. In quest’ottica, non c’è da stupirsi se Fichte guarda con grande simpatia alla rivoluzione francese in tutti i suoi sviluppi, concependola come la rivendicazione di una libertà data per natura agli individui ma a loro sottratta dallo Stato. In un secondo tempo, però, Fichte muta radicalmente la sua concezione politica: prima aveva guardato alla società in un’ottica tipicamente illuministica e, per così dire, meccanicistica, in cui a contare non era il tutto, ma i singoli, proprio come in un orologio a contare per davvero sono i singoli ingranaggi. Ora, invece, si aprono spiragli sul panorama romantico e Fichte arriva a sostenere che, nella società, ciò che conta non sono i singoli, ma la società nel suo complesso, la quale viene a configurarsi come un grande organismo (organicismo politico) che può vivere solo se tutti gli organi, inutili se non inseriti nel complesso, funzionano; proprio come in un albero le radici e le foglie esistono nella misura in cui esiste l’albero e, anzi, esistono in funzione dell’albero stesso, così gli individui esistono solo se la società esiste, con l’inevitabile conseguenza che il tutto conta più delle parti. E così, nel 1800, Fichte compone lo scritto Lo Stato commerciale chiuso in cui sostiene, riprendendo idee platoniche, che lo stato ideale deve essere tendenzialmente chiuso e autartico ( commerciale chiuso ) ; vige l’idea che la vita economica della società deve essere amministrata dallo Stato, il quale, pur non abolendo la proprietà privata, deve comunque intervenire fortemente nell’economia (a dispetto di quel che dicevano i liberisti del laissez faire ). Questa concezione del ruolo statale predominante in ambito economico ha destato interesse nei socialisti, anche se sono stati i nazisti a portare Fichte alle stelle (spesso distorcendone il pensiero) soprattutto per quel che riguarda il suo organicismo e il suo nazionalismo. Infatti Fichte anche in ambito politico fa riferimento ad una totalità che, però, non è più Dio, bensì è la nazione: in I discorsi alla nazione tedesca , del 1807, Fichte si rivolge alla nazione, concetto che andava sempre più affermandosi in età romantica. Importante è la data dell’opera (1807) perchè proprio in quegli anni la Germania era travagliata dalla dominazione napoleonica. Nei Discorsi Fichte rivendica un’egemonia tedesca, ma si tratta di una superiorità addirittura antitetica rispetto a quella predicata dai nazisti: i Francesi guidati da Napoleone sono superiori sul piano politico-militare, sostiene Fichte, ma ciononostante i Tedeschi possono rivendicare una superiorità di natura culturale. L’Europa, infatti, è nata dal crollo dell’Impero Romano, intorno alla Germania e alle nazioni ‘barbariche’ che han posto fine al dominio romano. Ne consegue, dice Fichte, che il cuore culturale dell’Europa sarà costituito non dalle popolazioni neolatine (quali i Francesi), bensì da quelle germaniche (i Tedeschi in primis). Il discorso di Fichte, del resto, ha un senso se lo inquadriamo in quegli anni, in cui il mondo culturale era dominato a pieno titolo dal mondo tedesco (soprattutto in campo filosofico). In questa prospettiva, i Tedeschi risultano superiori culturalmente poichè si son mantenuti più prossimi alla matrice europea germanica; ne consegue, tra l’altro, l’assurdità di ogni forma di nazionalismo militaristico. Che senso può avere, nell’ottica fichteana, combattere per occupare altri territori? Così facendo ci si mescola con altre tradizioni e si smarrisce la propria purezza culturale: e con questo Fichte nega l’imperialismo che sarà proprio del nazismo. Quella dei Tedeschi è un’egemonia puramente culturale e tale deve essere, senza sfociare in manie espansionistiche: sarà invece Hegel a sostenere che all’egemonia culturale debba corrispondere un’egemonia politico-militare, senza però mai macchiarsi di razzismo. Sia per Fichte sia per Hegel quella tedesca è una superiorità culturale (e per Hegel va integrata con quella militare), ma non razziale (come sarà per i nazisti): e del resto sono filosofi idealisti, in cui la dimensione materiale non consta di esistenza autonoma e per cui la superiorità deve per forza essere sempre fondata su elementi spirituali (quali la cultura) e non materiali (quali la razza).
JACOBI
Al centro della riflessione filosofica di Friedrich Heinrich Jacobi (Düsseldorf, 25 gennaio 1743 – Monaco di Baviera, 10 marzo 1819) sta il tentativo di difendere la validità della fede come sentimento dell’incondizionato, ovvero di Dio. La ragione non può giungere a una dimostrazione dell’esistenza di una divinità creatrice. Cartesio ha voluto dimostrare l’esistenza di un creatore del mondo ma, secondo Jacobi, egli ha dimostrato soltanto l’unità di tutte le cose, la totalità del mondo. Anche le filosofie di Spinoza, Bruno e Shaftesbury sono rifiutate in quanto i loro panteismi, in particolare quello di Spinoza, vengono identificati con l’ateismo poiché l’identificazione di Dio con il mondo altro non sarebbe che l’identificazione del condizionato con l’incondizionato. Se nel negare la possibilità di ogni dimostrazione di Dio per considerarlo esclusivamente oggetto di fede Jacobi si avvicina a Kant, la sua filosofia della fede come appello al soprasensibile viene direttamente osteggiata nello scritto kantiano Che cosa significa orientarsi nel pensare dove il filosofo di Königsberg, intervenendo nella polemica, che coinvolge anche Mendelssohn e Herder, ribadisce che la fede non può fondarsi che su di un postulato della ragion pratica e che essa non ha certezza teoretica, ma solo una verosimiglienza che basta a tutte le esigenze della condotta morale. Jacobi fu fortemente influenzato in gioventù dallo “Sturm und Drang”, come testimoniano i due romanzi epistolari Allwill (1777) e Woldemar (1779) . Jacobi mantenne contatti sia con gli esponenti più maturi dell’illuminismo tedesco (specialmente Lessing) sia, in un secondo tempo, con gli idealisti tedeschi (Fichte, Schelling ed Hegel), rispetto ai quali assunse una posizione di critica. Ebbe anche rapporti con Hamann e con Herder. E’ autore di celeberrime lettere a Mendelssohn Sulla dottrina di Spinoza , pubblicate in forma ampliata nel 1789 e, oltre ad altri scritti occasionali, di un saggio Sulle cose divine e sulla loro rivelazione (1811). L’aspetto fondamentale del pensiero filosofico di Jacobi è l’affermazione della priorità della fede sulla ragione . “Noi tutti siamo nati nella fede, e nella fede dobbiamo restare, così come tutti siamo nati nella società e nella società dobbiamo restare”. Ed ecco che la fede viene intesa come un sapere immediato che è “elemento di ogni conoscere umano”. Infatti essa può essere certezza del mondo sensibile ( e qui Jacobi riprende evidentemente le tesi di Hume) oppure certezza delle cose divine. Tanto nella forma sensibile quanto in quella religiosa la fede è sempre e comunque rivelazione : essa implica cioè un atteggiamento di passività e di accettazione rispetto a qualche cosa che si rivela. Nell’ultimo periodo del suo pensiero Jacobi introduce però la distinzione tra la fede sensibile e quella religiosa, attribuendo a quest’ultima il nome di ragione. Ma la ragione di cui parla Jacobi non è quella argomentativa e discorsiva che procede costruendo gradualmente il proprio oggetto, bensì si tratta di una ragione intuitiva che si apre con assoluta immediatezza alla verità. Per questo motivo Jacobi, insieme a Schelling, sarà uno degli obiettivi principali della polemica anti-intuizionistica intrapresa da Hegel. La battaglia che Jacobi conduce contro il razionalismo astratto si configurava per lui anche come una battaglia contro il panteismo e l’ateismo . Il tentativo compiuto dal razionalismo, da Renato Cartesio in avanti, di dimostrare e di comprendere con la sola ragione l’esistenza di Dio ha infatti avuto come risultato l’affermazione dell’identità tra finito e infinito, mancando di riconoscere l’incommensurabile superiorità del secondo sul primo. Esemplare è a proposito il panteismo di Spinoza che, facendo coincidere la divinità con la natura, nega la specificità del divino e si traduce, secondo Jacobi, in un sostanziale ateismo. L’idealismo di Fichte (passando tramite la filosofia trascendentale di Kant) non è che la naturale conseguenza del razionalismo spinoziano, dal momento che risolve l’intera realtà nell’assoluta razionalità dell’io. Analogamente, identificando spirito e natura, Schelling riconduce l’infinito al finito, arrivando così all’ateismo spinoziano. Anzi, con la sua dottrina dell’identità indifferenziata, egli risolve l’intera realtà in un concetto vuoto, in un nulla, facendo dell’idealismo una forma di nichilismo , termine che avrà una grande fortuna con Nietzsche nella seconda metà dell’ 800. Nelle lettere a Mendelssohn Sulla dottrina di Spinoza, per dimostrare gli esiti dannosi del panteismo spinoziano, Jacobi riferisce una conversazione da lui tenuta con Lessing nel 1780 (un anno prima della morte di Lessing stesso) nella quale il filosofo illuminista gli avrebbe confidato di avere ormai aderito alle tesi spinoziane dell’Uno-tutto. Questa rivelazione suscitò gran scalpore e originò una celebre polemica sul panteismo (Pantheismusstreit) , alla quale parteciparono i maggiori esponenti della cultura del tempo, da Mendelssohn stesso a Kant, da Herder a Goethe. Il risultato fu opposto a quello auspicato da Jacobi: anziché agitare lo spettro dell’ateismo, egli provocò, infatti, la rinascita dell’interesse per Spinoza e finì con l’irrobustire quella tendenza al panteismo che già animava la nuova cultura post-illuministica. I giudizi che i partecipanti alla polemica espressero sulla filosofia di Spinoza e sulla sua concezione della divinità furono generalmente molto favorevoli: essi possono essere compendiati da quello di Goethe, cui non mancò il coraggio di definire Spinoza un filosofo “theissimus et christianissimus”.
JOHANN GEORG HAMANN
Johann Georg Hamann
di Diego Fusaro
Johann Georg Hamann (Königsberg, 27 agosto 1730 – Münster, 21 giugno 1788) è stato un filosofo prussiano di grande rilievo. Egli è noto soprattutto per le sue posizioni iper-critiche verso l’Aufklaerung. È stato tra i più importanti propugnatori del movimento dello Sturm und Drang, nonché il maestro di Herder e di Jacobi. Amico di Immanuel Kant, fu però suo avversario nell’ambito filosofico, criticando aspramente l’impresa della “filosofia trascendentale”. L’opera di Hamann muove da una radicale sfiducia nella “ragione” (Vernunft): in antitesi con l’Illuminismo, Hamann è convinto che solamente la fede in Dio possa giovare alla soluzione dei problemi fondamentali della filosofia. Hamann fu profondamente influenzato dagli scritti di Davide Hume sui limiti del pensiero umano: soprattutto fu ispirato dal Trattato sulla natura umana. Si potrebbe asserire che, come Kant, fu risvegliato da Hume dal “sonno dogmatico”: ma mentre Kant, con la prima Critica, rifondò trascendentalmente il sapere per superare le aporie humeane, Hamann ritenne che solo la fede potesse risolvere tali aporie. Alla critica del razionalismo kantiano è dedicata la più importante opera i Hamann, Metacritica del Purismo della Ragione (Metakritik über den Purismus der Vernunft, 1784). In un suo celeberrimo saggio dal titolo senofontiano, i Sokratische Denkwürdigkeiten (Detti memorabili di Socrate, 1759), Hamann impiega la figura di Socrate come archetipo dell’uomo che dichiara di non avere conoscenze certe e di non sapere nulla (“so di non sapere”). Con tale esempio, Hamann criticò in modo asperrimo la dipendenza dell’Illuminismo dalla ragione umana: ragione umana che, secondo il magistero di Hume, si fonda unicamente su conoscenze probabili e non certe. Hamann fu soprannominato dai suoi contemporanei il “Mago del Nord” (Magus im Norden). Fu mentore di Herder ed ebbe larga influenza sul pensiero di numerosi filosofi del suo tempo e del secolo seguente, da Goethe a Jacobi, da Hegel a Kierkegaard. Un tema fondamentale della ricerca di Hamann riguarda il linguaggio. Il linguaggio per Hamann ha un’origine divina, dacché è estrinsecazione di Dio. Detto altrimenti, il linguaggio è il rivelarsi stesso di Dio. La critica a Kant e al razionalismo illuministico deve essere intesa come una critica al secolarismo che l’Illuminismo stava attuando, rendendo superfluo il concetto stesso di Dio. Fervente apologeta del cristianesimo, Hamann critica severamente gli avvenimenti del suo tempo, che stavano sconvolgendo la tradizione cristiana e che, di lì a poco, avrebbero portato alla Rivoluzione francese. La produzione di Hamann è assai a-sistematica e multiforme. E trova nella difesa del cristianesimo e nella critica al razionalismo illuministico il proprio ubi consistam. Il linguaggio è per Hamann una categoria a priori. E la verità di fede è assoluta e incontrovertibile. La concezione del linguaggio di Hamann è volta a difendere il cristianesimo e a sviluppare una pedagogia cristiana. Egli stesso, come si legge nei suoi testi, amava considerarsi guida morale della Germania. Muovendo dal teorema secondo cui non si dà frattura tra pensiero e linguaggio, ma anzi stretta connessione, Hamann orientò tutta la sua speculazione a evidenziare come i diversi linguaggi (simboli) potessero essere compresi solo in chiave teologica, partendo dalla premessa che tutta la creazione è opera di Dio. Sicché, per Hamann, tutto è Parola di Dio: non solo le Sacre Scritture ma anche la natura parla all’uomo con un linguaggio particolare. Il dialogo infuocato che Hamann ebbe con Herder in merito all’origine divina ci mostra come la sua impostazione sia impregnata della cultura luterana e conservatrice prussiana. Egli tacciò Herder di anticristianesimo, poiché assertore di un’origine storico-immanentistica del linguaggio. Per Hamann, negare la divinità della parola (linguaggio) significava negare la divinità del Verbum, della Parola e della Rivelazione di Dio che si manifesta nel creato. Posizioni affini a quelle di Hamann sull’origine divina del linguaggio saranno formulate indipendentemente anche dal visconte de Bonald – autore dichiaratamente antirivoluzionario – nelle sue Recherches philosophiques (1818). Hamann, dunque, è autore decisivo nel transito dall’Illuminismo al Romanticismo.
HERDER
Indubbiamente tra le figure di spicco dell’età classica tedesca va annoverata quella di Johann Gottfried Herder (1744-1803); nato a Mohrungen, nella Prussia orientale, Herder fu diretto allievo di Kant (nella fase precritica del suo pensiero), a Königsberg. Herder, da grande viaggiatore che fu, ebbe modo di conoscere a Parigi i maggiori Enciclopedisti, ad Amburgo Lessing e Reimarus, a Strasburgo Goethe, con cui diede l’avvio allo “Sturm und Drang”. Fu amico, oltre che di Goethe e di Schiller, dai quali però si allontanò dopo la loro svolta classica, anche del romantico Jean Paul Richter. Nel 1778-1779 arrivò anche in Italia, in uno dei suoi numerosi viaggi. Tra le sue opere filosofiche più di rilievo vanno senz’altro ricordati il Trattato sull’origine del linguaggio (1772), Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità (1774) e, il suo grande capolavoro, le Idee per la filosofia della storia dell’umanità (1784-1791). Con Herder ci troviamo dinanzi a una figura che non può certo essere collocata nella galassia dei pensatori illuministi: è vero che egli fu allievo di Kant, di cui seguì le lezioni a Königsberg e col quale intrattenne sempre un vivace dibattito, spesso alimentato dalla divergenza di prospettive; ed è anche vero che a Parigi ebbe modo di conoscere i maggiori philosophes. E tuttavia è anche vero che la riflessione del nostro autore è animata da problematiche e da soluzioni che rinviano ad un panorama filosofico che non è più quello illuministico, trovandosi egli a condividere – almeno per un primo periodo della sua attività – la nuova prospettiva filosofica di Schiller e di Goethe, col quale diede l’abbrivio allo «Sturm und Drang», e criticando ferocemente gli «Enciclopedisti» francesi. Il mutamento di paradigma rispetto ai canoni illuministici risulta lampante se si volge lo sguardo alla concezione che Herder ha della storia, intesa come un tutto organico che si sviluppa nel tempo, e ancor di più se si considera l’animosa polemica che il nostro autore conduce contro la maniera illuministica di intendere la storia come incessante progresso dall’arretratezza delle epoche passate – irrazionali e viziate da pregiudizi – alla superiorità dei tempi presenti. Del resto, la stessa polemica che impegnerà i Romantici e Hegel contro gli Illuministi sembra già tutta in nuce nella critica che Herder muove a Montesquieu, del quale rigetta senza remore il concetto stesso di «legge» intesa come fredda e astratta norma formale, contrapponendo ad essa il «costume» in virtù della sua maggiore vitalità, concretezza e organicità. I disparati aspetti del pensiero di Herder trovano espressione unitaria nella sua concezione della storia , destinata ad influenzare direttamente il romanticismo e indirettamente lo storicismo tedesco di fine secolo. La storia appare agli occhi di Herder come un grandioso processo unitario, in cui l’umanità realizza progressivamente se stessa, con i propri valori, le proprie manifestazioni ed istituzioni. Ma l’unità del corso storico non é più fornita, come avveniva nella storia della filosofia illuministica, dal criterio univoco del progresso della ragione, che fa delle età più arretrate semplici strumenti di preparazione delle più illuminate epoche finali. Essa consiste, piuttosto, nel fatto che la storia costituisce un tutto organico , al cui interno le singole epoche e le singole manifestazioni storiche rappresentano momenti della totalità. In Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità Herder istituisce una stretta correlazione tra le epoche dello sviluppo dell’umanità in generale e le età della vita umana individuale : il mondo orientale antico corrisponde all’infanzia dell’umanità, la civiltà egizia e fenicia alla fanciullezza, la grecità alla giovinezza, il mondo romano alla virilità, il tardo impero alla vecchiaia, fino a che le invasioni dei popoli barbarici non infondono nuova vitalità al decrepito corpo del genere umano. Nelle Idee per la filosofia della storia dell’umanità , invece, l’unità del processo storico é garantita dal fatto che ciascun singolo corpo, che via via si affaccia alla ribalta della storia, costituisce una particolare determinazione del concetto poliedrico di umanità : la storia é dunque il processo attraverso cui il genere umano realizza se stesso, arricchendosi progressivamente dei caratteri (tutti ugualmente importanti perchè tutti essenziali) che vengono incarnati dai diversi popoli e dalle loro differenti culture. In ogni caso, l’unità del processo storico é anche garantita, metafisicamente, dalla presenza nella storia di un’unica provvidenza divina che sta alla base dell’armonico sviluppo della totalità: tale provvidenza però non é da intendersi come un’azione diretta di un Dio trascendente il mondo, ma va bensì concepita come intelligenza immanente alle forze stesse che promuovono lo sviluppo storico. Nelle Idee per la filosofia della storia dell’umanità é inoltre affermata la continuità tra storia naturale e storia umana . Un unico processo storico, retto dalle stesse leggi e sostenuto dalle stesse forze, va dalla formazione dell’universo alla storia degli uomini. Per quel che riguarda la storia naturale esiste un prototipo , una forma originaria fondamentale, che si ripresenta in tutte le tappe dello sviluppo dei corpi: i diversi fenomeni naturali (inorganici, organici, animali) non sono che complicazioni sempre maggiori di quell’unico prototipo, in modo che le diverse specie vegetali e animali possano essere collocate su un’unica scala evolutiva che culmina nel corpo umano. La concezione evolutiva proposta da Herder non prevede un passaggio diretto da una specie all’altra, come invece sosterrà l’evoluzionismo darwiniano; Herder non vede dunque l’uomo come evoluzione dei primati, al contrario, egli rimane fedele ai portati biblici e sostiene la fissità delle specie , ognuna delle quali é sorretta da una forza naturale che sviluppa (e complica) la forma originaria, fino all’esaurimento della propria intensità: una forza naturale più potente potrà ulteriormente arricchire il prototipo non partendo dal punto in cui la precedente si era arrestata, ma ripercorrendo autonomamente la scala evolutiva. L’uomo si trova pertanto al termine della storia naturale e al principio di quella spirituale. Infatti, la sua struttura fisica (la sola tra le specie animali caratterizzata dalla stazione eretta) é tale da fornire la base naturale allo sviluppo delle facoltà spirituali dell’uomo: la ragione e il linguaggio. Herde insiste sulla stretta connessione tra ragione e linguaggio , che sono entrambi risultato di uno sviluppo storico. A partire dal Trattato sull’origine del linguaggio , Herder aveva sostenuto che “senza il linguaggio l’uomo non ha ragione, e senza ragione non ha il linguaggio”. La lingua non serve solo per comunicare, ma produce le stesse immagini mentali con cui l’uomo pensa, e consente quindi all’uomo di formarsi un mondo spirituale in cui, a differenza degli animali, si possono sviluppare arte e libertà ; l’origine del linguaggio non é nè convenzionale (come sostenevano i razionalisti) , nè divina, bensì naturale e storica. Il linguaggio é una conseguenza spirituale della stazione eretta degli uomini, la quale permette una particolare struttura del capo e del cervello. L’uomo, dunque, “impara” a parlare tramite un processo naturale di sviluppo; ma, dal momento che imparando a parlare impara anche a ragionare, la ragione stessa é il risultato graduale di un lento processo naturale e non una facoltà posseduta integralmente sin dall’ origine. Ora, per Herder “l’uomo é una creatura centrale e intermedia tra gli animali della terra , cioè é la forma elaborata, in cui si raccolgono i tratti di tutte le specie nella composizione più raffinata”. Grande importanza viene da Herder attribuita al concetto di umanità : nelle Lettere per il promuovimento dell’umanità , egli scrive: “Tutti quanti siamo uomini, e come tali rechiamo in noi il genere umano, ovvero al genere umano noi apparteniamo. […] Umanità é il carattere della nostra specie; ma esso ci é innato solamente come predisposizione, e propriamente richiede di venir educato. Eppure é necessario ch’esso sia, nel mondo, la meta delle nostre aspirazioni, la somma delle nostre azioni, il nostro valore: non conosciamo infatti nessuna angelicità insita nell’uomo, e se il demone che ci governa non é un demone umano, allora noi diventiamo tormentatori degli uomini. L’elemento divino che c’é nel nostro genere é dunque l’educazione all’umanità. […] Umanità é il patrimonio e il risultato di tutti gli sforzi umani, é per così dire l’arte della nostra specie. L’educazione all’umanità é un’opera che deve essere continuata incessantemente; altrimenti tutti noi, che si appartenga ai ceti superiori o a quelli inferiori, ripiombiamo nella rozza animalità, nella brutalità.”
JOHANN WOLFANG GOETHE
VITA E OPERE
Johann Wolfgang von Goethe (Francoforte sul Meno 1749 – Weimar 1832), poeta, drammaturgo, romanziere e scienziato tedesco. Figlio di un funzionario dell’amministrazione imperiale, dal 1765 al 1768 studiò diritto a Lipsia, dove maturò in lui l’interesse per la letteratura e la pittura, e dove conobbe le opere drammatiche di Friedrich Gottlieb Klopstock e Gotthold Ephraim Lessing. La sua prima produzione poetica e drammatica, che risente dell’influenza di questi autori, trasse spunti anche dall’amore per la figlia di un oste, che gli ispirò la commedia pastorale Capriccio d’innamorati (1767). Dello stesso periodo è una tragedia in versi, I complici (1768). Nel 1768, ammalatosi gravemente, fece ritorno a Francoforte e, superata la fase critica della malattia, durante la convalescenza si dedicò a studiare occultismo, astrologia, alchimia. L’amicizia con Susanne von Klettenberg, un’amica della madre, attiva pietista, lo accostò al misticismo religioso. Dal 1770 al 1771 Goethe visse a Strasburgo dove accanto alle discipline giuridiche, coltivò lo studio della musica, dell’arte, dell’anatomia, della chimica.
Prime influenze : A Strasburgo ebbe due incontri che sarebbero stati molto importanti nella sua vita e determinanti per la sua opera letteraria. Il primo fu quello con Friederike Brion, figlia di un pastore protestante, che Goethe amò e che avrebbe fornito il modello per vari suoi personaggi femminili, compreso quello di Margherita nel Faust. Il secondo fu l’incontro con il filosofo e critico letterario Johann Gottfried von Herder con cui strinse amicizia: Herder, fra l’altro, lo portò a sottrarsi all’influenza del classicismo francese, ligio alla concezione aristotelica dell’unità di tempo, di luogo e di azione, cui doveva attenersi la tragedia, e lo introdusse all’opera di Shakespeare, in cui proprio il mancato rispetto delle tradizionali unità contribuisce all’intensità drammatica. Herder, inoltre, indusse Goethe ad approfondire il significato della poesia popolare tedesca e delle forme dell’architettura gotica quali fonti di ispirazione letteraria. Gli insegnamenti di Herder si tradussero nella tragedia Götz di Berlichingen (1773), che Goethe scrisse a Francoforte, dove era tornato una volta conclusi gli studi giuridici. L’opera, che prende a modello Shakespeare, ha come protagonista un cavaliere del Cinquecento, in rivolta contro l’autorità dell’imperatore e della Chiesa, e anticipa i fremiti libertari che sarebbero stati l’anima del movimento Sturm und Drang, antesignano del romanticismo tedesco. Quando nel 1771 si trasferì da Strasburgo a Wetzlar, per fare pratica presso il tribunale, Goethe visse una fase d’irrequietezza sentimentale: nel 1774 dedicò a un amore impossibile il romanzo epistolare I dolori del giovane Werther, che ebbe vasta eco non soltanto sullo sviluppo del romanzo tedesco, ma anche nel mondo letterario del tempo (vi si ispirò Ugo Foscolo, quando nel 1798 scrisse la prima versione delle Ultime lettere di Jacopo Ortis); analoghe ispirazioni pervadono i drammi Clavigo (1774) e Stella (1775). Negli stessi anni, Goethe compose numerosi saggi letterari e teologici, varie liriche, e soprattutto la prima versione del Faust, il cosiddetto Urfaust (“Faust originario”).
Gli anni di Weimar : Nel 1775 il diciottenne Karl August, duca di Weimar chiese a Goethe di fargli da precettore. Nel primo decennio a Weimar Goethe dimostrò straordinarie capacità di organizzatore e amministratore, rendendo la piccola capitale un vivace centro culturale dove affluirono alcuni fra i migliori ingegni del tempo, tra cui Herder e Christoph Martin Wieland; inoltre si dedicò allo studio di varie scienze (botanica, mineralogia, osteologia, ottica), continuò a elaborare il Faust, compose la prima stesura della Vocazione teatrale di Wilhelm Meister e iniziò la versione in prosa dell’Ifigenia in Taurine, che avrebbe riscritto in versi nel 1787. A Weimar infine ebbe un’appassionata storia d’amore con Charlotte von Stein, moglie di un ufficiale e donna di grande fascino e intelligenza, che gli ispirò liriche e ballate.
Il viaggio in Italia : Tra i diversi motivi che nel 1786 indussero Goethe a partire per l’Italia vi fu il desiderio di allontanarsi dalla corte di Weimar e da Charlotte von Stein, ma soprattutto la brama di trovare nuovi stimoli e di dare nuovi orizzonti alla sua vena poetica, al contatto dell’arte e della cultura italiana, in particolare di quella classica. Dopo aver visitato le città dell’Italia settentrionale, la Sicilia e Napoli, Goethe si stabilì a Roma dove rimase fino al 1788. Si dedicò con fervore a studiare l’arte, l’architettura e la letteratura della Grecia, di Roma e del Rinascimento, che gli suggerirono forme di mirabile equilibrio per esprimere il fremito e la tensione della passione autentica. Di questo incontro resta affascinante testimonianza Il viaggio in Italia, che venne pubblicato molti anni dopo (1816 e 1829). Risalgono al soggiorno italiano e alle sue suggestioni la versione in giambi dell’Ifigenia in Taurine, i drammi Egmont (1788) e Torquato Tasso (1790); le Elegie romane (1789); gli Epigrammi veneziani (1790) e alcune scene del Faust.
Il ritorno a Weimar : Al ritorno a Weimar (1788) Goethe trovò un’atmosfera ostile nei circoli letterari, mentre a corte mal si accettava la sua relazione con Christiane Vulpius, una giovane che nel 1789 gli diede un figlio e che egli avrebbe sposato nel 1806. Malgrado tutto rimase a Weimar, trattenuto da due motivi d’interesse: la direzione del teatro ducale, che tenne dal 1791 al 1813, e la possibilità di perseguire meglio che altrove gli studi scientifici, cui si dedicò con rinnovato ardore. Risalgono a questi anni vari scritti di anatomia comparata (1784), di botanica (1790) e due volumi di ottica (1791 e 1792). Fu l’amicizia con Friedrich von Schiller a riavvicinare Goethe alla letteratura e dalla loro collaborazione, durata dal 1794 alla morte di Schiller nel 1805, scaturirono numerose composizioni liriche ed epiche, l’idillio in esametri Arminio e Dorotea (1797), il dramma La figlia naturale (1802), la seconda versione del romanzo Gli anni di noviziato di Wilhelm Meister (1796), che avrebbe costituito un modello narrativo per la successiva produzione letteraria tedesca, inaugurando il genere del romanzo di formazione e soprattutto, su incoraggiamento di Schiller, la versione definitiva del Faust (la prima parte fu pubblicata nel 1808).
Gli ultimi anni : Dal 1805 e fino alla morte, Goethe visse anni di intensa creatività. I grandi avvenimenti storici della sua epoca – la Rivoluzione francese, che considerò con un certo sospetto vedendovi non tanto l’espressione di un’istanza di libertà quanto lo scoppio incontrollato di forze oscure e disordinate; la fortuna di Napoleone, che ammirava; gli sforzi per l’unificazione della Germania, considerati con indifferenza, se non con ostilità – trovarono in lui un osservatore attento ma non appassionato. Fra gli scritti di questi anni sono il romanzo Le affinità elettive (1809); Gli anni di pellegrinaggio di Wilhelm Meister (1821, riveduto nel 1829); l’autobiografia Dalla mia vita. Poesia e verità (in 4 voll., 1811-1833); una raccolta di liriche, Divano occidentale-orientale (1819), dai toni mistici ed erotici, licenziosi e ambigui; la seconda parte del Faust (pubblicata postuma nel 1832).
I DOLORI DEL GIOVANE WERTHER
I dolori del giovane Werther fu scritto nel 1774 da Wolfgang Goethe, il quale trascrisse in parte la sua vicenda biografica, ed è quindi permeato da temi tipicamente romantici: l’amore, sublimato ed unico conforto al deludente presente e la natura, portatrice di serenità e consolatrice. La natura, in particolare, diventa lo spazio complice ed assonante con i sentimenti del protagonista; l’amore, capace di scatenare tempeste emotive e dispensatore di grandi gioie, ma anche di grandi dolori, è vissuto intensamente ed interamente, pur concretamente irrealizzabile. Al contrario de Le ultime lettere di Jacopo Ortis di Foscolo, nel romanzo di Goethe le vicende passionali non si alternano a quelle politiche.
Struttura e forma : il romanzo è scritto in forma epistolare e le vicende sono narrate per mezzo di lettere che il protagonista invia all’amico Guglielmo. L’intervento esterno di quest’ultimo, comunque, è circoscritto all’inizio del romanzo ed alla fine, quando Guglielmo descrive il suicidio di Werther. Gli avvenimenti sono narrati in modo analettico e non sempre l’ordine cronologico viene rispettato; questo accade soprattutto nella seconda parte del romanzo dove il ritmo appare più concitato e le riflessioni del Werther sono guidate dall’emotività e dai ricordi per Lotte, Alberto, Guglielmo e la madre. La prima parte del romanzo, invece, più rilassata, ospita ampie descrizioni ispirate alla natura e ricche di dettagli.
Personaggi : il protagonista è il giovane Werther, il cui profilo fisico non viene mai delineato. Possiamo comunque trarre un’immagine perfettamente nitida del suo carattere e del suo pensiero dagli indizi che lui stesso fornisce tramite le epistole. È un uomo colto, ama la letteratura e nelle sue epistole cita numerose letture quali Omero e Ossian; ama, inoltre, la vita semplice ed agreste, caratteristica che lo fa ben volere dal popolo e dai bambini. Come ogni eroe romantico è dotato di un’estrema sensibilità agli eventi esterni ed alterna momenti ottimistici, di passione e di amore per la vita ad altri di sconforto e depressione che lo porteranno al suicidio. Lotte, invece, viene connotata ampiamente dal Werther sia fisicamente (dalla bella figura, di media statura, con lineamenti pieni di grazia eccÖ), sia intimamente come una ragazza ingenua, ferma, serena, attiva; Alberto, ponderato e calmo, si configura caratterialmente come l’opposto dell’eroe, d’animo tempestoso e passionale, con il quale stringe comunque amicizia in un rapporto di reciproca stima. Alberto, dunque, non può esser definito antagonista, quanto piuttosto rappresenta l’impedimento e l’ostacolo contro cui si imbatte il Werther.
Stile : nel racconto il tono drammatico prevale su quello puramente descrittivo e l’uso del discorso indiretto su quello diretto. Il tono è semplice e puro come le passioni che sono rappresentate, tuttavia sono presenti francesismi di cui l’autore si serve di sovente. L’organizzazione sintattica predilige l’ipotassi per sottolineare situazioni e stati d’animo tormentati, mentre la paratassi accompagna le descrizioni della natura ed i momenti bucolici.
Riassunto : il giovane Werther racconta all’amico Guglielmo tramite alcune lettere la sua sfortunata vicenda amorosa. Werther, infatti, è innamorato di Carlotta, già promessa e poi sposa di Alberto, arido, ma di buoni sentimenti, di cui peraltro il protagonista diviene amico. Durante la lettura dei versi di Ossian, Werther strappa l’unico bacio all’amata; poi, però, tormentato dalla gelosia, si uccide con le pistole di Alberto consegnategli dalla stessa Carlotta, quando già aveva deciso di intraprendere un lungo viaggio.
GOETHE E LA NATURA
Il concetto di “natura” rappresenta certamente uno dei grandi temi del Romanticismo, specie di quello tedesco. Infatti l’amore ed il fascino per essa, che affondano le loro radici nel clima culturale dello “Sturm und Drang” e si alimentano della riscoperta del pensiero di Spinoza, costituiscono uno dei dati più caratteristici del movimento. E Goethe non è estraneo a questo influsso. Alla base della concezione goethiana della natura vi è un fondamentale panteismo , che gli deriva dalla lettura di Plotino, di Bruno e di Spinoza, a favore del quale si esprime intervenendo nella cosiddetta ‘disputa sul panteismo’ tipica di quegli anni. La natura è natura vivente, inizialmente considerata, secondo i parametri dello Sturm und Drang, come un’inesauribile forza primigenia, dalle mille trasformazioni e dai mille volti, compresi quello umano e quello divino. Successivamente, questa visione letteraria si trasforma in una concezione più scentifica, che considera la natura come la sede dell’evoluzione, per complicazione successiva, di un unico fenomeno originario ( Urphänomenon ). Nel suo viaggio in Italia, a Palermo, Goethe credette di aver scoperto la forma della pianta originaria ( Urplanz ): uno stelo dal quale si dipartono i rami e le foglie. La stessa struttura la si ritrova nella costituzione fisica dell’uomo, come colonna vertebrale da cui si diramano gli arti. L’intenzione di Goethe è quella di costruire una morfologia della natura , ovvero uno studio qualitativo delle forme naturali, condotto attraverso l’intuizione e l’osservazione diretta dei 5 sensi: la sua indagine della natura diverge dunque nettamente da quella della scienza moderna (newtoniana), fondata sulla riconduzione dei fenomeni a elementi quantitativi, misurabili matematicamente attraverso procedure sperimentali oggettive. L’avversione di goethe per la fisica newtoniana, improntata al meccanicismo causale, affiora anche nella sua teoria dei colori : servendosi di un prisma di cristallo, Newton aveva scoperto che la luce bianca è scomponibile in raggi ai cui differenti indici di rifrazione corrispondono, nella percezione soggettiva, i diversi colori. Goethe, al contrario, sostiene che la luce è un fenomeno semplice e i colori derivano dalla contrapposizione polare tra chiaro e scuro, cioè tra bianco e nero. Per quanto infondata, la teoria goethiana dei colori si inserisce nella generale tendenza romantica a spiegare i fenomeni naturali come effetti della polarità, cioè a ricondurre la molteplicità delle manifestazioni ad un’unica legge fondamentale della natura. Per Goethe nella Natura non esiste puro divenire, caotico ed anarchico, ma una serie continua di manifestazioni plastiche, attraverso le quali l’Essere si rende percepibile ai nostri occhi. Metamorfosi significa trasformazione, o meglio una serie di trasformazioni in cui una essenza perenne si manifesta via via con modalità esteriormente differenti: la forma, che si concretizza biologicamente nel «tipo», a sua volta, non costituisce una realtà statica, ma una attività plasmatrice, che solo l’occhio esperto riesce a ricondurre all’Unità, attraverso la catena dell’Essere, scorgendo l’Eterno nel transitorio. Che tutto ciò non si sia risolto in una semplice speculazione teorica, ma abbia dato risultati concreti, lo dimostra il fatto che Goethe, seguendo tale paradigma, attraverso «il metodo genetico, il metodo della comparazione anatomica ed embriologica, conosciuto oggi come morfologia comparata», poté conseguire tre notevoli scoperte scientifiche, tuttora valide nella loro essenza: l’origine fogliare delle differenti strutture del fiore: sepali, petali, stami, pistilli; l’origine del cranio da vertebre trasformate; l’esistenza dell’osso intermascellare, o incisivo, nel cranio umano, tanto che la sutura corrispondente, situata tra il canino ed il secondo incisivo, e stata chiamata ufficialmente, in suo onore, sutura incisiva goethei. Goethe è profondamente convinto, sulla scia di gran parte del pensiero romantico, che la natura costituisca un tutto organico, di cui l’uomo è solo manifestazione; l’errore dell’uomo, come già aveva detto Spinoza, sta nel non riconoscere di essere parti del tutto, di questa totalità che è la natura, ma di pretendere di esistere come individualità. Così scrive Goethe a proposito:
‘ Natura! Noi siamo da essa circondati e avvinti, senza poter da essa uscire e senza poter entrare in essa più profondamente. Non invitati e non avvertiti, essa ci prende nel giro della sua danza e ci attrae nel vortice, finché, stanchi, cadiamo nelle sue braccia. Essa crea eternamente nuove forze: ciò ch’è ora non era ancora, ciò che era non torna; tutto è nuovo, e nondimeno è sempre antico. Noi viviamo nel mezzo di essa, e le siamo estranei. Essa parla incessantemente con noi, e non ci palesa il suo segreto. Noi operiamo costantemente su di essa, e tuttavia non abbiamo su di essa nessun potere. Pare che la natura tutto abbia indirizzato verso l’individualità, eppure non sa che farsene degl’individui. Artista incomparabile, senza apparenza di sforzo passa dalle opere più grandi alle minuzie più esatte. […] È intera, e nondimeno è sempre incompiuta. Non conosce passato e futuro; il presente è la sua eternità ‘.
IL FAUST
In quest’opera, che è il suo indiscusso capolavoro, Goethe riprese il soggetto di una leggenda popolare molto diffusa in Germania e che in Inghilterra era già stata soggetto di una rielaborazione teatrale da parte del poeta elisabettiano Christopher Marlowe. La storia ha come protagonista uno studioso, Johann Faust, che, ormai vecchio, tentato dal demonio Mefistofele, vende la propria anima in cambio di giovinezza, sapienza e potere. Ora Faust, onnipotente, può disporre delle sorti altrui: porta alla follia e alla morte una povera fanciulla, Margherita; poi inizia a esercitare la sua influenza diabolica presso le corti principesche del gran mondo. E benché tutto sembri congiurare alla dannazione di Faust, la pietà divina riconosce il desiderio di bene che è stato all’origine di tanto peccare: la stessa Margherita intercede per Faust, simbolo ormai dell’umanità stessa e del suo cammino verso la redenzione. L’opera, allegoria della vita umana nell’intera gamma delle passioni, delle miserie e dei momenti di grandezza, afferma il diritto e la capacità dell’individuo di voler conoscere il divino e l’umano, la capacità dell’uomo di essere “misura di tutte le cose”, e mostra il cammino percorso da Goethe dagli anni inquieti dello Sturm und Drang fino alla compostezza classica delle forme e alla saggezza della maturità. E’ il mito della superbia della ragione illuministica, dell’uomo che vuole essere il signore del mondo. Faust è un medico-scienziato, uomo rispettabilissimo, che svolge la sua attività con un aiutante (Wagner). Conosciuto tutto il possibile, Faust si sente insoddisfatto e si rivolge alla magia, che gli si presenta come vero e proprio spirito della magia, incarnato dalla diabolica figura di Mefistofele. Quest’ultimo era già comparso nel ‘prologo in cielo’ per sfidare il Signore che riuscirà a dannare Faust. Faust e Mefistofele siglano un patto: Faust ottiene la giovinezza in cambio della propria anima. Dopo di che, Faust si innamora della bella popolana Margherita e riesce a conquistarla: ella è indotta da Faust a somministrare un sonnifero alla propria madre per potersi così incontrare con l’amante. Il sonnifero, però, porta la madre alla morte. Margherita, uccisa la madre e anche il proprio fratello (Valentino), commette un altro omicidio: toglie infatti la vita al suo bambino (affogandolo), figlio di Faust, e viene arrestata. Nel frattempo Faust vive con Mefistofele nuove avventure: viene infatti introdotto alla conoscenza dei mondi infernali e condotto ad una Sabba (il concilio di streghe e potenze demoniache). Nell’ultima scena dell’opera la ritroviamo in carcere, in preda a forti allucinazioni: invoca a gran voce il perdono di Dio. Faust, accortosi di quanto sta accadendo, impone a Mefistofele di liberare Margherita, la quale, però, si rivela impaurita dalla figura di Mefistofele: ha colto in tale figura la presenza del diabolico, il male. Margherita viene comunque dichiarata salva da una voce celeste. Questa è la trama generale dell’opera. Due sono le grandi tematiche del Faust: il patto-scommessa e lo Streben (il cercare): Mefistofele sfida Dio, dimostrando che Faust, pur affannato alla ricerca di nuovi ed elevati saperi, è in realtà pur sempre disponibile ad un piacere che proviene dall’abbandono della sapienza. Il Signore tira in ballo il concetto di Streben dicendo che ‘ erra l’uomo finchè cerca ‘. La parola ‘streben’ caratterizza il protagonista, il suo continuo sforzo di superare i limiti, di non appagarsi mai in nessuna situazione; rappresenta anche lo spirito della borghesia, la sua forza innovativa e rivoluzionaria. Faust, nel primo prologo, è disperato: il sapere cui è pervenuto non gli permette di conoscere l’intima essenza della Natura (tema sentitissimo in Goethe) e decide dunque di darsi alla magia, evocando Mefistofele. Faust è salvato in extremis dal suicidio: sente la campane della pasqua e la gioia che da ese deriva. In Faust, va sottolineato, convivono due anime in contrasto: la prima tende al potere-sapere, l’altra ad un legame con il mondo. Qui sotto c’è una trama più dettagliata:
Volume I
Prologhi
- Dedica
- Prologo sul teatro: Direttore – Poeta. Il direttore è avido di guadagno, il poeta difende i diritti del genio e ha simpatia per l’improvvisazione e vuole preparare il pubblico all’apparente disorganicità del Faust.
- Prologo in cielo: Mefistofele – Dio ® accordo. Mefistofele può tentare come vuole Faust, ma Dio è convinto che non ci riuscirà. Entrano nuovi elementi: la lotta tra l’Io e la natura.
- Notte: Faust si rende conto di non sapere nulla ® desiderio di reagire alla conoscenza libresca per
avviarsi, staccandosi dall’illuminismo, verso una conoscenza intuitiva
per svelare l’essenza della natura. Vuole arrivare alla chiarezza.
Invoca lo Spirito della terra, ma si conclude in una sconfitta perché
sente ancor più dolorosamente la distanza tra l’uomo e Dio, tra la
creatura finita e l’infinito. Viene rispinto entro i limiti delle sue
umane possibilità, come castigo di essersi creduto simile a Dio. Dialogo
con Wagner (studente) che vorrebbe sapere sempre di più. Wagner è il
rappresentante della decadente tradizione della retorica umanistica e di
alcuni aspetti della letteratura del tempo.
Più tardi, solo decide di suicidarsi, per rientrare nell’universale, nell’infinito. Il desiderio di vivere e l’aspirazione di fondersi con il tutto sono in Goethe spesso uniti con il senso della morte. Faust crede l’inferno una creazione umana. Gli angeli evocano in lui il periodo felice della sua giovinezza e lo fermano.
Streben: impulso che non lo abbandonerà mai, come energia vitale e positiva. Allo Streben di Faust, che è desiderio di andare sempre oltre i risultati delle proprie esperienze, si oppone il Genus di Mefistofele, che è quasi voluttuosa pigrizia di appagarsi in quello che è. - Fuori della porta della città: giovani a passeggio.
Inquietudine di Faust contrasta con la pacata esistenza di Wagner e il primitivo viversi della folla. Faust si rivolge agli spiriti dell’aria perché lo strappino alla sua chiusa esistenza.
“Due anime abitano nel mio petto, l’una si vuol separare dall’altra“. ® Faust è ormai fuori dal dualismo cristiano: cielo / terra, Uomo / Dio, natura / spirito. Il suo dualismo è dentro di lui. Ecco le due anime. Una lo avvince al mondo sensibile, l’altra verso l’infinito e il divino.. il diavolo è un po’ la voce della prima anima, ma Faust sa che la seconda avrà il sopravvento.
Faust vede un cane ® Mefistofele - Studio: dal cane si sviluppa Mefistofele. Non appare a Faust perché è stato evocato, ma per il discorso del prologo in cielo. D’altro canto Faust non aveva invocato il demonio, ma gli spiriti che stanno tra cielo e terra. Mefistofele gli si presenta come un diavolo come tutti gli altri.
- Studio: patto. Faust accetta le condizioni di Mefistofele e questi
crede che vincerà la scommessa saziandone il corpo e l’animo di brutali
piaceri. Faust, poco preoccupato di com’è l’aldilà perché non crede
all’aldilà tradizionale, si sente legato alla terra e vuole vivere qui
la sua esperienza, è anche convinto che non potrà mai arrivare a una
dichiarazione che indichi soddisfazione e sazietà nel suo animo perché
non crede nemmeno a queste possibilità. Nell’accettare il patto egli
accetta anche il patto con se stesso: non soggiacergli. Faust si ribella
al suo tempo e alla cultura. Solo se Mefistofele riuscirà a spegnere il
suo desiderio di agire, Faust sarà sconfitto. Ma sa anche che
Mefistofele, per la sua natura, non può capire l’essere umano nel suo
alto tendere e gli chiede che gli può dare senza illudersi. Faust arriva
ad un impegno con sé stesso e contro Mefistofele: non lasciar mai
spegnere il suo desiderio di vita ® germe della
vittoria finale di Faust. Mefistofele, che gli consiglia di abbandonarsi
ai piaceri della vita, non lo comprenderà mai. (leggi pag. 83)
Faust – Goethe volta le spalle all’Illuminismo per abbracciare l’irrazionalità dello Sturm und Drang: “entro qualsiasi costume sentirò sempre la pena di questa angusta esistenza terrena“. Entra uno scolaro che rappresenta Goethe giovane di Lipsia. - Cantina di Auerbach a Lipsia: ambiente studentesco. Arrivano Faust e Mefistofele. Faust quasi non parla, il diavolo fa uscire il vino dal tavolo ma, quando inavvertitamente uno studente lo fa cadere per terra, si trasforma in fiamme.
- Cucina della strega: Faust ringiovanisce, da questo momento è il personaggio principale.
- Strada: inizia il dramma di Margherita il suo amore per Faust si risolverà in tragedia personale e creerà la distruzione di quella piccola società che prima la protegge e poi l’imprigiona. Faust è attirato da questo semplice mondo idillico e sente che ciò lo pone in urto con il suo Streben. Il contrasto non si risolve. Margherita rappresenta un po’ tutte le donne amate da Goethe nella sua giovinezza. Egli vede in Margherita e nel suo agire una prova di quella forza irresistibile che è nella natura, e che avvince e domina anima e sensi. Lentamente il suo amore per Faust le farà superare tutte le barriere: la differenza sociale, religiosa, il ritegno morale per una notte d’amore senza matrimonio.
- Sera: Faust e Mefistofele vanno a casa di Margherita, ambiente impregnato di castità e purezza. Faust vi lascia un cofanetto pieno di gioielli. Il suo desiderio sessuale si tramuta in amore. Lei lo trova.
- Passeggiata: Mefistofele racconta a Faust che la madre ha portato il cofanetto al parroco ® condanna l’avidità della chiesa.
- La casa della vicina: Margherita ha trovato un altro cofanetto e lo porta da Marta. Arriva Mefistofele, comunica a Marta la morte di suo marito e le fa la corte.
- Strada: “in breve tempo Margherita sarà vostra“.
- Giardino: conversazione delle due coppie. Faust e Margherita molto innamorati, Mefistofele schiva le allusioni di Marta e lei insiste. Ogni dialogo tra Margherita e Faust è sempre più caldo fino ad arrivare alla dichiarazione d’amore.
- Bosco e caverna: monologo di Faust, è una preghiera di
ringraziamento allo Spirito della terra che, attraverso il finito, il
terreno (l’amore per Margherita), ha costruito un legame con l’infinito.
l’amore gli ha insegnato anche che la conoscenza dell’infinito passa
attraverso il finito. Faust avrebbe raggiunto equilibrio, conoscenza e
fusione con la natura se non o turbasse la compagnia di Mefistofele, cui
ormai è legato. Senza Mefistofele ha stabilito con sé e la natura un
rapporto diverso, gli pare d’essersi purificato con l’aver frenato il
desiderio di possedere Margherita.
Sopraggiunge Mefistofele che cerca di tramutare l’amore in passione, Faust si rende conto che non la può frenare e vi si abbandona. Distrugge in sé ciò che vi era di grande e nobile e distrugge anche l’ingenuità di lei. - Giardino di Marta: Margherita ha ormai deciso di darsi a Faust, sente che quello è il suo destino. Ma sente il bisogno che la loro unione sia dello spirito e della carne e s’informa sulla religiosità di lui. La religiosità di Faust è quella dello Sturm und Drang, una religione di natura. Margherita ha i primi dubbi sulla natura di Mefistofele. Faust le dà delle gocce da mettere nella bevanda della madre affinché dorma.
- Alla fonte: è passato un po’ di tempo. Margherita sa, anche se la sua colpa non è ancora visibile.
- Bastione: Margherita non si può rivolgere a nessuno per conforto, nemmeno all’amato che è egoisticamente lontano.
- Notte: Faust uccide Valentino, il fratello di Margherita, che vuole svergognare pubblicamente la sorella, poi deve fuggire dalla città.
- Duomo: funerale della madre, che è morta per il narcotico senza potersi confessare. Margherita, senza madre, fratello e Faust, è completamente sola.
- Notte di Valpurga: festa sensualmente pagana. Mefistofele conduce
Faust sul Brocken nella speranza che questi conosca la lussuria e vi si
abbandoni, ma Faust non vi si perde totalmente perché a richiamarlo a sé
c’è l’immagine di Margherita, simbolo della donna-amore. E’ questa che
vincerà sulla donna-lussuria e lo richiamerà dall’abisso della lussuria,
volgendolo verso nuove esperienze.
La scena si divide in quattro parti:- salita di Faust e Mefistofele verso il Brocken;
- rappresentazione della notte di streghe e lussuria;
- partecipazione di Faust e Mefistofele alla danza volgare;
- apparizione di Margherita;
- Giorno fosco, campagna: si ritorna all’azione. Faust scopre che Margherita è in prigione e vuole farla fuggire, offuscando i sensi del carceriere.
- Carcere: Faust è lì per il suo dovere di uomo e per pietà, ma non più per amore. Soddisfatta la sua passione, vuole riprendere la sua ricerca. Lei lo capisce. In Margherita comincia ad affiorare il senso dell’errore commesso, per non vorrà seguirlo e dichiarerà la sua volontà di espiazione. Così si salva. Vede Mefistofele alle spalle di Faust e sente che lui è perduto. L’invocazione finale “Heinrich, Heinrich!” è la promessa di un amore dopo la morte.
In cinque atti Atto Primo
- Ridente contrada: è passato uno spazio di tempo indeterminabile. Faust si ridesta in mezzo alla natura serena e ridente. Sul tormento si posa la natura ristoratrice e rinasce a nuova vita, dimentica il passato. La voglia e la gioia di vivere lo salvano dal rimorso. Tutti vogliono fargli dimenticare quanto è successo. Cambia la sua visione della vita, non si slancia più verso l’infinito, ma accetta i limiti del reale, del finito, della conoscenza. L’uomo, pur aspirando al divino, deve limitarsi a goderne quanto di esso si manifesta in terra e vivere ed agire entro i limiti concessi all’umana natura.
- Palazzo imperiale, sala del trono: Goethe giudica il mondo di corte con ironia, i suoi difetti, il suo falso splendore, le sue debolezze, senza che il rispetto per l’autorità venga meno. Mefistofele prende il posto del buffone.
- Gran salone: mascherata di carnevale a corte, non ha un significato particolare, ma ha solo lo scopo di divertire. Faust appare vestito da Pluto, il dio della ricchezza come mezzo di creazione e attività umana, e Mefistofele da Avarizia. L’imperatore è vestito da Pan. Faust fa sgorgare un fiume d’oro dalla sua cassa, la barba dell’imperatore prende fuoco, Faust e Mefistofele dominano le fiamme e appaiono come salvatori.
- Giardino di svago: con le sue arti magiche, Faust si è guadagnato i favori dell’imperatore. Grazie a lui i debiti dell’impero vengono salvati e si produce carta moneta.
- Galleria oscura: è la prima delle tre scene che culmineranno con
l’invocazione di Elena. Elena si trova in un mondo che non è quello di
Mefistofele perché quest’evocazione non dipende dalla magia. Lei è
l’idea della pura bellezza e risiede in un mondo al di fuori di quello
di Mefistofele, presso le Madri. Elena sarà colei che apre a Faust un
nuovo mondo e lo avvia verso una nuova esperienza ed in essa lo
accompagnerà. Goethe considera il loro amore come un amore altissimo,
nel quale anima e sensi formano un’unità inscindibile. Le Madri ® la forma originaria e primitiva di ogni forma
vivente (mito creato da Goethe).
L’imperatore vuole che Faust invochi Elena e Paride, ma deve scendere dalle Madri e Mefistofele gli dà la chiave. La sua impresa è vera e grande magia, non di formule, ma di volontà d’animo. Entra in un mondo fuori del tempo, il mondo dell’assoluto. Ritorna diverso, ha inizio qui il suo viaggio verso il divino mondo della bellezza, che finirà con la morte di Elena. - Sale riccamente illuminate: intermezzo. Mentre Faust è dalle Madri, Mefistofele opera miracolose guarigioni.
- Sala dei cavalieri: Faust torna, appaiono sul palco Elena e Paride. Frivoli commenti della folla egli vuole Elena, ma per poter arrivare a questa bellezza, dovrà compiere la lunga educazione estetica in Grecia. Nel suo rapimento, dimentica che tra il mondo della magia e quello della realtà esiste un abisso invalicabile, si illude di poter dominare con la chiave entrambi i mondi. Ma è un errore perché confonde il mondo degli spiriti con quello terreno. Faust nel voler difendere Elena dal ratto di Paride e nel volerla fare sua, viola questa legge. La catastrofe è inevitabile.
- Stretta stanza gotica con alte volte: Faust è presente solo con il corpo, ma la sua mente è altrove. L’evocazione di Elena e il tentativo di Faust di impadronirsene, mettono Mefistofele di fronte a nuovi problemi. Lo riporta nello studio dove strinsero il patto e, mentre Mefistofele si diverte con Wagner, ormai dottore inorgoglito e con il Famulus di lui, Faust sogna Elena.
- Laboratorio: Wagner cerca di creare artificialmente un uomo. Wagner mette insieme gli elementi, Mefistofele gli soffia la vita ® Homunculus. Eredita da Mefistofele il piacere dello scherzo, da Faust il desiderio di fare. Ma per essere veramente vivo egli ha bisogno di una propria individualità, ha bisogno di divenire, di formarsi. E in questa ricerca di vita troverà la sua fine. L’anima di Faust è immersa nel mondo della classicità e non in quello nordico medievale.
- Notte di Valpurga: questa scena costituisce il ponte necessario tra
il laboratorio di Faust e l’esperienza con Elena, non più ombra evocata
ma creatura viva. Faust, per arrivare a questo, dovrà passare per il
terribile mondo mitologico greco. Vi è qui un dramma nel dramma.
- Scena: Homunculus, Faust e Mefistofele giungono sui campi di Farsaglia.
- Scena: Sfingi, Grifoni e Sirene li accolgono nel loro mondo.
- Scena: lungo il Peneio inferiore, Faust ha la visione della nascita di Elena e si incontra con Manto, una Sibilla, che gli permette la discesa all’Orco.
- Scena: lungo il Peneio superiore, Mefistofele si trasforma in Forciade, così può entrare ed essere accettato, nel mondo classico.
- Scena: tra le rocce del mar Egeo si compie il destino di Homunculus. Egli vuole vivere una vita concreta, uscire dal vetro dove conduce una vita artificiale. Assetato di amore e bellezza si slancia verso la dea Galatea ma, nell’impeto, infrange il cristallo e muore. Homunculus sacrifica la sua vita spirituale e da questo sacrificio scaturirà la vera essenza della fusione corpo / spirito. Egli muore per diventare perché per vivere la sua assoluta spiritualità deve fondersi con la realtà. Anche nell’esistenza degli uomini, lo spirito per vivere e per dare vita, deve incatenarsi. Morire e diventare attraverso questo spirito sono la via alla vita.
- Davanti al palazzo di Menelao a Sparta: Elena appare sulla scena avvolta da un’aura tragica, come un personaggio di Euripide. Goethe, scrivendo questo atto, pensava a una seconda grande esperienza d’amore di Faust, un’esperienza che fosse felice conquista spirituale della classicità e della bellezza, amore che fosse armonia di anima e corpo. Assistiamo qui ad una nuova vita di Elena e Faust in Grecia e, nella loro unione, vi è una simbolica unione del mondo classico-mediterraneo con il mondo nordico-romantico. Mefistofele-Forciade (rappresenta il mondo cristiano-occidentale) deve creare in Elena il desiderio spontaneo di seguirlo e rifugiarsi da Faust, per sfuggire alla vendetta di Menelao. Così Mefistofele e Faust appaiono come salvatori. Elena si avvia verso il castello, ciò vuol dire avviarsi verso un’altra vita e un altro tempo.
- Cortile interno del castello: Faust e Elena si avviano alla loro fusione. Faust ha superato il suo stato d’inquietudine e si presenta in nobile compostezza e sicurezza di sé (ideale greco di Goethe). Ha compiuto la sua educazione estetica. Il suo spirito nordico ha preso possesso della sua grecità, di cui se ne arricchisce e non vi si perde, ma grazie allo spirito e non alla grecità, torna a vivere nuove forme. L’unione di Faust e Elena è l’unione del mondo umano e del mondo divino. Conducono uno stile di vita libero, secondo natura, fuori dalle convenzioni. Nuovo Faust è sicuro di sé. Vivono fuori del tempo e nella natura eternamente giovane. Arcadica felicità, ma Faust non potrà rimanere fermo a lungo.
- Bosco ombroso (in Arcadia): il personaggio principale è Euforione, figlio di Faust e Elena. Del padre ha lo slancio verso l’infinito, il desiderio dell’amore, dell’azione e, della madre ha la bellezza. Ma in lui non è armonia, titanismo faustiano e classicità non sono in lui fusi in un tutto equilibrato. Predomina in lui l’elemento dionisiaco. questa sua natura è la causa fatale della sua morte (si ispira al Byron, quindi muore nella guerra di liberazione della Grecia, cioè volto verso l’azione, ma fermato dal suo tragico destino). Il suo destino determina quello degli altri, Elena muore, il coro si disperde e Faust muove verso le ultime esperienze.
- Alta montagna: perduta Elena, Faust tende alla potenza e all’azione, alla realtà e alla vita. Come l’amore per Margherita, anche quello per Elena ha avuto fine. Dolorosa anche questa esperienza, ma più alta. Si chiude un momento della sua esistenza. Egli prende congedo dalla vita amorosa e, senza rimpianti e con virile decisione, inizia l’ultima esperienza, quella della vita attiva per sé e per gli altri. Mefistofele pensa alla gloria a vantaggio di chi la consegue. Faust persa a una grande azione fine a se stessa e Mefistofele non lo comprende. Faust è molto cambiato, un tempo la natura si identificava con il divino, ora egli vede nella natura un’energia che l’uomo può domare e rendere proprio strumento ® esperienza dell’azione e creazione. “L’azione è tutto, la gloria nulla“.
- Sui contrafforti: Faust partecipa alla guerra tra imperatore e antimperatore. Con l’aiuto delle arti magiche di Mefistofele combattono per l’imperatore schiere di spiriti e gli procurano la vittoria.
- Tenda dell’antimperatore: l’imperatore sa benissimo che deve la vittoria alle arti magiche dei suoi due alleati, ma fa finta di credere che sia merito dei quattro principi e si affretta a ricompensarli. Faust viene investito del litorale dell’impero. L’imperatore nota che il suo impero è in declino, ha una forma di governo che crolla e i suoi principi lo derubano e non ha la forza di reagire. Ma Faust sta per iniziare quell’azione che creerà una nuova forma di vita sociale, un nuovo stato.
- Paesaggio aperto: Goethe riprende l’episodio delle Metamorfosi di Ovidio, in cui Giove e Mercurio percorrono la Frigia e trovano ospitalità presso due coniugi Filemone e Bauci. A dimostrare la loro gratitudine ne cambiano la modesta casa in tempio e concedono loro la grazia di poter morire contemporaneamente. Filemone si trasforma in quercia e Bauci in tiglio. In questo episodio, un viandante naufragato venne salvato dai due. Torna a ringraziarli, ma al loro posto vi trova un’oasi di pace. Si nota come vi è un presagio di catastrofe, un nuovo mondo assale l’antico.
- Palazzo: ormai la sua spiaggia è divenuta fiorente. Ma Faust è irritato perché di fronte al suo mondo creato dal nulla, meccanico, fabbricato e non divenuto, sta quello di Filemone e Bauci, idillico, sereno, lentamente divenuto. Il desiderio del possesso è più forte di lui, Mefistofele non capisce le sue inquietudini. Faust chiede a Mefistofele di far cambiare residenza a due vecchi, ma in cambio ha distruzione e morte. Vengono uccisi e sente che la colpa di ciò ricade su di lui. Viene colto da senso di colpa e pentimento. Mefistofele ha portato alle estreme conseguenze il suo desiderio di possesso. E così il titano Faust si fa uomo. Ritrova, ripudiando la magia, la sua umanità, i limiti della sua umanità e la sua libertà. Ora Faust può morire.
- Notte profonda: Faust canta le lodi della vita e si esalta nella bellezza del mondo. Un’affermazione d’amore verso la vita. Notare quanto sia forte il contrasto con la descrizione dell’incendio, della distruzione e della morte con lo stato d’animo di Faust. Vi è la sua prima incertezza interiore. Il senso di colpa, il rimorso, il pentimento. Tuttavia si riprende.
- Mezzanotte: la crisi di Faust si sta sviluppando, si sta allontanando dalla magia e lo conduce ad una reazione di fronte a Mefistofele e alle sue arti magiche perché si accorge che viene quasi sempre trascinato dove non avrebbe dovuto e voluto arrivare. Sente il desiderio di essere libero. La sua volontà di uomo si sostituirà al potere della magia. Ma non gli è possibile tornare com’era prima del patto ® lo assale un senso di tragica solitudine. Gli passa davanti la visione della sua vita, vita di cui non si pente. Il suo progredire interiore e il suo non appagarsi mai non si è placato e Faust riconferma il superamento del patto con Mefistofele. Le forze misteriose e demoniache che agiscono sull’individuo e ne turbano l’armonia sono anche fonte di grandi azioni. Gli uomini che hanno vissuto sotto il dominio della cura sono stati ciechi tutta la loro vita. Faust che non l’ha conosciuta le si oppone. Sarà ora cieco, ma è cecità solamente esteriore. Faust ha saputo vincere la cura perché per reazione, dentro brilla una luce. E lo spirito raddoppia le sue energie e tende all’azione con impeto giovanile. Con un abbandono alla vita pieno di fiducia e gioioso. Accetta la vita come un inevitabile susseguirsi di bene e di male, nei loro fatali limiti imposti a ciò che si può desiderare e volere. Di fronte ad esse l’uomo, pur accettandole, è libero e non cessa mai di guardare lontano, di tendere, di salire, di progredire nell’alterna vicenda di tormento e felicità. Così la vittoria di Faust sulla cura non sta nel respingerla o nell’ignorarla, ma nell’accogliere entro di sé questa accettazione della realtà senza che, spenta la luce degli occhi, si spenga quella dell’anima.
- Grande cortile antistante al palazzo: dopo che Faust si è staccato
da lui, Mefistofele è divenuto solo sorvegliante. L’ultimo
Streben del vegliardo, creare uno stato dove vi regni e lo
governi una libera cooperazione di uomini liberi, lietamente operosi
® uno stato del XIX secolo à l’uomo del XVIII
secolo (titanico, egocentrico, estetico) cede di fronte a questo nuovo
uomo. Quest’ultimo Faust è più completo, più equilibrato e maturo nei
suoi rapporti con gli altri uomini.
Mefistofele è sconfitto perché Faust si è salvato in virtù dello Streben, che annulla in lui l’errore e lo incita a non fermarsi mai. Mefistofele lo fa morire perché crede di aver vinto il patto. Ma ancora una volta dimostra di non aver compreso le ultime parole di Faust, che non esprimono, come lui crede, il desiderio di attaccarsi a qualcosa di terreno, ma nascono da una visione disinteressata e altruistica. - Sepoltura: Faust è morto. Il dissidio in lui (due anime nel suo petto) e quello simbolico (contrasto con Mefistofele) è finito. Il suo destino non è più entro i limiti della terra, ma oltre. Mefistofele non prende sul tragico la sconfitta. Si rassegna e deride la sua sciocchezza.
- Gole montane: progressività del purificarsi e affinarsi, nel volo
degli spiriti, un salire verso l’alto. Gli angeli che portano
l’immortale Faust sono i più perfetti. La morte è il primo passo verso
la spiritualità, che si compirà per gradi. Affinché l’ultimo resto della
sua doppia natura cada e svanisca, è necessaria l’azione dell’amore
divino e questo si manifesta per tramite di Margherita. Così si apre
all’immortale di Faust la via alle sfere più alte. L’esperienza di Faust
non si è compiuta, ma ne è cominciata una nuova, oltre i limiti della
terra. Uno Streben purificato. Faust aveva raggiunto in terra il
grado estremo del progredire, non poteva più andare oltre, la natura gli
deve concedere un’altra forma di esistenza, una forma adatta a
quell’implacabile Streben.
Si chiude con il Chorus Mysticus, che sembra dileguarsi verso regioni al di là della terra, dove l’uomo può elevarsi non con i suoi sensi ma solo con un volo dell’anima.
SCHILLER
L’uomo è completamente uomo solo quando gioca.
Figlio di Johann Kaspar Schiller (1733-1796), medico dell’esercito, ed Elisabeth Dorothea Kodweiß (1732-1802), Johann Christoph Friedrich Schiller nacque a Marbach, nel ducato di Württemberg. Trascorse l’infanzia e la giovinezza in ristrettezze economiche. Ciò non gli impedì di mettersi in luce negli studi, tanto da guadagnarsi i favori di Carlo II Eugenio, duca del Württemberg, che gli consentì di entrare alla Karlsschule nel 1773, dove seguì le orme paterne studiando medicina. Durante gli studi lesse Rousseau e Goethe e discusse gli ideali classici insieme ai compagni di corso. In quegli anni scrisse anche la sua prima opera teatrale I Masnadieri. Nel 1780 ottenne l’incarico di medico di reggimento a Stoccarda. Nel 1781 a Mannheim, in occasione di una rappresentazione dell’opera I Masnadieri, Schiller fu arrestato e gli venne intimato di non pubblicare più opere teatrali. Nel 1783 riuscì a fuggire da Mannheim per trasferirsi prima a Lipsia e Dresda e infine a Weimar. Durante questi viaggi iniziò a pensare al Don Carlos, opera informata di idee dello Sturm und Drang. Tuttavia, mentre nel 1785 era presso i Korner, la tranquillità gli permise di cambiare stile, ed iniziare la maturazione al Classico. Intanto scrisse Intrigo e amore e Fiesco o La Congiura di Fiesco a Genova. Nel 1789 gli venne affidata, per intercessione di Goethe, la cattedra di storia e filosofia di Jena. Nel 1791 inizia lo studio di Kant e dell’estetica. Nel 1793 scrive la Storia della guerra dei Trent’anni.Legata a questo argomento è la trilogia del Wallenstein (composta da Il Campo di Wallenstein, i Piccolomini, La morte di Wallenstein). Inizia la grande stagione dei capolavori di Schiller: nel 1800 scrive Maria Stuarda, nel 1801 La pulzella d’Orleans, nel 1803 La Sposa di Messina, nel 1804 il Guglielmo Tell. Questa prolifica attività letteraria fu interrotta solo dalla morte, avvenuta nel 1805 a causa della tubercolosi. L’autore che ebbe maggiore influenza sulla preparazione e formazione culturale di Schiller fu senz’ombra di dubbio Kant, da cui il poeta Schiller assimilò specialmente la Critica del giudizio , come del resto tendevano a fare molti degli esponenti del circolo romantico. Da Kant Schiller mutua la consapevolezza che nell’uomo vi è una doppia natura: da un lato, l’uomo sensibile, sottoposto a bisogni, impulsi e, in generale, alle esigenze del mondo fenomenico; dall’altro, l’uomo morale, il soggetto noumenico, espressione di ragione e libertà. In una lirica risalente al 1795, L’ideale e la vita , che compendia in forma poetica i convincimenti filosofici di Schiller, la prima di queste due dimensioni viene appunto denominata la vita , ossia l’insieme di rapporti che determinano necessariamente l’esistenza fenomenica dell’uomo, e la seconda l’ ideale , il compito morale che deriva all’uomo dalla sua natura razionale. Ma tra sensibilità e ragione, tra vita e ideale, non intercorre un’opposizione assoluta, pretesa invece dal rigorismo etico di Kant, per il quale la repressione della sensibilità è condizione fondamentale per il compimento del dovere. In Grazia e dignità (1793), Schiller è del parere che una conciliazione dei due aspetti sia realizzabile nell’ anima bella , in cui il dovere morale è compiuto in modo spontaneo e disinteressato, in piena armonia con l’inclinazione sensibile. Schiller asserisce: ‘ si dice anima bella, quando il sentimento morale è riuscito ad assicurarsi tutti i moti interiori dell’uomo, al punto da poter lasciare senza timore all’affetto la guida della volontà e da non correre mai il pericolo di essere in contraddizione con le decisioni di esso ‘. L’accordo spontaneo tra la sensibilità e la morale, attuato nell’anima bella, prende il nome di grazia . Ma, se per caso l’impulso sensibile torna ad essere in contrasto con la legge morale, l’ anima bella deve diventare sublime e dominare con la forza la sensibilità tramite la ragione: la dignità prende così il posto della grazia. Nelle Lettere sull’educazione estetica dell’uomo (1793-1795), la conciliazione tra sensibilità e ragione viene affidata al sentimento del bello . Infatti, dato che la bellezza è data dall’equilibrio tra sensibile e sovrasensibile, tramite l’educazione estetica la natura umana realizza la propria completezza, secondo il modello greco kalos kai agaqos , insieme bello e buono. Il mezzo basilare di cui si deve avvalere l’educazione estetica è il gioco , ossia un’attività che ha per fine se stessa. Nelle operazioni ludiche, infatti, la componente sensibile non è subordinata ad uno scopo razionale, nè il momento intellettuale è sacrificato all’impulso sensibile: anzi, in esse sensibilità e intelletto, materia e forma, esteriorità ed interiorità, essendo i due aspetti inseparabili di una sola attività, sono sempre espressione di bellezza. Nel gioco, quindi, si realizzano in modo armonico ambo le componenti fondamentali dell’umanità, per cui ‘ l’uomo è completamente uomo solo quando gioca ‘. Il rapporto tra sensibilità e ragione viene riformulato da Schiller nella sua ultima opera esplicitamente filosofica, Della poesia ingenua e sentimentale (1795-1796). L’ ingenuo e il sentimentale non sono per Schiller solamente due forme di espressione artistica, ma anche due condizioni indispensabili dell’umanità: il primo esprime l’unità spontanea tra l’elemento passivo della sensibilità e quello attivo della ragione e dell’intelletto; il secondo, invece, indica la divisione dei due elementi quando la riflessione si distingue e si rende autonoma dall’ambito sensibile ed emotivo. L’ingenuo rappresenta il momento della natura , il sentimentale quello della cultura . Ma, oltre ad esprimere due differenti tipi di umanità, l’ingenuo e il sentimentale indicano anche due diverse fasi dello sviluppo storico-artistico. L’ingenuo esprime il carattere della poesia antica e, più in generale, la condizione originaria dell’umanità; il sentimentale si riferisce più che altro alla poesia moderna e alla condizione dell’uomo storicamente avanzato. Schiller elabora così una filosofia della storia in cui l’umanità, perduta la propria ingenuità primiera per via del progresso culturale, deve riproporsi la restaurazione dell’unità fra sensibilità e ragione come un compito infinito, in cui si esprime una finalità storica mai completamente conseguibile e, però, indispensabile all’ulteriore progresso dell’umanità.
HUMBOLDT
Karl Wilhelm von Humboldt (1767-1835) fu figlio di Alexander von Humboldt, Alexander Georg, originario della Pomerania: questi era ufficiale prussiano e in seguito ai meriti ottenuti nel corso della guerra dei sette anni fu nominato ciambellano. Nel 1766 sposò Marie Elizabeth von Colomb, vedova del barone von Hollwede e figlia di una benestante famiglia ugonotta. Dal matrimonio nacquero due figli: Wilhelm (nato a Potsdam nel 1767) e Alexander nato due anni dopo. Alexander trascorse la sua infanzia presso il castello di Tegel, in seguito descrisse questo periodo come molto noioso. Quando suo padre, nel 1779, morì in modo del tutto inatteso, la madre si incaricò dell’educazione dei due figli garantendo loro ottimi insegnanti che permisero loro l’accesso agli ambienti intellettuali berlinesi. Nel 1787 la madre inviò entrambi i figli a studiare presso l’università di Francoforte sull’Oder che ai tempi era una delle più importanti università in Prussia. Alexander vi studiò per sei mesi finanza, scienze mercantili, scienze storiche, medicina, fisica e matematica. Qui si innamorò per la prima volta appassionatamente di un uomo, lo studente di teologia Wilhelm Gabriel Wegener. Il 25 aprile 1789 si immatricolò, seguendo il fratello, presso l’università di Gottinga, il centro dell’illuminismo scientifico tedesco. Seguì le lezioni di fisica e chimica tenute da Georg Christoph Lichtenberg, Christian Gottlob Heyne e Johann Friedrich Blumenbach. La notizia della rivoluzione francese lo entusiasmò. Nello stesso anno un’escursione scientifica sul Reno fu l’occasione per un’anticipazione delle sue opere future, scrisse un trattato scientifico sulle rocce basaltiche del Reno dal titolo “Mineralogische Beobachtungen über einige Basalte am Rhein” (Braunschweig, 1790). La sua voglia di fare viaggi in luoghi lontani crebbe frequentando Georg Forster, il genero di Christian Gottlob Heyne, che dal 1772 al 1775 aveva accompagnato James Cook nel suo secondo viaggio. Da questo momento in poi tutto il suo percorso di studi fu finalizzato ad un solo obiettivo, diventare esploratore per condurre ricerche scientifiche. Studiò lingue ed economia ad Amburgo, geologia a Freiberg e anatomia, astronomia e l’uso di strumenti scientifici a Jena. Le sue ricerche sulla vegetazione furono sintetizzate nella pubblicazione di „Florae Fribergensis Specimen“ (1793) e i risultati dei lunghi studi anatomici furono riassunti nell’opera „Versuche über die gereizte Muskel- und Nervenfaser“ (Berlino, 1797). Il 29 febbraio 1792 fu ufficialmente assunto presso la società mineraria statale prussiana. Sebbene non trascurasse la professione dedicò molto tempo ai suoi studi scientifici motivo per cui la sua carriera non fu rapida. Nonostante ciò gli furono spesso assegnati compiti importanti in ambito diplomatico. Nel 1794 fu introdotto nella società di Weimar. Nell’estate del 1790 intraprese, insieme a Georg Forster un breve viaggio in Inghilterra, nel 1792 soggiornò a Vienna e nel 1795 fece un viaggio di studio della botanica e della geologia che lo portò in Svizzera e in Italia. La morte della sua benestante madre avvenuta il 19 novembre 1796 gli permise di dimettersi dai suoi impegni professionali e dedicarsi alla realizzazione dei suoi progetti di viaggio. A causa del rinvio del viaggio intorno al mondo a vela pianifcato da Nicolas Baudin, al quale era invitato a partecipare decise di lasciare Parigi, insieme al medico e botanico francese Aimé Bonpland, per dirigersi a Marsiglia, con lo scopo di incontrare Napoleone in Egitto. I due finirono a ritrovarsi a Madrid da dove partirono per una spedizione nelle colonie americane, grazie al supporto del ministro Raphael d’Urquijo. Il 5 giugno 1799 salparono da La Coruña a bordo della nave “Pizarro”. A bordo si trovavano moderni strumenti, sestanti, quadranti, telescopi, cronometri, teodoliti, inclinometri, cianometri, igrometri, barometri e termometri, per effettuare il maggior numero di misurazioni possibili. Dapprima rimasero per sei giorni a Tenerife dove scalarono il vulcano Pico del Teide ed effettuarono alcune ricerche climatologiche. Dopo una traversata durata 22 giorni approdarono, il 16 luglio 1799 a Cumaná (Venezuela), la prima tappa nel nuovo mondo. La notte fra l’11 e il 12 novembre 1799 osservarono uno sciame di meteoriti delle leonidi; la descrizione di quest’evento pose le basi per il successivo riconoscimento della periodicità di tali eventi. Da Cumaná Humboldt e Bonpland si diressero a Caracas. Nel febbraio 1800 abbandonarono la costa per esplorare il sistema fluviale del Rio delle Amazzoni. Questo avventuroso viaggio che durò 4 mesi e li portò ad attraversare 2.775 km di territori selvaggi e inesplorati, mostrò i legami fra il fiume Orinoco e il Rio delle Amazzoni e servì a determinare l’esatta posizione del punto in cui i due fiumi si separano. La ricerca delle sorgenti del Rio delle Amazzoni li portò a Lima (Peru) dove entrambi rimasero affascinati dalla moltitudine delle specie botaniche e di animali. Il 24 novembre 1800 i due amici salparono per Cuba, per poi fare ritorno sulla terraferma a Cartagena (Colombia), dopo un soggiorno durato alcuni mesi. Dopo aver percorso il Rio Magdalena verso la sorgente e aver attraversato le alture ferrose delle Ande, raggiunsero il 6 gennaio 1802 dopo un lungo ed estenuante viaggio Quito, oggi in Ecuador. Qui furono i primi europei a scalare entrambe le cime del vulcano Pichincha (4960 m) e (4794). Durante il loro soggiorno, il 23 giugno 1802, Alexander von Humboldt, Aimé Bonpland e Carlos Montúfar tentarono di scalare il monte Chimborazo (6.310 m). Giunsero presumibilmente fino a quota 5.600 m ma in seguito a questo tentativo di scalata descrissero con precisione i sintomi del mal di montagna. Per circa 30 anni mantennero il record di altitudine raggiunta durante una scalata. Il 9 novembre 1802, mentre si trovava a Callao (Peru) Humboldt osservò il passaggio di Mercurio. Studiò inoltre le proprietà fertilizzanti del guano, premessa per l’introduzione del guano in Europa. Una traversata tempestosa li portò in Messico, dove vi restarono per quasi un anno e dove analizzarono il calendario degli Aztechi, per visitare poi gli USA, dove furono ricevuti personalmente dal presidente Thomas Jefferson. Alla foce del Delaware presero di nuovo la via del mare e approdarono il 3 agosto 1804 a Bordeaux. Durante l´intera spedizione attraverso l´America latina Humboldt e Bonpland percorsero 9650 km, in parte a piedi, in parte a cavallo o in canoa. La spedizione li portò attraverso il territorio delle odierne Colombia, Venezuela, Ecuador, Perù, Cuba e Messico e fu caratterizzato da pesanti strapazzi corporei e seri pericoli. Particolare per questo viaggio di ricerca è stata la completa mancanza di interesse commerciale. Ciò che li spinse fu il puro desiderio di conoscenza e la curiosità. Durante il loro viaggio che era durato dal 1799 al 1804 avevano fissato meridiani e paralleli, preparato mappe geografiche, studiato 60.000 piante, delle quali 6300 erano sconosciute, introdotto la fitogeografia e descritto la corrente di Humboldt, così chiamata in suo onore. Humboldt comunicò all´istituto di Parigi leggendo un libro di memorie la sua scoperta dell´indebolimento del campo magnetico terrestre dai Poli all´equatore. La sua importanza fu sottolineata dalla veloce comparsa di controtesi. I suoi contributi alla geologia sono stati principalmente le sue attente osservazioni dei vulcani del nuovo mondo. Dimostrò che questi si presentano normalmente in strutture lineari, che a occhio nudo coincidono con le enormi divisioni del sottosuolo. Il suo accenno all´origine vulcanica delle rocce che talvolta venivano considerate depositi sedimentari delle acque, è stato un contributo essenziale all´eliminazione di opinioni erronee. Con questo venne completamente archiviata la cosiddetta ipotesi del nettunismo. Degno di nota è anche il suo saggio politico sul regno di Nuova Spagna, che ha apportato un´ingente quantità di materiale sulla geografia e sulla geologia del Messico, comprese le descrizioni delle condizioni politiche, sociali ed economiche nonché abbondanti statistiche sulla popolazione. L´invocazione che formulò in quest´opera contro la disumanità della schiavitù rimase tuttavia inascoltata, mentre le sue descrizioni delle mine d´argento messicane portarono a numerosi investimenti di capitale straniero. Quando il naturalista tedesco arrivò a Bordeaux nell´agosto del 1804 dopo più di cinque anni di assenza, era, accanto a Napoleone, l´uomo più famoso del mondo. Humboldt si trattenne per quasi un ventennio principalmente a Parigi, la capitale europea della cultura e della scienza, per valutare la sua spedizione e pubblicarla. A Parigi trovò come collaboratori non solo scienziati francesi – i più famosi di allora – ma anche incisori ramai per le sue mappe e le sue illustrazioni e editori che gli pubblicarono l´opera. Questo lavoro gli dissipò quasi completamente il suo intero capitale. Al contrario di Humboldt, Bonpland mostrò un interesse minore al lavoro scientifico della spedizione. Durante il periodo parigino il socievole naturalista sperimentò l´eccezionale vita di città nella metropoli. Di giorno lavorava all´elaborazione delle sue ricerche, mentre di notte normalmente appariva nei saloni della società parigina, dove solitamente dominava la conversazione. Nel 1805 Alexander von Humboldt divenne ciambellano del regno di Prussia e membro dell´Accademia delle scienze (Akademie der Wissenschaften). Negli anni tra il 1807 e il 1833 pubblicò un´opera in 34 volumi sulla spedizione in Sudamerica in lingua francese, corredata di molte mappe a colori e di illustrazioni. Ma nel 1827 finirono i suoi giorni fortunati di Parigi: re Federico Guglielmo II lo chiamò definitivamente a Berlino. Humboldt obbedì alla chiamata, anche perché era praticamente senza mezzi economici. Quando aveva 60 anni lo zar di Russia Nicola I gli finanziò un viaggio per ottenere informazioni su possibili giacimenti minerari da sfruttare. Nel giro di sei mesi percorse a bordo di una carrozza quasi 15.000 km in compagnia del mineralogo Gustav Rose, sostando in ben 12.244 stazioni di posta. La spedizione lo portava oltre gli Urali nelle steppe siberiane, al di là dei molti Altai fino al confine con la Cina. Qui studiò la natura del mar Caspio e fece esperimenti sulla natura chimica della sua acqua, descrisse diverse famiglie di pesci, raccolse piante, misurò altitudini, temperature e il magnetismo, prese campioni di pietre e scoprì la prima miniera di diamanti al di fuori dei tropici. Al contrario della spedizione sudamericana questa non era una spedizione libera. Humboldt si era impegnato di fronte allo zar di non commentare la situazione politica del paese. Tutto il suo viaggio fu sorvegliato da poliziotti e funzionari. Si era accordato con la potenza la cui tirannia egli odiava più di altre. Humboldt commentò i controlli con le parole: “non potevo fare un passo, senza che mi trascinassero via come fossi stato malato”. I risultati della spedizione furono tuttavia apprezzati dagli scienziati russi e venne ricevuto alla corte di San Pietroburgo. Nel 1837 ottenne la medaglia Copley per l´approfondimento delle conoscenze naturalistiche. Nel 1843 e nel 1844 venne pubblicato il suo lavoro russo “Asie centrale”. “Ho in mente un´idea: racchiudere in un´opera tutto il mondo materiale, tutto ciò che oggi sappiamo delle apparizioni della volta celeste e della vita sulla Terra”. Questa idea lo tenne impegnato fino agli ultimi giorni della sua vita. Negli ultimi 25 anni della sua vita Alexander von Humboldt scrisse a Berlino la sua opera scientifica principale, Kosmos. L´opera è una delle più ambiziose nel mondo scientifico che mai siano state pubblicate. Con Kosmos cerca di descrivere in maniera intelligibile la struttura dell´Universo dal punto di vista delle conoscenze di allora in uno stile piacevolemente letterario. I cinque tomi Kosmos, Entwurf einer physischen Weltbeschreibung (= Il cosmo, progetto di una descrizione fisica del mondo), vennero pubblicati tra il 1845 e il 1862. Il quinto volume uscì postumo. Tutti e cinque i volumi raggiunsero una tiratura di 87.000 copie, cosa sensazionale per i tempi. Nel giro di poco tempo vennero tradotti in quasi tutte le lingue d´Europa. Quando a Berlino nel 1848 le rivolte culminarono nelle barricate, si sente sentimentalmente legato ai rivoluzionari. Alle esequie in onore dei [[Märzgefallenen]] (=caduti di Marzo) Humboldt era presente. Nel 1857 si impegnò per l´abolizione della seconda servitù della gleba in Prussia. Alexander von Humboldt morì all´età di 90 anni il 6 maggio 1859, proprio mentre stava terminando pacificamente l´opera Kosmos a Berlino. Alexander von Humboldt stesso definì così la morte: “La morte è la fine di quella condizione di noia che chiamiamo vita”. Non aveva alcun congiunto. Venne sepolto nella tomba di famiglia degli Humboldt nel parco dello Schloss Tegel a Berlino. La sua vita ci mostra, come abbia inseguito per tutta la sua esistenza un sogno, anche se questo lo portò alla rovina economica. È un modello di ricercatore sentimentale, che mai niente e nessuno ha potuto fermare.
FRIEDRICH HÖLDERLIN
Friedrich Hölderlin (1770-1843) entra nel seminario di Denkendorf, cittadina distante sette chilometri da Nürtingen, nel 1784: qui il 27 dicembre 1785 tiene la sua prima predica, sulla Prima lettera agli ebrei di Paolo; scrive alla madre dei suoi propositi di dedicarsi alla poesia. Terminati gli studi a Denkendorf, nel 1786 Hölderlin entra nel seminario di Maulbronn, presso Stoccarda. Sua madre vorrebbe fare di lui un pastore protestante, attività non amata da Friedrich che, per questo motivo, è sovente in frizione con lei, pur nel rispetto che apertamente le mantiene; invece tollera appena la disciplina della scuola e non apprezza i suoi insegnanti. A Maulbronn conosce Immanuel Nast e s’innamora della sorella Louise; conosce anche il giovane pittore Franz Karl Hiemer, che lo ritrarrà qualche anno dopo. Legge Schiller, Euripide, i poemi di Ossian e si appassione alla musica e all’antichità classica; scrive l’ode Il mio proposito. Il 21 ottobre 1788 Hölderlin entra nel celebre collegio di studi teologici Stift di Tubinga per frequentare i canonoci due anni di filosofia e i tre di teologia. Fra i suoi compagni di studi sono i futuri grandi filosofi Hegel e Schelling: con loro legge Spinoza, Kant, Rousseau, Fichte e, come sta avvenendo in Francia, sogna una prossima rivoluzione anche in Germania. Durante le vacanze autunnali conosce a Stoccarda Gotthold Friedrich Stäudlin, editore di un almanacco di poesie e sostenitore della rivoluzione francese, al quale Hölderlin confida i propri progetti poetici: Stäudlin lo invita a collaborare al suo almanacco. Hölderlin vorrebbe abbandonare lo Stift per iscriversi alla facoltà di legge ma si piega alla volontà contraria della madre. Il 17 settembre 1790, concludendo il primo biennio di studi, è Magister philosophiae. Nel settembre 1791 appare il Musenalmanach fürs Jahr 1792 di Stäudlin, che si apre con un poesia di Hölderlin, Inno alla Musa; compone gli Inni agli ideali dell’umanità, in stile schilleriano:
« […] Spira entusiasmo nei cantori inesauribile il colmo di bellezza infinito il mare del sublime ma prima d’ogna cosa io t’ho eletta con tremito profondo io ti vidi con tremito profondo io t’ho amato te, regina del mondo, te, Urania […] » (dall’ Inno alla dea dell’Armonia)
Quell’anno, con Hegel e Schelling, che traduce la Marsigliese, erige l’albero della libertà e, come d’uso, vi ballano intorno: con l’inizio del Terrore in Francia, quell’entusiasmo per la Rivoluzione si attenuerà di molto fino a scomparire del tutto, negli anni a venire, in Hegel e in Schelling; in Hölderlin rimarrà sempre un’adesione più o meno nascosta. Concepisce la Rivoluzione, più che un motivo di sovvertimento politico e sociale, un’occasione per una liberazione spirituale dell’umanità, una condizione di ritorno dell’individuo all’armonia con la natura. Nel 1792 iniziano le guerre che opporranno per decenni la Francia al resto dell’Europa; anche nello Stift si costituisce segretamente un circolo giacobino, al quale aderisce anche Hegel. In settembre appare il nuovo almanacco Poetische Blumenlese fürs Jahr 1793 di Stäudlin, con contributi di Hölderlin, tra cui un Inno alla libertà; è di quest’anno la prima stesura, andata perduta, del romanzo epistolare Hyperion, che narra di un eroe che combatte per la libertà della Grecia oppressa dalla Turchia. Con la condanna a morte di Luigi XVI, il 17 gennaio 1793, in Germania viene limitata la libertà di stampa e vengono introdotti restrizioni e controlli anche nello Stift ; il 27 gennaio il poeta Friedrich von Matthisson visita lo Stift e Hölderlin gli legge il suo inno Al genio dell’audacia che viene altamente apprezzato. Confida alla madre, preoccupata dei suoi entusiasmi giacobini, che peggio come si sta in Germania, non si può stare in nessun luogo: ma è troppo portato alla contemplazione poetica per tradurre in azione i suoi ideali politici. In settembre conosce Isaac von Sinclair, che si avvia a intraprendere la carriera diplomatica ed è solidale con gli ideali rivoluzionari. Il 20 settembre si laurea in teologia, lasciando finalmente lo Stift: non ne amava il dogmatismo e il cristianesimo formale e privo di interiorità: il 6 dicembre 1793 supera l’esame al concistoro di Stoccarda divenendo pastore; contrariamente ai desideri della madre, non ha alcuna intenzione di avviarsi all’attività ecclesiastica. L’1 ottobre Friedrich si era infatti presentato dal grande e amato Schiller chiedendogli una raccomandazione per un posto di precettore e Schiller aveva scritto all’amica Charlotte von Kalb, che cercava un precettore per il figlio di nove anni, perché assumesse Hölderlin. Appunto di Hölderlin del marzo 1795Il suo soggiorno dai von Kalb a Waltershausen gli è inizialmente gradevole; la von Kalb, che apprezza le qualità intellettuali di Hölderlin, ma non quelle pedagogiche, lo accompagna a Jena, dove il poeta ascolta le lezioni di filosofia di Fichte, frequenta Schiller e ha anche un fugace incontro con Goethe, senza tuttavia riconoscerlo; conosce Wilhelm von Humboldt, il poeta Novalis e il filosofo Herder, prosegue la stesura dell’ Hyperion, di cui Schiller pubblica un frammento nella sua rivista Thalia, e collabora alla rivista Die Horen. Alla fine di maggio 1795, subito dopo che a Jena si erano verificati degli incidenti provocati da proteste studentesche, Hölderlin lascia improvvisamente Jena tornando nella casa materna di Nürtingen. Non sono chiari i motivi di questo improvviso abbandono: sembra che il poeta abbia avuto una relazione con Wilhelmine Kirms, dama di compagnia della von Kalb, che infatti partorirà a giugno una bambina che vivrà solo pochi mesi. Un altro motivo è stato indicato nella sua difficoltà di rapportarsi con Schiller, del quale subiva in modo opprimente la forte e prestigiosa personalità. Infatti, in una lettera a Schiller del 23 luglio, scrive di essere sempre rimasto fortemente a disagio: «tutte le ragioni che avevo di partire mi ci avrebbero difficilmente indotto se appunto questa vicinanza non mi avesse per altro verso così frequentemente inquietato. Ero costantemente tentato di vedervi e vi vedevo solo per sentire che non potevo essere nulla per voi. Vedo bene che il dolore che portavo così spesso con me era la necessaria espiazione delle mie fiere pretese; poiché volevo essere tutto per voi, ho dovuto dirmi che per voi non ero niente» Sulla strada del ritorno a Nürtingen, aveva fatto amicizia, a Heidelberg, con il medico Johann Gottfried Ebel che, su richiesta del poeta, gli aveva prospettato la possibilità di un impiego come precettore nella casa del banchiere Gontard, a Francoforte. A dicembre ha la conferma del nuovo impiego e il 28 giugno 1796 prende servizio. Il banchiere Jakob Friedrich Gontard è sposato con Susette Borkenstein, che ha ventisette anni e ha due figli: è una donna bella, colta e intelligente. S’innamorano l’uno dell’altra, di un amore nascosto: Susette per Holderlin rappresenta la bellezza e la serenità greca, come la protagonista del romanzo a cui sta lavorando, la Diotima[1] solidale alla vita e alle aspirazioni del suo Iperone; per lei scrive:
« Vieni a placarmi questo caos del tempo come allora, delizia della Musa tu che concilii gli elementi tutti! Dacci la pace coi tranquilli accordi celesti e unisci quel ch’è diviso finché la placida natura antica fuori del tempo dai fermenti grande, alta e serena si sollevi. Torna viva bellezza tu nei cuori miseri ed alle mense ospiti, ai templi torna! Perché Diotima vive come i teneri boccioli dell’inverno, del suo proprio spirito ricca, lei anche il sole cerca, ma dello spirito il sole è già perito, felice il mondo, e nella notte gelida ormai tempestano già gli uragani » (Diotima)
È il periodo forse più felice del poeta; intanto l’armata francese si avvicina a Francoforte e la famiglia Gontard, ma non il banchiere, si trasferisce fino a settembre a Kassel con Hölderlin e con lo scrittore, amico di famiglia, Wilhelm Heinse, l’autore del romanzo Ardinghello, molto ammirato da Hölderlin. Il rapporto tra Hölderlin e Susette comincia a destare, all’inizio del 1798, i sospetti del banchiere Gontard e a settembre il poeta lascia Francoforte e si trasferisce a Homburg, ma continua una relazione clandestina con Susette; lavora alla tragedia – che rimarrà incompiuta – La morte di Empedocle e, a fine anno, esce ancora il Taschenbuch per l’anno 1799 di Neuffer, in cui sono comprese alcune odi di Hölderlin. Su consiglio di Schiller, compone brevi liriche, come Un tempo e adesso:
« M’era, giovane, lieta la mattina e di pianto la sera; ora più vecchio io dubitando il mio giorno inizio ma mi è santa e serena la mia sera »
Pensa di pubblicare una rivista, Jduna, che abbia un contenuto letterario e politico, tale da contribuire all’educazione dei tedeschi, ma se gli amici Sinclair e Boehlendorff, scrittore repubblicano, sono disposti a collaborare, non hanno questa volontà i due massimi intellettuali tedeschi, Goethe e Schiller, e l’editore di Stoccarda Steinkopf non è disposto, a queste condizioni, a finanziare l’impresa. A ottobre esce il secondo volume del romanzo Hyperion, che il poeta invia a Diotima-Susette con la dedica “A chi, se non a te?”; rari sono i loro incontri, ma la loro corrispondenza si mantiene costante. Il 9 novembre (18 brumaio) 1799 Napoleone attua il colpo di stato che lo impone Primo Console dei Francesi; alla fine del mese, con il nuovo Almanacco per l’anno 1800, compaiono altre odi di Hölderlin. Le sue condizioni economiche sono precarie, e allora nel gennaio 1800 accetta l’invito di Christian Landauer, un commerciante di Stoccarda, di trasferirsi da lui per poter continuare con maggiore tranquillità la sua produzione poetica; scrive alcune delle sue odi migliori, come l’ Archipelagus e Il viandante, ma alla fine dell’anno la necessità di guadagnare lo spinge ad accettare un nuovo lavoro di precettore e si trasferisce in Svizzera, a Hauptwil, presso la famiglia del commerciante Emanuel von Gozenbach; qui resta affascinato dal maestoso paesaggio alpino, che celebra con l’ode Cantata tra le Alpi. La pace di Lunéville, siglata il 23 febbraio 1801, suscita il suo entusiasmo, ed è salutata con l’ode Festa della pace, ma seguirà presto la delusione e anche l’abbandono dell’impiego di precettore – anche questa volta, senza che siano chiari i motivi – con il suo ritorno nella case materna di Nürtingen. Pur ricevendo i primi riconoscimenti per la sua produzione poetica, con la proposta dell’importante editore Cotta di stampare un suo libro di poesie – ma l’operazione non andrà in porto – Hölderin appare depresso: cerca di ottenere da Schiller la raccomandazione per una cattedra di letteratura greca nell’Università di Jena, senza però ottenere risposta. Accetta allora l’ennesimo impiego di precettore, offertogli dal console amburghese a Bordeaux Daniel Christoph Meyer; a dicembre Hölderlin, a piedi, parte per la città francese, giungendovi il 28 febbraio 1802. Da Bordeaux, come più volte gli era avvenuto, parte improvvisamente a maggio: si dice perché gli si volesse imporre anche l’ufficio di pastore o perché avesse avuto notizia della grave malattia di Susette, che era morta di scarlattina il 22 giugno. La notizia della morte dell’unica donna da lui amata arrivò in realtà a Bordeaux quando il poeta era già in viaggio, ancora a piedi, attraverso la Francia; soggiornò brevemente a Parigi e a Strasburgo, e a giugno arrivò a Stoccarda, mostrando anche i segni di un grave turbamento psichico; a Nürtingen si scontra con la madre, che ha scoperto le lettere scambiate con Susette. Il 29 settembre è a Ratisbona, dove le conseguenze diplomatiche della pace di Lunéville mettono a rischio la sopravvivenza del principato di Homburg nel quale Hölderlin, oltre ad auspicare un sommovimento rivoluzionario, spera di ottenere un lavoro e un editore che pubblichi le sue traduzioni delle tragedie di Sofocle. Nel giugno 1803 rivede Schelling che, preoccupato per le sue condizioni di salute, sollecita inutilmente Hegel di ospitarlo a Jena. Raggiunto un accordo con l’editore Wilmans di Francoforte, nell’aprile del 1804 escono le sue traduzioni di due tragedie di Sofocle, l’Antigone e l’Edipo, che tuttavia passano generalmente inosservate negli ambienti letterari e saranno, oltre tutto, criticate da Schiller. Il 19 giugno 1804 Hölderlin lascia definitivamente Nürtingen con l’amico Sinclair e, dopo una breve permanenza a Stoccarda, raggiunge Homburg prendendo servizio nel luglio come bibliotecario di corte. Nel gennaio 1805 l’amico Sinclair viene coinvolto in un’accusa di truffa da Alexander Blankenstein, un avventuriero che chiama in causa Hölderlin come testimone: Sinclair è arrestato e durante il processo le condizioni mentali del poeta peggiorano, fino a dar luogo anche a comportamenti violenti. Mentre intanto, il 9 maggio, muore Schiller, Sinclair è assolto e Hölderlin, le cui condizioni peggiorano lentamente, riesce a dedicarsi ancora alla poesia e a tradurre le odi di Pindaro. L’11 settembre 1807, a seguito di una nuova crisi, Hölderlin viene ricoverato nella clinica psichiatrica del professor Ferdinand Autenrieth a Tubinga, ma le sue condizioni non migliorano. Viene allora affidato nell’autunno del 1807 alla famiglia del falegname Ernst Zimmer, uomo di buona cultura che aveva anche letto il suo romanzo Hyperion: il poeta occupa una stanza all’ultimo piano, nel retro a forma circolare della casa dello Zimmer, e per questo motivo chiamata “la torre”: ha una vista bellissima del fiume Neckar e della sua valle. Qui Hölderlin trascorrerà tutti gli ultimi trentasei anni della sua vita. Nel novembre appaiono sul nuovo Almanacco per l’anno 1808 sue poesie, Il Reno, Patmos e Rimembranza; nella torre Hölderlin continua a scrivere e a improvvisare musica sul pianoforte; la sua figura di poeta folle comincia ad assumere contorni mitici e molti vengono a fargli visita. Fra di essi è lo studente Wilhelm Waiblinger che scriverà qualche anno dopo il saggio Vita, poesia e follia di Hölderlin, pubblicato postumo nel 1831. «Si esita dubbiosi prima di bussare a quella porta, dominati da un interiore inquietudine; infine si bussa e una voce forte e veemente invita ad entrare. Si entra e al centro della stanza appare una magra figura che si inchina profondamente e si produce in complimenti eccessivi, con gesti che sarebbero pieni di grazia se non esprimessero un che di spasmodico. Le poche espressioni di circostanza vengono accolte con le più cortesi riverenze e con discorsi del tutto privi di senso, che sconcertano l’estraneo. L’estraneo si sente apostrofare “Sua Maestà”, “Sua Santità”, “Gentile signor Padre”. Le visite inquietano Hölderlin grandemente, le riceve sempre di malavoglia. Una volta ebbi modo di ripetergli, dopo infinite volte, che il suo Iperione era stato ristampato e che Uhland e Schwab stavano curando l’edizione delle sue poesie. Come unica risposta Hölderlin si produceva in un profondo inchino, accompagnato da queste parole: “Voi siete molto benevolo, signor von Waiblinger, vi sono molto grato, Vostra Santità”. E troncava il discorso in questo modo […]. Il critico Gustav SchwabA volte Hölderlin si sedeva di fronte alla finestra aperta e magnificava il panorama con parole comprensibili. Notai anche che quando era immerso nella natura, aveva un rapporto sereno con se stesso […] In un modo o nell’altro, a meno che non si trovasse in uno stato di completa apatia, egli era perennemente occupato con se stesso, ma se un visitatore andava a trovarlo, le circostanze più fortuite potevano renderlo chiuso e inaccessibile. Quando è stimolato da ricordi dolorosi, cerca con amarezza di ridurre la sua stanzetta, che per lui è l’intero mondo, a uno spazio ancora più limitato, come se così si sentisse più sicuro, meno inquieto, e potesse sopportare meglio il dolore. Allora si mette a letto». In effetti l’editore Cotta aveva pubblicato nell’autunno del 1822 una seconda edizione dell’ Hyperion e nel giugno 1826 era uscita una sua raccolta di poesie curata da Ludwig Uhland e Gustav Schwab. Nel febbraio 1828 muore sua madre, che non visitò mai il figlio; dieci anni dopo muore Ernst Zimmer e del poeta si prende cura la figlia Lotte. Hölderlin comincia a firmare con il nome di “Scardanelli” le sue poesie, apponendovi date fantasiose. Il 18 aprile 1843, in un saggio di Gustav Schwab, Hölderlin viene considerato tra i maggiori poeti tedeschi; poche settimane dopo, 12 maggio 1843, muore la sua prima anfitriona, Charlotte von Kalb. Nei primi giorni del giugno 1843 scrive la sua ultima poesia, La veduta, firmata Scardanelli e datata 24 marzo 1671: « Riluce il giorno aperto agli uomini d’immagini, quando traspare il verde dai più lontani piani, ed al tramonto inclini la luce della sera, bagliori delicati fan mite il nuovo giorno. Appare spesso un mondo chiuso ed annuvolato dubbioso interno all’uomo, il senso più crucciato, la splendida natura i giorni rasserena, sta la domanda oscura del dubbio più lontana » Malato di polmonite, alle 23 del 7 giugno Hölderlin muore. Il tema filosofico portante dell’opera di Hölderlin è la celebrazione panteistica della natura, intesa come Uno-tutto , in cui l’individuo si deve perdere per potersi ritrovare come espressione della totalità. La totalità, però, non è coglibile dalla ragione, ma può essere carpita solamente dall’impeto della poesia, la quale viene quindi concepita, in armonia con i canoni romantici, come la più alta forma conoscitiva a disposizione dell’uomo. Oltre alla funzione noetica, la poesia ha anche il compito di educare e guidare l’umanità: il poeta è un vate , dal quale gli altri uomini possono attendere la loro redenzione. Un altro carattere di fondamentale importanza nel pensiero di Hölderlin è la celebrazione del dolore , inteso come dimensione metafisica e cosmica della realtà: “Non deve tutto soffrire? Tanto più è eccellente, tanto più soffrire? Non soffre la sacra natura? […] La volontà che non soffre è sonno, e senza morte non vi è vita”. In questa concezione tragica della realtà si consuma l’estrema opposizione dell’anima romantica alla cultura illuministica ed eudemonistica dell’illuminismo settecentesco. Iperione o l’eremita in Grecia è un romanzo che narra la formazione spirituale di un eroe; tramite la vicenda di Iperione, Hölderlin racconta, in forma epistolare, il suo percorso interiore e sentimentale. Anche gli altri personaggi del romanzo hanno, infatti, un preciso riferimento autobiografico: Diotima è Suzette Gontard, la sua amata; Adamas, il maestro, rappresenta Schiller; Alabanda, l’uomo di pensiero e di azione, è Fichte. Il protagonista del romanzo è un giovane greco moderno, affascinato dall’ideale di bellezza e di armonia che sprigiona dalla cultura greca antica e al quale è stato educato da Adamas. In Diotima, una fanciulla greca nata in una piccola isola dell’Egeo, egli ritrova incarnata quella perfezione e se ne innamora perdutamente. Ma a sottrarlo al vagheggiamento ideale della Grecia antica e ai legami d’amore interviene l’amico Alabanda, che lo spinge a combattere per la liberazione della Grecia dall’oppressione dei Turchi. L’impresa fallisce e Iperione, pur salvandosi, rimane ferito. Diotima, che lo crede morto, si spegne lentamente, consunta dal dolore. A Iperione, ridotto in solitudine, non rimane che pascersi del suo stesso dolore fino a giungere, grazie anche al ricordo di Diotima e degli ammonimenti di Alabanda, a ritrovare se stesso perdendosi nel Tutto, nel quale l’uomo supera la sua finitezza e attinge l’infinito. Ma l’idea dell’Uno-Tutto, che è uno dei temi di fondo dell’intero romanzo, è espressamente celebrata fin dalle prime pagine dell’opera: “Essere uno col tutto, questa è la vita degli dèi, è il cielo dell’uomo! Essere uno con tutto ciò che vive, tornare, in un beato divino oblìo di sé, nel tutto della natura, questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta del monte, la sede dell’eterna quiete, ove il meriggio perde la sua afa e il tuono la sua voce, e il mare infuriato assomiglia all’ondeggiare d’un campo di spighe.”
FRIEDRICH SCHLEGEL
Di grande rilievo risulta l’opera filosofica di Friedrich (Federico) Schlegel (1772-1829); in un saggio giovanile Sullo studio della poesia greca (1797) egli introduce un’importante distinzione tra poesia oggettiva e poesia interessante che riprende sostanzialmente quella, fatta da Schiller, tra poesia ingenua e sentimentale. Anche Schlegel é convinto che la poesia moderna (interessante) non si debba semplicemente contrapporre a quella classica (oggettiva), ma possa recuperare i valori dell’oggettività tramite un processo di riflessione su se stessa. Schlegel elabora pertanto, ispirandosi anche a Kant, l’idea di una poesia trascendentale, o “poesia della poesia” in cui si ricompone la frattura tra la spontanea unità della poesia oggettiva classica e le consapevoli divisioni di quella moderna. Un altro importante aspetto del pensiero di Schlegel é la teorizzazione del concetto di ironia, concetto tipèicamente romantico. In ambito estetico, in cui trova la prima formulazione romantica, l’ironia indica il rapporto di inadeguatezza tra l’infinità dell’artista creatore, concepito come soggetto assoluto, e la finitezza dell’opera d’arte e del mondo fenomenico in cui essa si pone. Ma il concetto viene a indicare, più in generale, l’atteggiamento di chi, comprendendo il carattere relativo degli aspetti finiti dell’esistenza, coglie l’incomparabile superiorità dell’infinito che é in sè. Così Schlegel definisce ironia il modo di sentire di “chi sovrasta ogni cosa, di chi si eleva infinitamente al di sopra di ogni cosa finita, anche sopra la propria arte, virtù e genialità”. Segno dell’incidenza della cultura romantica sul costume dell’epoca sono due opere di Schlegel filosoficamente minori, ma molto famose: il saggio Su Diotima (1795) e il romanzo Lucinde (1799). In questi scritti, Schlegel elabora una dottrina dell’eros in cui si riconosce il diritto della donna a cercare la propria realizzazione nella passione. Soprattutto Lucinde, che destò un grande scandalo, contribuì particolarmente a quiell’emancipazione della donna che nella cultura romantica era non solo teorizzata, ma anche praticata e che Nietzsche detesterà e avverserà con tutte le sue forze. Il modello autobiografico di Lucinde é, infatti, Dorothea Mendelssohn, figlia del filosofo illuminista Moses Mendelssohn, la quale si era separata dal proprio marito per sposare lo stesso Schlegel. Con la morte di Novalis (1801), il circolo di Jena si disperse. Schlegel tenne corsi privati a Parigi e a Colonia e nel 1808, dopo la conversione personale al cattolicesimo, si trasferì a Vienna mettendosi al servizio del principe di Metternich, uno dei maggiori esponenti della Restaurazione. Qui Schlegel diede vita ad un nuovo circolo, espressione ormai del tardo romanticismo tedesco, fondando la rivista “Concordia” (1820-1823). Quest’ultima fase dell’attività del pensatore é contrassegnato politicamente dalla difesa della politica restauratrice e reazionaria condotta dal governo austro-ungarico a partire dal Congresso di Vienna e, sul piano filosofico, da un’evoluzione del suo pensiero in senso religioso e teistico. Il problema fondamentale di Schlegel diventa allora quello di elaborare una filosofia che sostituisca l’idealismo tedesco, da lui ricondotto ai quattro sistemi di Fichte e di Schelling da un lato (espressioni dell’aspetto teoretico dell’idealismo), e di Kant e Jacobi dall’altro (che rappresentano il versante pratico, il tentativo di passare dalla filosofia alla fede con un “salto nel buio”). Ma nè il metodo razionale-speculativo, nè il ricorso all’atteggiamento fideistico possono, secondo Schlegel, cogliere l’assoluto nella sua pienezza. Per fare ciò bisogna attingere l’elemento della personalità come principio della vita stessa: l’ultima parola di Schlegel é quindi la rivalutazione di un atteggiamento religioso che fa leva sul teismo, ossia su una concezione di Dio come persona e come vita. Quest’ultimo periodo del pensiero di Schlegel é espresso in cicli di lezioni dedicate alla Filosofia della vita (1827), alla Filosofia della storia (1828) e alla Filosofia del linguaggio e della parola (1830).
NOVALIS
Georg Philipp Friedrich von Hardenberg, detto Novalis (1772-1801) fu uno dei maggiori animatori del circolo romantico di Jena; egli morì giovanissimo, consunto dalla tisi, a soli 29 anni di età. Il suo pensiero filosofico é contenuto soprattutto in una raccolta di Frammenti , rimasta per molto tempo inedita. A Novalis dobbiamo una celebre definizione di Romanticismo: “Quando conferiamo al comune un senso più elevato, all’ordinario un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita allora io lo romanticizzo”. Il mondo deve essere “romanticizzato” vedendo nel particolare un valore universale e, viceversa, riconoscendo che l’universale si esprime sempre nel particolare. Ma per “romanticizzare” la realtà comune occorre guardarla con gli occhi della fantasia più che con quelli della ragione, tanto impiegati nel periodo illuministico. Negli Inni alla notte (1800), l’opera senz’altro più completa di Novalis, lo spazio notturno é il regno del sogno e della fantasia, intesi come indispensabili veicoli verso l’infinito. In Heinrich von Ofterdingen, romanzo rimasto incompiuto, il protagonista incarna il modello del sognatore romantico, in cui lo spirito poetico prevale di gran lunga sulla considerazione razionale della realtà. La poesia viene infatti intesa da Novalis nel suo significato etimologico di creazione (dal verbo grecopoiew , fare): essa produce realtà, anzi la realtà vera, che non é la banalità del quotidiano, ma é il prodotto dello spirito. “La poesia é il reale, é la realtà assoluta. Questo é il nocciolo della mia filosofia”. La poesia é dunque vera conoscenza e vera scienza. La filosofia stessa si riduce a poesia. Infatti Novalis riprende la dottrina della scienza fichtiana, interpretando però l’Io non come semplice soggetto trascendentale, ma come una fonte infinita di pensiero e di realtà. L’idealismo fichtiano si trasforma così in idealismo magico , in cui il soggetto individuale é riconosciuto come onnipotente, dal momento che é in grado di trasformare il mondo con la sua volontà e la sua fantasia. “L’esecuzione dell’idea di Fichte é la miglior prova dell’idealismo. Quel che io voglio, lo posso. Agli uomini nulla é impossibile”. Questo ampliamento dei poteri del soggetto sull’intera realtà implica, nella filosofia novalisiana, una sfilza di identificazioni. In primis, esso comporta l’ unità tra individuo e natura. Nella novella I discepoli di Sais, la natura é presentata come unitaria non solo in quanto una con se stessa, essendo pervasa da un unico fluido “simpatico”, ma anche nel senso che é identificabile con il soggetto umano che la contempla, come viene esposto nel racconto di Giacinto e Fiorellin di Rosa, inserito nella novella come “storia nella storia”. Dopo una lunga ricerca della dea Isis, l’intima essenza della natura, Giacinto, trovatala e sollevatole il velo, scopre Fiorellin di Rosa, la sua amata. La natura ci é vicina, siamo noi stessi la natura, basta saperla vedere: e in fondo non era già in parte quel che diceva circa tre secoli addietro Giordano Bruno, il filosofo della passione? All’unità con la natura é inoltre strettamente connessa l’ unità dell’uomo con Dio , visto che Novalis condivide con molti altri romantici un sostanziale panteismo di matrice Bruniana e spinoziana. “Noi siamo, noi viviamo, noi pensiamo in Dio, poichè egli é la collettività personificata. Nè per il nostro senso egli é un universale o un particolare. Potresti tu dire che egli sia qui o lì? Egli é tutto e dappertutto. Noi viviamo e ci muoviamo in lui, nel quale saremo”. La compiuta realizzazione dell’uomo é pertanto l’ “indiarsi”, la complessa risoluzione nell’Uno-tutto, nella quale l’individuo esplica il suo infinito valore, e, allo stesso tempo, l’infinito si determina come individuo: con ciò si realizza completamente l’essenza del romanticismo. Il bisogno esasperato di unità che alberga nell’animo filosofico di Novalis contrassegna pure la sua concezione politica e storica. Nella raccolta di frammenti Fede e amore, ovvero il re e la regina egli presenta il suo ideale di Stato, concepito come comunità assolutamente armonica, in cui i singoli cittadini trovano nella coppia sovrana il loro modello di vita esemplare. Nell’ideale politico di Novalis trovano la loro fusione la monarchia e la repubblica: unico deve essere il sovrano, ma in quell’unità si condensa la partecipazione attiva di tutti gli individui. Lo stesso carattere unitario pervade la concezione storica che ha Novalis: in Cristianità o Europa, egli propone come modello storico-politico l’Europa medioevale, in cui tutti i popoli cristiani erano raccolti sotto la guida di un unico pontefice. La storia successiva non é altro che il processo tramite il quale la cristianità perde a poco a poco la sua unità: la Riforma protestante, l’illuminismo, e la rivoluzione francese costituiscono le tappe fondamentali di questo processo di scissione. Ma al termine dello scritto Novalis, assumendo le vesti di vate, prevede che l’originaria unità perduta sarà presto restituita all’Europa da un “degno Concilio europeo”, in cui il tardo romanticismo restauratore vedrà la prefigurazione del Congresso di Vienna; opposta sarà l’ipotesi di Nietzsche, che prevederà invece lo sgretolamento totale dei valori cristiani.
CRISTIANITA’ O EUROPA (a cura di Enrico Gori)
Un anno e mezzo dopo l’esilio di Pio VI e la creazione della Repubblica Romana da parte di Napoleone, Novalis scrive, in due mesi (giugno-agosto 1799, il 29 agosto muore il Papa) questa breve e appassionata predica in difesa della Cristianità (Christenheit) intesa come sentimento unificante dell’Europa, ossia la Cristianità cattolica nel suo senso etimologico di kathòlikos, universale. Il trattato non vuole essere un’apologia obiettiva e storicamente valida del Medioevo, giacché mancano del tutto espliciti riferimenti storici, ma solo un’ elogio del cattolicesimo, il cui apice è rappresentato appunto dal Medioevo, età in cui l’uomo era allo stadio infantile, non doveva preoccuparsi di nulla se non di guadagnarsi il Paradiso, confortato dalla presenza purificatrice della Chiesa; il suo universo era costituito unicamente dalla sua città e dai suoi compaesani, fedeli come lui e come lui protetti dalle mura cittadine. Nulla doveva turbare il suo anelito spirituale, nessun dubbio doveva tormentarlo, la Chiesa provvedeva a soffocare qualunque attentato a questo beato connubio di Fede e Amore, contrapposti a Sapere e Avere, protagonisti dell’età successiva. L’avvento del Protestantesimo in concomitanza con il consolidamento del commercio trans-nazionale e trans-oceanico posero fine al monopolio celeste nella mente umana, ora invasa dallo spirito del capitalismo weberiano: l’uomo usò la religione per fini terreni: nel commercio e nella politica in particolar modo, Lutero spoetizzò la religione insistendo sulla necessità di interpretare la Bibbia, fino ad allora parola misteriosa somministrata dai preti; i principi la limitarono nei loro confini, ponendo fine alla sua funzione unificante. La reazione si presentò nella forma dei Gesuiti, che fecero vari tentativi di ripristinare l’ordine e di estendere ulteriormente la sfera d’influenza del cattolicesimo. La rivoluzione scientifica desacralizzò il mondo, facendolo diventare uno stridente mulino senza mugnaio che macina se stesso. L’Illuminismo, che Novalis dice chiamarsi così per via della scomposizione della luce, scomposizione che gli Illuministi applicano ai fenomeni ed alla religione in particolare, riprese la vandalizzazione del sacro, che tuttavia Novalis riconosce non esserci stata nella sua Germania grazie al tentativo di rendere la religione ‘popolare’, ossia comprensibile e sentita universalmente, spogliata delle sue caratteristiche mistiche. Secondo Novalis, anche allora si sarebbe prodotta una potente forza di reazione, anche se non spiega sotto quale aspetto, ma forse allude al pietismo, di cui il padre di Novalis era adepto. Conclusa la parte storica, si passa ad esaminare la situazione in altri Paesi, scoprendo che anche in Francia la religione è un fattore stabilizzante nella appena conclusa Rivoluzione, nella forma del Culto dell’Essere Supremo indetto da Robespierre. In Germania, nazione secondo Novalis culturalmente conservatrice se non proprio arretrata, grazie ai Romantici, di cui l’autore fa parte, si inaugura un nuovo modo di vedere il mondo, la storia e la religione nella sua purezza. Il trattato si conclude con l’illustrazione della filosofia della storia romantica: una grande Necessità i cui eventi preludono ad altri migliori e meglio organizzati nei confronti del futuro, la famosa visione, insomma, di tesi-antitesi-sintesi immortalata da Hegel. E’ interessante notare come Novalis, che volle essere scienziato ma rimase sempre un dilettante con molte nozioni e poca pratica, formuli questa dottrina partendo da una teoria medica in voga all’epoca, secondo cui il corpo umano è regolato dall’equilibrio tra eccitabilità e stimoli esterni. La malattia è causata quindi dalla rottura dell’equilibrio. Oggi è più corretto pensare, se si deve fare un paragone con la fisiologia, che la Storia agisce come il corpo dopo una malattia, ossia crea anticorpi contro avvenimenti destabilizzanti. Chiude l’opera un’esortazione allo studio della religione, sola chiave di lettura della Storia attraverso le sue tre modalità di generatrice, mediatrice e apportatrice di beatitudine tramite adorazione.
SCHLEIERMACHER
A cura di Jonathan Fanesi
Il mondo non è senza Dio, Dio non è senza il mondo
Nell’ambito del circolo romantico di Berlino spicca indiscutibilmente l’illustre figura di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (1768-1834). Questi studiò a Halle, dove ricevette una formazione di stampo illuministico, dedicandosi con particolare zelo allo studio di Immanuel Kant. In un secondo tempo si cimentò nella lettura dei testi di Jacobi e Spinoza e, in virtù dei contatti con Friedrich Schlegel, si distaccò dal freddo razionalismo settecentesco e abbracciò con passione la causa romantica. Insegnò Teologia prima all’università di Halle, poi in quella di Berlino (fondata nel 1810), dove fu attivo fino alla morte. Le sue opere principali sono i Discorsi sulla religione (1799), i Monologhi (1800) e La fede cristiana (1821-1822). Il fulcro degli interessi di Schleiermacher è costituito dalla filosofia della religione e della teologia. La tensione romantica verso l’infinito, l’aspirazione esistenziale-estetica dell’uomo nella natura e la religione come intuizione mistica ed irripetibile trovano nella figura di Schleiermacher un’espressione sistematica. La sua riflessione inizia con l’analisi dello stadio di lacerazione storico-culturale del suo tempo tra esperienza e ragione, progresso e tradizione: la religione fondata sull’intuizione e sul sentimento, legata all’irripetibilità esistenziale del soggetto umano, si distacca dalla teoresi e dalla filosofia morale: l’esperienza religiosa come sentimento e gusto dell’infinito, scorge nell’uomo e negli altri esseri della natura un’impronta divina. L’arte è la spiritualità vissuta nell’immediata spontaneità esistenziale. La physis è plasmata da una spiritualità intrinseca a lei stessa, Schleiermacher riprenderà l’espressione greca “uno e tutto” sviluppando una visione panteistico-spirituale. L’uomo nella singolarità, manifestazione della sua irriducibilità e nella dimensione spazio-temporale, è in tensione mistica verso l’infinito, oggetto primo del desiderio. La totalità del reale è priva di ogni imperfezione, questa prospettiva si attua grazie alla fusione della speculazione spinoziana e leibniziana, il panteismo schleiermacheriano è forgiato dalla concezione ottimistica e spiritualistica del pensatore di Lipsia: l’individuo coglie il male poiché la condizione umana non è universale, essendo legata alla sua singolarità. Il tentativo di attuare una sistematizzazione dell’esperienza religiosa, basata sull’intuizione e sul sentimento, finisce per sfociare nel dogmatismo, in quanto nega il libero approccio del singolo. Schleiermacher pur criticando l’aspetto dogmatico delle religioni storiche, nei suoi scritti successivi al fine di non inimicarsi le fazioni conservatrici esalterà il momento comunitario della religione conditio prima di quello soggettivo. Le grandi religioni nascono da individui geniali che hanno saputo far vibrare l’essenza spirituale della moltitudine, la loro intuizione si compie nella singolarità dell’esistenza, ma nello stesso si propone come universale. Ogni religione ha una uguale dignità e valore, nonostante ciò il filosofo tedesco parlerà del cristianesimo come: << la religione delle religioni >>: le varie religioni sono viste come tentativi di giungere all’infinito. La fede nei miracoli, come quella nell’immortalità dell’anima, l’attesa dei premi e delle punizioni dell’al di là, non sono compatibili con il vero significato di religione. Il vero miracolo è l’intuizione estatica dell’infinito, la tensione dell’uomo è quella di raggiungere ed identificarsi nella e con la totalità (pietas), la morte è l’occasione privilegiata nella quale l’individuo può sollevarsi al di sopra dell’umanità: << diventare una sola cosa con l’infinito pur essendo in mezzo al finito; essere eterni in un momento del tempo, questa è l’immortalità della religione >>. La libertà umana non assoluta è condizionata dal mondo, l’agire si instaura nel condizionamento e nella dipendenza, l’individuo scontrandosi con l’ostacolo prende coscienza della sua origine. La dialettica a cui mira il filosofo tedesco è la tecnica dell’incontro-scontro tra visioni e pensieri differenti, non si tratta della dialettica hegeliana legge dello sviluppo e della comprensione del Reale, siamo di fronte al dialeghesthai socratico-platonico. La sua concezione della ragione non è di tipo monologico, come i grandi pensatori sistematici dell’idealismo; bensì è dialogica. Confrontarsi dialetticamente con l’altro significa crescere nel conoscere; in quanto la discussione ha un ruolo costitutivo nel sapere, la propria posizione mediante negazioni e affermazioni si rafforza a livello concettuale, Schleiermacher dirà che: << l’accordo del pensiero con se stesso si realizza così attraverso il consenso dei partecipanti al dialogo >>. Il pensiero dev’essere in armonia con l’essere, ma per trovarsi in questa situazione di equilibrio è necessario che esso segua il viatico dialettico del dialogo, prenda coscienza della diversità di prospettive e cresca nella sua qualità concettuale. Il progetto dialettico schleiermacheriano consta di due articolazioni, una metafisica che s’interessa della concordanza di essere e pensiero, una logico-formale (scientifica) il cui fine è quello di analizzare il rapporto della totalità del sapere e del sapere particolare. La filosofia come vera e reale sapienza del mondo, non può essere compiuta, resta un’ideale a cui aspirare ed un limite a cui attenersi. Si comprende questo punto, tenendo presente che il processo dialettico di Schleiermacher, poggia su una base trascendentale, che funge da archetipo e ostacolo: Dio come inizio, il mondo come fine. Il nostro pensiero razionale proviene da Dio e nello stesso tempo tenta di conoscere il mondo nella sua totalità: dal punto di vista dell’a-priori, la ragione è identica in tutti gli uomini, la sua realizzazione ed estensione si compie in determinate coordinate spazio-temporali ed è quindi influenzata e plasmata dal linguaggio. Si comprende l’importanza del linguaggio come luogo privilegiato dello sviluppo della ragione, il linguaggio è l’incarnazione stessa della ragione e la sua limitazione: da qui un’analisi critico dialettica che tenda a superare la limitatezza di una determinata posizione mediante l’esame del sapere altrui. Al fine di realizzare questo compito è necessario concepire la storia come sistema dove entrano in relazione le diverse culture e linguaggi; la relazione dei saperi è la testimonianza più diretta di come i gruppi linguistici non siano monadi isolate. L’ermeneutica in senso generale è l’arte della comprensione del discorso altrui, scritto o parlato; la base di ogni comprensione è la presa di coscienza del fatto che nell’interpretare e comunicare il fraintendimento è ciò che va da sé. L’ermeneuta è colui che è a metà strada tra il noto e l’ignoto, il fraintendimento e l’intesa, è come il filosofo in Platone figlio di Penìa e Poros, non ha la scienza come il dio ma non è ignorante. Vi è una sorta di continuità e frattura tra dialettica ed ermeneutica, la prima risolve il pensiero nel linguaggio, la seconda acquisita una dimensione storico sistematica e dal linguaggio cerca di comprendere il pensiero, sussiste un rapporto di discorsività ed interpretazione. Chi si dedica all’ermeneutica deve porsi sullo stesso piano dell’autore oggetto della sua analisi, sia da un punto di vista soggettivo che storico-linguistico e letterario. Il processo ermeneutico è circolare, il suo indagare è illimitato ed infinito, la ricostruzione è in continuo divenire nella molteplicità delle connessioni. Il binomio dialettica-ermeneutica rappresenta una visione dinamica del conoscere che si compie nella finitudine e particolarità del linguaggio, in tal modo di contrappone alla dialettica idealistico-hegeliana di tipo monadologico. Schleiermacher sviluppa l’ermeneutica anche come filologia, tradurrà l’intero corpus delle opere di Platone con il metodo della “sola scriptura”, questa visione sarà contesta dalla scuola di Tubinga che terrà conto anche delle àgrapha dògmata.
FRIEDRICH WILHELM JOSEPH SCHELLING
“La natura deve essere lo spirito visibile, lo spirito la natura invisibile. Qui dunque, nell’assoluta unità dello spirito in noi e della natura fuori di noi, si deve risolvere il problema come una natura sia possibile fuori di noi”.
CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
1775 Il 27 gennaio Friedrich Wilhelm Joseph Schelling nasce a Leonberg, nel Wuerttemberg, primo di cinque figli. Il padre, pastore protestante, coltiva studi di orientalistica e critica biblica e avvia fin dall’infanzia Friedrich alla conoscenza del mondo antico.
1790 Dopo aver compiuto i primi studi a Bebenhausen e Nuertingen, dove fra l’altro ha modo di conoscere per la prima volta Hoelderlin, Schelling viene ammesso a soli 15 anni (con tre anni di anticipo sulla norma) allo Stift di Tubinga, dove e’ compagno di camera (ma non di corso) di Hegel e dello stesso Hoelderlin.
1792 Conclude il biennio filosofico con la dissertazione Antiquissimi de prima malorum humanorum origine philosophematis Gens. III explicandi tentamen criticum et philosophicum, in cui e’ evidente l’approccio razionalistico al testo biblico. L’anno successivo, lo stesso approccio viene applicato al campo dell’interpretazione mitologica nel saggio Sui miti, le leggende storiche e i fenomeni del mondo antico. Per quanto l’ambiente dello Stift sia poco permeabile alle novita’ filosofiche e politiche, Schelling ha comunque modo di entrare in contatto con le dottrine fichtiane e le idee politiche rivoluzionarie provenienti dalla Francia. Dopo aver incontrato Fichte e aver letto la prima parte (quella teoretica) della Dottrina della scienza, Schelling pubblica nel 1794 Sulla possibilita’ di una forma della filosofia in generale e nel 1795 Sull’Io come principio della filosofia.
1795 Conclude il triennio teologico con la dissertazione De Marcione Paullinarum epistolarum emendatore. Viene chiamato a collaborare al “Philosophisches Journal”, dove pubblica, tra il 1795 e il 1796, le Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo. Rinuncia quindi alla carriera ecclesiastica e trova impiego come precettore presso il barone von Riesedel, i cui figli segue prima a Stoccarda (tra il novembre 1795 e il marzo1796) e poi a Lipsia. Nello stesso 1796 redige la Nuova deduzione del diritto naturale, anche in conseguenza del fatto di essersi dovuto occupare, nella sua nuova veste, degli studi giuridici dei giovani von Riesedel. Tra il 1796 e il 1797 torna sull’interpretazione di Fichte nei Trattati per la chiarificazione dell’idealismo della Dottrina della scienza. Ma, soprattutto, in questi anni getta le basi della propria filosofia della natura con le Idee per una filosofia della natura e la prima versione di Sull’anima del mondo.
1798 In estate si trasferisce da Lipsia a Jena, chiamato dalla locale Universita’ (grazie anche ai buoni uffici di Goethe), di fatto in sostituzione di Fichte, costretto a dimettersi in seguito alla polemica sull’ateismo. Qui entra in contatto con i principali esponenti del circolo romantico. Fonda la rivista “Zeitschrift fuer spekulative Physik”, progettata come strumento di diffusione della nuova filosofia della natura, e nel 1802, con Hegel, il “Kritisches Journal der Philosophie”. Pubblica il Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura (1799), con la relativa Introduzione (1799), il Sistema dell’idealismo trascendentale (1800), la Deduzione universale del processo dinamico (1800), l’Esposizione del mio sistema di filosofia (1801), il dialogo Bruno (1802), le Ulteriori esposizioni del mio sistema di filosofia (1803), le Lezioni sul metodo dello studio accademico (tenute per la prima volta nel 1802, ma pubblicate nel 1803).
1803 Nell’estate, sposa Carolina Michaelis, vedova del medico Boehmer e gia’ sposata in seconde nozze con August Wilhelm Schlegel, da cui aveva ottenuto il divorzio nello stesso 1803. Anche per il deteriorarsi dei rapporti personali con gli amici di Jena, in autunno si trasferisce a Wuerzburg, chiamato come professore ordinario. Nel 1805 fonda, con Marcus, gli “Jahrbuecher der Medicin als Wissenschaft”. Pubblica Filosofia e religione (1804) in risposta alle tesi sostenute da Eschenmayer nello scritto La filosofia nel suo passaggio alla non-filosofia, gli Aforismi introduttivi alla filosofia della natura (1805) e gli Aforismi sulla filosofia della natura, la cui seconda parte apparira’ quando Schelling avra’ gia’ lasciato Wuerzburg (1806-7). A questo periodo appartengono anche la Filosofia dell’arte (corsi tenuti in origine a Jena tra il 1802 e il 1803 e ripresi a Wuerzburg tra il 1804 e il 1805), la Propedeutica filosofica (1804) e il Sistema dell’intera filosofia (1804), che saranno tuttavia pubblicati postumi.
1806 In seguito alla pace di Presburgo (dicembre 1805), Wuerzburg passa sotto il controllo austriaco. Nella successiva primavera, Schelling decide quindi di trasferirsi a Monaco, dove, non esistendo ancora una Universita’, entra a far parte dell’Accademia delle Scienze, presieduta da Jacobi. Il 12 ottobre 1807, in occasione dell’onomastico del re, tiene il celebre discorso Sul rapporto delle arti figurative con la natura. Nel 1808 e’ nominato Segretario Generale dell’Accademia delle Arti Figurative, creata in pratica appositamente per Schelling al fine di evitargli la difficile convivenza con Jacobi. A questo periodo risalgono l’ultimo intervento contro Fichte, l’Esposizione dei veri rapporti della filosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte (1806) e le Ricerche filosofiche sull’essenza della liberta’ umana (1809). Nel frattempo, in seguito alla pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito (1807), si consuma anche la rottura con Hegel.
1809 Il 7 settembre muore la moglie Carolina. Schelling, fortemente provato, si trasferisce per qualche mese a Stoccarda, tra il febbraio e l’ottobre del 1810, dove tiene le celebri Privatvorlesungen e compone il dialogo Clara, vera e propria meditazione sulla morte. Il rientro a Monaco e’ segnato dalle polemiche. Nel 1811, Jacobi pubblica un aspro attacco contro Schelling (Sulle cose divine e la loro rivelazione), a cui Schelling risponde con altrettanta violenza con il Monumento dello scritto sulle cose divine (1812). Nello stesso periodo, lavora al progetto delle Eta’ del mondo, di cui prepara due versioni (una nel 1811 e l’altra nel 1813) che vengono entrambe prima consegnate all’editore e poi ritirate, e un’ulteriore elaborazione nel 1815.
1812 Sposa Paulina Gotter, figlia di un’amica di Carolina, con cui era da tempo in corrispondenza e che gli rimarra’ accanto per tutto il resto della vita, dandogli sei figli. Nel 1813 fonda una nuova rivista, la “Allgemeine Zeitschrift von Deutschen fuer Deutsche”, che ospita nel suo primo numero la disputa con Eschenmayer a proposito delle Ricerche filosofiche, ma che avra’ vita ancora piu’ breve delle precedenti. Nel 1815 pubblica la lezione Sulle divinita’ di Samotracia.
1820 é chiamato a Erlangen, dove restera’ per sette anni, tenendo come professore libero lezioni di storia della filosofia e filosofia della mitologia. Le lezioni del semestre invernale 1820-21 furono dedicate agli Initia philosophiae universae, cioe’ ai fondamenti dell’intera filosofia.
1827 Rientra nuovamente a Monaco come professore di filosofia presso l’Universita’ (trasferita l’anno precedente da Landschut) e come Presidente dell’Accademia delle Scienze. L’unico scritto filosofico pubblicato in questi anni da Schelling e’ la Prefazione ai Fragments philosophiques di Victor Cousin (1834), ma nel frattempo Schelling lavora al progetto della “filosofia positiva”, in opposizione alla “filosofia negativa” della tradizione razionalistica e formalistica. I quaderni originali dei corsi tenuti da Schelling in questi anni sono andati perduti nel corso dei bombardamenti del 1944, ma rimangono gli appunti di studenti e uditori. Tra le opere riprese nell’edizione delle opere complete figurano la Prima lezione monachese (1827), i corsi del 1836-37 sulla Storia della filosofia moderna, e sull’Esposizione dell’empirismo filosofico. Per altri scritti (alcuni dei quali hanno subito vari rimaneggiamenti) la datazione non puo’ ritenersi sempre certa: Sistema delle eta’ del mondo (1827-28); Introduzione alla filosofia (1830); Filosofia della Rivelazione (1831-32); Sistema della filosofia positiva e Sistema delle eta’ del mondo (1832-33); Filosofia della Mitologia (1835-36); Sistema della filosofia positiva (1836-37); Filosofia della Mitologia (1837-38); Introduzione nella filosofia (1839).
1841 Schelling, anche a motivo della situazione non proprio favorevole ai Protestanti determinatasi in Baviera, accetta l’invito di Federico Guglielmo IV di Prussia e si trasferisce a Berlino come libero docente (con il compito, probabilmente, di arginare il successo dilagante della filosofia di Hegel, deceduto dieci anni prima). Anche qui i suoi corsi – che vedranno come uditori Kierkegaard, Feuerbach, Engels – vertono principalmente sulla filosofia della Mitologia e la filosofia della Rivelazione, e sono ricostruibili in buona parte solo attraverso Nachschriften: Filosofia della Rivelazione (1841-42); Filosofia della Rivelazione (1842-43 e 1844); Principi della filosofia – Esposizione del processo naturale (1843-44); Filosofia della Mitologia (1845-46). A questo stesso periodo (1847-54) appartengono l’Introduzione filosofica alla filosofia della Mitologia e il Saggio sull’origine delle verita’ eterne e il discorso Osservazioni preliminari alla questione sull’origine del linguaggio (1850).
1854 Il 20 agosto muore a Bad Ragaz in Svizzera, dove si trovava in villeggiatura.
La filosofia muove da un’infinita scissione di attività opposte; ma sulla medesima scissione si basa anche ogni produzione estetica; ed essa è interamente abolita da ogni singola rappresentazione dell’arte. Che cos’è quel meraviglioso potere, per mezzo del quale secondo l’affermazione del filosofo si abolisce nell’intuizione produttiva un contrasto infinito? Noi non abbiamo potuto finora render completamente comprensibile questo meccanismo, perché solo la facoltà nell’arte può svelarlo del tutto. Quel potere produttivo è il medesimo di quello per cui anche all’arte riesce l’impossibile, cioè abolire un contrasto infinito in un prodotto finito. (Sistema dell’idealismo trascendentale)
Schelling è un pensatore molto precoce, che raggiunge il massimo successo a soli 25 anni: nel 1800 circa, ad appena 32 anni, comincia già ad essere eclissato dall’astro nascente di Hegel, che peraltro era più anziano di lui. Pur essendo più giovane di Hegel, Schelling ne fu per qualche anno il maestro e, anche quando Hegel morirà, Schelling gli sopravviverà per circa 20 anni, dando vita ad una filosofia successiva ad Hegel ed in polemica con lui. Il pensiero di Schelling presenta, come già quello di Fichte, diverse fasi e, grosso modo, se ne possono individuare 5:
- Periodo fichteano , ovvero momentanea adesione alle tesi di Fichte
- Periodo della Filosofia dello Spirito e della Filosofia della Natura , ovvero elaborazione di un proprio pensiero autonomo
- Periodo della Filosofia dell’Identità , ovvero identificazione tra Natura e Spirito
- Periodo della Filosofia della Libertà , in contemporanea all’incipiente successo di Hegel
- Periodo della Filosofia Positiva , successiva alla morte di Hegel
GEORG WILHELM FRIEDRICH HEGEL
1. Il periodo giovanile a Stoccarda (1770-1788)
1770 Georg Wilhelm Friedrich Hegel nasce il 27 agosto 1770 a Stoccarda, capitale del ducato del Wuerttemberg, primo di tre figli di Georg Ludwig Hegel, segretario ducale della camera finanziaria e in seguito capo della cancelleria, e di Maria Magdalena Fromm. Gli Hegel, originari della Carinzia, erano trasmigrati nel Wuerttemberg nel XVI secolo a causa della persecuzione contro i Protestanti.
1775 Dopo i tre anni della scuola elementare (Deutsche Schule), frequenta a Stoccarda per due anni la cosiddetta “Scuola latina” (Lateinische Schule).
1777 Passa, sempre nella città natale, al Realgymnasium o Gymnasium Illustre, di carattere umanistico-religioso, dove si svolge tutto il ciclo dei suoi studi medi e si dimostra uno scolaro modello; prende anche lezioni private di geometria, astronomia e agrimensura da un colonnello d’artiglieria, C.Fr. Duttenhofer.
1784 Muore la madre durante un’epidemia di dissenteria. La sua educazione, come pure quella dei più piccoli Ludwig e Christiane, ricade interamente sulle spalle del padre.
1785 Inizia, proseguendolo fino al 1787, un diario in tedesco e latino da cui e’ possibile farsi un’idea della sua formazione e cultura giovanile: buona conoscenza delle lingue e del mondo classico (Omero, Sofocle e Euripide; Socrate, Platone, Aristotele; Livio e Cicerone; Longino, Longo e Epitteto), studio del Vecchio e del Nuovo Testamento, lettura di autori moderni tra cui Mendelssohn, Lessing, Goethe, Schiller, e di romanzi allora in voga (J.T. Hermes, T.G. von Hippel).
2. L’universita’ di Tubinga e lo Stift (1788-settembre 1793)
1788 Ottenuta la maturità, il 27 ottobre si iscrive all’universita’ di Tubinga per studiarvi teologia, ed è ospite come borsista in un ex monastero di agostiniani, lo Stift, allora collegio teologico in cui ricevevano la loro formazione i futuri ecclesiastici protestanti e gli insegnanti del ducato. Segue le lezioni di C.Fr. Schnurrer sull’esegesi biblica, di C.Fr. Roesler sulla storia della filosofia, di J.Fr. Flatt sulla metafisica e la teologia naturale, e, soprattutto, di J.C. Storr sulla teologia dogmatica. Tuttavia, non si dichiara molto soddisfatto dell’insegnamento accademico, specie perchè l’atmosfera ufficiale dello Stift e’ quella dell’ortodossia luterana. Comincia una serie di infrazioni alla disciplina (assenze alle lezioni e alle preghiere, trascuratezza nella divisa) che gli fruttano molte punizioni e che nel 1791, per un ritardo nel rientro da un permesso, culmineranno nella prigione d’isolamento.
1790 A partire dal semestre invernale 1790-91, divide la stessa camera dello Stift con Hölderlin e con Schelling, ai quali si lega in stretta amicizia; insieme celebrano entusiasticamente gli anniversari della Rivoluzione francese innalzando alberi della libertà. Il suo studio procede incostante, con vaste letture non sistematiche e un continuo spostamento di interessi (autori preferiti sono Aristotele, Platone, Spinoza, Jacobi, Herder e soprattutto Rousseau); la sua oratoria debole e incerta, unita alla pronunciata goffaggine nei movimenti, non lascia ben sperare per una futura carriera di pastore. Il 27 settembre, discutendo la dissertazione del professore A.Fr. Boeck De limite officiorum humanorum, consegue il titolo di Magister philosophiae, che concludeva il primo biennio di studi.
1793 Il 20 settembre, difendendo una tesi scritta dal cancelliere universitario J.Fr. Le Bret dal titolo De Ecclesiae Wirtembergicae Renascentis Calamitatibus, conclude il ciclo di studi allo Stift superando l’esame concistoriale che conferiva il titolo di Kandidat, con il quale ci si poteva avviare alla carriera ecclesiastica. Nell’attestato finale si legge, tra l’altro, che Hegel è Philologiae non ignarus e che Philosophiae nullam operam impendit, cioè: non e’ ignorante di filologia e non ha mostrato alcuna diligenza in filosofia. Non volendo intraprendere la via ecclesiastica, in ottobre Hegel accetta un posto di precettore che alcuni conoscenti, già prima che egli concludesse gli studi, gli avevano procurato a Berna, presso l’aristocratico Karl Friedrich von Steiger.
3. Il precettorato di Berna (ottobre 1793-1796)
e di Francoforte (1797-1800)
1795 A Tschugg, nella tenuta della famiglia von Steiger in cui ha a disposizione una grande biblioteca, tra il 9 maggio e il 24 luglio scrive una Vita di Gesu’ (Leben Jesu, pubbl. postumo a cura di P.Roques, Jena 1906), in cui riassume ricerche di stampo illuministico condotte nel biennio 1793-94 e pervenuteci sotto forma di Frammenti su religione popolare e Cristianesimo (Fragmente ueber Volksreligion und Christentum). Dall’inizio dell’anno, intanto, la lettura di Kant (soprattutto dell’opera La religione entro i limiti della semplice ragione) e’ divenuta il centro dei suoi studi privati.
1796 Porta a compimento lo scritto La positivita’ della religione cristiana (Die Positivitaet der christlichen Religion, pubbl. post., insieme ai Frammenti gia’ citati, in: Hegels Theologische Jugendschriften, a cura di H.Nohl, Tuebingen 1907) e inizia anche la traduzione in tedesco delle Lettere confidenziali sul rapporto costituzionale del cantone di Vaud con la citta’ di Berna dell’avvocato bernese J.-J. Cart, traduzione che sarà poi pubblicata anonima a Francoforte nel 1798 (col titolo Vertrauliche Briefe ueber das vormalige staatsrechtliche Verhaeltnis des Waadtlandes zur Stadt Bern). Pur mantenendo i contatti epistolari con Hoelderlin e Schelling, Hegel si sente isolato e aspira a una nuova sistemazione; attraversa profonde fasi depressive che torneranno a ripetersi anche in seguito. Lo stesso Hölderlin, a cui Hegel indirizza in agosto l’inno Eleusis, riesce infine a procurargli un posto di precettore presso il ricco commerciante J.N. Gogel a Francoforte.
1797 In gennaio si trasferisce a Francoforte sul Meno, dove frequenta intensamente Hölderlin e la sua cerchia di amici (tra cui Isaak von Sinclair, che sara’ sempre vicino al poeta). Continua le letture economiche e politiche inaugurate a Berna (notevole il suo interesse per i giornali inglesi), e approfondisce in senso religioso e speculativo i temi dell’amore e della conciliazione.
1798 Redige un “commentario”, oggi perduto, sulla Metafisica dei costumi di Kant, e scrive il saggio politico Sulle piu’ recenti vicende interne del Wuerttemberg (Ueber die neuesten inneren Verhaeltnisse Wuerttembergs, besonders ueber die Gebrechen der Magistratsverfassung, pubbl. post. in: Hegels Saemtliche Werke, Bd.7: Schriften zur Politik und Rechtsphilosophie, a cura di G.Lasson, Leipzig 1913), in cui lamenta la crisi interna della sua patria e propone l’elezione diretta dei magistrati da parte dei cittadini (in un primo tempo, aveva scritto vom Volk, “dal popolo”, poi cancellato e sostituito dall’espressione vom Buergern). Insieme a Hoelderlin, e in continuo scambio epistolare con Schelling, dà stesura definitiva al Programma di sistema (Systemprogram), “manifesto” dell’Idealismo tedesco progettato nell’aprile 1796 dai tre ex camerati dello Stift di Tubinga. In settembre, Hoelderlin e’ costretto ad allontanarsi da Francoforte a causa dello scandalo per la relazione con Diotima-Susette sposata Gontard, madre dei bambini di cui era precettore: Hegel funge da messaggero tra i due innamorati.
1799 Il 14 gennaio muore il padre e il 9 marzo si reca a Stoccarda per la divisione dell’eredita’. Adesso dispone di un piccolo patrimonio che puo’ dare una svolta alla sua vita; per il suo carattere esistante, pero’, passeranno quasi due anni prima che si decida a partire da Francoforte. A questo periodo risale la lettura e il commento della traduzione tedesca dell’Indagine sui principi dell’economia politica, dell’economista inglese James Steuart.
1800 Porta a compimento lo scritto, iniziato in Svizzera, Lo spirito del Cristianesimo e il suo destino (Der Geist des Christentums und sein Schicksal, pubbl. post. in: Hegels Theologische Jugendschriften, cit.). In settembre scrive il celebre Frammento di Sistema (Systemfragment), in cui annuncia la “fine” della religione e la transizione alla filosofia, e il 29 dello stesso mese conclude la nuova introduzione alla Positivita’ della religione. Dopo molto temporeggiare, decide infine di trasferirsi a Jena, confidando nell’aiuto accademico di Schelling, che gia’ da due anni insegna nella locale universita’. Jena e’ a quell’epoca la roccaforte della filosofia critica e trascendentale e la capitale del nascente Romanticismo: qui hanno insegnato Reinhold (1787-94) e Fichte (1794-98) e brilla attualmente l’astro di Schelling; qui veniva spesso Novalis a trovare l’amata Sophie von Kuehn, morta di tisi nel 1797; qui si sono stabiliti per un certo tempo Tieck, il traduttore tedesco di Shakespeare, e August Wilhelm Schlegel con la bellissima moglie Caroline Michaelis, divenuta poi l’amante di Schelling; qui prende l’abilitazione all’insegnamento Friedrich Schlegel e tiene i suoi famosi corsi sull’estetica. L’universita’ di Jena, inoltre, e’ strettissimamente legata alla vicina Weimer, centro culturale di prim’ordine da quando il granduca Karl August ha scelto Goethe come consigliere segreto di corte e si e’ circondato di uomini come Schiller, Wieland e Herder.
4. Il periodo di Jena (1801-febbraio 1807) e di Bamberga (marzo 1807-novembre 1808)
1801 Hegel arriva a Jena in gennaio, e per quasi un anno prende alloggio da Schelling, in cui vede il suo protettore. In luglio pubblica lo scritto che deve aprirgli la carriera accademica: la Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie in Beziehung auf Reinholds Beitraege zur leichtern Uebersicht des Zustand der Philosophie zu anfang des neunzehnten Jahrhunderts). L’abilitazione vera e propria consiste nella stesura della dissertazione De Orbitis Planetarum, la cui discussione avviene il 27 agosto alla presenza di Karl Schelling, fratello di Friedrich, e di Immanuel Niethammer, al quale sara’ legato da un’amicizia intensa e duratura. Inizia le lezioni come libero docente a partire dall’autunno: i suoi proventi sono magri, e consistono unicamente negli onorari pagati dagli studenti (il cui numero, a Jena, non supererà mai i trenta). Il 21 ottobre, per intercessione di Schelling, ottiene un incontro con Goethe a Weimer: comincia cosi’ un sodalizio destinato a durare trent’anni. Conosce anche il conterraneo Schiller.
1802 Si trasferisce nell’alloggio in Klipsteinischer Garten, da cui non si muovera’ piu’ fino alla partenza da Jena. Il perfetto accordo con Schelling sulle questioni filosofiche fondamentali si traduce nella pubblicazione di un “Giornale critico della filosofia” (“Kritisches Journal der Philosophie”) presso l’editore Cotta di Tubinga; il periodico, che chiuderà l’anno seguente con la partenza di Schelling per Wuerzburg, vede i due amici come redattori unici, e gli articoli dei sei volumi usciti, non essendo firmati, non sempre possono essere univocamente attribuiti. Frutto comune e’ il saggio di presentazione della rivista dal titolo Sull’essenza della filosofia critica in generale (Einleitung. Ueber das Wesen der philosophischen Kritik ueberhaupt und ihr Verhaeltnis zum gegenwaertigen Zustand der Philosophie insbesondere). Sono di mano hegeliana i seguenti saggi: Come il senso comune comprende la filosofia (Wie der gemeine Menschenverstand die Philosophie nehme – dargestellt an den Werken des Herrn Krug’s); Rapporto dello Scetticismo con la filosofia (Verhaeltnis des Skeptizismus zur Philosophie. Darstellung seiner verschiedenen Modifikationen und Vergleichung des neuesten mit dem alten); Fede e sapere (Glauben und Wissen oder die Reflexionsphilosophie der Subjektivitaet in der Vollstaendigkeit ihrer Formen als Kantische, Jacobische und Fichtesche Philosophie); Sulle maniere di trattare scientificamente il diritto naturale (Ueber die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, seine Stelle in der praktischen Philosophie und sein Verhaeltnis zu den positiven Rechtswissenschaften). Inoltre, riprendendo abbozzi che risalgono al periodo di Francoforte, porta a compimento La costituzione della Germania (Die Verfassung Deutschlands, pubbl. post. col titolo Kritik der Verfassung Deutschlands, a cura di G. Mollat, Kassel 1893), in cui anticipa il crollo dell’impero.
1803 Conclude lo scritto sul Sistema dell’eticita’ (System der Sittlichkeit, pubblic. post. a cura di G. Mollat, Osterwieck 1893). Da questo periodo fino alla pubblicazione della Fenomenologia egli traccia la maggior parte degli “abbozzi di sistema” relativi alla logica e alla metafisica, alla filosofia della natura e alla filosofia dello spirito. Tra l’altro, frequenta assiduamente Goethe durante i frequenti soggiorni di questi a Jena. In una lettera del 27 novembre a Schiller, Goethe conferma la sua alta stima per il giovane filosofo e sottolinea un “difetto” oggettivo da cui Hegel non riuscira’ mai a liberarsi completamente: il non saper parlare scioltamente nelle conversazioni in privato; dalle testimonianze degli allievi risulta che anche nelle lezioni la sua oratoria fosse piuttosto incespicante.
1805 Grazie all’interessamento di Goethe, in febbraio viene nominato professore straordinario, ma ancora senza stipendio. Da Schelling apprende con tristezza che le condizioni di Hoelderlin vanno progressivamente peggiorando. Nella seconda meta’ dell’anno, con l’aiuto di Niethammer – che nel frattempo si e’ stabilito a Bamberga -, prende contatti con l’editore J.A. Goebhardt per la pubblicazione del suo prossimo manoscritto.
1806 Ha una relazione amorosa con la sua affittacamere e governante, Christiane Charlotte Fischer sposata Burckhardt. Precipitano gli eventi politico-militari: il 13 ottobre l’esercito francese entra a Jena, e il giorno dopo, nel corso della famosa battaglia, Hegel e’ costretto a spostarsi dall’amico G.A. Gabler perche’ il suo domicilio viene requisito dalle truppe di occupazione. In novembre si mette in viaggio per Bamberga, per regolare tutte le questioni contrattuali pendenti con l’editore Goebhardt.
1807 Ritornato a Jena, il 16 gennaio consegna la “Prefazione” della Fenomenologia dello Spirito (Phaenomenologie des Geistes), la quale vedrà la luce alla fine di marzo. Il 5 febbraio nasce Ludwig, frutto della relazione con Christiane: questo figlio illegittimo gli dara’ in seguito parecchie preoccupazioni. Accogliendo un invito di Niethammer, Hegel abbandona definitivamente Jena e si trasferisce a Bamberga, dove l’1 marzo assume l’incarico di caporedattore giornalistico della “Bamberger Zeitung”; si tratta di un quotidiano dalla veste editoriale assai modesta e con notizie di seconda e terza mano; il compito di Hegel consiste nel raccogliere e redigere queste notizie secondo i dettami della censura. Migliora cosi’ la situazione economica personale. Nella lettera del 2 novembre, Schelling gli comunica le prime impressioni sulla Fenomenologia: al di la’ delle caute parole, la rottura e’ irrevocabile.
1808 Malgrado la prudenza, sono frequenti gli interventi della censura sugli articoli pubblicati dal quotidiano. Alla fine di ottobre, Niethammer, che e’ stato nel frattempo nominato consigliere centrale per l’istruzione a Monaco, annuncia a Hegel la sua nomina a professore di scienze filosofiche propedeutiche e, nel contempo, a rettore dell’Aegidiengymnasium di Norimberga. Lasciata Bamberga, Hegel si insedia ufficialmente nella sua carica di rettore il 6 dicembre 1808.
5. L’insegnamento ginnasiale a Norimberga (dicembre 1808-ottobre 1816)
e quello universitario a Heidelberg (ottobre 1816-settembre 1818)
1809 Nonostante l’irregolarità con cui percepisce lo stipendio, Hegel prende molto sul serio la sua mansione di funzionario e cura assai l’autorevolezza esteriore della sua carica. I manoscritti che gli servono di base per le lezioni verranno pubblicati postumi nel 1840 col titolo Propedeutica filosofica (Philosophische Propaedeutik).
1811 In settembre, si sposa con la ventiduenne Marie von Tucher, appartenente a una famiglia patrizia della vecchia Norimberga, e da cui avrà due figli: Karl (1813-1901) e Immanuel (1814-1891).
1812 Esce il primo tomo del primo volume della Scienza della Logica (Wissenschaft der Logik); il secondo tomo e il secondo volume saranno pubblicati rispettivamente nel 1813 e nel 1816.
1813 Agli incarichi amministrativi aggiunge anche quello di Schulrat, cioe’ sovrintendente alle scuole elementari di Norimberga.
1816 In agosto e’ nominato professore di filosofia all’universita’ di Heidelberg, e il 28 ottobre inizia le lezioni.
1817 A Heidelberg puo’ finalmente accogliere in famiglia suo figlio Ludwig, la cui madre e’ morta. Come co-redattore degli annali dell’universita’ (gli “Heidelbergische Jahrbuecher der Literatur”), respinge un articolo del vecchio amico H.E.G. Paulus sul conflitto costituzionale in atto nel Wuerttemberg; egli stesso scrive sull’argomento un lungo saggio dal titolo Valutazione degli atti a stampa dell’assemblea dei deputati del regno del Wuerttemberg negli anni 1815 e 1816 (Beurteilung der im Druck erschienenen Verhandlungen in der Versammlung der Landstaende des Koenigsreichs Wuerttemberg im Jahre 1815 und 1816), in cui prende le parti del sovrano contro gli stati generali, attirandosi cosi’ le prime ostilità dei liberali. Sempre negli annali, pubblica una recensione sul terzo volume delle opere di Jacobi: i giudizi sul vecchio avversario appaiono piu’ favorevoli rispetto a quelli del “Giornale critico”. In giugno pubblica l’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (Enzyklopaedie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse), della quale usciranno due edizioni accresciute nel 1827 e nel 1830. Fa la conoscenza di Jean Paul – ne resta cosi’ affascinato da proporre di conferirgli una laurea ad honorem – e del filosofo francese Victor Cousin, che diverrà un grande estimatore della filosofia hegeliana. In dicembre, il barone von Stein zum Altenstein, capo del ministero prussiano per l’istruzione e gli affari di culto, offre a Hegel la cattedra di filosofia all’universita’ di Berlino; egli accetta il 24 gennaio successivo, e cosi’ la Prussia si assicura il suo futuro “filosofo di Stato”.
6. L’universita’ di Berlino e i viaggi attraverso l’Europa (settembre 1818-ottobre 1829)
1818 Hegel entra in servizio l’1 ottobre e inaugura i suoi corsi il 22 ottobre con una prolusione in cui riconosce allo Stato prussiano il massimo peso nella Germania post-napoleonica e fissa per la filosofia un posto di rilievo al centro di questo stesso Stato. Non tarderanno a verificarsi conflitti accademici con il giurista von Savigny e, soprattutto, con Schleiermacher, considerato all’epoca il piu’ importante teologo protestante dopo Lutero; proprio il veto di Schleiermacher sara’ decisivo per impedire a Hegel, che pure e’ il protetto di Altenstein, di far parte dell’Accademia prussiana delle Scienze. Terra’ regolarmente due corsi per semestre, dedicandovi da sei a dieci ore settimanali di lezione; l’argomento dei corsi a Berlino coprira’ tutte le discipline filosofiche, dalla logica alla filosofia del diritto, dalla filosofia della storia a quella della religione, dalla storia della filosofia all’estetica. Tutte le Lezioni (Vorlesungen) verranno poi pubblicate dai discepoli.
1819 Il 23 marzo lo studente di teologia C.L. Sand, un estremista membro della Burschenschaft, l’associazione patriottica e radicale delle corporazioni studentesche tedesche, uccide a Mannheim per motivi politici A. von Kotzebue, drammaturgo tedesco che, in qualita’ di consigliere di Stato della Russia, svolgeva attiva propaganda reazionaria per il regime zarista: in Prussia questo atto costituisce il punto di svolta decisivo tra il Congresso di Vienna e la Rivoluzione di Luglio del 1830. Hegel e’ considerato come una delle guide spirituali della Burschenschaft, insieme a Schleiermacher, Fries, W.M.L. de Wette e F.L. Jahn. In luglio inizia la “persecuzione dei demagoghi” da parte delle autorita’ prussiane, nel corso della quale vengono imprigionati diversi allievi ed ex-allievi di Hegel (K. Ulrich, L. v. Henning, G. Asverus, F. Foerster, F.W. Carove’). Il 18 ottobre entrano in vigore in Prussia i Decreti di Karlsbad, con cui si limita soprattutto la liberta’ di stampa e d’insegnamento: Hegel, dopo aver preso nettamente le distanze dal movimento della Burschenschaft (il 9 febbraio e il 2 maggio aveva accettato l’invito a prender parte a due raduni delle corporazioni studentesche berlinesi), e’ costretto a rielaborare il manoscritto, gia’ praticamente terminato alla fine dell’estate, della Filosofia del Diritto.
1820 Il 23 marzo Hegel fa parte della commissione che deve conferire l’abilitazione alla libera docenza a un giovane proveniente da Dresda: Arthur Schopenhauer, il quale, per mancanza di uditori alle lezioni, rimarrà a Berlino solo due semestri. In giugno Hegel e’ nominato membro ordinario della “Regia commissione esaminatrice scientifica” della provincia di Brandeburgo, incarico che terra’ fino al 1822. In luglio fa un breve viaggio a Dresda, con l’intento di visitare la galleria che ospita la “Madonna Sistina” di Raffaello. La sua posizione nell’universita’ di Berlino comincia a consolidarsi ed e’ palpabile il crescente successo delle sue lezioni presso gli studenti. In ottobre cominciano gia’ a circolare i primi esemplari a stampa della Filosofia del Diritto.
1821 Escono i Lineamenti di filosofia del Diritto (Grundlinien der Philosophie des Rechts), i quali, specie con la prefazione, suscitano polemiche per l’apparentemente esplicita adesione all’ordinamento statuale prussiano e ai princi’pi della Restaurazione. Si aggravano intanto le condizioni psichiche della sorella Christiane, la quale in seguito verrà internata in diverse cliniche psichiatriche.
1822 Nella prefazione a un’opera del suo discepolo di Heidelberg H.F.W. Hinrichs dal titolo La religione nel suo intimo rapporto con la scienza (Die Religion im inneren Verhaeltnisse zur Wissenschaft), attacca aspramente la teologia del sentimento sostenuta da Schleiermacher. In settembre visita i Paesi Bassi dietro invito del suo vecchio discepolo di Jena, l’olandese P.G. van Ghert: resta impressionato dal benessere e dall’abbondanza di merci in Olanda e dalla pittura fiamminga (in particolare da van Eyck).
1824 In settembre si reca a Praga e, soprattutto, a Vienna, dove mostra di apprezzare moltissimo l’opera lirica italiana (ascolta addirittura due volte il Barbiere di Siviglia di Rossini).
1825 In seguito all’appropriamento indebito di una modica somma di denaro paterno, il giovane Ludwig viene cacciato di casa e mandato a Stoccarda; qui vive come commesso di negozio, ma dopo una lite col proprietario da’ le dimissioni, e questo fatto provoca la rottura definitiva col padre: Hegel gli impone di non portare piu’ il suo cognome. Ludwig Fischer – dal cognome da nubile della madre – si arruola allora nell’esercito olandese e il 29 agosto parte da Ostenda in direzione Giava. Morira’ di malaria a Giakarta il 28 agosto 1831, e Hegel non sapra’ mai di questa morte che anticipava di appena tre mesi la propria.
1826 In settembre fa la conoscenza del drammaturgo austriaco Franz Grillparzer.
1827 Inizia la pubblicazione della rivista “Annali berlinesi per la critica scientifica” (“Jahrbuecher fuer wissenschaftliche Kritik”), che viene considerato l’organo ufficiale dello hegelismo; tra gli altri, vi collaborano Goethe, i due fratelli Humboldt, il classicista P.A. Boeckh e l’archeologo A. Hirt; la prima recensione hegeliana riguarda l’opera di W. von Humboldt Sull’episosodio del Mahabharata noto col nome di Bhagavad-Gita (Ueber die unter dem Namen Bhagavad-Gita bekannte Episode des Mahabharata, Berlin 1826). Alla meta’ di agosto si mette in viaggio verso Parigi, accogliendo finalmente l’insistente invito di Cousin; ha a disposizione lo studio e la biblioteca di quest’ultimo, e, come gia’ durante il soggiorno a Vienna, va regolarmente a teatro. Sulla via del ritorno, il 18 ottobre avviene il famoso incontro con Goethe a Weimer (il dialogo e’ tramandato da J.P. Eckermann nei suoi Colloqui con Goethe).
1828 Nei primi mesi dell’anno, a causa di un fastidioso “mal di petto”, deve interrompere le lezioni per un certo tempo; il medico gli consiglia una cura termale. Escono negli “Annali” le sue recensioni agli Scritti postumi (Nachgelassene Schriften, Leipzig 1826) di K.W.F. Solger e agli Scritti (Schriften, Berlin 1821-25) di J.G. Hamann. Verso la fine di novembre riceve la tesi di laurea De ratione una, universali, infinita di un giovane bavarese, il quale nella lettera di accompagnamento riassume le proprie vedute sulla religione: si tratta del ventiquattrenne Ludwig Feuerbach; non e’ sicuro che Hegel abbia letto la dissertazione e la lettera allegata.
1829 Escono, sempre negli “Annali”, le sue recensioni a tre opere appena pubblicate: Aforismi sul non-sapere e sul sapere assoluto (Aphorismen ueber Nichtwissen und absolutes Wissen im Verhaeltnisse zur christlichen Glaubenserkenntniss, Berlin 1829), di C.F. Goeschel; Sulla dottrina hegeliana, ovvero sapere assoluto e panteismo moderno (Ueber die Hegelsche Lehre oder absolutes Wissen und moderner Pantheismus, Leipzig 1829), di un anonimo; Sulla filosofia in generale e sull’Enciclopedia hegeliana in particolare (Ueber Philosophie ueberhaupt und Hegels Enzyclopaedie der philosophischen Wissenschaften insbesondere, Berlin 1829), di K.E. Schubarth e L.A. Carganico. Alla fine di agosto si reca alle terme di Karlsbad, e qui incontra casualmente Schelling: nonostante il profondo dissidio filosofico fra i due, l’incontro e’ per entrambi cordiale e perfino piacevole. In ottobre Hegel viene eletto rettore dell’universita’ di Berlino, e durera’ in carica fino all’ottobre successivo; nella sua prolusione tenuta in latino il 18 ottobre, egli celebra l’accordo tra la legge dello Stato e la liberta’ accademica di insegnamento e di apprendimento.
7. Il rettorato e la reazione alle rivoluzioni liberali (ottobre 1829-1831)
1830 Le rivoluzioni liberali in Francia e in Belgio lo riempiono di orrore, ma a Berlino riesce a tenere lontane dall’universita’ tutte le agitazioni politiche: egli si attiene ancora scrupolosamente ai Decreti di Karlsbad, i decreti statali che hanno stabilito lo scioglimento delle corporazioni studentesche, la censura sulla stampa e il controllo sulle universita’. Il 25 giugno pronuncia il discorso commemorativo del terzo centenario della Confessione di Augusta (Augsburgische Konfession), la “carta costituzionale” della Chiesa protestante. In settembre si ammala ed e’ costretto a letto, ma e’ di nuovo in forze al momento di inaugurare il semestre invernale.
1831 Escono negli “Annali” le recensioni ai volumi di A.L.J. Ohlert, L’idealrealismo (Der Idealrealismus, Neustadt 1830), e di J. Goerres, Sul fondamento, la struttura e la successione delle epoche della storia del mondo (Ueber die Grundlage, Gliederung und Zeitenfolge der Weltgeschichte, Breslau 1830). In aprile, la “Gazzetta ufficiale dello Stato prussiano” (“Allgemeine Preussische Staatszeitung”) pubblica una parte dell’ultimo scritto di Hegel, il saggio Sul progetto inglese di riforma elettorale (Ueber die englische Reformbill), in cui egli polemizza contro il costituzionalismo e il parlamentarismo liberale. Finisce di rielaborare il primo tomo della Scienza della Logica (che uscira’ postumo nel 1832), e termina di scrivere la prefazione alla seconda edizione dell’opera il 7 novembre. Il 14 novembre si spegne in poche ore, vittima di un’epidemia di colera – come risulta dagli atti – o di un disturbo gastrico – come sostiene la moglie.
VITA E INTRODUZIONE ALLA FILOSOFIA
Hegel nasce nel 1770, in una generazione particolarmente importante perchè vive l’esperienza della Rivoluzione Francese. Quando essa scoppierà, Hegel avrà quasi vent’anni e sarà studente di teologia; suo compagno di studio sarà Schelling e con lui innalzerà, nel collegio luterano dove studiavano, un ‘albero della libertà’, simbolo della Rivoluzione. E’ interessante questa simpatia giovanile di Hegel per la rivoluzione Francese, soprattutto perchè, in età matura, muterà radicalmente il suo atteggiamento. Vi saranno pensatori, come ad esempio Fichte, che nutriranno sempre simpatia per la Rivoluzione, ve ne saranno altri che nutriranno una cordiale antipatia per essa, vista come il dissolversi della società organicistica e il prevalere del singolo e della proprietà privata. Hegel non farà mai parte dei reazionari, ma rientra nel novero di quegli autori che tendono a riconoscere la positività e il valore di ogni momento della storia, anche dei più drammatici, nella convinzione che, per giungere ad una fase positiva, si deve passare per fasi negative. Il lato positivo degli eventi negativi consiste, secondo Hegel, nel fatto che fossero indispensabili per arrivare alle fasi positive. Bisogna saper trovare la rosa nella croce, dirà Hegel, convinto che ogni negativo sia anche positivo, se visto in funzione della totalità. Queste riflessioni di fondo, ci aiutano a capire perchè Hegel, dopo gli entusiasmi giovanili, sarà molto critico nei confronti della Rivoluzione e vedrà in essa una fase negativa della storia che, come ogni fase, è però anche positiva poichè necessaria. Molto importante nella vita di Hegel, oltre al rapporto con la Rivoluzione, è anche l’amicizia con Schelling, stretta ai tempi del collegio e destinata a terminare nel 1807, quando Hegel ha 37 anni.Hegel, sebbene fosse più anziano, si dichiarerà seguace di Schelling fino al 1807, anno in cui pubblicherà la Fenomenologia dello spirito , con cui prenderà definitivamente le distanze dal maestro. Prima di allora, si era limitato a comporre manoscritti in cui si cimentava in prove di argomento teologico. Tali manoscritti, raccolti sotto il nome di Scritti teologici giovanili , contengono embrionalmente elementi filosofici che Hegel svilupperà in seguito. Significativo è l’articolo pubblicato da Hegel sulla rivista di Schelling e intitolato Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling , in cui prende posizione a favore della filosofia di Schelling, convinto che quella di Fichte sia un idealismo soggettivo , dove cioè è il soggetto a porre l’oggetto. Schelling aveva il merito, spiega Hegel, di aver trovato il principio in una realtà assoluta che fondava l’identità tra soggetto e oggetto e meglio rispondeva alle esigenze proprie dell’idealismo. Fichte, invece, ammetteva che prima dell’identità tra soggetto e oggetto vi fosse già, a sè stante, il soggetto, allontanandosi così in un certo senso dalla nozione centrale dell’idealismo: l’identità tra soggetto e oggetto. Con la Fenomenologia dello spirito (1807), la sua prima grande opera, Hegel si stacca da Schelling e dà la prima formulazione del proprio pensiero, formulazione che resterà press’a poco la stessa per tutto il corso della sua vita. E tuttavia nella Fenomenologia lo stile hegeliano è più vivace e ricco rispetto a quello delle opere posteriori: la realtà stessa appare come un qualcosa di più vivace e dinamico. Probabilmente questo è dovuto al fatto che l’Hegel della Fenomenologia era ancora giovane e vitale, mentre il pensiero posteriore a tale opera tenderà ad istituzionalizzarsi e a cristallizzarsi. L’ultima fase della vita di Hegel è caratterizzata dall’assunzione della cattedra di Berlino e dal continuo sforzo di piazzare suoi seguaci nelle altre cattedre. Non bisogna dunque stupirsi se il dinamismo della Fenomenologia tenda sempre più ad attenuarsi e il sistema hegeliano spinga verso la staticità: Hegel intende fare della propria filosofia un puntello ideologico della Prussia egemonica. Per curiosità, si può notare che nei testi pervenutici delle sue lezioni berlinesi il carattere di staticità presente nelle opere è completamente assente, quasi come se la sua filosofia, espressa oralmente, fosse più libera e meno conservatrice. Passando ad esaminare la Fenomenologia dello spirito , essa è l’opera che segna il distacco da Schelling: se è vero che Hegel apprezzava del suo ex-maestro il fatto che rendeva conto, meglio di Fichte, dell’identità assoluta di soggetto e oggetto, tuttavia criticava aspramente il modo con cui Schelling concepiva e raggiungeva tale identità. In sostanza, Hegel accusa Schelling di aver adottato una banale scorciatoia per giungere all’identità assoluta: la negazione della filosofia e il privilegiamento dell’intuizione artistica. Dopo di che, Hegel, non ancora soddisfatto, biasima anche il modo in cui Schelling concepisce l’Assoluto: l’identità assoluta da cui tutto deriva. Hegel, per criticare il suo rivale, ricorre a due metafore, paragonando il modo in cui Schelling arriva all’Assoluto ad un colpo di pistola e il modo in cui concepisce l’Assoluto ad una notte in cui tutte le vacche sono nere. Schelling è arrivato subito alla destinazione, ovvero all’Assoluto, proprio come un colpo di pistola giunge subito al bersaglio, perchè ha messo l’Assoluto all’inizio, come identità sempre esistita tra soggetto e oggetto; ha poi concepito l’Assoluto in modo confusionario, come incapacità di distinguere il soggetto dall’oggetto per mancanza di luce, come di notte non si distinguono le vacche l’una dall’altra non perchè sono davvero nere, ma perchè non si vede il loro vero colore. Hegel vuole invece pervenire ad una concezione dell’Assoluto in cui si riconosce l’identità ultima della contrapposizione tra, ad esempio, soggetto e oggetto, ma deve essere un’identità alla quale si giunge alla fine , non con un colpo di pistola: non si deve cioè, sulle orme di Schelling, negare fin dall’inizio la contrapposizione tra soggetto e oggetto, bensì bisogna passare per tale contrapposizione e riconoscerne l’identità solo alla fine. Non bisogna dunque smarrire la specificità delle differenze negandola fin da principio. Passando ad esaminare le opere di Hegel, esse sono, nel complesso, divisibili tra Fenomenologia dello spirito e opere del sistema, quelle opere cioè, successive alla Fenomenologia , che delineano il sistema hegeliano. Uno dei grandi problemi su cui si sono sempre arrovellati gli studiosi consiste nel chiarire quale rapporto intercorra tra la Fenomenologia e le opere del sistema: si potrebbe dire, in generale, che la Fenomenologia è il percorso che lo spirito umano compie per acquisire un punto di vista maturo sulla realtà. Tutte le opere successive, invece, descrivono la realtà così come la si vede dal punto di vista acquisito con la Fenomenologia . Non a caso, la filosofia di Hegel è una delle più grandi costruzioni sistematiche mai elaborate, forse anche maggiore del sistema aristotelico; si tratta di una filosofia in cui vi sono le strutture generali di tutta la realtà in tutti i suoi aspetti, in un’epoca in cui, di fronte all’imperare dell’organicismo, si ambiva al sistema. Passata la moda dell’organicismo e, con essa, quella dei sistemi, è però difficile che regga una filosofia di questo genere, che mira ad essere totalizzante. E’ curioso che nel sistema hegeliano si ritrova esplicitamente un pezzetto che si chiama Fenomenologia, come l’opera del 1807: questo si spiega se teniamo conto che il percorso ( Fenomenologia dello spirito ) per acquisire la visuale matura sulla realtà fa parte anch’esso della realtà, proprio come quando, saliti sulla vetta di una montagna, volgendo in basso lo sguardo verso la realtà si vede anche il sentiero che ci ha portati lassù. Le opere del sistema sono parecchie e la più sistematica, che meglio descrive il tutto, è l’ Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio : in essa vi è tutto Hegel e vi si trovano i 3 momenti della sua filosofia:
- Logica
- Filosofia della natura
- Filosofia dello spirito
I tre pezzi, sviluppati nell’ Enciclopedia , Hegel li analizza singolarmente in altre opere, in cui ciascuna delle tre parti si articola in ulteriori divisioni. Ad esempio, nelle Lezioni si occupa dei singoli pezzi della Filosofia dello spirito, nella Scienza della logica tratta analiticamente la logica, o anche nei Lineamenti di filosofia del diritto . Solo la Filosofia della natura non viene chiarita separatamente in apposite opere ed è facile capire perchè: se con la Filosofia dello spirito o con la Logica ci si occupa dell’uomo, con la Filosofia della natura ci si occupa della natura ed Hegel non la apprezzava affatto, tant’è che, giunto di fronte alle Alpi, non provò nulla nè seppe mai apprezzare il cielo stellato di Kant. Ad Hegel interessava lo spirito, la dimensione della cultura e del pensiero, mentre la dimensione della natura, tanto cara ai Romantici, non gli stava a cuore .
Hegel cambia più volte luogo di residenza e la sua filosofia prende solitamente il nome dal luogo in cui si trovava quando l’ha elaborata: vi sarà il periodo di Berna, di Francoforte e di Jena. Al periodo di Jena risale la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling mentre al periodo di Berna e Francoforte risalgono gli Scritti teologici giovanili . Si tratta di scritti per molti versi ancora immaturi, elaborati da un Hegel ancora studente e sono stati scoperti e pubblicati solo dopo la morte del filosofo. Sono interessanti perché mettono in luce la maturazione del pensiero hegeliano, e fanno emergere alcuni aspetti della sua filosofia che resteranno permanenti. Essendo quello hegeliano un pensiero in fieri , si trovano apparenti contraddizioni tra uno scritto e l’altro e bisogna saper cogliere contemporaneamente le differenze che ci sono innegabilmente tra questi scritti ma anche quella sorta di percorso unitario che Hegel segue. L’argomento trattato in tali scritti è la religione e non la teologia, nonostante il titolo: infatti in essi Hegel non parla di Dio (teologia), bensì del rapporto dell’uomo con Dio (religione). E’ importante questa precisazione perché evidenzia come l’interesse di Hegel sia sempre riservato, fin dall’inizio, alla realtà umana, lo spirito . Abbiamo del resto già notato che delle tre parti in cui si articola il pensiero hegeliano l’unica a non essere pienamente sviluppata è la filosofia della natura, che esula dagli interessi di Hegel poiché è convinto che il grande attore dell’intera realtà sia lo spirito, il quale si manifesta in diverse forme, anche ‘alienate’, ovvero apparentemente diverse da sé (e la natura sarà esattamente questo, spirito alienato in una realtà apparentemente diversa da sé). Con queste considerazioni sulle spalle, possiamo ora analizzare nello specifico le varie opere contenute negli Scritti teologici giovanili . Il primo scritto è Religione popolare e cristianesimo (1792-94) dove ‘popolare’ non sta a significare che è una religione divulgativa, bensì vuol dire ‘religione del popolo’ e allude ad una religione che tenda ad identificarsi con l’identità nazionale di un popolo. L’argomento centrale dell’opera è un paragone tra la religione degli antichi Greci e il cristianesimo, un paragone che fin dall’inizio va a tutto vantaggio della religione greca. E’ curioso che uno studente di teologia luterana dichiari esplicitamente la propria preferenza per la religione dell’antico popolo greco. A portare Hegel a privilegiare la religione greca è il rapporto che con essa intercorreva tra individuo e società: si attua ora un paragone tra la figura di Socrate e di Gesù, spesso identificate nel corso della storia per via della loro affinità di pensiero. Hegel la pensa in modo diametralmente opposto e sostiene che il messaggio di Socrate vada privilegiato rispetto a quello di Gesù per via delle differenti richieste che hanno fatto ai loro seguaci. Ai suoi discepoli Socrate non chiede di abbandonare il loro ruolo nella società, ad un militare non chiede di cessare l’attività di militare per poter diventare suo seguace: a nessuno chiede di uscire dalla società, li invita anzi a svolgere normalmente il loro mestiere ma rendendosi conto del senso di ciò che fanno. Sull’altro versante, il messaggio di Gesù può essere riassunto nelle parole che egli rivolge a Pietro invitandolo ad abbandonare il lavoro di pescatore per diventare pescatore di uomini, apostolo: chiede ai propri discepoli di abbandonare il loro ruolo per cambiare radicalmente e per staccarsi dalla società chiudendosi in una nuova identità. Nell’ottica hegeliana, l’atteggiamento di Socrate e della religione greca in generale è migliore rispetto a quello di Gesù e del cristianesimo : nel mondo greco, infatti, la religione non stacca l’uomo dalla società, ma lo fa rimanere in essa dandogli una connotazione e, proprio per questo, la civiltà greca è superiore. Il motivo storico di questo privilegiamento può essere ravvisato nel fatto che Hegel era luterano e Lutero aveva particolarmente insistito, da un lato, sul fatto che i sacerdoti non dovevano affatto essere uomini sganciati dalla società e, dall’altro lato, sulla sacralità del ruolo che ciascuno svolge all’interno della società, quasi come se vi fosse identità tra professione di lavoro e professione di fede. Accanto a queste influenze di matrice luterana, ad indurre Hegel a preferire il mondo greco vi è il rifiuto, tipicamente hegeliano, dell’astratto (dal latino abstrahere , tirare via) a favore del concreto (dal latino concresco , crescere insieme): essendo ‘astratte’ le cose concepite separatamente le une dalle altre e ‘concrete’ quelle concepite le une in relazione alle altre, è evidente che il cristianesimo porta ad un’astrazione, ad una separazione per cui l’uomo sociale diventa altra cosa rispetto all’uomo religioso, mentre il messaggio greco è concretizzante e l’uomo greco è al tempo stesso cittadino, uomo e religioso, senza scissioni interne. Nella religione greca, poi, prevale la collettività, il popolo, e si appartiene a tale religione nella misura in cui si appartiene a quel popolo: appartenere al popolo greco vuol dire avere un certo tipo di religiosità, e viceversa. Nel mondo cristiano vi è netta contrapposizione tra i due aspetti: la religione greca è della collettività, quella cristiana è invece privata. In un clima di acceso anti-illuminismo in cui si nega l’idea che vi sia una religiosità naturale di cui quelle storiche sono deformazioni, è ovvio che Hegel prediliga una religione calata nella concretezza della situazione storica, quale è quella greca. Merita di essere ricordata una cosa: la religione greca, nella sua unità priva di scissioni, desta l’ammirazione di Hegel, il quale, pur considerandola sempre positiva, ne evidenzierà i limiti. Infatti, in una prospettiva tipicamente romantica, vi è l’idea che la perfezione debba passare per la sofferenza e che l’innocenza valga meno della virtù poiché, non avendo ancora vissuto la colpa e il male, è più fragile. L’innocenza è sì la perfezione originaria, ma, proprio perchè non ha ancora conosciuto la colpa, è destinata prima o poi a rompersi: solo attraverso l’esperienza della colpa e il superamento di essa si perverrà a quella virtù che altro non è se non il riproponimento dell’innocenza ad un livello più alto. Ora l’Hegel della Religione popolare e cristianesimo non è ancora arrivato a queste considerazioni ed è ancora convinto che il mondo greco sia caratterizzato da perfetta unità, quello cristiano da una frattura . Successivamente, però, vedrà nel mondo greco l’innocenza originaria destinata a spezzarsi, rinunciando alla nostalgia per quel mondo: era sì un mondo di assoluta unità, ma era anche il simbolo dell’innocenza che doveva essere spezzata per poter riconquistare l’unità ad un livello più alto. Non a caso Hegel, fissando gli sguardi vuoti e bianchi delle statue greche e non sapendo che in origine erano colorate con colorazioni sgargianti, vedrà, sotto l’apparente senso di tranquillità, un velo di mestizia, quasi come se presagissero che il mondo greco, nella sua innocenza, prima o poi dovesse sparire. L’opera successiva alla Religione popolare e cristianesimo è la Vita di Gesù (1795), in cui Hegel sembra dire cose opposte a quelle dell’opera precedente. Si tratta di un’opera di esplicita ispirazione kantiana: se in Religione popolare e cristianesimo vi era una velata critica a Kant e ai suoi dualismi irrisolti (soggetto/oggetto, noumeno/fenomeno, ecc) a cui Hegel contrapponeva il mondo greco, senza frantumazioni, ora invece egli segue il verbo kantiano e vede in Gesù (e nel suo insegnamento di non fare ad altri ciò che non vuoi che sia fatto a te) una sorta di incarnazione dell’imperativo categorico, per cui i comandamenti cristiani altro non sono che gli imperativi della morale. Su questi presupposti, Hegel afferma che la religione cristiana è una religione naturale, che esplicita i contenuti della morale razionale. Poi però, prosegue Hegel, si è verificato un fatto negativo: la positivizzazione del cristianesimo, ovvero l’istituzionalizzarsi storico di tale religione. In questo suo istituzionalizzarsi il cristianesimo ha subito un processo di degenerazione e la Chiesa altro non è che una degenerazione del cristianesimo. E’ un discorso molto illuminista, che tende ad ammettere l’esistenza di una religione naturale divulgata da Gesù e lo storicizzarsi del cristianesimo: e con spirito illuministico, Hegel critica le religioni storiche come degenerazione dell’unica religione razionale. In una terza opera, intitolata La positività della religione cristiana (1795-96), prosegue questo discorso: la cosa curiosa è che possediamo due versioni di quest’opera. Nella versione più antica Hegel prosegue il discorso avviato in Vita di Gesù e vede nella positivizzazione del cristianesimo un male, una sorta di cristallizzazione in culti e in riti che non facevano parte del pensiero originario di Gesù: inoltre Hegel, con un atteggiamento antiebraico che sarà tipico di tutto il suo pensiero, scorge la causa di questa degenerazione nella cultura ebraica, spiegando che Gesù ha comunicato il suo messaggio adattandolo ad un popolo interamente votato alla esteriorità quale è quello ebraico; Gesù stesso, per farsi capire, ha dovuto rendere ritualistico il proprio messaggio, ulteriormente ritualizzato dopo la sua morte. L’antipatia di Hegel per l’ebraismo è dovuta al fatto che in esso vede la tipica religione di quella scissione da lui tanto avversata. Nella seconda edizione muta radicalmente atteggiamento: riconosce che il cristianesimo si è positivizzato, ma lo vede come un fatto altamente positivo poiché convinto, sulla scia di quanto aveva detto in Religione popolare e cristianesimo , che sia preferibile, ad un astratto messaggio religioso staccato dalla vita religiosa, un messaggio concreto: e la positivizzazione fornisce tale messaggio concreto, in quanto trasforma la religione astratta in un’attività concreta, calata nel mondo sensibile. In questo percorso piuttosto tortuoso tra gli scritti di teologia composti in età giovanile, in cui ogni opera sembra negare quanto detto nella precedente, si possono scorgere elementi costanti: ad esempio, l’insistenza sulla concretezza, sul superamento dei dualismi e delle lacerazioni ritornano, anche se nascoste in vesti diverse, in tutte le opere finora esaminate. Di volta in volta il cristianesimo viene visto e valutato in modi diversi: in Religione popolare e cristianesimo Hegel biasimava il cristianesimo per il fatto che esso strappa gli individui alla società, nella 2° versione de La positività della religione cristiana lo elogia e ne esalta la veste materiale e positivizzata, il che è in contrasto con la Vita di Gesù . Eppure c’è un elemento in comune tra le due opere ed è la critica dell’atteggiamento religioso ebraico visto come esasperata separazione tra uomo e Dio: più in generale, ritorna la critica all’astrattezza. E’ come se Hegel, in varie maschere, inseguisse sempre gli stessi concetti di fondo.
Passiamo ora ad esaminare il periodo di Jena e i suoi scritti: il più importante è senz’altro la Fenomenologia dello spirito , ma spicca anche la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling , in cui Hegel si schiera dalla parte del maestro Schelling e della sua filosofia contro Fichte, il cui idealismo viene visto come eccessivamente soggettivo. Ma l’ ‘idealismo’, nel suo significato originario, mette in discussione l’esistenza autonoma dell’oggetto e, in ultima istanza, tende a dire che soggetto e oggetto sono la stessa cosa, ossia che vi è identità tra i due: e questo vale per tutti e tre i grandi idealisti (Hegel, Schelling e Fichte), accomunati dalla critica a Kant per l’aver mantenuto divisioni nella realtà (oggetto/soggetto, essere/dover essere, noumeno/fenomeno, ecc) e per non essere stato in grado di trovare un unico principio . Per Fichte, però, l’oggetto esiste nella misura in cui è posto dal soggetto, il quale riveste così un ruolo più importante rispetto all’oggetto stesso. Se l’aspetto centrale dell’idealismo risiede nell’identità assoluta tra soggetto e oggetto, allora è evidente che Hegel preferisca Schelling e la sua Filosofia dell’identità, per la quale l’intera realtà è riconducibile ad un unico principio che non è nè natura nè spirito, nè oggetto nè soggetto, bensì sta a monte di ogni frantumazione. L’errore di Fichte sta nell’aver sbilanciato tale identità verso il soggetto, unico vero attore del processo di identità. L’idealismo schellinghiano, al contrario, è più equilibrato: è vero che il soggetto pone l’oggetto, ma è anche vero che dall’oggetto viene fuori il soggetto, con la conseguenza che vi è un’identità assoluta tra i due. In realtà, leggendo la Differenza dei sistemi filosofici di Fichte e di Schelling con il senno di poi, ci si accorge che l’adesione hegeliana alla filosofia di Schelling è più apparente che reale: certo lo preferisce a Fichte, però Hegel sta già imboccando una strada nuova rispetto a quella di Schelling. Anche per lui, come per Schelling, ‘ il vero è l’intero ‘ ( Fenomenologia dello spirito ), ovvero la verità più profonda la si trova nel superamento delle differenze, con l’idea di un Assoluto che non è nè oggetto nè soggetto, però comincia ad affiorare la necessità (che accompagnerà Hegel per tutta la sua vita filosofica) che all’interno dell’Assoluto, ovvero all’interno della realtà unitaria, le differenze non debbano essere perse (come è in Schelling), ma debbano invece essere mantenute e riconosciute. Se gli Illuministi sbagliano a concepire la realtà astrattamente come un agglomerato di parti indipendenti le une dalle altre, allo stesso modo sbaglia l’organicismo di Schelling a concepire la realtà come un tutto in cui non si distinguono le parti : Hegel respinge nettamente la concezione astratta degli Illuministi e vede la realtà in chiave concreta, convinto che ogni parte si spieghi solo facendo riferimento al tutto, così come in un albero ogni singola parte (le foglie, le radici, i rami, ecc) esiste e ha una sua funzione solo se si fa riferimento al tutto, cioè all’albero stesso; tuttavia nella concezione concreta cui Hegel fa riferimento le parti, anche se inserite nel tutto, non perdono il loro significato autonomo (come avviene in Schelling). In altri termini, Hegel ci chiede di capire ogni parte in funzione del tutto, ma ciò non toglie che le singole parti continuino ad esistere nel tutto, differenti fra loro : per tornare all’immagine dell’albero, le singole parti si spiegano solo facendo riferimento al tutto, ma il tutto si spiega come unione delle singoli parti che restano distinte le une dalle altre . Così l’astrattismo illuminista, che vede il proprio baluardo conoscitivo nell’intelletto come capacità di distinguere le parti, sbaglia allo stesso modo dell’organicismo schellinghiano, che nel tutto non coglie parti differenti: sbagliano gli Illuministi a vedere nell’albero solo le singole parti, sbaglia Schelling a vedere l’albero senza le singole parti. Bisogna dunque saper cogliere le parti nel tutto . Ecco dunque che a distinguere Hegel da Schelling è la convinzione che si debba, sì, cogliere il tutto, ma anche le parti nel tutto, poichè il tutto è veramente tale nella misura in cui deriva dai rapporti che legano le singole parti . L’Assoluto cui perviene Schelling è invece un tutto in cui non si distinguono parti, una notte in cui tutte le vacche sono scure, ovvero un qualcosa in cui le singole parti si perdono confusamente nel buio del tutto. Hegel critica anche aspramente l’uso limitato dell’intelletto: da solo, esso non basta, bensì è necessario l’ausilio della ragione la quale ricollega a formare un tutto ciò che l’intelletto ha separato. Sempre nella Fenomenologia, Hegel spiega che se è legittimo, e anzi necessario, l’uso dell’intelletto e della ragione, è invece vietato l’uso dell’intuizione, ovvero la pretesa di cogliere per intuizione artistica (come ha fatto Schelling) il principio unitario: Schelling arriva immediatamente (con un colpo di pistola, dice Hegel) all’Assoluto come punto di partenza del ragionamento, e da lì deriva in qualche maniera le varie differenze che ci sono nella realtà. Il percorso che fa Hegel è opposto ed esula dalla pretesa di cogliere l’Assoluto immediatamente. Tale percorso è così articolato:
- analizzare con l’intelletto le differenze della realtà
- identificate tali differenze, cogliere le relazioni che le mettono in collegamento le une alle altre
- costruire con tali relazioni la totalità, vedendo come cose diverse e anche opposte si richiamano ad un unico principio
- e arrivare dunque all’Assoluto (come punto d’arrivo e non di partenza), all’identità tra soggetto e oggetto, identità in cui però si colgono ancora le singole parti.
COSCIENZA
CERTEZZA SENSIBILE
PERCEZIONE
INTELLETTO
AUTOCOSCIENZA
SERVO-PADRONE
STOICISMO-SCETTICISMO
COSCIENZA INFELICE
RAGIONE
SCIENZA MODERNA
AZIONE INDIVIDUALE
ETICITA’
SPIRITO
BELLA ETICITA’
REGNO DELLA CULTURA
SAPERE ASSOLUTO
Che la dialettica sia legge di funzionamento al tempo stesso della realtà e del pensiero proprio perchè pensiero e realtà, in ultima istanza, sono la stessa cosa, Hegel lo sostiene sia nella Fenomenologia dello spirito (1807) sia, in modo ancora più dettagliato, nel Sistema . Il Sistema stesso è una grande triade dialettica costituita da idea, natura e spirito: la natura è la negazione dell’idea, e lo spirito è la negazione della negazione (ovvero negazione della natura) e ripropone l’idea ad un livello più alto dopo il passaggio per la natura. In un’ottica pienamente romantica, Hegel concorda sul fatto che ciò che passa per un percorso doloroso ne trae giovamento e si ripresenta arricchito: il romanzo di formazione, produzione fiorita in età romantica, non è altro se non la descrizione delle travagliate vicende del protagonista, il quale, in virtù del dolore e delle difficoltà che lo tormentano, si ritrova ad un livello più alto rispetto a quello da cui era partito. Hegel è perfettamente in sintonia con questo pensiero ed è convinto che nella sofferenza affiori il bene, cosicchè è sempre possibile cogliere ‘ la rosa nella croce ‘: anche ciò che si caratterizza come altamente negativo può essere sempre visto come positivo, sicchè ‘ ogni negativo è sempre anche positivo ‘: non c’è dunque da stupirsi se il sistema filosofico hegeliano fu uno dei più ottimistici della storia. Per alcuni versi la stessa Fenomenologia si configura come romanzo di formazione, per via dello spirito di narrazione che la pervade: l’eroe di cui si descrivono le travagliate vicende è lo spirito, ovvero il principio unitario attore dello sviluppo dell’intera realtà. Lo spirito è, in altri termini, quella cosa misteriosa che si presenta al tempo stesso come soggetto e come oggetto. Ma, come abbiamo visto, Hegel nella prefazione alla Fenomenologia spiega che alla risoluzione del soggetto e dell’oggetto in unità si perviene solo alla fine di un lungo percorso, grazie al quale non si smarrisce la specificità delle differenze, visto che si costruisce l’Assoluto grazie ad esse, ovvero riconoscendo che sono legate le une alle altre e che da tali legami scaturisce appunto la totalità. Schelling, ponendo l’Assoluto all’inizio del percorso, ha smarrito la specificità delle differenze, spiega Hegel aggiungendo che il punto di arrivo del processo che intende compiere sarà dato dalla dimostrazione dell’unità di soggetto e oggetto: ed è proprio da quel punto che si potrà guardare all’intera realtà in modo corretto. Ecco che, in quest’ottica, il Sistema può essere inteso come descrizione del panorama della realtà vista dalla vetta della conoscenza cui si è pervenuti; la Fenomenologia , invece, può essere concepita come il sentiero che porta alla vetta. Nella Fenomenologia , infatti, Hegel tratteggia il percorso dello spirito che giunge in cima passando per sofferenze immani e anche il sentiero tramite il quale si è giunti alla vetta, nota il filosofo, fa parte della realtà come la si vede dalla cima. Lo spirito passa da livelli di coscienza bassissimi fino a livelli elevatissimi: ed è per questo che la Fenomenologia è storia dello spirito ma anche della coscienza, quasi come una sorta di grande riassunto dell’intero percorso compiuto dall’umanità nella storia e che ciascuno è tenuto a compiere dentro di sè, individualmente. Infatti lo scopo di tale percorso individuale consiste nel vedere dentro di sè, individualmente, cosa ha fatto l’umanità nella sua storia. E’ opportuno notare che il percorso si articola in triadi dialettiche e il punto di arrivo di ciascuna triade è il punto di partenza per la successiva. Ogni triade, poi, ha un suo nome poichè rappresenta una tappa, ma essendo ogni triade costituita da 3 ‘sotto-tappe’, capita spesso che il nome di una ‘sotto-tappa’, ovvero di una delle 3 parti in cui si articola la triade, dia il nome all’intera triade (o tappa, per restare nell’ambito dell’immagine dell’ascesa al monte) di cui fa parte. Si può però notare (e qui sta la cosa interessante) che è sempre o il 1° o il 3° momento della triade a conferire il nome all’intera triade. Questa apparente stranezza, è spiegabile tenendo a mente che il processo dialettico non è mai casuale, anzi è teleologico: il che implica che tutto ciò che verrà fuori alla fine del processo sia preordinato fin dall’inizio e che per manifestarsi necessiti di una serie di passaggi. Non a caso Hegel, oltre a sostenere che ‘ il vero è l’intero ‘, dice anche che ‘ il vero è il risultato ‘, con l’idea che tutto ciò che verrà dopo sia già in germe presente fin dall’inizio come progetto verso un obiettivo, ma che, al tempo stesso, a dare senso a tutto il processo è il punto d’arrivo, il risultato. E il nome dell’intera tappa corrisponde a quello della prima o della terza sottotappa che la costituisce proprio perchè il senso della triade è dato o dalla prima tappa (in cui vi è già embrionalmente tutto ciò che si dovrà sviluppare poi) o dalla terza (poichè il senso pieno della triade è dato dal risultato). Proprio per questo motivo, non è un caso che l’opera sia intitolata Fenomenologia dello spirito , dove lo spirito è il nome specifico dell’ultima tappa (o triade) dell’intero processo tratteggiato, quella in cui viene superata la distinzione soggetto/oggetto: in senso pieno, solo alla fine è spirito, ma in senso lato è spirito fin dall’inizio . Possiamo appropriarci delle parole di Nietzsche per dire che la Fenomenologia , in sostanza, è la storia di come si diventa ciò che si è: lo spirito è tale fin dall’inizio del processo, ma in senso pieno lo è solo alla fine quando riuscirà a riconoscersi. Ma la Fenomenologia , dicevamo, è anche una storia della coscienza e, non a caso, ‘coscienza’ è il nome del primo momento della prima triade che si incontra nell’opera: pur essendo solo la tappa iniziale, nella coscienza è già però embrionalmente presente, grazie al procedimento poc’anzi illustrato, tutto ciò che si svilupperà in seguito. Il termine ‘fenomenologia’, poi, ha un senso particolare tutto hegeliano: è il manifestarsi dello spirito, come se esso non avesse sempre le stesse manifestazioni, è come se si manifestasse attraverso una serie successiva di figure di cui ciascuna è sì manifestazione dello spirito ma presenta, se esaminata approfonditamente, alcune contraddizioni che vengono superate dialetticamente. In altri termini, la prima figura in cui lo spirito appare (da qui il termine ‘fenomenologia’, dal greco fainomai , ‘appaio’), se scavata in profondità, presenta contraddizioni e viene superata da una figura più alta che però, in virtù del procedimento dialettico, tiene conto della precedente e delle sue contraddizioni e proprio per questo risulta arricchita. La fenomenologia consisterà dunque nella descrizione delle manifestazioni dello spirito e ogni figura sarà solo apparenza (ovvero ‘fenomeno’) dello spirito, come se esso si manifestasse sempre in modo provvisorio. Per molti versi la Fenomenologia dello spirito svolge le stesse funzioni della Critica della ragion pura di Kant: entrambe le opere, infatti, hanno una funzione propedeutica, non descrivono la realtà ma il percorso che occorre fare per conoscerla. Tuttavia vi è un’enorme differenza tra le due opere: in Hegel non vi è assolutamente quella differenza tipicamente kantiana tra ‘modo di conoscere’ e ‘conoscere’, tant’è che Hegel descrive fin dall’inizio la conoscenza umana, senza interessarsi minimamente degli strumenti gnoseologici a disposizione dell’uomo e staccandosi in questo modo da quella tradizione che, partita da Bacone e passata per Cartesio e Locke, era giunta fino a Kant. Hegel non si chiede come si possa conoscere prima di conoscere effettivamente e il motivo è molto semplice: egli dice esplicitamente, con linguaggio metaforico, che ‘ non si può imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua ‘. Con quest’espressione, Hegel critica la pretesa kantiana di imparare a nuotare (fuor di metafora, a conoscere) prima di entrare in acqua, ovvero a contatto con la realtà: ecco perchè Hegel fin dalle prime pagine della Fenomenologia illustra l’esperienza dello spirito umano affinchè ciascuno la ripercorra in se stesso. Siamo di fronte all’ennesimo caso di critica hegeliana all’astratto,ovvero alla separazione kantiana tra indagine sugli strumenti conoscitivi e indagine sulla realtà, a favore del concreto, cioè alla convinzione che la conoscenza degli strumenti gnoseologici la si può ottenere solo conoscendo concretamente la realtà. Sempre per una fedele adesione al concretismo, Hegel non pone nella Fenomenologia esclusivamente tappe conoscitive poichè convinto che non si possa separare la conoscenza vera e propria dal resto dell’esperienza conoscitiva. Ecco perchè se alcune tappe saranno meramente conoscitive, altre lo saranno ma risulteranno calate concretamente nella realtà storica, sicchè Hegel potrà tranquillamente citare alcuni momenti della storia della scienza o della filosofia: vi saranno perfino dei momenti che non avranno nulla a che vedere con la conoscenza, come ad esempio la dialettica servo-padrone, ovvero l’indagine su come nasca la servitù (indagine sulla quale si soffermerà Marx con particolare attenzione). Questo sta a dimostrare che l’esperienza descritta da Hegel è la maturazione globale dell’uomo, non solo sul piano conoscitivo. Le quattro tappe fondamentali in cui si articola la Fenomenologia sono: - coscienza
- autocoscienza
- ragione
- spirito
La coscienza altro non è se non la prima forma di rapporto che l’uomo ha con la realtà. Hegel è un filosofo idealista ma allo stesso tempo realista e per di più imbevuto di razionalità, tant’è che uno dei suoi motti sarà ‘ tutto ciò che è reale è razionale ‘. Nella Fenomenologia non parte dagli all’epoca in voga misteriosi discorsi sull’intuizione della realtà, ma anzi parte dall’esperienza concreta e comune a tutti gli uomini: la prima tappa della coscienza è la certezza sensibile , quella che si ha non appena si viene al mondo e consiste nel vedere il soggetto e l’oggetto nettamente separati. In altre parole, non appena si aprono gli occhi sul mondo, si è convinti (ecco perchè ‘certezza sensibile’) che tutto ciò che ci circonda, ovvero il mondo, sia altra cosa rispetto a noi. Io sono il soggetto, il mondo è l’oggetto: questa è la tesi. Il meccanismo dialettico induce poi a scavare più in profondità per trovare elementi contradditori nella tesi e per giungere, alla fine, all’antitesi. La certezza sensibile è, in primo luogo, la percezione che ho di un oggetto hic et nunc , qui ed ora: percepisco ‘ un questo ‘, dice Hegel, qui e adesso. Sembra proprio che la certezza sensibile sia indiscutibile, assolutamente certa, anzi sembra essere la più grande certezza che si possa avere: quando percepisco una cosa, la mente non ha ancora cominciato a lavorarci sopra e dunque parrebbe essere una vera e propria certezza. Tuttavia, fa notare Hegel, quando percepisco qualcosa, non posso ancora dire che percepisco una penna o una matita, ad esempio, ma devo limitarmi a dire che percepisco ‘ un questo ‘, ovvero una singola cosa non meglio identificata: dire che percepisco una penna significa fare un passo avanti, significa inquadrare con l’intelletto quel qualcosa in una categoria. Potrò dire, per restare nella certezza sensibile, che percepisco ‘ un questo ‘ e nulla più: se ne evince che la conoscenza che in apparenza era la più solida ricca, si rivela invece, se meglio analizzata, esattamente il contrario, una vuota percezione. Ecco che si attua l’antitesi e ci troviamo di fronte ad un tipico capovolgimento dialettico: ciò che sembrava essere la cosa più certa, diventa all’improvviso la più incerta. Sempre nell’ambito della coscienza, i due momenti successivi alla certezza sensibile sono la percezione e l’intelletto. La percezione altro non è se non la comune percezione sensibile, il percepire le cose come unione di qualità sensibili. Anch’essa, però, presenta, come la certezza sensibile, alcune contraddizioni che devono essere superate: la principale contraddizione della percezione consiste nel fatto che il suo oggetto è al tempo stesso uno e molteplice. Quando ho percezione di un libro, infatti, l’unità di esso si frammenta nella molteplicità delle parti che lo costituiscono (il colore, la forma, il peso, ecc). La distinzione rispetto alla certezza sensibile risiede nel fatto che con la percezione non si percepisce ‘ un questo ‘ non meglio identificato, ma un insieme di qualità che costituiscono un’unità (un libro, una penna, una casa, e così via). Si supera la percezione e si passa così ad un terzo momento, quello dell’ intelletto : l’oggetto non viene più percepito in quanto tale, ma come manifestazione di una legge generale della natura. E’, in altri termini, l’atteggiamento scientifico, per cui ogni singolo fenomeno che si verifica è una particolare manifestazione di una legge fisica. Da notare che si sta costantemente salendo di livello: la percezione non è più un mero coglimento sensibile come era nella certezza sensibile, è già un radunare le qualità intorno ad una cosa; con l’intelletto, poi, ci si innalza ulteriormente ma il processo non è ultimato: giunti all’intelletto, scatta il passaggio all’ autocoscienza . Hegel, influenzato dall’insegnamento kantiano, ritiene che sia il nostro stesso intelletto a porre le leggi a quella natura di cui ogni singolo fenomeno è manifestazione. Le leggi della natura, dunque, è il nostro stesso intelletto a porle: con queste considerazioni di carattere kantiano, con l’intelletto si arriva ad un primo superamento della contrappoosizione soggetto-oggetto, comincia cioè ad affacciarsi timidamente l’idea che soggetto e oggetto non siano, in fin dei conti, due entità radicalmente opposte tra loro. Prima che si giungesse al momento dell’intelletto, vi era un soggetto che conosceva e un oggetto (il mondo) che era conosciuto. Ma se ogni fenomeno che percepiamo è manifestazione della legge della natura ed essa è posta dal nostro stesso intelletto, allora dalla coscienza si passa all’autocoscienza: prima, infatti, si trattava di un soggetto che aveva coscienza di un oggetto; poi ci si è accorti che tale oggetto non è radicalmente distinto dal soggetto, ma anzi è il soggetto, dunque quella che era coscienza di un oggetto esterno diventa coscienza di sè, ovvero autocoscienza. Finora Hegel ha illustrato momenti esclusivamente conoscitivi: improvvisamente, appena si entra nella ‘tappa’ dell’autocoscienza, ci si imbatte in una sfilza di nuove figure storiche e, almeno in apparenza, esulanti dalla gnoseologia. Il primo momento dell’autocoscienza è infatti la dialettica servo-padrone . Sembra che Hegel stia ora descrivendo un altro tipo di realtà rispetto a quello tratteggiato nei tre momenti della coscienza, ma dobbiamo tenere a mente che la Fenomenologia è la storia dell’esperienza umana in generale e tale esperienza non è esclusivamente gnoseologica. Per passare dalla sfera conoscitiva della coscienza a quella storica dell’autocoscienza, Hegel segue un ragionamento ben preciso: l’autocoscienza viene acquisita in senso generale, poichè giunti all’intelletto si intuisce che l’oggetto non è nettamente staccato dal soggetto, ma resta comunque una conoscenza di sè in forma embrionale e per svilupparla è necessario passare alle fasi storiche. Infatti, un’autocoscienza non potrà mai svilupparsi pienamente se non in un rapporto con un’altra autocoscienza, poichè essa è l’uomo e l’uomo non potrà mai avere coscienza di sè se non in rapporto con gli altri uomini. E qui emerge bene come la filosofia hegeliana sia, oltre che dinamica, irrequieta, quasi drammatica. Rifacendosi ai vari pensatori dell’antichità, Hegel confessa il proprio amore per Eraclito, il filosofo del divenire, sostenendo di condividere tutto quel che egli predicò, in particolare l’unità e la contrapposizione degli opposti per cui ‘ non si può capire cosa sia la salute se non in riferimento alla malattia ‘ o ‘ la strada che sale è la stessa che scende ‘. La realtà, nella prospettiva eraclitea e anche in quella hegeliana, è un confronto-scontro tra gli opposti e da tale conflittualità emerge l’unità degli opposti. In particolare, Hegel si richiama ad Eraclito e alla sua concezione secondo la quale Polemos (la guerra) è ‘ signore di tutte le cose ‘ per sostenere che la realtà è conflitto , mai pace, a tal punto che Hegel, convinto che la vera vita sia dove c’è conflitto, arriverà a dire che nella storia le pagine di pace sono pagine bianche. In questo senso, si può capire benissimo perchè Hegel, quando dice che per svillupparsi l’autocoscienza necessita di un rapporto con un’altra autocoscienza, alluda ad un rapporto conflittuale e non di pacifico confronto, nella convinzione che lo scontro sia la natura profonda dell’incontro. Entrando nel dettaglio della dialettica servo-padrone, Hegel spiega che l’uomo (l’autocoscienza) ha bisogno di un altro uomo (un’altra autocoscienza) per svilupparsi attraverso rapporti conflittuali. Però, tali rapporti conflittuali non devono mai portare all’annullamento dell’autocoscienza antagonista, poichè un’autocoscienza non può davvero essere tale se non in rapporto con altre autocoscienze, come se, venendo meno uno dei due opposti, anche l’altro si sgretolasse. Perciò il rapporto-conflitto tra le autocoscienze non porta mai alla distruzione totale di uno dei rivali, bensì porta all’asservimento, ovvero al prendere possesso in forma di schiavitù dell’autocoscienza antagonista: un’autocoscienza diventa padrona, l’altra schiava. Naturalmente a diventare padrona sarà l’autocoscienza più forte, ma Hegel, secondo i dettami dell’idealismo, non fa riferimento alla forza fisica e materiale, ma a quella spirituale e dice testualmente che ‘ coloui che diventa padrone è colui che non ha avuto timore della morte ‘. C’è chi, piuttosto di diventare schiavo, preferisce correre il rischio della morte e chi, viceversa, piuttosto di correre il rischio della morte, preferisce diventare schiavo: in altre parole, vince per davvero chi fa prevalere dentro di sè l’aspetto spirituale (rifiutando la servitù) e riesce a sconfiggere quello materiale (il timore della morte della carne). Disprezzando la servitù e preferendo la morte, si trionfa, ancor prima che sul nemico, all’interno di se stessi, facendo vincere la spiritualità. Chi privilegia la materialità a discapito della spiritualità, rifiuta la morte e ad essa preferisce la schiavitù. I contemporanei, amarono Hegel per la sua capacità sistematica, oggi, invece, ciò che di lui si ammira sono alcune singole riflessioni e, senz’altro, quella sulla dialettica servo-padrone rientra a pieno titolo nella categoria. Già Marx la apprezzò in modo particolare per la grande abilità con cui Hegel tratteggia la nascita della schiavitù, ma ancora di più per il fatto che Hegel dimostra, con la tecnica del capovolgimento dialettico, che il rapporto di schiavitù tende a stravolgersi nel suo contrario con la conseguenza che il vero padrone è il servo. Infatti, fa notare Hegel, il rimedio di asservire l’altra autocoscienza senza eliminarla, in realtà porta comunque all’eliminazione di essa, poichè si finisce per considerare l’autocoscienza-serva non più come un’autocoscienza, ma come una ‘cosa’. Infatti, il padrone, come già aveva dimostrato Aristotele, considera il proprio servo come una cosa, alla pari del bue o dell’aratro. Ne consegue che, essendo il servo una ‘cosa’ agli occhi del padrone, l’unico ad avere di fronte a sè un’autocoscienza è il servo appunto, poichè egli, nel padrone, continua a scorgere un’autocoscienza. Il padrone, non avendo più un’autocoscienza con cui confrontarsi, perde la propria stessa natura di autocoscienza e alla fine il vero padrone è il servo stesso, l’unico che si confronti con un’autocoscienza. Diverso sarà anche il rapporto col mondo materiale: il padrone non lavora, il servo sì, e lavorare significa dominare le cose mettendo l’impronta dello spirito nella materia. Il padrone, dal canto suo, vive la natura passivamente e non impone su di essa il proprio suggello: siamo di fronte al capovolgimento dialettico per cui ad essere veramente importante è il servo e non il padrone. Marx resterà affascinato dalla dialettica hegeliana, ma le muoverà la critica di essere ‘ una dialettica capovolta, che poggia sulla testa ‘, ovvero le rimprovererà il fatto di poggiare sulle idee e non sulla materialità: a Marx, fervido sostenitore del materialismo, non basta che il padrone sia padrone materialmente e che il serrvo sia padrone spiritualmente e la stessa dialettica cui egli mira non è quella hegeliana fatta di idee stampate sui libri, bensì è la rivoluzione combattuta sulle piazze in cui il servo prende il proprio dominio materiale. Nell’ottica hegeliana, il servo è comunque superiore al padrone poichè il lavorare conferisce superiorità. Hegel concepisce la posizione dello spirito nella materia attuata dal servo con il lavoro come alienazione . Il termine ‘alienazione’, che nel linguaggio giuridico propriamente designa il cedimento del possesso di qualcosa, in Hegel riveste un significato particolare: alienazione per Hegel vuol dire cedere parte della propria essenza, quasi come se il lavoro facesse smarrire nella materia una parte della spiritualità del servo. Ecco perchè per Hegel il lavoro è intrinsecamente alienante e significa porre spiritualità nella materia; per Marx, invece, il lavoro non sarà alienante intrinsecamente, anzi esso sarà considerato come la massima realizzazione dell’uomo, una sorta di umanizzazione della natura in cui si supera la distinzione tra soggetto e oggetto coi fatti e non con le idee: trasformare la natura col lavoro vuol dire, infatti, ricondurla al soggetto, antropizzarla. L’uomo, secondo Hegel, è per natura homo sapiens e dunque il lavoro è alienante perchè gli provoca la perdita di spiritualità; per Marx, invece, l’uomo è homo faber e pertanto il lavoro si colora di positivo, ma diventa alienante quando è sfruttamento, quando cioè il suo frutto è strappato al lavoratore tramite i rapporti di sfruttamento della produzione capitalistica, come se l’elemento di umanità posto nella materia venisse brutalmente strappato via.Il lavoro è oggettivazione dell’uomo rispetto alla natura sia per Hegel sia per Marx, ma per Hegel lo è intrinsecamente (l’oggettivazione stessa è alienazione) mentre per Marx lo è nella misura in cui si configura come sfruttamento. Dopo la parentesi della dialettica servo-padrone, si sviluppano i successivi momenti dell’autocoscienza, caratterizzati per essere momenti di cultura, dall’età antica a quella moderna. Abbiamo già notato che alcune triadi dialettiche sono atemporali (ed è il caso della coscienza e dei suoi tre momenti), altre temporali e storiche poiché i successivi momenti sono collocabili storicamente lungo una sequenza cronologica. Tuttavia, anche quando Hegel parla di tappe storiche non dobbiamo pretendere che egli segua una successione rigidamente cronologica, poiché sta semplicemente descrivendo tappe logiche di uno sviluppo che spesso (ma non sempre) seguono un loro ordine cronologico. Nello stesso studio della storia, del resto, si parla delle varie tappe dello stato moderno, ma sono tappe ‘ideali’ che non trovano un preciso riscontro nella realtà: si tratta semplicemente di un modo di ricostruirla in una sequenza temporale, senza ad esempio tener troppo conto delle varie differenziazioni tra uno stato e l’altro. Anche quelle che Hegel tratteggia sono tappe ideali, diverse dalla storia vera e propria: ed è proprio questa la differenza che Hegel scorge tra una filosofia della storia quale è la sua e una storia cronologica, pura elencazione di fatti in ordine cronologico. E’ opportuno, insiste Hegel, cogliere gli elementi di razionalità che reggono la storia secondo tappe ideali, evitando di incappare in una pedante descrizione di fatti. Dopo la dialettica servo-padrone, troviamo dunque tappe storiche, ma si tratta di tappe che non riguardano la storia delle relazioni sociali (come la dialettica servo-padrone), bensì la storia della cultura. La prima tappa è costituita dallo Stoicismo e dallo Scetticismo. Se la dialettica servo-padrone si è conclusa con le considerazioni sul lavoro, inteso come smarrimento della propria spiritualità nella materia, spetta allo stoicismo il merito di aver tentato di uscire da questa nuova situazione insegnando che a contare non è la condizione materiale in cui ci si trova (tant’è che furono allo stesso modo Stoici un re, Marco Aurelio, e uno schiavo, Epitteto). Lo Stoicismo nega l’importanza del mondo materiale, lo Scetticismo porta alle estreme conseguenze queste considerazioni e arriva a mettere in dubbio l’esistenza di un mondo esterno al soggetto. Ci troviamo ancora una volta di fronte ad un rapporto dialettico: scavando fino in fondo, scatta un meccanismo che capovolge l’intera situazione in cui si è giunti. Con la dialettica servo-padrone l’uomo risulta schiavo del mondo materiale incarnato dal lavoro: nasce l’esigenza di liberarsi da esso e lo Stoicismo propone una soluzione invitando a comportarsi come se il mondo materiale non esistesse. Lo Scetticismo, però, spinge fino in fondo il ragionamento e conclude che, se si deve dubitare dell’esistenza del mondo materiale, allora si deve dubitare di tutto, coscienza compresa. Il risultato è che la coscienza stessa, insieme a tutto il resto, perde valore e fiducia in se stessa: è quello che Hegel designa col nome di momento della coscienza infelice . Persa ogni fiducia in se stessa, la coscienza è ‘infelice’, tende quasi a denigrarsi, e, non riuscendo più a trovare un valore in se stessa, lo cerca in tutto ciò che le è opposto. Fuor di metafora, questa è la tappa del Medioevo cristiano: Hegel negli Scritti teologici giovanili aveva valutato positivamente il cristianesimo, però ora si rifiuta di guardare con simpatia al Medioevo (a differenza della maggior parte dei Romantici) poiché in esso vede l’ascetismo, l’automortificazione di un uomo dalla coscienza infelice, che vede Dio come oggetto a sè opposto, come se Dio fosse tutto e l’uomo nulla. Il presupposto del discorso hegeliano, è bene ricordarlo, consiste nella convinzione che la distinzione tra soggetto e oggetto sia solo apparente, non reale: la coscienza in età medioevale non riesce a capire (e per questo soffre) che quel Dio potente che vede a lei opposto in realtà è lei stessa. Letto in trasparenza, è un po’ quel che Hegel, in età giovanile, rimprovera alla mentalità ebraica e alla sua tendenza a vedere Dio opposto all’uomo. Da qui sorge la dialettica della coscienza infelice: l’uomo cerca di superarla in età medioevale tramite l’esperienza mistica che porta, attraverso l’esperienza dell’estrema mortificazione di se stessi, ad una sorta di identità uomo-Dio, l’opposto da cui si era partiti. Con questo capovolgimento dialettico per cui si parte dalla concezione di un Dio radicalmente opposto all’uomo per arrivare con la mistica alla concezione di un’unità inscindibile tra uomo e Dio, si chiude la seconda tappa (autocoscienza) della Fenomenologia e si apre la terza, la tappa della ragione . Hegel definisce la ragione come ‘ certezza di essere ogni realtà ‘. Vi è dunque quel passaggio da mistica a ragione che vi è stato anche nella realtà storica, quando dal Medioevo si è passati al Rinascimento. La ragione è ‘ certezza di essere ogni realtà ‘ grazie all’esperienza mistica: con essa, infatti, l’uomo si è assimilato a Dio e ha acquisito la certezza di essere ogni realtà, ovvero ha superato il dualismo soggetto/oggetto. Mistica e ragione sono pertanto due passi contigui: da notare che Hegel usa l’espressione ‘certezza di essere ogni realtà’ e non ‘sapere di essere ogni realtà’, poiché se fosse un sapere sarebbe già il punto di arrivo. ‘Certezza’, invece, è il punto di partenza, è la dichiarazione generale che il soggetto ha acquisito consapevolezza di essere ogni realtà: dopo tale dichiarazione, spetta alla ragione cercare se stessa nella realtà, quasi come se si sapesse ciò che si è ma si dovesse cercare di capire il come e il perché. Si tratterà pertanto di una ricerca che la ragione conduce nella realtà in cerca di se stessa. La prima tappa è costituita dalla scienza moderna: la ragione con la scienza effettua una prima esperienza della ragione nella realtà stessa. Scopre cioè leggi nella realtà ed esse altro non sono se non manifestazioni della ragione stessa. Anche a proposito dell’intelletto (nella tappa della coscienza) si parlava di scienza, ma là era una tappa gnoseologica, qui è una tappa storica: come spesso accade. Hegel sembra tornare al punto di partenza, ma in realtà è lo stesso punto di partenza visto a livelli sempre più alti. Quella della scienza Hegel la definisce ‘ ragione osservativa ‘ ad indicare che la ragione osserva oggettivamente nella realtà alcuni elementi di quella razionalità che sta cercando. Se il primo momento era puramente oggettivo, in quanto la ragione ricercava oggettivamente se stessa nella realtà, il secondo momento presenta invece un capovolgimento dialettico: dall’oggettività si passa alla soggettività, ovvero al momento dell’ azione individuale . Oltre all’osservazione della ragione nella realtà, vi è pertanto il tentativo di imporre la ragione alla realtà (in ultima istanza la soggettività all’oggettività). A tal proposito Hegel scorge in figure e personaggi del suo tempo i due diversi tentativi possibili che la ragione compie per imporsi alla realtà: Faust cerca di dominare in ogni modo la natura facendone l’oggetto del proprio piacere, i Romantici invece contrappongono alla natura i propri valori, assumendo un atteggiamento di lamentazione verso la realtà e opponendo ad essa i propri valori (la loro ‘ legge del cuore ‘). Hegel non ama affatto l’atteggiamento dei Romantici e in questo si rivela come pensatore non-Romantico dell’età romantica. Se con il primo momento della ragione essa cercava se stessa nella realtà e con il secondo, invece, il soggetto tentava di imporsi all’oggetto o nutrendosene (Faust) o opponendo la legge del cuore alla realtà (i Romantici), con il terzo momento si supera l’unilateralità di entrambe i momenti appena citati. Tale momento è l’ eticità : con il primo momento si riconosce oggettivamente la ragione, con il secondo (nelle sue due accezioni) si tenta di imporre dall’esterno la soggettività al mondo, con l’eticità, invece, l’individuo non viene più concepito come sganciato dal contesto in cui vive, ma come parte integrante della collettività in cui vive. L’eticità non è più un momento totalmente oggettivo (come era il primo) o totalmente soggettivo (come era il secondo), ma è il momento in cui la soggettività è vissuta nel contesto oggettivo di un popolo, nella collettività. Quando un uomo facente parte di una società svolge il proprio lavoro assegnatogli dalla società stessa, egli riconosce il proprio valore nell’inserimento in valori collettivi, per cui né si impongono valori dall’esterno né è il soggetto ad imporli. Si tratta pertanto di un ottimo momento di concretezza poiché l’individuo realizza se stesso nella misura in cui sviluppa i valori della collettività. Occorre notare che in Hegel ‘eticità’ è diverso da ‘moralità’: ‘moralità’, infatti, è quella kantiana, in cui vigono la contrapposizione tra la purezza soggettiva e l’esteriorità, tra purezza del dovere e impulsi materiali; ‘eticità’ (che Hegel preferisce di gran lunga) è una morale della concretezza, una morale calata in valori collettivi, non una pura e semplice morale soggettiva (quale è appunto la morale kantiana). Siamo giunti al momento culminante della Fenomenologia dello spirito : la separazione tra soggetto e oggetto sta per essere superata e si entra nel quarto momento, lo spirito . Il primo momento dell’eticità è costituito da quella che Hegel chiama, sovrapponendo eticità ed estetica, ‘ bella eticità ‘ del mondo greco: repentinamente, dai tempi di Hegel del Faust e dei Romantici ci si trova ribaltati ai tempi dei Greci. Non c’è da stupirsi, dal momento che bisogna rifare l’intero percorso ma non più sul piano conoscitivo, bensì su quello etico. Con l’espressione ‘ bella eticità ‘ Hegel si richiama volutamente (e polemicamente) a Schiller e alla sua concezione dell’ ‘anima bella’ secondo la quale bisognava evitare la contrapposizione morale kantiana per poter così dar vita ad anime belle, in cui cioè la morale fosse spontanea e, proprio per questo, bella. Anche Hegel non nutre grande simpatia per la morale kantiana, lacerata in due punti, ma non apprezza nemmeno, da buon anti-romantico, le scorciatoie romantiche, contro le quali si era già scagliato rimproverando a Schelling l’essere giunto all’Assoluto con un colpo di pistola. La bellezza dell’eticità del mondo greco risiede nella spontanea unione attuata dai Greci di ciò che in epoche successive andrà frantumandosi, ovvero l’unione oggettività/soggettività, singolo/collettività e perfino uomo/Dio/natura, visto che per i Greci gli dei, espressione della natura, altro non erano se non uomini all’ennesima potenza. Si tratta di un tema già sviluppato da Hegel in gioventù, quando a Cristo sosteneva di preferire Socrate: sembra fin qui che egli condivida la concezione schilleriana, riconoscendo la ‘bellezza’ dell’etica greca nella sua spontaneità. Ciò che però lo allontana da Schiller è che per questi la spontaneità dell’etica è l’obiettivo dell’umanità: per Hegel, invece, il mondo greco è sì positivo, ma rappresenta solo il punto di partenza e la ‘bella eticità’ è condannata a morire in quanto è una sorta di innocenza originaria, indifesa di fronte a possibili lacerazioni. Di per sé l’unità originaria dei Greci non è positiva dal momento che non è ancora passata per il dramma della frantumazione: si deve passare ad una frammentazione e poi ad una riunificazione perché si possa parlare di unificazione positiva, come se Hegel preferisse al vaso intatto quello rotto e riparato. Socrate è ancora esempio di ‘bella eticità’, però in quegli stessi anni cominciava ad affiorare l’imminente rottura di essa e la conseguente frammentazione: è con l’ Antigone di Sofocle che per la prima volta si contrappongono valori inconciliabili. Se per Socrate valori soggettivi e valori oggettivi erano la stessa cosa, nell’Antigone i valori della famiglia sono irrimediabilmente contrapposti a quelli dello stato: Antigone, seguendo i valori della famiglia, vuole seppellire il fratello defunto, ma il re Creonte, seguendo i valori dello stato, riconosce nel fratello di Antigone un traditore e non glielo permette. Sono due valori entrambi validi, che segnano la rottura dell’identità uomo/cittadino. Con l’Antigone si conclude il mondo greco e si avvia il secondo momento dello spirito, ossia il processo di frammentazione ( da Hegel definito ‘ regno della cultura ‘) che arriva fino ai giorni di Hegel e che è caratterizzato da fortissime contrapposizioni: tale processo culmina culturalmente nell’età illuministica e trova la sua massima espressione politica nella Rivoluzione Francese (soprattutto nel Terrore giacobino) vista come tentativo di conquistare con la violenza una libertà puramente astratta: Kant e Robespierre sono agli occhi di Hegel le due facce della stessa medaglia. Dopo questo lungo periodo di lacerazioni che va dall’Antigone di Sofocle fino ai tempi di Hegel, è giunto il momento di ricomporre il tutto: tale tentativo si articola in due tappe. La prima è il momento della religione e consiste nell’entrare in contatto con l’Assoluto superando le scissioni: si articolerà in tre sotto-tappe, religioni orientali, religioni classiche (o artistiche) e religioni cristiane. Con le religioni, Hegel dice (e lo ribadisce nel Sistema ) che avviene il recupero dell’Assoluto sotto forma del mito, come se si rappresentasse inadeguatamente l’Assoluto in racconti mitologici. La terza tappa dello spirito è il sapere assoluto .Con quest’ultimo momento dello spirito si supera l’inadeguata concezione mitologica dell’Assoluto e se ne raggiunge una più idonea: la filosofia. Con essa si raggiunge l’obiettivo della Fenomenologia , ovvero si perviene all’unità tra soggetto e oggetto. Se nella Fenomenologia i momenti culturali per recuperare l’Assoluto frantumatosi da Sofocle in poi sono due , filosofia e religione, e di quest’ultima coglie tre articolazioni (orientale, classica o artistica, cristiana), nel Sistema , invece, trova posto anche l’arte: lo spirito non si articola più in due tappe, ma in tre (arte, religione e filosofia) e il mondo greco non rientrerà più nell’ambito della religione (religione classica o artistica), ma sarà una fase a sé stante, sarà cioè il momento dell’arte. Giunti al sapere filosofico si è raggiunta l’unità assoluta di soggetto e oggetto: ora è arrivato il momento di descrivere la realtà come la si vede dal punto di vista acquisito con la Fenomenologia e a ciò provvede il Sistema con i suoi tre momenti: la Logica (il cui oggetto è l’Idea), la Filosofia della natura (il cui oggetto è la Natura) e la Filosofia dello spirito (il cui oggetto è lo Spirito).
LOGICA
ESSERE
ESSENZA
CONCETTO
FILOSOFIA DELLA NATURA
MECCANICA
FISICA
ORGANICA
FILOSOFIA DELLO SPIRITO
(SOGGETTIVO)
ANTROPOLOGIA
FENOMENOLOGIA
PSICOLOGIA
FILOSOFIA DELLO SPIRITO
(OGGETTIVO)
DIRITTO ASTRATTO
MORALITÀ
ETICITÀ (Famiglia-Società civile- Stato)
FILOSOFIA DELLO SPIRITO
(ASSOLUTO)
ARTE
RELIGIONE
FILOSOFIA
L’esposizione completa del Sistema hegeliano è contenuta nell’ Enciclopedia delle scienze filosofiche . Il presupposto filosofico su cui poggiano le considerazioni hegeliane è l’ identità di razionale e reale , che verrà magistralmente espressa nella prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto con l’espressione ‘ tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale ‘. Tale espressione è la sintesi dell’identità idealista tra pensiero ed essere, un’identità che secondo Hegel, a dispetto di quel che pensava Schelling, emerge solo alla fine di quel processo conoscitivo (tratteggiato nella Fenomenologia ) al termine del quale scorgiamo l’identità di reale e razionale. Dalla frase hegeliana di forte sapore parmenideo poc’anzi citata scaturisce un problema: dire che ‘ tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale ‘ sembra significare che tutto ciò che è dotato di razionalità debba esistere necessariamente e che tutto ciò che effettivamente esiste debba essere razionale e, pertanto, buono, giusto e positivo. Se poi applichiamo tale espressione alla realtà umana (alla storia, alla politica, ecc), ne viene fuori che tutto ciò che merita di esistere nel mondo umano, in quanto razionale, deve per forza esistere (tutto ciò che è razionale è reale), sicchè se un’istituzione è giusta dovrà per forza realizzarsi in qualche modo e, addirittura, tutte le istituzioni esistenti saranno razionali, giuste e positive (tutto ciò che è reale è razionale). Non bisogna però prendere troppo alla lettera il discorso di Hegel: le sequenze reali, infatti, riprendono quelle ideali, ma non sempre puntualmente perchè nella sequenza reale, per così dire, si inseriscono elementi di accidentalità che disturbano la sequenza ideale. La filosofia della storia consiste proprio in questo, nel saper cogliere in un’apparente accidentalità una sorta di schema ideale che ad essa soggiace, una specie di linea logica, ben sapendo che la sequenza materiale degli eventi può non corrispondere in pieno: nella congerie dei fatti occorre saper cogliere una logica interna, uno schema concettuale che si pone al di là dei fatti stessi. Dire che ‘ tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale ‘ vuol dire che esiste corrispondenza tra ciò che è sequenza logica di un’idea e ciò che concretamente avviene nella realtà, ma tale corrispondenza non può essere assoluta proprio perchè la materialità sfugge alla perfezione dell’idealità. Si può poi notare che le due espressioni ‘ tutto ciò che è razionale è reale ‘ e ‘ tutto ciò che è reale è razionale ‘ vanno lette insieme, anche se dicono cose press’a poco antitetiche. Dicendo che tutto ciò che è giusto che esista prima o poi dovrà per forza realizzarsi, Hegel si configura come un rivoluzionario, quasi come se stesse dicendo che ciò che è giusto deve per forza essere realizzato nella realtà. Dicendo però che tutto ciò che esiste è giusto, Hegel sembra invece essere un conservatore, nemico di ogni rivoluzione, convinto che la realtà così come è sia giusta perchè razionale. Naturalmente Hegel, in questa veste di conservatore, non vuol banalmente dire che ogni singola cosa che accade nel mondo è giusta, bensì intende dire che tutto ciò che accade, se visto nella sua struttura di fondo, è giusto: Hegel è, per esempio, convinto che lo stato moderno come si è venuto costituendo non sia elemento puramente accidentale, ma, al contrario, reale e razionale al tempo stesso, ovvero in quanto razionale doveva prima o poi svilupparsi necessariamente e, in quanto reale, è giusto che ora ci sia. Detto questo, sbaglia chi crede, dando una gretta interpretazione conservatrice, che per Hegel ogni singola struttura esistente sia giusta così come è: per il pensatore tedesco sono giuste in quanto reali le strutture generali, non quelle singole. E’ interessante scorgere questi due livelli che si sovrappongono in Hegel, quello rivoluzionario (tutto ciò che è razionale è reale) e quello conservatore (tutto ciò che è reale è razionale), tanto più che da essi nascerà la spaccatura tra Sinistra hegeliana e Destra hegeliana, la prima convinta che tutto ciò che è razionale debba diventare reale, la seconda che tutto ciò che è reale sia anche razionale. E’ difficile stabilire se, in fin dei conti, Hegel sia rivoluzionario o conservatore e qualcuno ha detto che si tratta di un pensatore rivoluzionario nello spirito e conservatore nella lettera. Una cosa è però certa: Hegel non è mai reazionario; e sarebbe del resto assurdo guardare con rimpianto al passato poichè il vero viene alla fine. La triade che sta alla base del sistema hegeliano è costituita da Idea, natura e spirito: il punto di partenza da cui muove ora Hegel è la verità acquisita e dimostrata nella Fenomenologia, ovvero l’identità soggetto/oggetto e reale/ideale. Tuttavia, tale identità non è già risolta in partenza, ma deve essere colta nel suo sviluppo, sicchè la triade del sistema rappresenta l’espressione in forma dialettica di questa identità tra reale e ideale e tra soggetto e oggetto. L’ Idea è il pensiero, la natura è la realtà oggettiva e lo spirito è l’uomo e le sue realizzazioni. In altri termini, l’Idea, in quanto pensiero, altro non è se non il soggetto; la natura, in quanto realtà, è l’oggetto e, infine, lo spirito, ovvero l’uomo e le sue realizzazioni, sono sintesi di pensiero e natura, di soggetto e oggetto. Hegel definirà ‘Spirito oggettivo’ l’insieme delle relazioni esterne tra gli uomini (istituzioni politiche, diritto, stato, ecc) a sottolineare che, in un certo senso, è come se si trattasse di una seconda natura esistente oggettivamente fuori di noi ma da noi creata: anche qui vi sarà una sintesi di soggetto e oggetto. La triade che sta alla base del sistema hegeliano vuol proprio essere la descrizione in termini dialettici (tesi, antitesi, sintesi) del pensiero, della natura e del mondo umano: il soggetto si oggettivizza nella natura e poi si crea un mondo suo, che è un oggetto (perchè esiste oggettivamente fuori di lui) ma anche un soggetto (perchè prodotto dall’uomo). L’uomo in carne e ossa (definito ‘Spirito soggettivo’), dice Hegel, è lui stesso pensiero incarnato, sintesi di soggetto e oggetto, ossia pensiero calato in un essere esistente concretamente, come se il pensiero esistesse in noi. L’intero schema è dato dall’Idea, la quale deve progressivamente trovare una sua piena realizzazione: una sua realizzazione, seppur embrionalmente, è presente fin dall’inizio nell’idea stessa ma raggiungerà la piena realizzazione solo alla fine (con lo spirito), dopo essere passata per un momento di smarrimento, di sofferenza e di perdita di sè (nella natura). L’Idea può essere dunque intesa in senso platonico come modello di ciò che si estrinsecherà in seguito, tanto più che anche per Platone vi era identità tra razionale e ideale: l’Idea non è un puro e semplice contenuto della mente umana, ma è al tempo stesso contenuto di essa ed ente esistente indipendentemente dall’essere contenuto della mente umana, e pertanto è pensiero anche in senso oggettivo, in quanto modello della realtà. Tuttavia l’Idea hegeliana differisce da quella platonica poichè se quest’ultima si trovava al vertice e tutto ciò che da essa derivava era di livello più basso, quella hegeliana, inquadrata in una struttura dialettica che presuppone che ‘ il vero è l’intero ‘ e che il bene sta alla fine e non all’inizio, non rappresenta il gradino più alto della realtà. Per Platone, infatti, i ‘momenti dialettici’ eran due, e più precisamente l’ideale (modello perfetto) e il reale (decadimento della pefezione). Hegel, invece, aggiunge un terzo momento ed è quello dell’uomo, dello spirito: anch’egli, come Platone, riconosce il momento dell’Idea come altamente positivo e quello della natura come negativo, in quanto alienazione, ovvero smarrimento del pensiero nella materia. Nella natura è come se l’Idea (soggettiva e interiore) si capovolgesse nel suo contrario, cioè nella natura (oggettiva ed esteriore): la natura in questo senso è negazione dell’Idea, ma il processo non può dirsi concluso (come invece credeva Platone), dialetticamente, finchè non c’è la negazione della negazione, finchè cioè non si nega la natura. A questo provvede lo spirito, inesistente in Platone: la natura nega l’Idea, lo spirito nega la natura. Esso pertanto non sarà più solo Idea, ma sarà ad un livello più elevato rispetto all’Idea poichè è passato per la natura. Se l’Idea e la natura erano relegate, rispettivame, l’una tutta nella soggettività del pensiero e l’altra tutta nell’esteriorità materiale, lo spirito, dal canto suo, è spirito incarnato, realizzato, che non resta nell’astrattezza della logica e si dà esistenza concreta e, in virtù di ciò, risulta superiore al solo pensiero o alla sola natura: in altri termini, per ritornare alla critica hegeliana dell’astratto in favore del concreto, lo spirito è superiore perchè più concreto, in quanto in esso stanno armoniosamente insieme oggetto e soggetto, natura e pensiero, reale e ideale. La logica, ovvero il pensiero, dell’Idea era razionalità priva di realtà, la natura era realtà apparentemente priva di razionalità: lo spirito vince l’astrattezza di ciascuna di esse ed è, al tempo stesso, realtà e ragione. Per spiegare questo processo, Hegel ricorre ad efficaci espressioni, asserendo che l’Idea è l’Idea in sè, la natura è l’Idea fuori di sè, lo spirito è l’Idea in sè e per sè, nel senso che è l’Idea originaria (in sè) che ha acquisito coscienza dell’intero processo (per sè) diventando ciò che doveva. Hegel fu sempre certo dell’esistenza di uno stretto rapporto tra filosofia e religione, nella convinzione che la filosofia esprimesse in forma concettuale ciò che la religione dice in maniera ‘ rappresentativa ‘, cioè in forma mitologica. La filosofia si esprime concettualmente e dunque meglio rispetto alla religione e all’arte, a dispetto di quel che pensavano Fichte e Schelling: la filosofia suprema riproporrà dunque, concettualmente, ciò che la religione suprema propone rappresentativamente. E Hegel non ha dubbio alcuno: la religione suprema è il cristianesimo, la filosofia suprema è la sua . Lo schema triadico quindi, oltre che di derivazione neoplatonica (l’Uno da cui tutto emana e a cui tutto torna), sarà di derivazione cristiana: la tradizione cristiana dice che il Figlio è generato dal Padre e che lo Spirito Santo è l’Amore ipostatizzato che lega Padre e Figlio; Hegel in fin dei conti parla di qualcosa di simile quando sostiene che l’Idea si perde nella natura e alla fine natura e Idea convivono nello spirito. Lo stesso dogma cristologico parla di un Dio che si è incarnato per poi tornare a sè ed Hegel, riconoscendo nella natura l’incarnazione dell’Idea e nello spirito un ritorno più evoluto all’Idea, sta dicendo qualcosa di simile. La stessa convinzione, per dirne un’altra, che la mente di Dio sia il modello della creazione trova il suo corrispondente in Hegel, quando afferma che l’Idea è modello della natura. La stessa convinzione che l’umanità sia sintesi di soggetto e oggetto può facilmente rievocare la concezione secondo la quale in Cristo è presente la natura (oggetto) ma anche la dimensione divina (il soggetto).Tuttavia la differenza tra Hegel e il cristianesimo risiede nel fatto che mentre quest’ultimo descrive mitologicamente l’incarnazione di Dio in Cristo, Hegel è convinto che l’identità uomo/Dio non sia un evento storicamente avvenuto, ma una cosa intrinseca alla realtà stessa, basta scoprirla. Esaminiamo ora la Logica , il cui oggetto è l’Idea, ovvero la struttura logica della realtà: l’Idea è una sorta di scheletro logico della realtà che deve prima essere visto nelle sue articolazioni interne, cioè si vedranno in primis le categorie della logica ma non le une poste accanto alle altre, bensì nello sviluppo che ciascuna ha in base alla sua precedente. Quest’analisi dell’ossatura della realtà per cui le categorie del pensiero si sviluppano le une in base alle altre, prende il via dalla categoria dell’ essere (poichè la prima cosa che si pensa è l’essere, ovvero ciò che è) e a partire da essa si svilupperanno tutte le altre fino al traguardo ultimo, l’Idea. Quest’ultima costituisce l’ultimo momento della logica e dà il nome all’intero processo, sicchè quando alla fine (‘il vero è l’intero’) avremo tutte le categorie e le avremo tutte legate tra loro, allora avremo l’Idea, che altro non è se non l’insieme delle varie categorie derivate dialetticamente l’una dall’altra. La logica hegeliana è pervasa da un’esasperata ricerca della concretezza: non si limita a studiare le leggi del pensiero, ma si spinge anche a quelle della realtà poichè la Fenomenologia ha insegnato che pensiero e realtà sono la stessa cosa: sempre in quest’opera, emergeva come il pensiero fosse dialettico. Ne consegue che anche la realtà sarà dialettica, anche perchè una realtà non-dialettica non potrebbe essere compresa a fondo da un pensiero dialettico. Essendo la realtà dialettica, il pensiero intellettuale di derivazione illuministica si rivelerà inadeguato perchè incapace di cogliere gli sviluppi dialettici. In questa prospettiva in cui pensiero e realtà si identificano, studiare la logica vorrà allora dire studiare al tempo stesso le leggi del pensiero e della realtà che ci circonda, poichè esse sono le medesime: la logica coinciderà dunque con la metafisica; sarà, nel dettaglio, una logica atemporale che è al contempo metafisica. Si potrebbe allora obiettare che non ha senso parlare di una filosofia della natura separatamente dalla logica, poichè le leggi della natura sono le stesse del pensiero: però se la filosofia della natura (e la filosofia dello spirito) studia le strutture della realtà incarnate nella realtà stessa, la logica esamina esclusivamente le strutture non incarnate, guarda cioè alla realtà da un punto di vista meramente logico e non materiale. Proprio come quando si studia il corpo umano, la prima cosa su cui si sofferma l’attenzione è lo scheletro poichè ci permette di cogliere le strutture portanti di quella realtà che nel suo complesso dà il corpo umano, allo stesso modo con la logica si studiano le strutture portanti della realtà ancor prima di vederle incarnate in essa. La metafora dello scheletro chiarisce anche perchè Hegel concepisca l’Idea come modello scheletrico che la realtà ripropone e perchè tale Idea trovi la sua massima espressione nel corpo vivo, nella natura, ovvero nella filosofia dello spirito. La Logica in generale si articola in tre momenti: 1)l’essere, 2)l’essenza, 3)il concetto. La categoria di partenza è l’essere e da essa derivano dialetticamente tutte le altre: tale categoria presenta una prima triade, costituita da a)essere, b)nulla e c)divenire. L’essere da cui si parte, non essendo ancora iniziato il processo logico, è l’essere assolutamente indeterminato, senza caratteristiche e, proprio in quanto tale, esso tende ad identificarsi con il nulla. La dialettica tra essere e nulla dà vita al divenire, ovvero al passaggio continuo tra essere e non-essere. Essendo la logica struttura della realtà, oltre che del pensiero, troveremo questa stessa sequenza (essere, nulla, divenire) nella Storia della filosofia , che altro non è se non lo sviluppo temporale di quelle categorie della logica che stiamo esaminando atemporalmente. Secondo Hegel, la storia della filosofia sarà pertanto la storia di come lo spirito acquisisce punti di vista sempre più maturi e non sarà, come spesso la si intende, una ‘ filastrocca dei vari filosofi ‘. La prima triade logica (essere, nulla e divenire) trova un suo riscontro sul piano della storia della filosofia in Parmenide (filosofia dell’essere indeterminato), nel Buddhismo (filosofia dell’annullamento) e in Eraclito (filosofia del divenire): il punto di arrivo della logica, l’Idea, trova invece il suo riscontro storico nella filosofia di Hegel. Il momento che sul piano logico corrispondeva al nulla, su quello storico trova il suo corrispettivo nel Buddhismo e testimonia l’antipatia hegeliana per il mondo orientale (come peraltro per quello ebraico). Il secondo momento dialettico, infatti, è per definizione quello negativo, in cui si nega soltanto: il Buddhismo si è limitato a negare la filosofia ontologica di Parmenide, ma è stato negato da Eraclito e dalla sua filosofia del divenire, che Hegel colloca al gradino più alto della triade, confermando la sua simpatia per il filosofo del divenire . Hegel quando fa la storia della filosofia, la fa in modo filosofico, partendo da un’idea di ciò che deve essere per analizzare ciò che effettivamente è stato: per esempio, parte dalla conclusione della prima triade logica e poi si immerge nella storia per poterla rintracciare a tutti i costi. Ne consegue che la logica viene prima rispetto alla storia, in quanto ci fornisce la sequenza naturale delle categorie: una volta che abbiamo ottenuto tale sequenza, non ci resta che sforzarci di trovarla nella storia, magari compiendo forzature (a volte addirittura errori) come fa lo stesso Hegel. Infatti, per dare dimensione storica alla prima sequenza logica (essere, nulla e divenire) egli finisce per porre erroneamente Parmenide prima di Eraclito (quando invece sappiamo che Eraclito visse prima di Parmenide). E’ curioso notare che l’impatto che l’impostazione hegeliana ebbe all’epoca fu tale che da allora in poi fu la stessa persona ad insegnare nelle scuole la filosofia e la storia; non solo, ma per molto tempo si continuò a studiare sui libri di filosofia Parmenide prima di Eraclito, dal momento che la filosofia del divenire era concepita come sviluppo della filosofia dell’essere. Dopo che dall’essere si passa al nulla e poi al divenire (sintesi dei primi due), vi è un ulteriore passaggio: il divenire supera l’indeterminatezza dell’essere e del nulla e dà l’ essere determinato , che, proprio in quanto determinato, è un essere finito. Prende dunque il via la seconda triade: finito, infinito , e rapporto tra i due. Con Kant, è importante ricordarlo, si assiste ad una metamorfosi della nozione di ‘intelletto’ ( Verstand in tedesco): a partire da lui, infatti, esso viene inteso come la facoltà che mira a conoscere il finito, mentre la ragione ( Vernunft in tedesco) è intesa come la facoltà che mira a conoscere l’infinito. Tuttavia, se il puntare all’infinito della ragione per Kant è del tutto illegittimo (poichè implica un salto metafisico illegittimo agli occhi di Kant) , esso diventa legittimo per i Romantici e, soprattutto, per Hegel: riconoscendo legittimo (a differenza di Kant) il puntare all’infinito, la ragione sarà decisamente superiore rispetto all’intelletto, il quale non si spinge oltre il finito. La ragione coglie l’infinito, l’intelletto coglie il finito: la contrapposizione tra intelletto e ragione si configura allora come contrapposizione tra finito e infinito. Tuttavia l’intelletto, se ben usato e se non considerato come unico elemento dell’arsenale conoscitivo, non è negativo ed è anzi fondamentale per cogliere le singole parti finite dai cui rapporti nasce l’Assoluto (infinito). L’infinito viene da Hegel inteso come una sorta di totalità infinita dei finiti (colti con l’intelletto) nelle loro relazioni reciproche. Questo ci permette di comprendere l’aspra critica che Hegel muove a Fichte e alla sua concezione dell’infinito, che Hegel non esita a definire sprezzantemente ‘ cattivo infinito ‘: si tratta di un infinito ‘cattivo’ nel senso che implica una mai raggiunta conclusione, alla stregua dell’infinito numerico per cui partendo dall’1 si può andare avanti a contare all’infinito. E’ ‘cattivo’ perchè non è raccoglibile in una totalità e, per di più, esula dal finito. L’infinito cui aspira Hegel non è, come quello fichteano, una retta per cui si prosegue all’infinito, bensì è un cerchio, ovvero ‘ la linea che ha raggiunto se stessa, che è conchiusa e tutta presente, senza inizio nè fine ‘: i vari finiti vengono cioè recuperati e sintetizzati in un’unità, cosicchè finito e infinito vengono visti insieme. Oltre a respingere le concezioni illuministiche (avverse all’infinito) e quelle fichteane (‘cattivo infinito’), Hegel non accetta neanche la concezione di Schelling (condivisa invece da Leopardi ne L’infinito) secondo la quale l’infinito è radicalmente contrapposto al finito: un infinito contrapposto al finito non è un infinito, poichè per Hegel l’infinito è l’unione di tutti i finiti. La conclusione paradossale cui giunge Hegel è che gli Illuministi e i Romantici, vedendo come contrapposti l’infinito e il finito (ovvero concependoli astrattamente), la pensano allo stesso modo, poichè nè gli uni nè gli altri colgono l’infinito. Quando Hegel dice che l’infinito è la totalità dei finiti, intende anche dire che l’infinito è superamento dialettico dei finiti, poichè nell’infinito non li vedo più come finiti, bensì li vedo come unione infinita. E così solo nell’infinito si colgono per davvero i finiti e se ne capisce il senso: il destino del finito consiste nell’ assumere il proprio significato nel venir dialetticamente superato. Da queste considerazioni scaturisce quella che Hegel definisce tristezza del finito : il finito è inevitabilmente destinato a sparire nell’infinito. E’ triste perchè deve morire, ma non è angosciato, poichè non svanisce nel nulla, ma muore per realizzare l’infinito. Il secondo momento della logica è l’ essenza : ‘ la verità dell’essere è l’essenza ‘, dice Hegel, convinto che una cosa inizialmente posta deve essere scavata a fondo per poterne cogliere verità più profonde. Infatti, l’essere da cui siamo partiti nell’indagine logica è il puro datto di fatto (l’esserci di una casa o di un libro), ma bisogna cogliere il senso profondo e il significato di quest’essere: coglierne il significato profondo vuol dire cercarne l’essenza. Ci troviamo dunque di fronte all’essere che cerca i propri fondamenti interiori. La parola ‘essenza’ in tedesco, fa notare Hegel, significa ‘ciò che è stato’ (participio passato del verbo essere) e dunque cercare l’essenza è cercare l’origine dell’essere, come se l’essenza fosse il passato dell’essere. Aristotele stesso aveva definito l’essenza come ‘ciò che l’essere era’. La logica dell’essenza si articola in tre momenti: essenza, esistenza, realtà effettuale. Dopo aver scavato nell’essenza profonda dell’essere, tale essenza si manifesta esteriormente e tale manifestarsi è l’esistenza (dal latino existo , ‘vengo fuori’), ovvero il venir fuori dell’essenza. Sembra però di essere tornati al punto di partenza: scavato l’essere nel suo profondo, trovo l’essenza, la quale si manifesta nell’esistenza, che a sua volta, a rigor di logica, dovrebbe identificarsi con l’essere di partenza. Ma l’essere, una volta trovata l’essenza di cui si concepisce manifestazione, non è più quello di prima, ma è arricchito dall’aver trovato il suo significato, di cui prima era all’oscuro. Ne consegue che, secondo il procedimentoi dialettico, l’esistenza è l’essere ad un livello più alto. Il terzo momento è la sintesi di essenza ed esistenza e consiste nel concepire l’essere sia nei suoi aspetti reali sia in quelli razionali, ovvero nella sua realtà effettuale: si coglie l’essere come qualcosa che c’è e che ha anche una sua esistenza profonda. E’, cioè, l’esistenza concepita come manifestazione di un significato ben preciso: è il momento in cui concepisco la realtà come realtà, vedo l’essere nel dover esser e il dover essere nell’essere (tutto ciò che è razionale è reale; tutto ciò che è reale è razionale). Non vedo più il dover essere come qualcosa di diverso (e magari opposto) all’essere, come invece spesso fanno i Romantici: in Le ultime lettere di Jacopo Ortis il protagonista vagheggia una realtà che dovrebbe essere diversa da come è effettivamente. In una prospettiva hegeliana, in cui tutto ciò che è reale è anche razionale, questo è inammissibile: l’esistenza è manifestazione di un significato profondo. E così la realtà effettuale ( Wirklichkeit in tedesco) è superiore rispetto alla banale realtà ( Realitet in tedesco). Alle parole di derivazione latina (‘Realitet’ ad esempio) Hegel dà sempre valore negativo, mentre a quelle di derivazione germanica (Wirklichkeit) dà valore positivo, poichè, com’egli afferma, solo due lingue nel corso della storia sono state idonee per la filosofia: il greco e il tedesco. Di particolare importanza, nell’ambito della logica, risulta la triade identità, differenza, fondamento, una triade che ci permette di approfondire il modo di pensare hegeliano. La vera identità, dice Hegel, non è quella immediata del tipo A=A (principio di identità) che viene raggiunta con l’intelletto: l’identità degna di una logica razionale e dialettica è l’identità fondata non su una logica della non-contraddizione, ma su una logica della contraddizione. In particolare, Hegel ha in mente la logica della contraddizione eraclitea e, pur non negando l’importanza della logica intellettuale (A=A), riconosce che questo è solo un punto di partenza, non di arrivo: certo, l’intelletto è indispensabile poichè ci fa cogliere immediatamente che A=A, ma non bisogna fermarsi qui. Per trovare il vero fondamento della realtà (ricordiamoci che siamo nella logica dell’essenza) bisogna scavare in profondità e capire con la ragione che se è vero che A=A, è anche vero che A=non-A, attuando quel capovolgimento dialettico tipicamente hegeliano. Le cose si capovolgono, poichè dalla verità A=A passo a quella A=non-A, però poi si torna al punto di partenza, riproposto ad un livello più alto. Si tratterà dunque di una logica in cui l’identità è mediata, passa cioè per le differenze e per l’opposizione dialettica: l’identità dell’intelletto (A=A) è immediata, quella della ragione la si conquista passando per l’opposizione ed è dunque una logica della contraddizione. Riassumendo, si parte dall’identità intellettuale A=A, si passa per la negazione razionale di tale identità, ovvero per la differenza (A=non-A), e si ritorna al punto di partenza riproposto ad un livello più alto: la contraddizione non dev’essere rimossa, ma riconosciuta come fondamentale, sicchè l’ultima categoria della riflessione (il fondamento) non è altro che la contraddizione risolta in una superiore unità. L’ultima parte della logica è la logica del concetto : non a caso, esso è quasi il risultato della realtà effettuale (ed è infatti l’ultimo momento di quella che Hegel ha definito ‘realtà effettuale’). Dalla realtà effettuale, infatti, si passa al concetto, il quale altro non è se non l’unione di essere ed essenza. L’essere è il dato di fatto (l’essere immediato) e l’essenza è lo scavo riflessivo dentro l’essere: dalla sintesi di essere e essenza avremo il concetto. Il concetto sarà dunque l’insieme pienamente sviluppato delle strutture logiche della realtà, in quanto la logica è essa stessa studio delle strutture ideali della realtà. Quando Hegel definisce la logica e il suo oggetto (l’Idea), ricorre ad una metafora religiosa, sostenendo che ‘ l’oggetto della logica è Dio prima della creazione del mondo e di uno spirito finito ‘. A dire il vero, è qualcosa di più di una metafora: è come se Hegel insistesse fortemente sul fatto che religione e filosofia dicono le stesse cose, ma in modi diversi. Traducendo l’espressione religiosa in linguaggio filosofico, Hegel sta dicendo che la logica studia l’Idea (struttura generale della realtà), prima che essa si realizzi capovolgendosi nella natura e nello spirito umano. Tuttavia vi è una differenza notevole tra la concezione religiosa e quella filosofica: quando la religione immagina Dio prima della creazione, lo immagina del tutto perfetto e vede nella creazione del mondo una sorta di esosità della bontà divina. Secondo la filosofia hegeliana, invece, secondo la quale la perfezione giunge solo alla fine, è necessario che Dio (l’Idea) si alieni nel mondo per essere veramente ciò che è: si ha la perfezione solo quando l’Idea, alienatasi nel mondo, torna in sè nello spirito umano, portandosi dietro i residui di materialità acquisiti nella natura. Dall’unione dell’ essere nella sua immediatezza e dello scavo riflessivo nell’essere si ottiene il concetto e, in ultima istanza, la struttura logica della realtà nella sua completezza. La logica del concetto può e deve essere vista sotto forma di triade e si esprime, a sua volta, in 1)dottrina della soggettività, nella quale si esaminano gli elementi in cui si articola l’attività del soggetto pensante (il concetto, il giudizio, il sillogismo), 2)dottrina dell’oggettività, che riguarda i diversi momenti dello sviluppo dell’oggetto del pensiero , cioè la natura (meccanismo, chimismo, teleologia), 3)dottrina dell’Idea, intesa come “unità assoluta del concetto e dell’ oggettività”, cioè come realtà razionale considerata nella sua totalità. Con questa triade sembra che Hegel ripresenti la triade complessiva che sta sullo sfondo del sistema (Idea, Filosofia della natura, Filosofia dello spitrito) e si può essere indotti a non comprendere il perchè: tutto si spiega se teniamo presente che l’intera realtà deve trovare una sorta di modello nell’Idea stessa, poichè quest’ultima è, quasi platonicamente, modello dell’intera realtà. Se è modello, nell’ultima parte della logica, a piena Idea sviluppata, è naturale che troviamo descritto il modello stesso dell’intera realtà con le sue manifestazioni. Infatti, se la realtà ha nell’Idea il suo modello, allora nell’ultima tappa dell’Idea (il concetto) troveremo tutta quanta la realtà, seppur scheletricamente. Dopo di che, la stessa Idea si capovolge nel suo contrario: dal momento che ci troviamo nella sfera di una logica della contraddizione, è evidente che la piena realizzazione dell’Idea non può essere nell’Idea stessa (come credeva invece Platone), ma starà nel suo estraniarsi da sè e, successivamente, nel tornare in se stessa. Il che ci permette di capire il senso della Filosofia della natura , la quale presenta aspetti duplici: nella triade, la natura costituisce il momento negativo, il momento dell’alienazione dell’Idea, la quale si trova ad essere fuori di sè. Tuttavia si tratta di un momento relativamente negativo, in quanto è pur sempre necessario per far sì che l’Idea diventi spirito. E del resto, essendo razionalità capovolta (poichè è alienazione dell’Idea, la quale è razionalità), sarà pur sempre razionalità, anche se dispersa nell’esteriorità della natura. Questo implica che anche nella natura vi è razionalità (tutto ciò che è reale è razionale), seppur capovolta ovvero meno realizzata, e ciò vuol dire che, in fin dei conti, tutto è ragione (si è per questo parlato di un panlogismo hegeliano). Ecco perchè Hegel può tranquillamente condividere con i pensatori romantici la convinzione che la natura non sia radicalmente altro dalla spiritualità, tant’è che richiamandosi alle filosofie della natura (spiccatamente panteiste) rinascimentali, concorderà sul fatto che ‘ si può trovare Dio anche in un filo d’erba ‘, tuttavia non approverà fino in fondo questa convinzione, poichè la natura, nell’ottica hegeliana, è il posto dove meno si può trovare Dio (la razionalità). Certo, è vero che anche nel filo d’erba è in qualche modo presente la razionalità, ma è senz’altro meno presente che non nell’uomo, ad esempio, dice Hegel, criticando, sostanzialmente, i pensatori rinascimentali per aver ravvisato nella natura il luogo privilegiato per trovare Dio. Concependo la natura come razionalità capovolta, ben si capisce perchè Hegel poco la ami e non rinunci a concepirla in termini animistici, come un tutto vivente che pulsa: in una polemica del tempo che vedeva Keplero contrapposto a Newton, Hegel si schierò dalla parte di Keplero e della sua concezione vitalistica e spiritualistica dell’universo, contro il rigido meccanicismo di Newton. Tornando alla natura hegeliana, essa si organizza in tre livelli (mecanica, fisica, fisica organica): come in Schelling, si parte da livelli in cui lo spirito è estraniato per arrivare a livelli più vitalistici in cui esso si manifesta maggiormente. L’Idea è il pensiero, ovvero la logica, e quest’ultima ha un suo sviluppo collocabile fuori dal tempo e dallo spazio. Nei due momenti successivi alla logica, ovvero nella natura (l’uscire fuori di sè dell’Idea) e nello spirito (il ritornare dentro sè dell’Idea), entrano in gioco anche lo spazio e il tempo: la natura è caratterizzata dalla spazialità, lo spirito dalla temporalità. Lo spirito, infatti, sarà l’ambito della storia, la quale si svolge nel tempo; la dimensione della natura, invece, è spaziale, mentre, secondo Hegel (il quale non può ancora essere a conoscenza delle tesi evoluzionistiche), esula del tutto da quella temporale. Le strutture naturali sono sempre le stesse nel tempo, dice Hegel, accostandosi al fissismo aristotelico, il tempo della natura è un falso tempo, per cui, se nello spirito l’avvitamento dialettico avverrà nel tempo perchè di volta in volta ci sarà un passaggio che innalzerà la realtà, nella natura, invece, questo non ci sarà e le specie rimarranno sempre le stesse nel corso degli anni. Gli esseri viventi nascono, crescono e muoiono non nel vero tempo, poichè infatti, appena morti, subito ne nascono di nuovi del tutto identici, come se ci si muovesse in una circolarità che si ripete per l’eternità. Per passare dalla natura allo spirito si deve attraversare questa ciclicità delle specie: nello spirito vi sarà cambiamento, per cui è vero che i primitivi erano fisicamente (ovvero per quel che riguarda la natura) uguali a noi, ma spiritualmente non lo erano; biologicamente, però, la circolarità temporale è un girare su se stesso e in questo le specie manifestano l’ ‘ impotenza della natura ‘ a creare vero progresso, vera dialettica. E da tale impotenza scaturisce lo spirito: la natura è capovolgimento necessario dell’Idea, ma dopo aver manifestato la sua impotenza, allora è necessario un secondo capovolgimento che la neghi (negazione della negazione) e avremo la piena realizzazione dell’Idea, lo spirito. Ricapitolando, quando l’esteriorità della natura ha esaurito le sue possibilità e, per di più, le ha esaurite nel suo punto più alto (il regno animale, privo di evoluzione temporale), allora arriva il momento supremo della triade: lo spirito . Esso è dato dall’unione di interno ed esterno, di idea e natura, ed è, in fin dei conti, quel pensiero calato nell’ oggettività che siamo soliti definire ‘uomo’. Anche lo spirito presenta struttura traiadica, e avremo uno spirito soggettivo, uno spirito oggettivo e uno spirito assoluto, il che sembra una contraddizione insuperabile: se lo spirito non è altro che la sintesi di soggettivo (Idea) e oggettivo (natura), che senso ha parlare di uno spirito soggettivo e di uno spirito oggettivo? In realtà, la soggettività e l’oggettività di cui tratta ora Hegel, non sono in sè, bensì sono la soggettività e l’oggettività dello spirito: sarà spirito oggettivo, ad esempio, lo spirito nella misura in cui si realizza nell’esteriorità, ovvero la storia, la politica, il diritto, lo stato, la guerra, e via discorrendo. E’ evidente che non è più l’oggettivazione della natura, ma è lo spirito in quanto spirito che si attribuisce oggettività: una cosa è l’esteriorizzazione inconscia della natura, tutt’altra cosa sono le esteriorizzazioni dello spirito, che sono coscienti. Si può dire, ricorrendo ad una metafora, che l’uomo produce le istituzioni politiche come il mollusco si produce la sua conchiglia, però l’operazione del mollusco è inconscia (pur esprimendo anch’essa razionalità), quella dell’uomo presenta invece razionalità esplicita e conscia. Lo spirito soggettivo è l’uomo come singolo: se alla logica spettava la descrizione di Dio prima della creazione del mondo e dello spirito finito (ovvero l’uomo), alla Filosofia dello spirito soggettivo spetta invece la descrizione dell’uomo, dello spirito finito. Anche lo spirito soggettivo si divide in tre momenti interni: la sua prima determinazione è quella dell’ anima , termine che Hegel desume dalla filosofia aristotelica e, in particolare, dal De anima dello Stagirita: in tale opera, l’anima era intesa non in termini metafisici, ma biologici, come ciò che fa sì che gli animali siano tali. Il momento dell’anima funge da cerniera tra filosofia della natura e filosofia dello spirito: l’anima, infatti, pur essendo qualcosa di spirituale, è molto prossima alla vita biologica della natura, tant’è che nella fase dell’anima lo spirito è ancora uno spirito naturale, le cui manifestazioni sono cioè strettamente connesse con la base naturale da cui scaturiscono. Il secondo momento dello spirito soggettivo è costituito dalla coscienza e Hegel non fa altro che riproporre il contenuto della prima parte della Fenomenologia dello spirito, tralasciando però le parti storiche quali la dialettica servo-padrone o la coscienza infelice. Se con l’anima (la cui scienza è l’antropologia) lo spirito è ancora legato al mondo naturale, con la coscienza esso assume consapevolezza dell’unità tra soggetto e oggetto. La terza manifestazione dello spirito soggettivo è lo spirito propriamente detto, ovvero è lo spirito soggettivo divenuto spirito e studiato dalla psicologia: lo spirito si riconosce in due diverse funzioni (già peraltro colte da Kant) di cui una terza è sintesi: la prima funzione dello spirito prende il nome di spirito teoretico , per sottolineare il momento della conoscenza (e quindi l’azione dell’oggetto sul soggetto), la seconda viene invece designata col nome di spirito pratico , per sottolineare il prevalere del momento della volontà (e quindi l’azione del soggetto sull’oggetto). La sintesi di questi due momenti è data dallo spirito libero , ovvero è lo spirito che prende coscienza di sè stesso come volontà libera. Essere liberi vuol dire effettuare scelte razionali, in base alla conoscenza, vuol dire scegliere e sapere ciò che si sceglie: in altri termini, si è liberi quando si sa ciò che si vuole e si vuole ciò che si sa. Ed è lo spirito libero che permette il passaggio da spirito soggettivo a spirito oggettivo, dall’uomo alle sue realizzazioni: una volta che lo spirito soggettivo è passato per l’anima e per la coscienza deve agire sulla realtà e lo fa uscendo fuori di sè per produrre il mondo umano, ovvero lo spirito oggettivo. Lo spirito libero, dunque, tende necessariamente a darsi una veste oggettiva. La tappa può essere letta in chiave di esteriorizzazione dell’uomo nelle sue produzioni, così come l’Idea si esteriorizza nella natura: la differenza, però, sta nel fatto che con la natura l’Idea si esteriorizza inconsapevolmente e nello spazio, con lo spirito oggettivo, invece, vi è un’esteriorizzazione consapevole e nel tempo. La conseguenza immediata è che solo nello spirito c’è evoluzione e non nella natura (in quanto fuori dal tempo), la quale presenta gradi diversi di sviluppo (la scimmia è superiore rispetto al pipistrello) ma si tratta di gradi atemporali. Solo lo spirito può dunque produrre qualcosa di nuovo nel tempo e lo fa oggettivandosi (spirito oggettivo): si tratta delle istituzioni esistenti storicamente e concretamente. Lo spirito oggettivo viene significatamente approfondito nei Lineamenti di filosofia del diritto , in cui il diritto è uno dei tre momenti (diritto, moralità, eticità): proprio in apertura dell’opera, troviamo la celebre espressione, motto della filosofia hegeliana, ‘ tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale ‘ , con cui Hegel riconosce l’identità tra esistente e ideale, tra essere e dover essere, superando il dualismo irrisolto in Kant. Tutto ciò che esiste storicamente (le istituzioni, gli stati, le guerre, e via discorrendo) esprimono una razionalità profonda sviluppatasi nella storia, non sono il frutto di accidentalità. Pertanto bisogna essere in grado di saper cogliere ‘ la rosa nella croce ‘, il positivo nel negativo, poichè ogni cosa, se anche superficialmente può sembrare negativa, se analizzata a fondo, risulta essere positiva in quanto necessaria allo sviluppo del tutto. Ciò significa che quel che all’intelletto appare come negativo, alla ragione, viceversa, risulta essere positivo: con l’intelletto, infatti, si vedono le cose singolarmente e finite (astrattamente), dunque possono anche sembrare negative; con la ragione, invece, le si vedono nella loro totalità concreta, per cui ogni parte, essendo in funzione del tutto, si colora di positivo. Nei confronti di Spinoza, filosofo particolarmente discusso in età romantica, Hegel assume una posizione intermedia, non approvandone la concezione meccanicistica della realtà (poichè la realtà è per Hegel spirituale, non meccanica), ma riconoscendogli il merito di aver sostenuto la razionalità del tutto e, più di ogni altra cosa, di aver asserito che ogni singola cosa, se guardata nella totalità del tutto, è positiva, in quanto manifestazione dell’unica sostanza. Hegel apprezza questa concezione, ma la reinterpreta, cogliendo nell’Assoluto (ciò che Spinoza chiamava sostanza) un aspetto autoproducente e dinamico più di quanto non facesse Spinoza, scorgendo inoltre in esso la presenza rilevante del soggetto. Spinoza non ha portato a compimento il ragionamento: se la realtà è unione di soggetto e oggetto, allora essa sarà spirito (e non sostanza). Nei Lineamenti Hegel insiste particolarmente sull’identità di reale e razionale (a tal punto da aprire l’opera con la celebre espressione poc’anzi ricordata), perchè in fondo gli interessa, più di ogni altra cosa, il mondo umano e le sue produzioni, che costituiscono, in definitiva, l’epicentro della sua filosofia: tant’è che essa può essere letta come un viaggio dal mondo storico alla filosofia. Che il pensiero sia razionale pare immediato; forse meno immediato, ma comunque comprensibile (soprattutto dopo la Rivoluzione scientifica) è anche la razionalità della natura: in essa, così come è, troviamo anche come dovrebbe essere, cosicchè ancor prima di lasciare un grave sappiamo già che cadrà al suolo perchè così è e così deve essere. Meno ovvio, invece, può risultare il fatto che anche la storia sia razionale, dal momento che il mondo umano sembra abbandonato alla casualità e la storia stessa si presenta, in apparenza, come una sequenza casuale di avvenimenti. Hegel vuol mettere in luce come, anche nella storia e nello spirito, vi è razionalità, per cui è corretto affermare che la storia ha proceduto come doveva procedere. A Hegel pare infatti assurdo che la ragione possa pervadere ogni cosa (dal pensiero alla natura) fuorchè le realizzazioni umane: come può essere possibile, egli si chiede, che la razionalità sia presente nella caduta di un grave e non nella storia? Matura così in lui la convinzione che la storia è frutto della razionalità e non avviene a caso: si tratta dunque di scavare in essa per ravvisare in profondità la ragione imperante; quella di Hegel, naturalmente, è una convinzione personale, non è il risultato di constatazioni empiriche. Egli è convinto, ma non può dimostrarlo empiricamente, che la storia sia razionale, ma la sua, com’egli stesso afferma, è solo una convinzione. Ed Hegel pone in apertura dei Lineamenti della filosofia del diritto l’espressione ‘tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale’ per sottolineare come anche nella storia (esplicitazione dello spirito), ovvero laddove sembrerebbe essere assente la razionalità, in realtà essa sia presente, come del resto è presente ovunque. Hegel si avvale di un linguaggio molto astratto per dire, in definitiva, qualcosa di molto concreto: lo spirito oggettivo è l’insieme di quelle realtà in cui ci troviamo a vivere e che, pur essendo creazioni dello spirito oggettivatosi, non sempre evidenziano la volontà razionale del singolo, sembrano anzi un contesto umano che non siamo stati noi a determinare. Ed Hegel allude alle istituzioni, ma anche ai modi di pensare comuni, che sembrano non già il frutto del pensiero di singoli uomini, bensì un ambiente in cui, una volta nati, si è costretti a vivere. Si giunge così ad una contraddizione apparentemente irrisolvibile dal nostro punto di vista: che senso ha dire che lo spirito, che per definizione sembra essere soggettivo a tutti gli effetti, si oggettiva? Ebbene, ad Hegel bisogna riconoscere il merito di aver scoperto l’esistenza di un aspetto oggettivo dello spirito, una creazione non della natura, ma dello spirito che si estrinseca e si crea un mondo (spirituale, ma oggettivo) di istituzioni e di leggi, ad esempio. Tale spirito oggettivo si articola in tre momenti: il diritto, la moralità, l’eticità. Poiché stiamo parlando dell’oggettivazione dello spirito, il primo momento sarà inevitabilmente oggettivo, ovvero tratterà dello spirito così com’esso si esteriorizza nel rapporto con gli altri spiriti. Sarà dunque un momento di pura esteriorità e, non a caso, è costituito dal diritto . Concetto tipico del diritto è quello di ‘persona’, termine con il quale i Latini designavano la maschera teatrale: l’idea di fondo, infatti, è che nel diritto ci rapportiamo con gli altri in maniera meramente esteriore e a contare non è ciò che ciascuno è, ma il ruolo che ciascuno di noi viene a giocare nei rapporti contrattuali e di proprietà, come la maschera non rappresenta ciò che l’attore è in sé, ma ciò che egli viene a rappresentare sulla scena teatrale. Si tratta dunque di un ‘ diritto astratto ‘, dice Hegel, poiché le persone sono legate tra loro da rapporti esterni (i rapporti giuridici, tipicamente quello di proprietà) e non profondi. In un’ottica dialettica, non c’è da stupirsi se il momento successivo al diritto sarà dato da una ricerca profonda dell’interiorità, sicchè si entra nel secondo momento, la moralità (Moralitet), che verrà a sua volta superato dialetticamente dall’eticità (Sittlichkeit). Hegel designa, come già abbiamo spiegato, col nome di derivazione latina ciò che è meno importante ed infatti egli non nutre particolare simpatia per la moralità kantiana dell’intenzione, la moralità tutta interiore e votata al dovere morale. Diritto e moralità sono due aspetti antitetici e unilaterali, per cui ciascuno di essi è incompleto e non soddisfacente: il diritto trascura l’interiorità, la morale trascura l’esteriorità. La sintesi di diritto e moralità la si ha con l’eticità (di cui Hegel ha già parlato nella Fenomenologia ), il momento in cui si hanno al tempo stesso la soggettività e l’oggettività, l’interiorità e l’esteriorità: l’eticità sarà dunque il momento in cui, spiega Hegel, l’individuo trova la sua realizzazione soggettiva nell’essere inquadrato in una collettività esteriore, in cui contano i rapporti esterni ma non viene per questo trascurato il senso soggettivo e individuale. Esempio di eticità sarà la persona che trova la propria realizzazione nella sua attività lavorativa, realizzando in essa se stesso e il suo senso del dovere, entrambi calati nella concretezza di un contesto collettivo. Nella nozione di eticità affiora la matrice luterana del pensiero di Hegel, una delle tanti matrici poiché, come Hegel stesso ci teneva a sottolineare, la sua è la filosofia che riassume tutte le altre (da Eraclito a Platone, da Spinoza a Schelling, da Aristotele a Parmenide) ed è solo in essa che tutte le filosofie possono essere comprese: l’inventore del concetto di eticità era stato Lutero stesso, il quale aveva esaltato il valore del lavoro, vedendo in esso una sorta di attività in cui il singolo realizza, oltre che se stesso, la volontà divina, tant’è che per Lutero la professione di fede tendeva a coincidere con la professione intesa come lavoro esercitato. L’eticità (che è il secondo momento dello spirito oggettivo) si articola a sua volta in tre momenti (famiglia, società civile, stato), in ciascuno dei quali l’individuo trova la sua specifica collocazione all’interno di una struttura collettiva. Bisogna precisare, però, che nella tradizione filosofica ad Hegel precedente (Hobbes e Spinoza soprattutto) società civile e stato coincidevano; Hegel, invece, fa una distinzione tra le due cose (esprimendo grande modernità) sottolineando come, quand’anche lo stato venisse meno, i rapporti socio-economici tra gli individui (che costituiscono la società civile) permarrebbero. La società civile, dunque, è per Hegel un qualcosa che va oltre la famiglia ma che non è ancora pienamente lo stato; la distinzione, però, vuole per il momento essere esclusivamente concettuale (e non temporale): quando Hegel parlerà dello stato, allora tratterà anche dell’evoluzione storica dei diversi momenti, ma per ora egli intende solo effettuare un’analisi concettuale dei tre momenti. La famiglia è, di tutte le forme di eticità, la più immediata e naturale, come peraltro aveva già sostenuto Aristotele, in quanto altro non è se non l’unione immediata e naturale dei sessi per la creazione e l’allevamento della prole, unione istituzionalizzata dal matrimonio: la vita sessuale e quella sentimentale assumono un ruolo fondamentale per Hegel, attento osservatore della realtà ed estraneo al rigido moralismo kantiano. In un secondo momento, però, i figli divenuti adulti si distaccano dalla famiglia in cui son nati per crearne una nuova o per vivere da soli: il nucleo familiare d’origine è venuto meno e sono nate tante famiglie sparse. Siamo dunque alla negazione della famiglia, poiché ci troviamo di fronte ad una situazione atomica (singoli individui) o molecolare (nuove coppie di individui) e da ciò scaturisce un nuovo rapporto di eticità, ovvero un nuovo modo di rapportarsi tra individui e collettività. Gli individui non vivono isolati, ma intrattengono tra loro quei rapporti della società civile tipicamente legati all’interesse personale: chi fa il pane avrà bisogno di chi fa i vestiti e viceversa, sicchè si instaura una rete di relazioni in cui il singolo si rapporta con la collettività per trarne un giovamento personale. Evidentemente, non si tratta più di quel legame naturale e immediato della famiglia, ma è, al contrario, il momento in cui ciascuno mira egoisticamente al proprio interesse e intrattiene rapporti con gli altri per poterlo realizzare: la nuova eticità (società civile) sarà dunque puramente esteriore e mediata dall’interesse. Quando Hegel parla di società civile, egli allude in modo specifico alla società borghese (tanto più che in Tedesco ‘civile’ e ‘borghese’ coincidono) nata dal tramonto dell’anciem régime causato dalla Rivoluzione Francese: Hegel prima e Marx dopo, noteranno entrambi come la società borghese sia il modello perfetto per analizzare tutte le altre società, in quanto essa è la forma più pura, in cui gli individui sono legati tra loro da interessi egoistici e sono state spazzate via le incrostazioni sociali che sancivano giuridicamente la superiorità di un nobile su un cittadino qualunque, per dirne una. Dallo sfascio del gruppo familiare, nasce questo nuovo rapporto della società civile-borghese basato sull’interesse personale e non c’è da stupirsi se Hegel recupera le tesi liberiste esposte da Adam Smith un secolo prima: sostiene che gli ingredienti tipici della società borghese sono la divisione del lavoro e il rapporto di produzione mediato (non vi è cioè più rapporto diretto con la natura e con i suoi frutti), e arriva perfino a riprendere dalla filosofia di Smith il concetto di ‘mano invisibile’, secondo il quale dall’interesse personale perseguito da ciascuno nella società borghese è come se alla fine, per magia, una mano invisibile aiutasse tutti, per cui il panettiere facendo il pane e perseguendo il suo interesse aiuta anche gli altri. Gli studiosi hanno osservato come Hegel riveli una competenza assolutamente sterminata della cultura del suo tempo in tutte le sue sfumature, dalla fisica all’economia, dalla letteratura alla biologia. E’ interessante il fatto che egli recuperi la concezione della mano invisibile perché essa non è altro che la trasposizione in termini economici della provvidenza divina che guida ogni cosa, come se il flusso della storia, ad esempio, fosse guidato da una razionalità immanente, ovvero interna alla storia stessa; all’incirca in quegli stessi anni, anche Manzoni maturerà la convinzione che ogni cosa sia pervasa dalla provvidenza divina, tuttavia la provvidenza verrà intesa come trascendente, cioè non interna ma esterna al mondo. Ancor prima di incontrarla nella storia, ci si imbatte nella provvidenza nell’ambito della società civile con la mano invisibile, in virtù della quale si crea un’unità tutta esteriore che è appunto la società civile, all’interno della quale l’uomo è definito con termine francese ‘bourgeois’ (all’interno dello stato sarà invece detto ‘citoyen ‘). Già nella società civile sono presenti elementi che anticipano la nascita dello stato: ad esempio le corporazioni, fiorite in età medioevale come forme di organizzazione sociale ed economica; esse fanno pur sempre parte della società civile in quanto sono forme di aggregazione sociale, però cominciano a guardare a forme di appartenenza collettiva più ampie e, in ultima istanza, allo stato. Anche la nascita della polizia, ossia l’organizzazione che garantisce l’onestà dei cittadini, fa parte della società civile ma apre già spiragli verso lo stato, in quanto se la polizia è in primo luogo preposta ad impedire che vengano violati illegalmente gli interessi economici degli individui, essa, in ambito statale, sarà anche tenuta a mantenere l’ordine e a far regnare la giustizia. Dalla società civile si passa al terzo momento dell’eticità: lo stato . Con una terminologia usata a suo tempo da Hobbes, Hegel definisce lo stato come Dio in terra , il che ci permette di notare come Hegel riprenda non solo espressioni, ma anche concetti di tutte le filosofie precedenti alla sua, attribuendo ad essi nuovi significati: questo, del resto, è in piena sintonia con l’idea hegeliana dello sviluppo dialettico secondo cui solo alla fine le cose acquistano vero significato; e così le espressioni coniate dai pensatori del passato finiranno per assumere nella filosofia hegeliana un significato più compiuto di quello che rivestivano nella filosofia stessa di chi per primo li aveva elaborati. Dunque l’espressione hobbeseana secondo cui lo stato è Dio in terra avrà un significato più compiuto in Hegel che non in Hobbes, poichè la verità emerge sempre alla fine del processo e la fine del processo filosofico è la filosofia di Hegel, com’egli stesso asserisce. Bisogna senz’altro notare che la convinzione che lo stato sia Dio in terra in Hobbes rivestiva una valenza esclusivamente politica, mentre in Hegel si colora metafisicamente: se per Hobbes l’espressione voleva semplicemente dire che i beni maggiori l’uomo può aspettarseli in primo luogo da Dio, poi dallo stato, per Hegel, invece, il Dio della religione è l’Assoluto della filosofia, il quale si manifesta dialetticamente come natura, Dio e, soprattutto, spirito. E lo stato, nota Hegel, è Dio in terra perchè rappresenta il culmine dello spirito oggettivo, sicchè lo spirito oggettivo nella sua massima manifestazione (lo stato appunto) traduce metafisicamente l’espressione impiegata da Hobbes nella sfera politica: Dio in terra si configura allora come Assoluto oggettivato, come spirito che si oggettiva in istituzioni, delle quali lo stato rappresenta l’apice. Lo stato tratteggiato da Hegel, naturalmente, è uno stato ‘etico’, in cui cioè l’individuo è pienamente calato nella collettività ed è proprio lo stato a rappresentarne la vera vita: l’individuo non esiste pienamente all’infuori della dimensione statale, vista come grande organismo pulsante in cui le parti contano solo se viste in funzione del tutto. Anche lo stato (che rappresenta l’ultimo momento dell’eticità e dello spirito oggettivo) ha un suo sviluppo dialettico in tre momenti: costituzione dello stato, diritto stale esterno, storia universale. Nell’ambito della costituzione dello stato , Hegel cerca di analizzare le strutture dello stato moderno triadicamente e si esprime a favore della monarchia costituzionale, il che può sembrare strano: infatti, Hegel si considerava come il puntello ideologico dell’autoritario stato prussiano e tuttavia, da quanto emerge in queste riflessioni, in cuor suo preferiva la monarchia costituzionale, che in fin dei conti rappresentava la forma di governo più avanzata all’inizio dell’Ottocento. La simpatia hegeliana per tale forma di governo trova una spiegazione profonda nel suo stesso apparato filosofico: è naturale che Hegel preferisse ad ogni altra forma di governo la monarchia costituzionale, poichè in essa vi è uno sviluppo dialettico tra potere legislativo, potere esecutivo e monarca (sintesi dei due poteri). Hegel scorge le funzioni fondamentali di uno stato nella produttività dei contadini, nelle trasformazioni manufatturiere delle materie prime e nella burocrazia: ritiene anzi che la classe suprema sia quella dei burocrati, cosa che peraltro dimostra come Hegel avesse perfettamente compreso l’essenza dello stato moderno, incentrato appunto sulla burocrazia. Ma si tratta di una classe superiore alle altre non tanto perchè rappresenta la massima espressione dello stato moderno, quanto piuttosto per il fatto che rappresenta un ottimo esempio di eticità hegeliana: infatti, mentre tutte le altre classi hanno interessi privati distaccati da quelli statali, nei burocrati la funzione statale e quella privata coincidono, sicchè un burocrate che svolge il suo lavoro (e persegue il suo interesse), immediatamente fa anche un lavoro dello stato e ne persegue l’interesse. Dopo aver esaminato dettagliatamente lo stato nella sua interiorità, ora Hegel passa ad esaminarlo nella sua esteriorità, secondo quel tipico ribaltamento dialettico su cui fa leva la sua filosofia: si entra così nel momento del diritto statale esterno , che altro non è se non il diritto internazionale, ovvero il rapporto che lo stato ha con gli altri stati. Ed Hegel è tassativo: il diritto statale esterno non esiste, ovvero ogni diritto assume significato solo e soltanto in un determinato stato, con la conseguenza che tra gli stati non possono esserci diritti. In altre parole, ogni stato è legato alla propria sovranità e, proprio per questo, non può riconoscere quelle di altri stati: daltronde, se lo stato è l’espressione suprema dello spirito oggettivo ed è pertanto al di sopra di tutto il resto, è evidente che impartirà ordini ma non potrà riceverne proprio in quanto superiore a tutte le altre istituzioni. Il diritto statale esterno esisterà, dunque, solo nella misura in cui gli stati concordano tra loro stipulando alleanze o trattati senza imposizioni dall’esterno. E anche in questo caso Hegel è seguace di Hobbes, per il quale non esisteva diritto statale alcuno e tra gli stati vigeva ancora quel remoto stato di natura altrove superato con la società civile. Sorge spontanea una domanda: quale è il tribunale di fronte al quale si possono risolvere le controversie che nascono tra gli stati, in assenza di un diritto internazionale? Kant aveva ipotizzato l’organizzazione di una confederazione di stati, ma Hegel non è affatto d’accordo e sostiene, invece, che l’unico modo per risolvere le contese tra stati è la guerra , secondo l’insegnamento di Eraclito. Essa è l’unico giudice che possa sancire chi ha ragione e chi ha torto e, dice Hegel, il tribunale in cui avvengono i processi è la storia, definita anche (con una terminologia desunta dalla Bibbia) ‘ giudizio universale ‘. Si entra così nel terzo momento dello stato, costituito dalla storia universale: per Hegel la storia è storia dello spirito, dell’umanità; essa si articola in popoli e in individui, proprio come un corpo si articola in cellule e organi. E come le cellule e gli organi non posso vivere senza il corpo, così i popoli e gli individui non possono esistere senza lo spirito. Se la natura era meramente spaziale e l’Idea non era nè spaziale nè temporale, la storia, in quanto manifestazione dello spirito, si svolge nel tempo ed è la guerra ad esserne giudice. Il che, almeno apparentemente, sembra essere una pura e semplice constatazione del diritto del più forte, quasi una sua legittimazione ideologica avrebbe detto Marx: infatti, con la guerra vince il più forte e soccombe il più debole. Ma, dal momento che tutto ciò che è reale è anche razionale (storia compresa), allora la filosofia dovrà partire (come Hegel ripete più e più volte) dalla convinzione che la storia sia, come tutto il resto, razionale e che pertanto di fronte ad una guerra in cui il più forte vince e il più debole soccombe non ci si deve limitare a dire che il più forte aveva ragione perchè ha vinto, bensì si dovrà anche dire che ha vinto perchè aveva ragione. Bisogna ammettere ambedue queste spiegazioni, dice Hegel, poichè ciò che era razionale è divenuto reale (ha vinto perchè aveva ragione) e ciò che è reale è manifestazione di una razionalità (ha ragione perchè ha vinto). Ciò significa che per Hegel tutto ciò che avviene nella storia è giusto che avvenga, in quanto espressione di una razionalità; il che porta inevitabilmente Hegel a considerare ridicole le lamentazioni sul fatto che certi popoli dalla grande cultura (i Greci o gli Etruschi) sono stati spazzati via. Sono stati spazzati vie perchè dovevano essere spazzati via, sostiene Hegel, indipendentemente dal fatto che fossero grandi culture. A questo punto bisogna ritornare al concetto generale di storia per poter così comprendere a fondo ciò che Hegel intende: la storia è organica e ne è attore lo spirito, ovvero l’umanità nel suo insieme; in particolare, in questo punto del discorso hegeliano, l’attore è lo spirito oggettivo, che nella sfera della storia Hegel designa, con espressione platonizzante, col nome di spirito del mondo . La spiritualità cui allude Hegel non è, però, di stampo biologico quale era quella cui si riferiva Platone nella convinzione che il mondo avesse una sua anima pulsante; al contrario, Hegel vuole dire che, così come ogni individuo ha il suo spirito, allo stesso modo il mondo ha anch’esso un suo spirito, una sua anima umana, che si manifesta di volta in volta in popoli diversi, con la conseguenza che di epoca in epoca trova la sua più grande realizzazione in uno specifico popolo e in uno specifico luogo. Nel V secolo a.C. lo spirito del mondo albergava presso i greci, ma, quando i Romani hanno conquistato la Grecia, esso si è trasferito a Roma e questo ha segnato la decadenza del mondo greco. Oltre che di spirito del mondo, Hegel parla anche di spirito del popolo, nella convinzione che ogni singolo popolo abbia il suo spirito e che esso si realizzi in uomini: letto in trasparenza, Hegel sta dicendo che è come se l’unico spirito del mondo si incarnasse di volta in volta in un dato spirito del popolo. Nel V secolo a.C., ad esempio, lo spirito del mondo era incarnato nello spirito del popolo greco; quando Dante, nel VI canto del Paradiso, dice che l’aquila imperiale (ovvero il potere imperiale) si sposta nel tempo e a causa di ciò il popolo da essa abbandonato perde di significato, sta dicendo qualcosa di molto prossimo al discorso hegeliano. In una prospettiva del genere, è inutile lamentarsi del fatto che la Grecia, culla della civiltà, fu spazzata via dall’imperialismo romano, dal momento che con la fine del mondo greco non finisce anche ciò che esso ha costruito: infatti, tramontato il mondo greco, lo spirito del mondo prosegue il suo percorso portandosi appresso le conquiste realizzate dai Greci. Si può in altri termini dire che il mondo greco non è morto, ma è stato dialetticamente superato: è stato cioè ‘tolto’ e smantellato, ma al tempo stesso ridefinito e portato ad un livello più alto dai Romani e dalle loro conquiste culturali (il diritto in primis). E’ come se tutto ciò che un popolo ha creato, prima di essere spazzato via e di passare lo scettro ad un altro popolo, venisse recuperato ed innalzato ad un livello superiore. Ed è così che il concetto di libertà, elaborato dai Greci, è giunto fino a noi anche se il mondo greco è tramontato; non solo, tale concetto ci è pervenuto ad un livello più alto e più ricco di quello elaborato dai Greci. Si può dunque correttamente affermare che è stato un gran bene che vi sia stata la civiltà greca, ma che è stato anche un bene che essa sia tramontata, altrimenti la storia non avrebbe seguito il suo corso e il concetto di libertà, per dirne una, sarebbe ancora quello in voga ai tempi dei greci. A sanzionare il decadimento di un popolo e il sorgere di un altro è la guerra, manifestazione esterna di un fatto interiore: infatti, i Greci avevano ormai esaurito la loro missione di condottieri dell’umanità ed era arrivato il momento che il testimone passasse ai Romani e, a permettere che ciò avvenisse, ci ha pensato la guerra. Naturalmente, questo comporta l’impossibilità che un popolo possa essere debole spiritualmente ma forte materialmente, o viceversa; un popolo forte spiritualmente deve per forza essere al contempo forte materialmente ed è per questo che per Hegel ‘popolo’ non è un qualcosa di puramente culturale, ma è anzi connotato da una forte militarizzazione. Anche i Barbari hanno incarnato lo spirito del mondo, in quanto, spazzando via il mondo romano, hanno ripreso la romanità innalzandola a livelli superiori e facendola giungere fino ai giorni nostri. Hegel fa notare che un singolo popolo può portare lo scettro dello spirito del mondo una e una sola volta nella storia: una volta che l’ha perso non potrà mai più riconquistarlo; il che implica che la storia non si può mai ripetere ugualmente. Essa si ripete, in quanto è un continuo portare a livelli più alti concetti elaborati dagli antichi, ma mai ugualmente. Se lo spirito del mondo si incarna nello spirito del popolo in un dato momento, è evidente che allora ogni individuo non ha senso se non in rapporto con il popolo. Tuttavia, ci sono personaggi ‘ storico-universali ‘, ovvero fuori dall’ordinario, i quali hanno un destino diverso rispetto agli individui qualsiasi. La stragrande maggioranza delle persone, dice Hegel, hanno funzione di ‘ conservazione ‘ , ovvero, nell’ambito dello stato etico, trovano la loro realizzazione nell’ambito della collettività e nella misura in cui conservano tale contesto, facendolo funzionare, senza cambiare le cose (tutto ciò che è reale è razionale); sarebbe del resto assurdo che singoli individui volessero insegnare al mondo come deve andare (a dispetto di ciò che credevano gli illumimnisti). Tuttavia, è anche vero che ogni fase storica, per quanto legittimata in quel determinato momento, non rappresenta il vertice: ogni momento storico è giusto, ma è anche vero che ogni momento storico deve essere superato; si può anche dire, che ogni momento storico è giusto se si guarda al presente, da superarsi se si guarda al futuro. Ne consegue che, nonostante questi individui abbiano compito di conservare lo stato presente delle cose, il mondo continua di per sè a cambiare (senza che però siano singoli uomini a volere che esso cambi): infatti, se nelle vicende economiche vi era la mano invisibile, in quelle storiche troviamo quella che Hegel definisce astuzia della ragione , corrispondente alla provvidenza divina in ambito storico. Ciascuno di noi farà pertanto qualcosa, ma sarà (pur non sapendolo) strumento della provvidenza agente dall’interno del mondo; l’astuzia della ragione risiede nel far credere a ciascuno di perseguire i propri interessi personali, quando in realtà persegue gli interessi della provvidenza stessa, con la conseguenza che anche le azioni e le volontà malvage, in ultima istanza, sono orientate al bene. Con la mano invisibile avveniva proprio questo: il panettiere, facendo il pane, credeva di perseguire i suoi interessi, mentre in realtà stava perseguendo quelli della provvidenza e, in generale, di tutti gli altri uomini. Vi sono pertanto in ambito storico delle fasi di transizione e, anche quando la stragrande maggioranza degli individui continua ad adoperarsi per conservare le cose come sono, lo stato di cose presenti si svuota di significato. A tal proposito, Hegel adduce l’esempio delle metamorfosi degli insetti, durante le quali dall’esterno noi non vediamo nulla, ma all’interno l’insetto sta cambiando radicalmente. Allo stesso modo, nella storia, quand’anche in superficie tutto sembra andare come al solito, in realtà nelle profondità storiche vi sono cambiamenti in atto. In queste fasi di cambiamento in cui all’esterno tutto procede normalmente, ma nella sostanza tutto sta cambiando, è necessario quell’atto che infranga la scorza per permettere al cambiamento di prorompere anche all’esterno. Ci vuole, in altre parole, qualcuno che sia in grado di aprire allo ‘ spirito del mondo che bussa alla porta ‘ e a questo scopo possono risultare utili anche i singoli individui (che solitamente per Hegel non hanno grande valore, poichè a contare sono i popoli), i personaggi storico-universali. A loro spetta l’atto decisivo per far sì che il cambiamento già avvenuto in profondità possa esplodere anche in superficie: hanno cioè funzione altamente rivoluzionaria e sono gli unici ad essere autorizzati ad andare contro lo stato di cose (poichè tutto ciò che è reale è anche razionale, e dunque giusto così come è). Apparentemente, rivoluzionare lo stato di cose presente sembra una contraddizione, visto che ciò che esiste è frutto di razionalità ed è dunque giusto: in realtà, però, si va contro le cose esistenti esteriormente e a favore di quelle cose già esistenti in profondità ma a cui bisogna aprire le porte per far sì che possano uscire, quasi come se in ciò che deve esplodere dall’interno del guscio vi fosse più razionalità che non in ciò contro cui si va. A differenza degli individui comuni (tutti assorbiti dalla conservazione delle cose presenti), i personaggi storico-universali sentono pulsare nuove fasi della storia che soggiacciono alla realtà storica in atto in cui tutti gli altri uomini ancora sono immersi: è come se lo spirito del mondo si impadronisse di loro per far sì che venga smantellata la realtà presente e scaturisca quella sviluppatasi in profondità, ed è per questo che Hegel, alla vista di Napoleone, disse di aver visto lo spirito del mondo a cavallo. Oltre a Napoleone, il quale ha smantellato il vecchio regime a carattere feudale, Hegel ravvisa altri personaggi storico-universali, come ad esempio Alessandro Magno, il quale capì che l’era della poliV era finita, o Cesare, il quale smantellò la repubblica per dar vita all’impero. Come si può facilmente arguire, questi personaggi non furono propriamente filosofi: e del resto, essi non giungono da soli a capire che bisogna cambiare la realtà, ma sono guidati (e anzi posseduti) dallo spirito del mondo, che, con la sua ‘astuzia’, facendo loro credere di perseguire vantaggi personali, in realtà li usa per realizzare i suoi obiettivi. Quando questi personaggi storico-universali si battono per cambiare la realtà, hanno dalla loro molta gente comune che, teoricamente, dovrebbe invece adoperarsi per conservare le cose come sono: in realtà, anche la gente ordinaria avverte istintivamente che la ragione sta dalla parte di questi individui carismatici e, invece di rispettare l’autorità come ha sempre fatto, si schiera contro essa in favore della rivoluzione, seguendo la rottura col passato e con la legittimità. Tuttavia, si va contro la legittimità solo in maniera relativa, in quanto è stata la ragione stessa (lo spirito del mondo) a bussare alla porta dei personaggi storico-universali per indurli ad andare contro quella ragione cristallizzata nella tradizione e inferiore a quella già nata nella profondità della nuova fase storica. E pertanto, se giuridicamente era illegittimo seguire i personaggi storico-universali, istintivamente non lo era affatto ed è per questo che essi, al loro seguito, potevano vantare enormi cortei di uomini comuni che li supportavano. Sorge però un nuovo dubbio: come si fa a distinguere i personaggi storico-rivoluzionari dai cialtroni? Che differenza c’è tra un Alessandro Magno e un bandito di strada? La risposta di Hegel è fulminante: Alessandro Magno e, in generale, i personaggi storico-universali, hanno vinto, i banditi di strada no. E se hanno vinto non è un caso, aggiunge Hegel, poichè rappresentano concretamente lo spirito dell’umanità e non solo le loro ambizioni personali; certo, loro credono di agire per saziare la loro sete di successo e di vittoria, ma è lo spirito del mondo che, con la sua astuzia, li sta manovrando, facendo sì che essi, pur senza saperlo, rappresentino concretamente lo spirito dell’umanità. In una prospettiva del genere, anche Hitler può essere visto come incarnazione dello spirito del mondo e, non a caso, i Nazisti provarono anche a farlo passare per tale: tuttavia, i personaggi storico-universali cui allude Hegel sono puri e semplici strumenti nelle mani della storia, mentre per i Nazisti Hitler doveva essere lui stesso l’attore della storia, ma non lo strumento. A dimostrare che i personaggi storico-universali sono semplici strumenti in mano alla storia è anche il fatto che essi non fanno mai una bella fine: A. Magno muore trent’enne, Cesare viene proditoriamente pugnalato e Napoleone conclude in solitudine, dimenticato da tutti, la sua esistenza in esilio a Sant’Elena. E’ come se lo spirito del mondo, dopo essersi servito di loro per realizzare i suoi fini, li buttasse via, senza più curarsi di loro, cosicchè ‘ essi somigliano a involucri vuoti che cadono ‘, dice Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della storia , e aggiunge che ‘ raggiunto il loro scopo, non son passati alla tranquilla fruizione, non son diventati felici ‘. Si può tranquillamente affermare che godano di maggiore felicità gli uomini comuni che non questi grandi personaggi, il cui unico guadagno ‘ è il loro concetto, il loro fine, quello che essi hanno compiuto ‘. L’unica felicità di cui essi possono godere consiste appunto nella consapevolezza di aver cambiato il mondo, e nulla più: ‘ guadagno di altra specie, godimento tranquillo non ne hanno avuto ‘. E del resto le pagine di felicità e di pace nella storia sono pagine bianche, precisa Hegel, sostenendo che in fin dei conti il vero senso della storia è la libertà , a tal punto che tutta la storia, nel suo corso, è sviluppo del concetto di libertà: negli imperi orientali (per i quali Hegel ribadisce la sua cordiale antipatia) solo un un uomo, il sovrano, era libero; nel mondo antico, greco e romano, solo in pochi erano liberi, mentre i più erano schiavi. Infine, nel mondo moderno (cristiano-germanico) tutti sono liberi (almeno teoricamente); la libertà come la intende Hegel, però, non consiste nel fare ciò che a ciascuno pare, bensì è inserita nel contesto dell’eticità, nella dimensione collettiva. E’ curioso come per Hegel la storia abbia anche una direzione geografica e, in particolare, come essa da Oriente si sia spostata ad Occidente (Roma), per poi muovere ulteriormente verso Occidente, nell’area Germanica e, soprattutto, prussiana. Sorge però spontanea una domanda: se la filosofia hegeliana è la sintesi di tutte le altre ed è anzi il luogo in cui esse trovano la loro più compiuta espressione, dopo Hegel non vi sarà più una storia nè una filosofia? Per rispondere a questa domanda bisogna addentrarsi nell’ultima fase della filosofia hegeliana, ovvero nello spirito assoluto , il quale altro non è se non la cultura (arte, religione, filosofia). Essendo l’ultimo momento della triade dello spirito, nonchè il punto d’arrivo dell’intera filosofia hegeliana, esso sarà la sintesi dei due momenti precedenti, ovvero dello spirito soggettivo e dello spirito oggettivo. La cultura, ossia lo spirito assoluto, è infatti concepita da Hegel come un qualcosa di soggettivo che però al tempo stesso esprime oggettivamente le istanze di un popolo, è, per dirla in un’espressione efficace, pensiero calato nella concretezza della storia. Non si tratterà dunque del pensiero meramente soggettivo presente nelle menti degli intellettuali, nè sarà un qualcosa di puramente atemporale, come invece era la logica; la cultura, dunque, si articola nella storia e riesce a sintetizzare l’oggettività e la soggettività: è come se la realtà prendesse coscienza di se stessa o, per dirla in altri termini, è il mondo che pensa se stesso. Ben si capisce come non si tratti nè della soggettività dell’Idea nè dell’oggettività della natura: siamo di fronte ad un qualcosa che sta a metà strada tra le due realtà e, proprio per questo, ne è la sintesi. Più nel dettaglio, nello spirito assoluto la parte soggettiva sarà data dalla presa di coscienza, la quale è per definizione un qualcosa di soggettivo, mentre la parte oggettiva è data dal fatto che a prendere coscienza di sè è la realtà, la quale è per forza oggettiva. E in quest’ottica si spiega la funzione dell’uomo: egli è il luogo privilegiato in cui la realtà prende coscienza di sè, e non a caso è dotato di un corpo (oggettivo) e di uno spirito (soggettivo). Quest’operazione nell’ambito della quale la realtà prende coscienza di se stessa non avviene in tutti gli uomini, ma solo in individui privilegiati: ed Hegel si inserisce, con un pizzico di presunzione, nel novero degli individui che godono di questo privilegio, ritenendo che, in generale, la filosofia rappresenti il culmine della realtà e, in particolare, che la filosofia da lui elaborata sia quella suprema, in cui tutte le altre trovano la loro più compiuta esposizione. La figura del filosofo si carica di un nuovo significato: egli è il portavoce di un qualcosa di ben più grande di lui ed in lui si incarna concretamente la cultura del tempo, sicchè egli diventa il luogo materiale e fisico in cui la realtà prende coscienza di sè. Hegel è dunque convinto che l’uomo sia posto al centro dell’universo e mutua questa convinzione dal Neoplatonismo, secondo il quale l’uomo era l’unica entità in grado di tornare all’Uno e di portare con sè tutto il resto dell’universo. Lo spirito assoluto, secondo il procedimento dialettico, si articola in tre momenti: arte, religione, filosofia. Tutte e tre sono forme con cui l’Assoluto tenta di rappresentare se stesso nella cultura e nell’uomo; l’ arte costituisce il gradino più basso tra i tre in quanto l’artista rappresenta l’assoluto attraverso il materiale sensibile, il che è un limite insuperabile, poichè l’assoluto, per sua natura, sfugge alla sensibilità e alle sue forme. Naturalmente, l’arte non intende dirci che l’Assoluto è un qualcosa di sensibile: essa coglie ciò che trascende il sensibile, ma tuttavia per coglierlo necessita del sensibile. Hegel è pienamente d’accordo con le correzioni apportate da Plotino al platonismo: l’artista, realizzando l’opera d’arte, si ispira a ciò che è al di là del mondo sensibile, ma ciononostante, per compiere tale operazione, si avvale di strumenti sensibili che, proprio in quanto tali, risultano inefficaci. Hegel distingue diversi generi artistici e tre fasi della storia dell’arte (orientale, classica, cristiano-germanica) in ciascuna delle quali prevale un genere specifico: la prima fase, che Hegel definisce orientale, è caratterizzata dalla simbolicità in quanto la rappresentazione sensibile che l’artista dà dell’Assoluto è solo allusiva, ovvero allude all’Assoluto senza avanzare la pretesa di coglierlo nella sua totalità. Si avranno arti simboliche, capaci cioè solo di alludere all’Assoluto, in fasi storiche in cui si avrà concezione troppo poco matura o eccessivamente matura dell’Assoluto. Infatti, quando si ha una concezione troppo poco matura di esso, quale si aveva nella fase orientale, non si è in grado di esprimere il contenuto in modo maturo e il genere artistico che prevarrà sarà l’architettura, la quale non ha pretese di rappresentare e di cogliere l’Assoluto, ma si limita ad evocarlo nella misura in cui il tempio (costruzione per eccellenza di questa fase) è dimora di Dio. Anche il terzo momento, quello dell’arte cristiano-germanica, si caratterizza per una spiccata simbolicità: tuttavia, se essa allude senza cogliere l’Assoluto non è per via di una troppo poco matura concezione di esso, ma, al contrario, è per una concezione troppo matura. Quando si ha una concezione troppo elevata dell’Assoluto, quale è quella introdotta dal mondo cristiano, allora l’arte, che per strumento di rappresentazione ha il sensibile e il finito, non potrà mai rappresentare ciò che è perfettamente sovrasensibile e infinito e dovrà pertanto riconoscere la propria impotenza, quasi come se il contenuto infinito dell’Assoluto schizzasse via da tutte le parti, sfuggendo del tutto all’arte. Come esempio tipico di arte simbolica potremmo addurre L’infinito di Leopardi: la barriera finita costituita dalla siepe fa vagheggiare al poeta l’infinito, senza però poterlo rappresentare. Abbiamo citato il poeta Leopardi e, non a caso, Hegel pone la poesia al vertice delle espressioni artistiche più tipiche dell’età romantica, al di sopra della musica, la quale è a sua volta superiore alla pittura. Questa scala gerarchica procede dalla forma artistica più corporea alla meno corporea: nell’architettura orientale si evoca la casa dell’Assoluto, nella pittura lo si raffigura materialmente sulla tela, con la musica, invece, si hanno suoni al di là della dimensione spaziale e corporea e, come tappa finale, la poesia risulta essere l’espressione artistica maggiormente dematerializzata, a tal punto da essere ai confini con il pensiero, dal momento che essa altro non è se non una successione di immagini quasi pittoriche ma in veste di concetti filosofici. Tra il primo momento, quello dell’arte orientale, e il terzo, dell’arte cristiano-germanica, troviamo il momento dell’arte classica, in particolare greca. Essa rappresenta la fase storica in cui la concezione dell’Assoluto è la più adatta ad essere espressa in modo sensibile, poichè vige un armonioso e spontaneo equilibrio (bella eticità) tra Dio, natura e uomo e, in un tal contesto, l’Assoluto può essere colto nelle sue forme sensibili ed umane, poichè gli dei vengono intesi niente meno che come uomini perfetti. Così si spiega anche perchè nell’età classica prevalesse la scultura, la più realistica tra le arti: in un’epoca in cui l’Assoluto è coglibile sensibilmente, è naturale che si prediligano quelle espressioni artistiche più spiccatamente sensibili. Fatta questa carrellata di forme artistiche e di fasi storiche, non resta che chiedersi quale, tra le tre fasi artisiche, preferisse Hegel: da un certo punto di vista, si può essere indotti a supporre che egli prediligesse l’arte greca, in cui il contenuto e la forma della rappresentazione sono in equilibrio. Tuttavia non bisogna dimenticare che, nel procedimento dialettico, il secondo momento è sempre quello negativo, in cui si nega la tesi: pertanto l’arte classica, pur presentando elementi fortemente positivi ed essendo artisticamente la più elevata, non potrà essere la prediletta di Hegel in assoluto. Sarà dunque il terzo momento, quello dell’arte cristiano-germanica, a destare maggiormente gli interessi del filosofo, anche perchè è con esso che l’arte si rende conto di aver esaurito le proprie capacità espressive e, giunta a compimento, tramonta. Essa viene dialetticamente superata e dunque spodestata: potrà ancora dire la sua, ma sarà inevitabilmente subordinata al nuovo momento, il pensiero. Il pensiero (prima religioso, poi filosofico) si rivela più idoneo a cogliere l’Assoluto in quanto non si avvale della sensibilità e, soprattutto, in quanto presenta numerose affinità con l’Assoluto stesso: la prima fra tutte, consiste nel fatto che l’essenza stessa dell’Assoluto è il pensiero. L’arte è dunque superata e cede il testimone alla religione, intesa da Hegel come pensiero rappresentativo , ovvero costruttore di miti e narrazioni: la religione, pur essendo basata sul pensiero, si appoggia ancora sulla sensibilità poichè crea miti e narrazioni legati ad essa. L’espressione culturale più elevata è la filosofia, sganciata definitivamente dalla sensibilità e, proprio per questo, caratterizzata dall’essere pensiero concettuale : Hegel fa però notare che arte religione e filosofia non dicono cose diverse, anzi, ripropongono le stesse cose (ovvero l’Assoluto) ma in diverse forme. Ed è proprio a seconda del tipo di forma di cui si avvalgono che esse si differenziano: l’arte è la meno elevata proprio perchè rappresenta sensibilmente l’Assoluto, mentre la filosofia è la forma culturale suprema in quanto lo esprime concettualmente, senza appoggiarsi alle narrazioni mitologiche della religione o agli strumenti eccessivamente sensibili dell’arte. In questa prospettiva, il contenuto della religione più elevata sarà lo stesso di quello della filosofia più elevata: ed Hegel, come abbiamo già detto, riconosce nel cristianesimo la religione suprema e nella propria filosofia l’espressione massima raggiunta dal pensiero filosofico. L’analogia più lampante tra cristianesimo ed hegelismo consiste nella somiglianza del dogma cristiano della trinità e dello sviluppo triadico della dialettica hegeliana. Sulla religione Hegel si sofferma molto ed è interessante il fatto che egli polemizzi duramente con la teologia negativa, ai suoi occhi colpevole di negare la rivelazione divina nell’uomo. La teologia negativa si configura dunque come opposta alla filosofia hegeliana, la quale, come abbiamo visto, culmina nella perfetta autorappresentazione dell’Assoluto nell’uomo: era inevitabile che Hegel lottasse con tutte le sue forze contro una religione che coi suoi dogmi rischiava di offuscare la filosofia da lui elaborata. Può essere interessante notare come la filosofia di Hegel, tra l’altro, sia una sorta di ‘pensiero di pensiero’, come il Dio tratteggiato da Aristotele: la filosofia è, infatti, il pensiero che alla fine, dopo essersi smarrito nella natura, riconosce se stesso e, proprio per ciò, si trova ad un livello più alto. Se teniamo conto di tutto questo, possiamo facilmente comprendere perchè l’idea di un Dio nascosto, propugnata dalla teologia negativa, non potesse non essere avversata da Hegel: la filosofia e la religione esprimono, sostanzialmente, gli stessi concetti ed è pertanto inammissibile che la religione si opponga alla filosofia della rivelazione dell’Assoluto, illustrata da Hegel. Ed è proprio per questo che egli dichiara apertis verbis di preferire il cristianesimo ad ogni altra religione e, in particolare, alle altre due tratteggiate nel momento della religione (religioni orientali naturali e religione greca antropomorfa): nel cristianesimo, infatti, egli scorge in chiave rappresentativa tutti gli elementi della sua filosofia, in primo luogo la rivelazione di Dio. Come vi è una storia dell’arte e una della religione, così vi è anche una storia della filosofia, delineata da Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia : egli parte dal concetto che anche la storia, come ogni altra realtà, sia pervasa dalla razionalità, tanto più che la storia è storia dello spirito. Si deve dunque analizzare la storia partendo con degli schemi logici in testa e andare a riscontrarli nella storia stessa, respingendo radicalmente l’idea che la storia possa andare a caso. Non bisogna dunque studiare i filosofi passati separatamente (astrattamente) gli uni dagli altri, bensì bisogna saper ravvisare una sequenza logica, poichè la storia (spirito) è estrinsecazione della logica, ovvero è logica che si sviluppa nel tempo. Partendo con la prima triade logica in testa (essere, nulla, divenire), Hegel ripropone tale schema nella storia della filosofia, vedendo in Parmenide l’essere, nelle filosofie orientali il nulla e in Eraclito il divenire. A tale proposito, è interessante il fatto che Hegel è cosciente che ogni filosofia di una data epoca storica arriva sempre alla fine di tale epoca, come se prima la realtà dovesse farsi e solo dopo dovesse riflettere su se stessa: Hegel esprime questa concezione con un’espressione divenuta famosa, asserendo che ‘ la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo ‘. La filosofia (nottola di Minerva, dea della sapienza) spicca cioè il suo volo quando l’epoca storica sulla quale essa deve riflettere volge al tramonto: ed è infatti quando il mondo greco aveva cominciato a declinare che fiorirono le filosofie di Platone e Aristotele. Ed ecco che ora giungiamo al quesito lasciato in sospeso: dopo Hegel non vi sarà più nè una storia nè una filosofia? Ebbene, Hegel guarda alla propria filosofia come vertice supremo della storia del pensiero e contemporaneamente sembra voler dire che con essa il mondo abbia raggiunto ciò che doveva raggiungere, sicchè ora non gli resta che avviarsi al declino.
- analizzare con l’intelletto le differenze della realtà
Esposizione Sinteticacenni biograficiGeorg Wilhelm Friedrich Hegel nacque il 27 agosto 1770 a Stuttgart (Stoccarda), da famiglia protestante, “bene ordinata e agiata”; il padre era impiegato statale. Studiò al ginnasio di Stoccarda i classici greci e latini. Seguì i corsi di filosofia (2 anni) e teologia (3 anni) all’Università di Tubinga (1788-1793), dove si legò di amicizia con Schelling (con cui conndivise un giudizio fortemente critico verso l’ambiente accademico di Tubinga) e Hölderlin.
Né questo entusiasmo diminuì quando Hegel ebbe dato la sua adesione allo Stato prussiano. Paragonava infatti, più tardi, la rivoluzione a un levarsi superbo di sole, un intenerimento sublime, un entusiasmo di spirito che han fatto tremare il mondo di emozione, come se solo in quel momento la riconciliazione del divino e del mondo si fosse compiuta”. A Berna, Francoforte e Jena. Terminati gli studi, Hegel fece, com’era d’uso, il precettore in case private e fu per qualche tempo a Berna (1793-1796). Al tempo del suo soggiorno a Berna appartengono i primi scritti, che rimasero inediti: una Vita di Gesù (1795) e un saggio Sulla relazione della religione razionale con la religione positiva (1795-1796). Dopo tre anni di soggiorno in Svizzera, Hegel tornò in Germania ed ebbe un posto di precettore privato a Francoforte sul Meno (1797). Nel 1798-1799 Hegel compose alcuni scritti, tutti rimasti inediti, di natura teologica; nel 1800 il primo breve abbozzo del suo sistema che anch’esso rimase inedito. Frattanto essendogli morto il padre, che gli aveva lasciato un piccolo capitale, si recò a Jena, invitato da Schelling, e vi ottenne il posto di libero docente. Qui anche esordì pubblicamente con la Differenza dei sistemi di filosofia di Fichte e Schelling (1801). Nel frattempo, componeva e lasciava inediti altri scritti politici. Nel 1801 pubblicò la dissertazione De orbitis planetarum e nel 1802-1803 collaborò con Schelling al “Giornale critico della filosofia”. Nel 1805 divenne professore a Jena e fu redattore capo di un giornale bavarese ispirato alla politica napoleonica. A Norimberga Nel 1808 divenne direttore del Ginnasio di Norimberga e rimase in questo ufficio fino al 1816. Hegel descrive come anni felici quelli di Norimberga: in tale periodo si sposò, e scrisse la Scienza della LogicaHeidelberg e Berlino Nel 1816 fu nominato professore di filosofia a Heidelberg, dove pubblicò l’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio; e nel 1818 fu chiamato all’Università di Berlino. Cominciò allora il periodo del suo massimo successo. Hegel moriva a Berlino, forse di colera, il 14 novembre 1831.”(alcune notizie sopra riportate sono tratte e adattate dalla Storia della filosofia, di N.Abbagnano, vol.3). opereGli scritti teologici giovaniliGli scritti giovanili (composti tra il 1793 e il 1800) rimasero inediti e sono quasi tutti di natura teologica:
Altri scritti anteriori alla FenomenologiaInediti rimasero pure un primo abbozzo di Sistema, composto a Jena nel 1800: una Logica e metafisica, una Filosofia della natura e un Sistema della moralità. Dello stesso 1801 è la dissertazione per l’abilitazione alla libera docenza De orbitis planetarum. Con Schelling Hegel collaborò nei due anni successivi al “Giornale critico della filosofia”.
Le opere della maturità
Fenomenologia dello Spiritola Prefazione a) critica Kant: per la sua pretesa di giudicare la conoscenza dall’esterno (mentre “non si impara a nuotare stando fuori dall’acqua”); la ragione non può dubitare della sua validità in generale, dato che è pur sempre lei a dubitare (impossibile essere giudice e imputata ad un tempo). Si può perciò mettere in discussione una sapere parziale a partire da un altro sapere, più perfetto) b) critica Schelling: il suo errore è di concepire l’Assoluto come indifferenza, appiattimento dei contorni (una “notte in cui tutte le vacche sono nere”), attingibile perciò dall’intuizione, con un “colpo di pistola” immediato. Invece esso è l’Intero, in cui le differenze non sono annientate, e che non è Sostanza (statica), ma Soggetto (dinamico), si sviluppa realizzandosi progressivamente, mediante tappe o “figure” e così la filosofia lo raggiunge mediante uno sviluppo, la “fatica del concetto”, che ripercorre tali figure. “tutto dipende da questo: che si colga e si esprima il vero non come sostanza, ma altrettanto decisamente come Soggetto.”
le “le figure” della Fenomenologia La fenomenologia dello Spirito è divisa in sei sezioni: coscienza, autocoscienza, ragione, spirito, religione e filosofia. Di esse la più giustamente famosa è la seconda, l’autocoscienza. Accenniamo anche alla prima.
1) la coscienza Si scandisce nei tre momenti della certezza sensibile (limitata all’hic et nunc), della percezione (coscienza universale e globale ogg) e dell’intelletto (pensa che l’oggetto sia altro). 2)l’autocoscienza Hegel stesso dice che “l’autocoscienza è in sè e per sè per un’altra; ossia è soltanto come un qualcosa di riconosciuto” “per l’autocoscienza c’è un’altra autocoscienza”.
3)la ragione È la “certezza di essere ogni realtà”, il che le rende accettabile quel mondo che prima le sembrava diverso da sé, antitetico a sé. Questa certezza per divenire verità deve giustificarsi: a)dapprima cercandosi nel mondo della natura, contemplandolo (naturalismo Rinascimentale); attraverso la ricerca delle leggi naturali, la ragione cerca nel mondo oggettivo nient’altro che sé stessa, benché non lo sappia. b)poi si cerca nell’azione: prima nel piacere (cfr. Faust di Goethe), che però la travolge come qualcosa di estraneo: allora si dà alla legge del cuore (cfr. i Romantici), che però è ancora troppo individuale e urta contro la legge di tutti: così, per vincere la potenza superiore di tale legge esterna punta sulla virtù, che però è qualcosa di astratto, donchisciottesco (allusione a Robespierre, secondo Abbagnano): solo nell’eticità, nell’operare nello Stato, la Ragione trova pienamente sé stessa, deponendo ogni scissione, ogni infelicità e raggiungendo pace e sicurezza. 4) lo spirito Nasce dalla ragione diventata eticità, dentro un popolo (sostanza della vita degli individui). Hegel ne segue l’evoluzione in tre momenti essenziali: il mondo greco, quello romano e quello moderno. a) il mondo greco è il mondo della “libertà bella”, spontaneo inserimento dell’individuo nello Stato. Già in esso però si manifestano antitesi *tra legge umana (quella della polis) e divina (testimoniata dalla Antigone), e *tra consapevolezza umana e Fato (documentata nell’Edipo Re). b) il mondo romano è poi il momento della antitesi (tra individuo e legge universale) c) il mondo moderno è così chiamato ad essere la sintesi, destinata ad aversi quando avverrà l’alienazione di sè da parte degli individui (come enti naturali) nello Stato e nella società [secondo Hyppolite Hegel pensa qui a Hobbes, Locke e soprattutto Rousseau], costruendo così la civiltà (Bildung). A ciò si oppongono: *la fede, che la giudica vanità; e *la pura “intellezione” (l’illuminismo), che si chiude nel finito. SSia Kant sia la Rivoluzione francese, in tal senso non sanno conciliare, rispettivamente: legge e volontà, stato e individuo. Il romanticismo vi si avvicina (proclamando la sanità degli impulsi immediati), ma resta ancora soggettivista, con la sua idea di “anima bella” (da Hegel in precedenza approvata e ora criticata). 5) la religione A differenza di Schleiermacher H. le riconosce la valenza di pensiero, pur indicandone il limite nel suo separare il divino dall’umano. Distigue tre tipi di religione: *quella naturale (che pone il divino in realtà materiali, come animali e piante); *la religione artistica (quella greca, che si avvale soprattutto della scultura, degli oracoli, della tragedia) e * quella rivelata, che ha il suo culmine nel Cristianesimo (l’Assoluto come presente). 6) la filosofia Hegel vi traccia un rapido abbozzo della sua storia, da Cartesio a Schelling. in sintesiil suo sistema, com’è noto, si divide in tre parti:
la scienza della Logica
definizione “La logica è la scienza dell’idea pura, dell’idea nell’astratto elemento del pensiero” (Scienza della Logica, d’ora in poi WL, 19) essa studia:
ne segue l’identità di logica e metafisica Infatti l’oggetto della metafisica è l’essere, ma l’essere coincide con pensiero, che è l’oggetto della logica. Tale identità non è stata riconosciuta da subito nella storia della filosofia, la si è guadagnata in una storia, che ha visto tre fondamentali momenti (anche qui: tesi, antitesti e sintesi), ossia TRE POSIZIONI DELL’ESSERE rispetto all’OGGETTIVITà
le parti della Logica
Mentre per Parmenide e Aristotele (sia pur in diverso senso) l’essere non può non essere, ossia l’essere è non-contraddittorio, ossia è uno, ossia ogni cosa è identica a sè stessa per Hegel l’essere è e non è, è contraddittorio, è diviso in polarità dialettiche che si contraddicono e si sintetizzano, ossia ogni cosa richiama il suo contrario, ed è al contempo sè stessa e il suo contrario, e la sintesi di entrambi. Ne segue, ad esempio, che “il falso non è che un momento della verità“. la filosofia della natura“Narrano i cieli la Gloria di Dio La filosofia della natura è la parte meno originale e meno pensata del Sistema. 1) rapporto filosofia/scienze. Le Scienze empiriche hanno una funzione necessaria, ma puramente preparatoria: è la filosofia che attribuisce loro il loro vero significato (non molto diversamente da Schelling, anche H. cerca il senso filosofico delle leggi scientifiche). 2) la natura, in generale. La Natura è “l’idea nella forma dell’esser altro”, fuori di sé, “decaduta”, alienata. È il momento dell’antitesi, della contraddizione insoluta. È peraltro passaggio necessario per la realizzazione dialettica dello Spirito. H. afferma la intelligibilità della natura, per cui sostiene una concezione antimeccanicistica e organicistica: la Ragione infatti non si perde realmente, perché nel mondo dello Spirito si ritroverà, superando questa fase di esteriorità. 3) le parti della f. della natura. Anche qui H. tripartisce il discorso:
Filosofia della natura o del disprezzo per la natura la filosofia dello spiritoConcerne l’Idea ritornata in Sé, dopo l’estraneazione nella natura, di cui lo Spirito è la “verità”. suddivisione della filosofia dello spirito “§9 (385). Lo svolgimento dello spirito importa, che esso: I. è nella forma della relazione con se stesso: dentro di esso la totalità ideale dell’Idea diviene a lui, vale a dire ciò che è suo concetto, diventa per lui, e il suo essere sta appunto nell’essere in possesso di sé, cioè nell’esser libero. Tale è lo spirito soggettivo; II. è nella forma della realtà, come di un mondo da produrre e prodotto da esso, nel quale la libertà sta come necessità esistente. Tale è lo spirito oggettivo; III. è nell’unità dell’oggettività dello spirito e della sua idealità o del suo concetto: unità, che è in sé e per sé, ed eternamente si produce: lo spirito nella sua verità assoluta. Tale è lo spirito assoluto.” lo spirito soggettivo E l’Idea “nella forma della relazione con sé stessa”: “§11 (387). Lo spirito, che si svolge nella sua idealità, è lo spirito in quanto conoscitivo. Ma il conoscere qui non viene concepito meramente come è nella determinazione dell’idea in quanto logica (§223); sebbene nel modo in cui lo spirito concreto si determina alla coscienza.(…) Nell’anima si desta la coscienza; la coscienza si pone come ragione, che si è immediatamente destata alla consapevolezza di sé; la quale ragione, mediante la sua attività, si libera col farsi oggettività, coscienza del suo concetto.”
lo spirito oggettivo ossia l’Idea “nella forma della realtà, come di un mondo da produrre” vede il succedersi di tre momenti:
in sintesi
“la realtà della libertà concreta è volontà divina, in quanto spirito esplicantesi a forma reale e ad organizzazione di un mondo” , “è totalità organica che precede gli individui
la storia Non esiste un solo stato, e il rapporto tra gli stati non è qualcosa di statico: dalla molteplicità degli stati, in dinamica evoluzione nasce la storia. in generaleE’ possibile comprendere la storia, la sua logica. Infatti solo apparentemente la storia è un succedersi di eventi casuali, contingenti. In realtà essa è razionale, di una razionalità che non deve essere creduta, come potrebbe essere nel caso di una teologia della storia, ma può essere saputa, compresa dalla ragione. Dunque esiste una filosofia della storia. E questa coglie non solo delle linee generali, delle leggi universali, delle costanti, ma capisce esaurientemente ogni dettaglio concreto della storia. Che cosa è allora la storia? In generale essa è attuazione e manifestazione progressiva della ragione, dell’Assoluto, dello Spirito. Infatti Dio diviene, si realizza, nella storia. L’Assoluto è quindi esaurientemente nella storia. Non esiste perciò niente di metastorico. Non esiste giustizia metastorica (lo si è già visto: non esiste un diritto naturale metastorico):
Il fine della storia in questa prospettiva è “che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso realmente è (…) manifesti ogettivamente sè stesso”, ossia è la piena automanifestazione dello spirito in una realtà storico-oggettiva. La modalità attraverso cui si giunge a tale fine è:
In particolare Hegel ripartisce la storia in tre grandi momenti:
lo spirito assoluto Si scandisce, ancora una volta, in tre momenti: arte, religione e filosofia.
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note
1. il divenire sembra paradossale, e si possono fare in effetti delle obiezioni, “ad esempio che è lo stesso se la mia casa, il mio patrimonio, l’aria che respiro, questa città, il diritto, il sole, lo spirito, Dio, siano o non siano:” (§88 ):
Hegel risponde che a) questi esempi concernono cose utili, e la domanda è in realtà se interessino a me (se mi siano utili, e se mi sia indifferente che siano o meno): ma la filosofia deve staccare dal criterio di utilità; b) comunque, in generale, l’essere e il nulla che si identificano non sono riempiti di contenuti determinati, ma sono vuoti.
LO STATO E LA STORIA UNIVERSALE
Alla filosofia della storia Hegel dedica le famose Lezioni sulla filosofia della storia, poi raccolte e pubblicate dai suoi allievi. Secondo Hegel, muovendo dal principio che lo spirito si realizza nella storia, è ovviamente possibile una spiegazione razionale del vicenda storica, e quindi una vera e propria filosofia della storia. L’esposizione più compiuta si trova nelle Lezioni sulla filosofia nella storia, che furono edite da Eduard Gans e dal figlio, Karl Hegel. Hegel afferma una tesi davvero singolare: “La ragione governa il mondo.” E spiega: siccome la storia è opera dello spirito oggettivo, quindi dello stesso Assoluto, e sappiamo che questo non può agire che in modo razionale, ecco la dimostrazione. Anche quando si verifica un male, dice Hegel, si tratta solo di un male transitorio e necessario, perchè anch’esso concorre alla realizzazione di un bene maggiore. L’idea di un progresso lineare, tipica dell’illuminismo, viene qui sostituita da quella di un progresso dialettico, che contiene sempre un lato negativo necessario. “Noi vediamo – scrive Hegel – un enorme quadro di eventi e di azioni, di infinatamente varie formazioni di popoli, stati, individui, in un succedersi instancabile…dappertutto vengono proposti e perseguiti fini…Diffuso su tutti questi eventi e casi noi vediamo un umano agire e soffrire, una realtà nostra dovunque e perciò dovunque una inclinazione o un’avversione del nostro interesse…Talora vediamo il più vasto corpo di un interesse generale procedere con maggiore difficoltà, e disgregarsi lasciato in preda ad infinito complesso di piccoli rapporti; talora vediamo nascere il piccolo da un enorme dispiegamento di forze, e l’enorme da ciò che appariva insignificante…e se una vien meno, ecco che un’altra ne prende il posto.” Hegel prosegue, asserendo che la prima categoria che impariamo “osservando la vicenda di individui, popoli e stati, che per un certo tempo esistono…e quindi scompaiono, è la categoria del mutamento.” “A questa categoria del mutamento è però senz’altro connesso anche l’altro motivo, che dalla morte sorge nuova vita.” E qui si innesta il vero nocciolo della filosofia hegeliana della storia, ovvero che il Weltgeist, lo Spirito del mondo, lo stesso Assoluto, si incarna volta per volta nei singoli popoli, formando in ciascuno lo spirito del popolo, diventando così il soggetto che esprime la civiltà, il costume, il contributo di ciascun popolo alla storia del mondo. In ogni fase storica c’è un popolo che domina, anche attraverso la guerra, su tutti gli altri: ciò significa che in quel momento quel popolo è lo Spirito del mondo. E quando la missione sarà compiuta, quando quel popolo sarà giunto al suo declino, allora lo Spirito lo abbandonerà e si incarnerà in un altro popolo, e così via, in un processo progressivo, dove chi prevale è sempre migliore di chi soccombe. Non è che Hegel qui mostri un cinismo del tutto particolare. Trova parole tremendamente efficaci: ” Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici.” Goethe aveva scritto: “La storia è un tessuto di assurdità per il pensatore superiore.” Considerazione reiterata in una conversazione con lo storico Luden: “E anche se voi foste in grado di interpretare e di esaminare tutte le fonti, che cosa trovereste? Niente altro che una grande verità, che è stata scoperta da gran tempo e di cui non occorre cercare la conferma: la verità cioè che in ogni tempo e in ogni luogo la condizione umana è stata miserabile. Gli uomini sono stati sempre preoccupati e angosciati, si sono tormentati e torturati reciprocamente, hanno reso difficile a sé ed agli altri quel po’ di vita loro concesso e non sono stati capaci di apprezzare e godere la bellezza del mondo e la dolcezza dell’esistenza, loro offerta da quella bellezza…” (Goethe Gespräche, Gesautausgabe, a cura di F. von Biederman, Lipsia 1929, vol.I, p.434) Certo, sarebbe lecito chiedersi perchè non ci si dovrebbe fermare qui, invece di chiedersi se esista uno scopo finale. Ma Hegel, nel reiterare la domanda, insiste, ovviamente, per far passare la sua risposta. Dopo aver descritto la storia come un incessante mutamento, dove la morte segue la vita e la vita la morte, lo spiega come un concetto “orientale”, come la fenice mitica, che eternamente si distrugge nel rogo, ed eternamente risorge dalle sue ceneri. Ma questa visione della fenice, prosegue Hegel, non appartiene all’occidente. “Per noi”, cioè noi tedeschi, noi europei, noi americani, la storia è una storia dello spirito il quale, se si autodistrugge, non si ripresenta mai nella stessa forma, ma riappare “accresciuto e trasfigurato”. Questa storia del fine ultimo non è però solo occidentale, è biblica, secondo Hegel, che legge la Bibbia stessa in termini un po’ superficiali, limitandosi a constatare che Dio si è servito di egiziani e babilonesi, di persiani e romani per dare lezioni al suo popolo. Ma la vera lezione della Bibbia non è questa, evidentemente. Il fine a cui è volta la storia è tutto un altro, è l’apocalittico berremo il sangue di condottieri ed eroi, per dire basta ai macelli, e festeggiare un mondo nuovo. Questa sarebbe la vera ragione che governa il mondo, se il mondo desiderasse davvero farsi governare dalla ragione. Ma, affermare questo, per Hegel, sarebbe porsi sulla linea del dover essere e dell’utopia, mentre egli cerca anche qui la riconciliazione con la realtà, in questo caso la realtà storica. Hegel ha addirittura l’ardire di pensare che la storia va intesa come una “progressiva realizzazione del regno di Dio”, anzi, in una lettera a Schelling del 1795, aveva cominciato a dire che “la filosofia della storia è una teodicea”, cioè una giustificazione di Dio. Pensata in questi termini, non c’è che dire, grande e nobile lo scopo di Hegel: voleva giustificare Dio agli occhi degli uomini stolti, quelli che se la prendono con Dio, che lo bestemmiano quando le cose vanno male. Noi non possiamo che prenderne atto, con malanimo, però. Questo Dio che chiede sangue innocente proprio come un idolo a cui vanno immolati giovani greci, come un qualsiasi minotauro, proprio non ci va giù. In questo quadro diventa difficile digerire la grande e geniale trovata hegeliana dell’astuzia della Ragione (List der Vernunft), eppure essa va spiegata. Se la storia del mondo è guidata da una mano invisibile, come l’economia secondo Adam Smith, significa che tutti gli uomini hanno funzione subalterna, e qualunque cosa facciano, fanno la volontà superiore. Credono di agire liberamente, motu proprio, in realtà agiscono conto terzi, l’ineffabile spirito motore del mondo. Per Hegel, alcuni individui non fanno che conservare i costumi del proprio popolo, e questi sono la maggioranza; altri, una piccola minoranza, lo trasformano, facendo progredire la storia del mondo. Hegel li chiama “individui cosmico-storici.” Sono i grandi protagonisti della storia, come Alessandro, Cesare e Napoleone. Tutti, gli uomini, grandi o piccoli che siano, secondo Hegel, contribuiscono a realizzare fini ad essi estranei, secondo il disegno superiore che si serve di loro anche calpestando i loro fini particolari. Ecco come entra in gioco l’astuzia della Ragione, che governa il mondo in modo ovviamente provvidenziale. L’astuzia della ragione è quindi la capacità dello Spirito di usare la fiera delle umane vanità per dimostrare sempre qualcosa di nuovo, qualcosa che realizza il regno di Dio in progress. E, paradosso tra i paradossi, dopo aver mostrato che l’uomo si crede libero, ma è solo una marionetta nelle mani dello Spirito, Hegel riesce a teorizzare esattamente il contrario, ovvero che lo scopo dello Spirito è la realizzazione della coscienza di sé che si esprime nella libertà. Il fine della storia del mondo, cioè tutto questo macello, è per Hegel la libertà dell’uomo, la quale si realizza in momenti positivi e negativi, affermandosi, negandosi, mantenendo e togliendo. Hegel individua tre grandi tappe nello sviluppo storico: il mondo orientale, il mondo greco-romano, il mondo cristiano-germanico. L’antico mondo orientale, secondo Hegel, era caratterizzato dal fatto che solo uno era libero in senso assoluto, cioè il monarca divinizzato, il despota. Il mondo orientale era il mondo del dispotismo, caratterizzato non dalla legge e dal diritto, ma dal capriccio e dalle passioni di uno: gli altri dovevano solo obbedire. Al contrario, secondo Hegel, il mondo greco-romano mette in evidenza la libertà di molti. Non tutti sono liberi, perchè esiste la schiavitù, tuttavia, è attraverso questo necessario sviluppo della libertà di alcuni, che si arriverà al concetto della libertà per tutti. Riprendendo un concetto tipico dello Hegel giovanile, questo Hegel maturo e riconciliato con la realtà e la storia, insiste sul fatto che presso i greci la libertà è una “libertà bella”, immediata, che realizza un rapporto armonico tra cittadino e stato. Ma, già nel mondo romano questa armonia conosce una scissione, contrapponendo l’individuo allo stato e sviluppando, nella legge romana, soprattutto il concetto di diritto privato. Il culmine del processo storico è toccato, secondo Hegel, dalla realizzazione dello Spirito nel mondo cristiano-germanico. Cioè nella monarchia prussiana, destinata a chissà quali grandi imprese. Per Hegel, la grande novità del mondo tedesco e protestante è che tutti sono liberi, anche se si tratta, fenomenologicamente, di una libertà negata nel medioevo, quindi di una libertà solo interiore, ma che avanza nella storia, grazie al cristianesimo. La Riforma luterana, secondo Hegel, affermando che Dio non è più estraneo all’uomo, non è mediato dal clero e dai sacerdoti, ma è interiore all’uomo, attingibile da ognuno, realizza le basi ultime di quella piattaforma culturale necessaria alla libertà anche esteriore ed oggettiva. La Riforma ha così reso come non necessaria, secondo Hegel, una rivoluzione sul tipo di quella francese in Germania.
FRASI E RIFLESSIONI FAMOSE
Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. (Lineamenti di filosofia del diritto)
La mia filosofia è la risposta alle domande essenziali poste dai Greci.
Conoscere la ragione come la rosa nella croce del presente e in tal modo godere di questo, questa intellezione razionale è la conciliazione con la realtà, che la filosofia procura a coloro, nei quali una volta è affiorata l’intera esigenza di comprendere, e altrettanto di mantenere in ciò che è sostanziale la libertà soggettiva, così come di stare con la libertà soggettiva non in un qualcosa di particolare e accidentale, bensì in ciò che è in sè e per sè. (Lineamenti di filosofia del diritto)
Possiamo essere liberi solo se tutti lo sono.
Lo studio della storia della filosofia coincide con lo studio della filosofia stessa: e non potrebbe essere diversamente. Chi studia la storia della fisica, della matematica ecc., s’introduce automaticamente nello studio di quelle scienze. Ma per poter riconoscere il progresso della filosofia come svolgimento dell’Idea, nella formazione e nell’apparenza empirica in cui la filosofia si manifesta storicamente, bisogna possedere già la conoscenza dell’Idea; alla stessa maniera come, per poter giudicare le azioni umane, occorre possedere i concetti di ciò che è giusto e conveniente. (Lezioni sulla storia della filosofia)
Quando la filosofia dipinge il suo grigio su grigio, allora una figura della vita è invecchiata, e con grigio su grigio essa non si lascia ringiovanire, ma soltanto conoscere; la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo. (Lineamenti di filosofia del diritto)
Nel mondo nulla di grande è stato fatto senza passione.
La filosofia è il proprio tempo appreso in pensieri. (Lineamenti di filosofia del diritto)
L’ispirazione dell’artista è come una forza a lui estranea, un pathos non libero: il produrre ha la forma dell’immediatezza naturale; spetta al genio come a soggetto particolare, -ed è insieme un lavoro che ha da fare con l’intelligenza tecnica e con le esteriorità meccaniche. L’opera d’arte è perciò altresì opera del libero arbitrio, e l’artista è il padrone del Dio. (Enciclopedia delle scienze filosofiche)
Il negativo è sempre anche positivo.
Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto l’essenza che si compie mediante il suo sviluppo. Bisogna dire dell’Assoluto che esso è essenzialmente risultato, che esso soltanto alla fine è ciò che è in verità; e proprio in questo consiste la sua natura, che è di essere realmente effettivo, soggetto o divenir-sè-stesso. (Prefazione alla Fenomenologia dello spirito)
Se gettiamo ora uno sguardo sulla sorte di questi individui storico-universali, vediamo che essi hanno avuto la fortuna di essere gli agenti di un fine, che costituisce un grado nello sviluppo dello spirito universale. In quanto, però, essi sono anche stati soggetti distinti da questa loro sostanza, non hanno avuto quella che comunemente si dice felicità. Ma neppure volevano averla, bensì attingere il loro fine; e l’hanno attinto col loro faticoso lavoro. Essi hanno saputo soddisfarsi, hanno saputo realizzare il loro fine, il fine universale. Di fronte a un fine così grande, si sono proposti audacemente di tendervi, contro ogni opinione degli uomini. Ciò che scelgono non è quindi la felicità, bensì fatica, lotta, lavoro per il loro fine. Raggiunto il loro scopo, non son passati alla tranquilla fruizione, non son diventati felici. Ciò che sono, è stata la loro opera: questa loro passione ha determinato l’ambito della loro natura, del loro carattere. Raggiunto lo scopo, essi somigliano a involucri vuoti che cadono. E’ forse stato duro, per loro, assolvere il loro compito; e, nel momento in cui ciò è accaduto, sono morti come Alessandro, o sono stati assassinati come Cesare, o deportati come Napoleone. Si può chiedere: che cosa ci han guadagnato per sè? Ciò che hanno guadagnato è il loro concetto, il loro fine, quello che essi hanno compiuto. Guadagno di altra specie, godimento tranquillo non ne hanno avuto. (Lezioni sulla filosofia della storia)
Non la vita che teme la morte, e si mantiene intatta dalla devastazione, bensì quella che la sopporta e si mantiene in essa, è la vita dello spirito. Lo spirito guadagna la sua verità soltanto se trova se stesso nell’assoluta separazione.
Uno dei punti di vista capitali della filosofia critica è, che prima di procedere a conoscere Dio, l’essenza delle cose, ecc., bisogni indagare la facoltà del conoscere per vedere se sia capace di adempiere quel compito […] Voler conoscere dunque prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico, d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua.
L’uomo non è altro che la serie delle sue azioni.
Non c’è alcun pretore, al massimo arbitri o mediatori tra stati, e anche questi soltanto in modo accidentale, cioè secondo volontà particolari. La concezione kantiana di pace perpetua, grazie a una federazione di stati, alla quale appianasse ogni controversia, e come un potere riconosciuto da ciascun singolo stato componesse ogni discordia, e con ciò rendesse impossibile la decisione per mezzo della guerra, presuppone la concordia fra gli stati, la quale riposerebbe su fondamenti e riguardi morali, religiosi o quali siano, in genere sempre su volontà sovrane particolari, e grazie a ciò rimarrebbe affetta da accidentalità. (Lineamenti di filosofia del diritto, §.333)
Il principio del terzo escluso
Dimenticando che identità e opposizione sono opposte tra loro, il principio di opposizione viene preso anche per quello di identità nella forma del principio di contraddizione; così un concetto a cui non spetti nessuno (cfr. sopra) dei due caratteri tra loro contraddittori, oppure spettino entrambi, viene dichiarato logicamente falso, come per es. il concetto di circolo quadrato.[…] Invece di parlare secondo il principio del terzo escluso (principio dell’intelletto astratto), si dovrebbe dire piuttosto: tutto è opposto. In effetti né in cielo, né in terra, né nel mondo naturale, né in quello spirituale, c’è un’alternativa così astratta come l’afferma l’intelletto con il suo o – o. Tutto ciò che è, in qualche modo è un concreto, e quindi qualcosa in sé distinto ed apposto.[…] La contraddizione superata non è per l’identità astratta, perché questa è soltanto un lato dell’opposizione. Il risultato prossimo dell’opposizione posta come contraddizione è il fondamento che contiene in sé tanto l’identità quanto la distinzione come superate e deposte a puri momenti ideali (ideell).
(Hegel, La scienza della logica)
La contraddizione
Ma è uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell’ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale ed immanente quanto l’identità.[…]La contraddizione viene ordinariamente allontanata, in primo luogo, dalle cose, da ciò che è e dal vero in generale; si afferma, che non v’è nulla di contraddittorio. Essa vien poi anzi rigettata sulla riflessione soggettiva, che sola la porrebbe col suo riferire comparare. Ma propriamente non si troverebbe nemmeno in questa riflessione, perché il contraddittorio si dice non si può né rappresentare né pensare. La contraddizione vale in generale, sia nella realtà, sia nella riflessione pensante, come un’accidentalità, quasi un anomalia e un transitorio parossismo morboso.
(Hegel, La scienza della logica)
L’antropologia
In sé, la materia non ha nell’anima alcuna verità: in quanto per sé, l’anima si separa dal suo essere immediato e se lo pone di fronte come corporalità, che non può fare alcuna resistenza al penetrare di lei.[…] L’anima reale, nell’abitudine del sentire e del suo sentimento concreto di sé, è in sé l’idealità, che è per sé, delle sue determinazioni; nella sua esteriorità si ricorda in sé ed è relazione infinita a sé. Questo essere per sé della universalità libera è il destarsi più alto dell’anima che si fa io, dell’universalità astratta, in quanto essa è per l’universalità astratta; la quale è così pensiero e soggetto per sé, e cioè, determinatamente, soggetto del giudizio, in cui il soggetto esclude da sé la totalità naturale delle sue determinazioni come un soggetto, un mondo che gli è esterno, e si riferisce soltanto a questo, in modo che in esso è immediatamente riflesso in sé. Tale è la coscienza.
(Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
L’Arte
La forma di questo sapere è, in quanto immediata (il momento della finità dell’arte), da una parte un dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune, nel soggetto che produce l’opera e in quello che la contempla e l’adora; dall’altra parte, essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell’ideale; della forma concreta, nata dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale è soltanto segno dell’idea, per la cui espressione è così trasfigurata mediante lo spirito formatore, che la forma non mostra altro in lei fuori dall’idea. Tale è la forma della bellezza. § 559 Lo spirito assoluto non può essere esplicato in tale individualità di figurazione. Lo spirito dell’arte bella è perciò un limitato spirito di popolo; la cui universalità, che è in sé, quando si procede all’ulteriore determinazione della sua ricchezza, si fraziona in un indeterminato politeismo.[…]
(Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
I due approcci con il mito
La mitologia va considerata secondo due prospettive: la prima considera la mitologia come storie semplicemente esteriori, che sarebbe indegno confrontare con Dio. […] La mitologia va quindi considerata solo storicamente. […] Il secondo punto di vista invece non vuole accontentarsi del lato esterno delle figure e dei racconti mitologici, ma sostiene che in essi è implicito un senso generale più profondo che è compito della mitologia, come considerazione scientifica dei miti, conoscere dietro il velame. La mitologia dovrebbe quindi essere intesa simbolicamente.
(Hegel, Estetica)
L’Amore
Unificazione vera, amore vero e proprio, ha luogo solo fra viventi che sono uguali in potenza, e che quindi sono viventi l’uno per l’altro nel modo più completo, e per nessun lato luno è morto rispetto all’altro. L’amore esclude ogni opposizione; esso non è intelletto le cui relazioni lasciano sempre il molteplice come molteplice e la cui stessa unità sono le opposizioni; esso non è ragione che oppone assolutamente al determinato il suo determinare; non è nulla di limitante, nulla di limitato, nulla di finito. L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di parti particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità; partendo dall’unità non sviluppata, la vita ha percorso nella sua formazione il ciclo che conduce ad ununità completa. Di contro all’unità non sviluppata stavano la possibilità della separazione e il mondo; durante lo sviluppo la riflessione produceva sempre più opposizioni che venivano unificate nell’impulso soddisfatto, finché la riflessione oppone all’uomo il suo stesso tutto, l’amore infine, distruggendo completamente l’oggettività, toglie la riflessione, sottrae all’opposto ogni carattere di estraneità, e la vita trova se stessa senza ulteriore difetto. Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente. Poiché l’amore è un sentimento del vivente, gli amanti possono distinguersi solo in quanto sono mortali, solo in quanto pensano questa possibilità di separazione, non in quanto siano realmente qualcosa di separato, non in quanto il possibile congiunto con un essere sia qualcosa di reale. Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente. Che gli amanti abbiano autonomia e ciascuno abbia un principio suo proprio di vita significa solo che possono morire. Che la pianta abbia sale e parti di terra le quali recano in sé leggi proprie del loro operare, lo dice la riflessione di un estraneo, e significa solo che la pianta può decomporsi. Ma l’amore si sforza di togliere anche questa differenza, questa possibilità come mera possibilità, e di unificare quel che è mortale, di renderlo immortale. Il separabile, finché prima dell’unificazione completa è ancora qualcosa di proprio, crea difficoltà agli amanti: vi è una specie di contrasto fra la completa dedizione, l’unico annullamento possibile, l’annullamento dell’opposto nell’unificazione, e l’autonomia ancora sussistente: la prima si sente impedita dalla seconda. L’amore si sdegna di ciò che è ancora separato, di ciò che è una proprietà: e questo sdegnarsi dell’amore di fronte ad un’individualità è il pudore, il quale non è una reazione subitanea di ciò che è mortale, non è una manifestazione della libertà di conservarsi e di sussistere. In un’aggressione priva di amore, un animo pieno di amore viene offeso da questa ostilità, il suo pudore diviene ira che ora difende solo la proprietà, il diritto. Se il pudore non fosse un effetto dell’amore, che ha la forma dello sdegno solo perché vi è qualcosa di ostile, ma fosse qualcosa per sua natura ostile che volesse salvaguardare una proprietà attuabile, si dovrebbe dire che il massimo pudore ce l’hanno i tiranni, o le ragazze che non concedono senza denaro le loro grazie, oppure le donne vanitose che vogliono incatenare con i loro vezzi. Né gli uni né le altre amano: la loro difesa di ciò che è mortale è il contrario dello sdegno che si ha per esso: essi attribuiscono a quel che è mortale un valore in sé, sono cioè senza pudore. Un animo puro non si vergogna dell’amore, ma si vergogna che esso sia incompleto: l’amore si rimprovera che vi sia ancora una forza, un qualcosa di ostile che ne ostacola il compimento. Il pudore subentra solo con il ricordo del corpo, con la presenza personale, col sentire l’individualità: esso non è paura per ciò che è mortale, che è solo proprio, ma è paura del mortale, del proprio, paura che svanisce via via che il sensibile è ridotto sempre a meno dall’amore. L’amore infatti è più forte della paura, non ha paura della propria paura, ma accompagnato da essa toglie le separazioni, temendo solo di trovare un’opposizione che gli resista o che resti addirittura salda. Esso è un prendere e dare reciproco; nel timore che i suoi doni possano essere sdegnati, nel timore che un opposto possa non cedere al suo prendere, vuol vedere se la speranza non lo ha ingannato, se trova in ogni modo se stesso. Colui che prende non si trova con ciò più ricco dell’altro: si arricchisce, certo, ma altrettanto fa l’altro; parimenti quello che dà non diviene più povero: nel dare all’altro egli ha anzi altrettanto accresciuto i suoi propri tesori. Giulietta nel Romeo e Giulietta: Più ti do, tanto più io ho eccetera. L’amore acquista questa ricchezza di vita nello scambiare tutti i pensieri, tutte le molteplicità dell’anima, poiché cerca infinite differenze e trova infinite unificazioni, si indirizza all’intera molteplicità della natura per bere amore da ognuna delle sue vite. Quel che c’è di più proprio si unifica nel contatto e nelle carezze degli amanti, fino a perdere la coscienza, fino al toglimento di ogni differenza: quel che è mortale ha deposto il carattere della separabili, ed è spuntato un germe dell’immortalità, un germe di ciò che da sé eternamente si sviluppa e procrea, un vivente. L’unificato non si separa più, la divinità ha operato, ha creato. Ma questo unificato è solo un punto, un germe: gli amanti non gli possono partecipare nulla, sì che si ritrovi in lui un molteplice; infatti nell’unificazione non si è lavorato su un opposto, essa è pura da ogni separazione; tutto ciò per cui un molteplice può essere, può avere un’esistenza, il neo-generato deve averlo condotto a sé, opposto e unificato. Il germe si dà sempre più all’opposizione ed incomincia a svilupparsi; ogni grado del suo sviluppo è una separazione per riguadagnare l’intera ricchezza della vita. Così si danno ora: l’unico, i separati e il riunificato. Gli unificati si separano di nuovo, ma nel figlio l’unificazione stessa è divenuta inseparata. Questa unificazione dell’amore è sì completa, ma può esserlo unicamente in quanto il separato è opposto in tal modo che l’uno è l’amante e l’altro è l’amato e che quindi ogni separato è un organo del vivente. Ma oltre a ciò gli amanti sono ancora legati con molti elementi morti; a ciascuno appartengono molte cose, cioè ciascuno è in relazione con opposti che anche per colui che vi si rapporta sono ancora opposti, ancora oggetti; così gli amanti sono ancora capaci di una molteplice opposizione nel loro molteplice acquisto e possesso di proprietà e diritti. Ciò che è morto ed è in potere dell’uno è opposto ad entrambi e l’unificazione sembra poter aver luogo solo se quel che è morto cade sotto il dominio di entrambi. L’amante che vede l’altro in possesso di una proprietà non può non sentire nell’altro questa voluta particolarità; né egli può da sé togliere l’esclusivo dominio dell’altro, perché ciò sarebbe di nuovo un’opposizione contro la potenza dell’altro, non potendovi essere altra relazione all’oggetto all’infuori della padronanza di esso; egli contrapporrebbe al dominio dell’altro una padronanza e toglierebbe una relazione dell’altro, l’esclusione di tutti gli altri. Giacché il possesso e la proprietà costituiscono una parte così importante dell’uomo, delle sue cure e dei suoi pensieri, neanche gli amanti possono trattenersi dal riflettere su questo lato dei loro rapporti; ed anche se l’uso fosse comune, resterebbe tuttavia indeciso il diritto al possesso; il pensiero di questo diritto non sarebbe certo dimenticato, perché tutto ciò che gli uomini possiedono ha la forma giuridica della proprietà; e se pure il possessore pone l’altro nel suo stesso diritto di possesso, tuttavia la comunanza dei beni è solo il diritto di ognuno dei due alla cosa. (Hegel, Frammento sull’amore: L’amore, in Scritti teologici giovanili)
Lo Stato etico
§ 257 Lo stato è la realtà dell’idea etica, lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a sé stessa, che pensa a sé e che porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza dell’individuo, nel sapere e nell’attività del medesimo, la sua coscienza mediata, così come l’autocoscienza attraverso la disposizione d’animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. § 258 Lo stato inteso come la realtà della volontà sostanziale, realtà ch’esso ha nell’autocoscienza particolare innalzata alla sua universalità, è il razionale in sé e per sé. Questa unità sostanziale è assoluto immobile fine a se stesso, nel quale la libertà perviene al suo supremo diritto, così come questo fine ultimo ha il supremo diritto di fronte agli individui, il cui supremo dovere è d’esser membri dello stato.
(Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)
Il diritto internazionale e il suo fondamento
Il principio fondamentale del ‘diritto internazionale’, inteso come il ‘diritto universale’, che deve valere in sé e per sé tra gli stati, a differenza del contenuto particolare dei trattati positivi è che i trattati, come tali che su di essi si basano le obbligazioni degli stati l’uno verso l’altro, devono venir rispettati. Ma poiché il loro rapporto ha per principio la sovranità, ne deriva ch’essi sono in tal misura l’uno verso l’altro nella situazione dello status naturae, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì nella loro volontà particolare. Quella determinazione universale rimane perciò nel dover essere, e la situazione diviene un’alternanza del rapporto conforme ai trattati e della soppressione del medesimo.
(Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)
Antigone
Come figlia, la donna deve veder disparire i genitori con commozione naturale e con calma etica; ché solo a costo di questa relazione essa giunge all’esser-per-sé, di cui è capace; intuisce dunque nei genitori il suo esser-per-sé, ma non in guisa positiva. Ma le relazioni di madre e di moglie hanno la singolarità, da una parte, come qualcosa di naturale appartenente al piacere, d’altra parte come qualcosa di negativo, che ivi scorge solo il suo dileguare; e d’altra parte ancora appunto per ciò quella singolarità è un alcunché di accidentale che può venire sostituito da un’altra. Poiché dunque a tale comportamento della moglie è mista la singolarità, l’eticità di esso non è pura; ma in quanto l’eticità è tale, singolarità è indifferente, e la moglie è priva del momento del riconoscersi come questo Sé nell’altro.
(Hegel, Fenomenologia dello spirito)
Erinnerung
§ 452 L’intelligenza […]pone il contenuto del sentimento nella sua interiorità, nel suo spazio proprio e nel suo proprio tempo. Così il contenuto è l’immagine, liberata dalla sua prima immediatezza e dall’isolamento astratto di fronte ad altre immagini, ricevuta nell’universalità dell’io in genere. L’immagine non ha più la determinatezza completa, che ha l’intuizione; ed è arbitraria o accidentale, isolata in genere dal luogo esterno, dal tempo e dal complesso immediato in cui essa stava.
(Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche)
La sovranità popolare
La sovranità, dapprima soltanto concetto universa1e di quest’idealità, esiste soltanto come soggettività certa di se stessa e come autodeterminazione astratta – e, pertanto, priva di fondamento della volontà, nella quale si trova l’estremo della risoluzione. È questa l’individualità dello Stato in quanto tale; il quale, esso stesso, soltanto in ciò è uno. Però, la soggettività è nella sua verità, soltanto in quanto soggetto; la personalità è soltanto in quanto persona, e ciascuno dei tre momenti del concetto ha il suo aspetto separato per sé, reale, nella costituzione sviluppata a razionalità reale. Questo momento assolutamente decisivo della totalità non è, quindi, l’individualità in generale, ma un individuo, il monarca.
(Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)
La filosofia della storia
Fine della storia del mondo è dunque che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente, e oggettivi questo sapere, lo realizzi facendone un mondo esistente, manifesti oggettivamente se stesso. L’essenziale è il fatto che questo fine è un prodotto. Lo spirito non è un essere di natura, come l’animale; il quale è come è, immediatamente. […] In questo processo sono dunque essenzialmente contenuti dei gradi, e la storia del mondo è la rappresentazione del processo divino, del corso graduale in cui lo spirito conosce se stesso e la sua verità e la realizza.
(Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia)
L’Arte del sublime
Bellezza dell’ideale e sublimità vanno accuratamente distinte. Infatti nell’ideale l’interno compenetra la realtà esterna di cui è interno, in questa guisa, che i due lati appaiono reciprocamente adeguati e reciprocamente perciò compenetrantisi. Nel sublime, invece, l’esistenza esterna, in cui la sostanza viene portata ad intuizione, è abbassata nei confronti della sostanza, in quanto questo atto e il valore strumentale dell’esistenza esterna sono l’unico modo perché possa essere reso intuibile dall’arte l’unico Dio, che per sé è senza forma e non può essere espresso nella sua essenza positiva da nulla di mondano e di finito. Il sublime presuppone il significato in una autonomia di fronte a cui l’esterno deve apparire solo come subordinato, nella misura in cui l’interno non vi appare ma va tanto oltre che a rappresentazione non viene appunto nient’altro che questo essere ed andare oltre.
(Hegel, Estetica)
La Dialettica
La dialettica viene usualmente considerata come un’arte estrinseca che arbitrariamente porta confusione in concetti determinati e produce una semplice apparenza di contraddizioni in essi, in modo che non queste determinazioni, ma quest’apparenza sarebbe un nulla e l’intellettivo invece sarebbe il vero. […] La dialettica invece è questo immanente oltrepassare, in cui l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni dell’intelletto si espone per quello che è, cioè come la loro negazione. Ogni finito è il superare se stesso. La dialettica è quindi l’anima motrice del procedere scientifico ed è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito.
(Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche)
L’essere parmenideo
Parmenide teneva per fermo l’essere, ed era perfettamente conseguente, per ciò ch’egli diceva insieme al nulla, ch’esso non è affatto; soltanto l’essere è. L’essere, preso così assolutamente per sé, l’indeterminato, e però non ha alcuna relazione ad altro. Sembra quindi che da un cominciamento come questo non si possa andare innanzi, partendo cioè dal cominciamento stesso, che un progresso si possa avere solo in quanto all’essere si annodi dal di fuori qualcosa di estraneo. […] L’essere non sarebbe affatto il cominciamento assoluto, quando avesse una determinatezza; in cotesto caso dipenderebbe da un altro, e non sarebbe immediato, non sarebbe il cominciamento. Se invece è indeterminato, e quindi vero cominciamento, non ha nulla, per cui possa trapassare ad un altro: è in pari tempo la fine. Nulla può scaturirne, come nulla può penetrarvi. Presso Parmenide, come presso Spinoza, non si dovrebbe avanzare dall’essere, o dalla sostanza assoluta, al negativo, al finito.
(Hegel, Scienza della logica)
La proposizione speculativa
[…]Similmente anche nella proposizione filosofica l’identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella forma della proposizione; anzi la loro unità deve risultare come armonia. La forma della proposizione è il riapparire del senso del determinato, cioè l’accento che ne distingue il contenuto; che pertanto il predicato esprima la sostanza, e che il soggetto s’immerga pur esso nell’universale, ecco l’unità in cui quell’accento si smorza.[…] Il pensare, anziché progredire nel passaggio dal soggetto al predicato, dato che il soggetto va perduto, si sente piuttosto frenato e risospinto al pensamento del soggetto, sentendone la mancanza; o, dacché il predicato fu espresso esso stesso come un soggetto, come l’essere, come l’essenza che esaurisce la natura del soggetto, il pensare trova il soggetto immediatamente anche nel predicato;[…]
(Hegel, Fenomenologia dello spirito)
L’oggetto della Logica
Ora, prima di tutto, è già fuor di proposito il dire che la logica astragga da ogni contenuto, che insegni soltanto le regole del pensare, senza entrare a considerare il pensato e senza poter tener conto della sua natura. Poiché, infatti, la logica deve aver per oggetto il pensare e le regole del pensare, ha anzi in cotesto il suo particolare contenuto; ha in cotesto anche quel secondo elemento della conoscenza, una materia, della cui natura si occupa. […] Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. […] La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito.
(Hegel, Scienza della logica)
L’essere
§ 86 Il puro essere forma il cominciamento, perché esso è così pensiero puro come è, insieme, l’elemento immediato semplice indeterminato; e il primo cominciamento non può essere niente di mediato e di più particolarmente determinato
(Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Moralità ed eticità
Secondo la gradazione dello sviluppo dell’idea di volontà, libera in sé e per sé, la volontà è: A) immediata; il suo concetto è, quindi astratto, – la personalità -; e la sua esistenza è una cosa immediata, esterna: -la sfera del diritto astratto o formale; B) la volontà riflessa in sé dall’esistenza esterna, in quanto individualità soggettiva, determinata di fronte all’ universale – questo medesimo, in parte come interiorità, il bene, in parte come esteriorità, mondo esistente, e questi due lati dell’idea in quanto mediati soltanto l’un per mezzo dell’altro; l’idea, nella sua disunione o esistenza particolare, il diritto della volontà soggettiva, in rapporto al diritto del mondo e al diritto dell’idea, che, però, è soltanto in sé; – la cerchia della moralità.
(Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)
FAQ (FREQUENTI QUESITI POSTI) SU HEGEL
1. Perché nella filosofia hegeliana il finito si risolve nell’infinito?
La risoluzione del finito nell’infinito è da sempre considerata una delle tesi di fondo dell’idealismo hegeliano. Con questa teoria egli intende dire che la realtà non è un insieme di sostanze autonome, che sussistono separatamente, ma un organismo unitario, di cui tutto ciò che esiste è semplice manifestazione. Tale organismo coincide con l’Assoluto o Infinito, mentre le varie manifestazioni di esso rimandano allo stesso Infinito. Di conseguenza, il finito, come tale, non esiste in quanto ciò che noi chiamiamo finito non è altro che espressione, modo d’essere dell’infinito.
2. Che cosa significa “tutto ciò che è razionale èreale; e ciò che è reale è razionale”?
Con questo aforisma Hegel intende riassumere quello che costituisce uno dei capisaldi del suo sistema, cioè l’identità tra Ragione e realtà. La Ragione (il razionale) è reale in quanto si attua nella realtà in forme concrete; essa non rimane un concetto astratto, ideale, ma è riscontrabile nel mondo concreto poiché ogni fatto che si realizza ha la ragione del suo verificarsi. D’altra parte tutto ciò che esiste (il reale) è manifestazione concreta della Ragione; nella realtà infatti, non c’è posto per qualcosa che non sia pensiero, poiché ogni evento segue magari inconsapevolmente una certa struttura razionale. Non esiste contrasto e nemmeno differenza tra la Ragione e la realtà: ciò che accade è giusto, è logico e naturale che accada (giustificazionismo francamente discutibile). Da qui, in Hegel, l’identità tra essere e dover-essere, diversamente dalla soluzione kantiana.
3. Perché il divenire, il processo, lo svolgimento sono in Hegel indissolubilmente legati alla logica dialettica?
La dialettica, oltre ad essere la legge logica di comprensione della realtà e la legge ontologica di sviluppo della realtà, è anche la legge che regola il divenire e per questo è legata indissolubilmente ad esso. Inoltre secondo Hegel pensare dialetticamente significa pensare alla realtà come ad un insieme di processi che procedono secondo lo schema fisso di tesi, antitesi e sintesi, ovvero affermazione di un concetto, sua negazione e infine unificazione di affermazione e negazione in una sintesi superiore. Riaffermazione che viene identificata da Hegel con il termine tecnico Aufhebung, il quale evidenzia l’idea di un superamento che è sia un “togliere”, in quanto appunto qualcosa viene negato, sia un “conservare”, dato che Hegel intende la sintesi come mediazione, come unità del contraddittorio. Ogni sintesi ottenuta poi rappresenta a sua volta un nuovo punto di partenza: la tesi a cui si contrappone un’altra antitesi, da cui si svolge un’ulteriore sintesi e così via. La dialettica arriva così ad esprimere un processo che porta a raggiungere l’obiettivo di Hegel, ovvero la riunificazione del molteplice in una totalità sistematica.
4. Quali sono le differenze più rilevanti tra la filosofia di Kant e la filosofia di Hegel?
“Uno dei punti di vista capitali della filosofia critica è, che prima di procedere a conoscere Dio, l’essenza delle cose, ecc., bisogni indagare la facoltà del conoscere per vedere se sia capace di adempiere quel compito […] Voler conoscere dunque prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico, d’imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell’acqua”. (Enciclopedia delle scienze filosofiche, Bari, 1966, pag. 55)
Questo famoso e sarcastico aforisma di Hegel ci fa intuire la radicale differenza tra i due grandi pensatori tedeschi: se in Kant prevale, anche alla luce di una tradizione filosofica, che rimanda ad esempio a Locke, una impostazione gnoseologica, un preliminare interrogarsi sui limiti della conoscenza umana, in Hegel proprio questi limiti vengono abbattuti a favore di una conoscenza, di una ragione infinita, annunciata dalla rivoluzione filosofica dell’Idealismo.
Se in Kant noi possiamo conoscere mediante le forme a priori dello spirito (spazio, tempo, le categorie, l’io penso), che sole possono giudicare il materiale empirico e quindi permetterci una conoscenza scientifica del mondo fenomenico, questo comporta un insieme di conseguenze metodologiche: la conoscenza pura è distinta dalla conoscenza empirica, il mondo fenomenico è diviso dal mondo noumenico, la sensibilità è altro rispetto all’intelletto, e il mondo noumenico, la cosa in sè, va al di là della possibilità di conoscenza propria dell’uomo. Al contrario, in Hegel, ragione pura e conoscere empirico (il razionale e il reale) non sono separabili, sensibilità e intelletto sono momenti dialettici di uno stesso processo, fenomeno e noumeno perdono la loro distinzione, dato che il concetto di cosa in sè, come di una realtà non conoscibile, viene a cadere. Con Hegel viene meno, insomma, la distinzione tra piano della realtà e piano del pensiero, dal momento che al di là del pensiero, della soggettività non vi è alcuna realtà indipendente.
Il punto più manifesto del disaccordo è forse rappresentato dalla cosmologia razionale: secondo Kant la ragione giunge a proposizioni contraddittorie sul mondo (e quando il mondo viene trattato come totalità diventa un ente metafisico, non più scientifico), affermando, ad esempio, sia che la materia è composta di parti semplici, sia che la materia è infinitamente divisibile. Per Kant questa contraddizione della ragione con se stessa è una dimostrazione lampante della vacuità della metafisica (cioè di una ragione infinita, svincolata dai limiti del fenomenico). Per Hegel invece il contraddittorio diviene il motore stesso della ragione: di una ragione infinita, intesa come totalità e processo, coincidente con la stessa realtà.
Vi sono altre differenze tra i due pensatori. In particolare sul pensiero etico-politico (si pensi ad esempio alla diversa considerazione della guerra), ma qui si volevano sottolineare gli aspetti filosofici più generali, anche se non è possibile evitare un’ultima considerazione. Nella ragion pratica, per Kant Dio è un postulato, è cioè un ideale indimostrabile e trascendente rispetto alla nostra vita. Per Hegel il divino è la stessa totalità, il processo immanente, la ragione infinita che si dispiega nel reale, in cui Dio e uomo finiscono per coincidere. Ma questa coincidenza implica che il senso dell’esistenza non può essere cercato in un orizzonte esterno al mondo in cui l’uomo vive.
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5. Perché la “coscienza infelice” è una figura che può essere assunta come chiave interpretativa della Fenomenologia dello Spirito ?
La coscienza infelice può essere considerata il concetto chiave della Fenomenologia dello Spirito , perché solo tramite essa si giunge dialetticamente alla conciliazione e alla fusione tra il finito e l’infinito.
La coscienza, infatti, raggiunge il suo stato di massima infelicità nel momento in cui si presenta una separazione tra il mutevole e l’immutabile, tra la realtà sensibile e la realtà ultrasensibile.
Tale scissione risulta esplicita nella radicale separazione tra l’uomo e Dio, quando l’uomo aliena se stesso per proiettarsi e conferire valore solo in Dio. Nascono così le religioni, storicamente rappresentate dall’Ebraismo e dal Cristianesimo medievale; tali credenze non consentono però di soddisfare la pretesa umana di cogliere in una presenza particolare e sensibile un Assoluto che si dimostra irraggiungibile.
L’infelicità della coscienza viene descritta da Hegel tramite il seguente percorso:
1) la devozione: in cui il pensiero religioso è costitutivamente incapace di elevarsi a concetto;
2) il fare, l’operare: in cui la coscienza cerca di esprimersi nel mondo e nel lavoro, rinunciando ad un contatto immediato con Dio, ma finendo per riconoscere come appartenenti a Dio le proprie opere;
3) la mortificazione di sè: in cui si consuma la totale negazione ascetica dell’io a favore di Dio.
Ma il punto più basso e più infelice di questo travagliato cammino trapassa dialetticamente nel punto più alto, nel momento in cui la coscienza, tentando invano di raggiungere Dio, si rende conto di essere Dio, l’universale, il soggetto assoluto.
6. Perché la figura signoria-servitù è stata più volte rivisitata da pensatori e filosofi dell’Ottocento e Novecento?
Ogni auto coscienza ha la necessità di essere riconosciuta dalle altre, con le quali entra in rapporto. Questo rapporto però non si basa sull’amore, ma sul conflitto, in quanto il riconoscimento implica dolore, separazione e sofferenza. Nel conflitto l’autocoscienza, che pur di essere riconosciuta non teme la morte, diventa signore, mentre quella, che pur di aver salva la vita rinuncia al riconoscimento, diventa servo. Ma questo rapporto servo-signore si inverte: il signore diventa dipendente dal lavoro del servo mentre il servo, controllando i propri istinti, diventa indipendente dal proprio lavoro. L’acquisizione di indipendenza da parte del servo avviene attraverso tre fasi: l’angoscia della morte, il servizio e il lavoro. Il servo ha avuto paura non di una cosa precisa, ma della perdita della propria essenza; ha così compreso di essere un’entità indipendente e separata dalle cose esterne ed ha raggiunto la consapevolezza di sé. Tramite il servizio si è autodisciplinato ed ha imparato a controllare e vincere i propri bisogni. Infine attraverso il lavoro si è reso indipendente da ciò che produce, dando ad esso la propria forma imprimendo nel mondo la propria immagine, trasformandolo. Modellando il mondo il servo rende dipendente da sé il signore che vive in esso e ha bisogno delle cose che lo circondano. La dialettica sevo-signore è stata più volte ripresa da vari filosofi, in modo particolare dai marxisti, dagli esistenzialisti, tra cui Heidegger e Sartre. Naturalmente i marxisti hanno sottolineato la tematica dell’importanza del lavoro. Bisogna sottolineare però che Hegel non giunge a prospettare la rivoluzione politico-sociale, ma si ferma alla coscienza della indipendenza del servo e della dipendenza del signore da lui. La filosofia di Heidegger riprende il tema dell’angoscia della morte, sottolineando come essa sia alla base del raggiungimento della consapevolezza di sé. Il servo ha avuto paura della morte e da ciò deriva la sua sottomissione. Dal riconoscimento che la morte è una parte dell’Esserci nasce l’angoscia che condiziona l’esistenza quotidiana la quale viene dunque vista come una fuga dalla morte. Per finire Sartre pone l’accento sul carattere conflittuale del rapporto fra le coscienze che non possono confrontarsi se non attraverso una rottura.
7. Perchè la filosofia della natura è considerata il tallone d’Achille del sistema hegeliano?
La trattazione della filosofia della natura è concettualmente più debole, per la svalutazione che Hegel operò nei confronti della realtà naturale e delle scienze empiriche. Da un lato il filosofo tedesco presenta il passaggio da idea a natura come una sorta di caduta dell’Idea, perché antitesi; dall’altro come suo potenziamento in quanto prima realizzazione dell’Idea. Pensare alla natura in questo modo non è certo agevole: questa doppia e contraddittoria concezione della Natura rende questo passaggio il punto più oscuro della filosofia hegeliana.
8. Perché Hegel, ritenendo che la moralità debba essere superata nell’eticità, è critico nei confronti della impostazione morale kantiana?
Come si sa, l’impostazione morale kantiana si fonda sull’ imperativo categorico, ovvero su quella legge di tipo formale che indica il modo in cui dobbiamo agire. L’ impostazione morale kantiana è quindi basata sulla contraddizione tra essere e dover essere in quanto ognuno di noi nell’agire deve conformarsi alla massima universale e ad esempio considerare l’altrui persona sempre come fine e mai come mezzo; questo rende difficile, vista la tensione tra impulsi e legge del dovere, se non impossibile realizzare la felicità.
Hegel nel formulare il proprio sistema inserisce la morale all’interno dello spirito oggettivo, che agisce a livello sociale distinguendolo in tre momenti: il diritto astratto (tesi), che è la manifestazione del valore del singolo individuo e concerne quindi l’esistenza esterna della libertà delle persone; la moralità (antitesi), che è la sfera della volontà soggettiva quale si manifesta nell’interiorità e spinge all’azione; l’eticità (sintesi), che è la realizzazione del bene (tramite la famiglia, la società civile e lo Stato). Nella filosofia di Hegel il momento della moralità rimanda a Kant: entrambi i filosofi mostrano come questo momento porti al conflitto tra la virtù e la felicità, alla scissione tra la soggettività legata ai valori e il bene come si realizza concretamente. Tale conflitto che Kant non riesce e non vuole risolvere, data la tensione ineliminabile tra l’individuo e il corso delle cose, viene superato nella filosofia hegeliana grazie all’ eticità: ovvero alla realizzazione di sè nell’ambito famigliare, nella società e nella dimensione dello stato.
9. Che cosa intende Hegel per società civile e per stato?
La società civile
Con la formazione di nuovi nuclei famigliari il sistema concorde della famiglia si frantuma nel sistema atomistico conflittuale della società civile, che si identifica sostanzialmente con la sfera economico- sociale, giuridico- amministrativo del vivere insieme, cioè come luogo di scontro e incontro che dovranno coesistere tra loro.
La società civile si articola in tre momenti:
- il sistema dei bisogni che nasce dal fatto che gli individui dovendo soddisfare i propri bisogni danno origine a diverse classi ( sostanziale, formale, universale).
- l’amministrazione della giustizia, che concerne la sfera delle leggi e la loro tutela .
- la polizia e le corporazioni, che provvedono alla sicurezza sociale.
L’idea di porre fra individuo e stato la società civile, è stata ritenuta una delle maggiori intuizioni di Hegel.
Lo stato
Lo stato rappresenta la riaffermazione dell’unità della famiglia, in una dimensione più alta e con un significato più complesso e articolato. Lo stato, che Hegel definisce anche come l’ingresso di Dio nel mondo, è la sintesi del principio della famiglia e della società civile, con lo sforzo di indirizzare i particolarismi verso il bene collettivo.
Hegel rifiuta la concezione liberale di stato, poiché ritiene che comporterebbe una confusione tra società civile e stato, riducendo lo stato a semplice tutore dei particolarismi della società civile. Allo stesso modo rifiuta la concezione democratica, osservando che se la sovranità risiede nel popolo non si va incontro se non a “confusi pensieri” in quanto il popolo al di fuori dello stato è solo una moltitudine informe.
Hegel ritiene che la sovranità dello stato derivi dallo stato medesimo, che ha in se stesso il proprio scopo e la propria ragion d’essere. Lo stato hegeliano è sovrano ma non dispotico ed ha la forma di uno “stato di diritto”, senza però essere uno stato liberal-democratico. E’ proprio questo punto a risultare ambiguo e controverso per i pensatori e i critici successivi.
Hegel poi identifica la costituzione con la monarchia costituzionale moderna, la quale prevede tre poteri: legislativo, governativo, principesco.
10. In che modo intende Hegel il rapporto tra l’individuo e lo stato?.
Lo stato rappresenta l’estrema incarnazione dell’ethos o spirito oggettivo. In esso infatti la volontà dell’individuo diventa veramente libera e consapevole, anche se solo in ottemperanza alla legge.
L’individuo identifica i suoi fini particolari con lo spirito universale che è oggettivato nello stato.
Non è quindi lo stato ad essere basato sugli individui, ma sono gli individui che esistono grazie allo stato che li precede sia in senso storico temporale, in quanto gli individui nascono nell’ambito di uno stato già esistente, sia logico, in quanto lo stato è superiore ad essi.
Lo stato, che secondo Hegel deve mantenere un ordinamento monarchico-costituzionale e non democratico e liberale (secondo le teorie contrattualistiche o giusnaturalistiche a cui si ispirava l’Illuminismo), diventa dunque l’espressione dello spirito del popolo che esiste grazie alle leggi.
Il Rechtstaat di Hegel è uno stato di diritto fondato sul rispetto delle leggi e sulla salvaguardia della libertà formale dell’ individuo e della sua proprietà.
Esso è regolato da una costituzione che emerge dallo spirito del popolo in stretto raccordo con la sua storia, le sue tradizioni e le sue caratteristiche particolari e che non può perciò essere stabilita o costruita a tavolino secondo le teorie contrattualistiche.
Lo stato, inoltre, è per Hegel l’ incarnazione della volontà divina che organizza il mondo ed è quindi immune dai vincoli imposti dalla morale o da un eventuale diritto internazionale.
11. Perché diversi pensatori contemporanei (tra cui Popper e Bobbio) sono critici nei confronti del pensiero politico di Hegel?
Nel pensiero politico di Hegel, la razionalità contiene implicitamente la libertà, ovvero lo sviluppo della ragione coincide con il progresso dialettico dell’essere liberi. L’individuo è davvero libero quando si riconosce in organismi etici che lo trascendono come la famiglia e lo stato. Ma se ci si pone dal punto di vista dell’individuo si è condannati a non raggiungere mai l ‘universalità in quanto la ragione “reale” non è quella dell’individuo ma quella dello spirito o dello stato, che per Hegel sono “sostanza” proprio nel senso etimologico di sub-stantia, cioè di sostrato che regge e rende possibile ogni atto della vita individuale . Quindi le idee di Hegel dimostrano la loro appartenenza a quella che Popper chiamava “Società chiusa”, cioè individui regolati secondo norme rigide di comportamento; nettamente in contrasto invece il punto di vista dello stesso Popper, il quale sosteneva la “Società aperta” dove il cittadino è salvaguardato tramite istituzioni più democratiche rispetto allo statalismo hegeliano. Anche Bobbio ha insistito sul fatto che gli aspetti anti-democratici del marxismo nuocevano alla salute della società ed egli stesso ha aderito più volentieri ad ideali socialisti liberali. Riguardo agli aspetti storicamente “conservatori” della filosofia politica hegeliana, Bobbio ha scritto ad esempio: “Hegel non è un reazionario ma non è neppure un liberale: è puramente e semplicemente un conservatore, in quanto pregia più lo stato che l’individuo, più l’autorità che la libertà, più l’obbedienza che la resistenza, più il vertice della piramide (il monarca) che la base (il popolo)…”. Del resto, lo stato di diritto di Hegel, pur non essendo uno stato “dispotico” e pur garantendo la libertà “formale” della persona e della sua proprietà, è pur sempre uno stato dichiaratamente ostile a quelle idee di suffragio e di rappresentanza parlamentare che, a cominciare dall’Inghilterra, hanno cambiato il volto politico dell’Europa.
12. Che ruolo svolge lo spirito assoluto nel sistema di Hegel?
Nel sistema hegeliano lo stato appartiene al momento dello spirito oggettivo. Ma, nel processo dialettico, questo momento viene trasceso da quello che Hegel chiama il regno dell’Idea Assoluta, che si articola in arte, religione e filosofia. In sostanza sono le forme della vita culturale a ricadere nella sfera dello spirito assoluto, nel senso che la più alta e universale attività dell’uomo risiede nella produzione estetica, nell’atteggiamento religioso, nella riflessione filosofica. E’ importante notare che Hegel distingue tra il territorio del finito, entro cui viene collocata l’eticità (quindi lo stesso stato) e il territorio dell’infinito, che non può mai essere subordinato a qualche cosa d’altro. Per questo il compito spirituale più alto non dovrebbe mai venire imbrigliato da un potere esterno, ma essere il frutto di una libertà reale, espressione piena dello spirito del popolo. Arte, religione e filosofia non si differenziano per il loro contenuto, ma per la loro forma: l’arte incontra l’idea assoluta nella forma dell’intuizione sensibile, la religione nella forma della rappresentazione, la filosofia come puro concetto. Ma l’arte, la bellezza, può cogliere la verità del tutto solo con la mediazione di un elemento sensibile; e la religione, che nella sua manifestazione più alta (il cristianesimo) ci rappresenta l’assoluto attraverso l’immagine di un dio personale, riproponendo così la scissione della coscienza infelice tra dio e mondo, sono forme non completamente adeguate dello spirito assoluto, che solo nella mediazione filosofica trova la sua verità. Non solo la filosofia è l’unità dell’arte e della religione, ma in quanto autocoscienza assoluta dello spirito porta a compimento l’autentico significato della sua stessa storia, scoprendo che le varie concezioni filosofiche si succedono secondo lo svolgimento dialettico delle determinazioni concettuali dell’idea. In questo modo Hegel giunge a unificare la filosofia con la storia della filosofia e fa del proprio sistema la sintesi di tutte le parziali, ma necessarie, verità del passato: la totalità dispiegata della verità.
LE INTERPRETAZIONI NEL NOVECENTO
1. Interpreti del giovane Hegel
1.1 La riscoperta degli anni giovanili ed i suoi effetti
Una buona parte delle più originali letture hegeliane è condizionata dalla considerazione del percorso formativo di Hegel e quindi del suo pensiero, con speciale riguardo ai frammenti giovanili, riscoperti proprio in pieno ‘900. L’esigenza di questa riscoperta fu avanzata innanzitutto da un lavoro di Dilthey (Storia della giovinezza di Hegel, 1905), teso a caratterizzare il primo Hegel all’interno del romanticismo tedesco. Gli scritti giovanili in questione erano interpretati nella direzione di un “panteismo mistico”. Il fine ultimo di Dilthey era quello di creare le condizioni per la valorizzazione di questo periodo nella conoscenza e nell’interpretazione globale del pensiero hegeliano. Questo fine trovò nell’edizione curata da Nohl degli scritti giovanili (Scritti teologici giovanili, 1907), il suo strumento privilegiato. Non bisogna soffermarsi sui caratteri di questa operazione, attuata nel clima della filosofia della vita e del neoromanticismo storicista, ma considerare la trasformazione che essa apportò agli studi hegeliani, trasformazione ben visibile a partire dal primo dopoguerra. L’operazione critica e filologica di Dilthey-Nohl (definita tendenziosa perché la dicitura ‘scritti teologici’ può essere accettata in un senso molto lato, comunque discutibile) sviluppò una mediazione culturale di vasto raggio, da cui prese le mosse una vera rinascita hegeliana. Hegel, il filosofo del sistema compiuto e della logica totalizzante, aveva un passato da teologo, o meglio da scrittore di cose religiose. Le ambiguità e le difficoltà degli Scritti teologici portavano inevitabilmente alla considerazione delle grandi opere in una luce nuova. Gli scritti teologici avevano un carattere peculiare. Anche se non trattavano di argomenti filosofici, ma piuttosto di teologia, dogmatica, storia delle religioni, e quindi non vi si presentava un apparato di nozioni filosofiche tecniche, di concetti determinati, erano singolarmente audaci ed allusivi. La considerazione di questi scritti, perciò, ebbe un effetto retroattivo sulla problematica di tutta la prima produzione filosofica hegeliana. Quest’ultima tendeva ad assumere una nuova ‘figura’, e l’effetto di maggiore portata è consistito nella necessità di prendere il periodo che va dai primi esperimenti teorici sino alla Fenomenologia dello Spirito come un tutto unito e autosufficiente.
1.2 Il giovane Hegel in Francia
Il primo grande fenomeno culturale relativo alle condizioni or ora citate è lo sviluppo di un ampio ciclo di studi hegeliani in Francia, a partire dagli anni ‘30. In Francia Hegel viene studiato insieme a due grandi nemici ed interlocutori del suo filosofare: Marx e Kierkegaard. Il primo, i cui inediti giovanili (accessibili proprio a partire dal 1932), aveva lasciato un’ampia testimonianza sulla sua maturazione filosofica a fianco e contro l’idealismo assoluto.Per quanto invece riguarda Kierkegaard, nella Francia degli anni ‘30 il suo pensiero costituiva il mezzo ed il veicolo per l’acclimatamento delle più avanzate filosofie tedesche sul suolo francese. La fenomenologia di Husserl e l’esistenzialismo di Heidegger, come si può immaginare. La contaminazione reciproca tra Hegel e Marx, tra Hegel e Kierkegaard, non avrebbe avuto la sua innegabile fertilità se non fosse stata preparata dalla riesumazione di uno Hegel ‘irrazionalista’ da parte di Dilthey. Negli Scritti Teologici, infatti, l’attenzione per argomenti e problemi specificamente storici ha il suo correlativo nell’impiego atipico e, per così dire, sperimentale, di nozioni estranee ad una vera e propria tradizione filosofica (‘spirito del popolo’; ‘destino’, per citare alcune delle più famose). Quello che conta è di queste nozioni filosoficamente atipiche è l’impiego che ne viene fatto; soprattutto, il fatto manifesto che da questo impiego prenderanno faticosamente forma i grandi motivi del sistema, quindi le prospettive dominanti della filosofia hegeliana, osservata a ritroso. Descriveremo alcuni tratti delle prime tematiche hegeliane, ma senza una esposizione organica, e cioè presentando le interpretazioni di Wahl, di Lukacs e di Hyppolite.
1.3 Wahl
1.3.1 Hegel come scrittore di cose religiose
Le tesi di Wahl sugli Scritti teologici, e quindi sul rapporto giovane Hegel- Hegel maturo tendono a cogliere in questi scritti un particolare clima, “..una sorta di intuizione mistica e di calore affettivo.”(2). Qui Hegel è sensibile soprattutto ai dilemmi dell’esistenza, alle inquietitudini del vissuto. I temi hegeliani, cioè, si riferiscono ad una dimensione esistenziale concreta ed irriducibile. Presentandosi allo stato fluido, liberi dalle esigenze di una vera formulazione concettuale, rivelano una dimensione arazionale dell’esperienza. L’esigenza di pensare le dissonanze del mondo concreto si presenta nella riflessione del giovane filosofo insieme alla tendenza ad un uso libero dell’interpretazione storica e teologica; i tentativi di concettualizzazione che vi si manifestano precorrono la dialettica e la prospettiva del sistema, ma non nel senso di un formulario logico omnicomprensivo (che è la versione sulla quale si appoggierà ogni hegelismo di scuola). Ciò che vale per questo Hegel deve valere per tutto Hegel, nel senso che la forza espressiva del suo sistema è comunque in ogni punto animata dal senso dello squilibrio e della scissione sentite, prima che concettualizzate, negli scritti del periodo di Berna e di Francoforte. Secondo Wahl, se la dialettica è già presente in questi scritti, essa si pone innanzitutto come un’esperienza. Come un che di irriducibile alla logica e alle esigenze propriamente teoretiche della filosofia. Prendiamo la nozione hegeliana di positività, che costituisce un momento centrale nella tematizzazione del cristianesimo: essa si identifica col tentativo di cogliere l’influsso dello spirito religioso all’interno del proprio ambito, quindi al di fuori della razionalità propriamente detta. Tentativi di questo tipo potevano procedere soltanto dalla presa d’atto del predominio dell’irrazionale in ogni manifestazione della vita. La positività della religione ebraico-cristiana testimonia ineluttabilmente la necessità dell’irrazionale all’interno dell’esperienza che l’uomo fa dell’Assoluto. La via d’accesso per la considerazione di questa esperienza è quindi proprio la religione nel significato storico che essa ricopre. Hegel, cresciuto tra i fermenti della prima rivoluzione esplicitamente antireligiosa della storia, sentiva fortemente il problema del significato globale del cristianesimo. Una religione è ‘positiva’, cioè rivelata, in quanto prescinde dalla dignità morale del singolo, dalla sua capacità di determinarsi come essere responsabile delle propie azioni. “L’uomo lega necessariamente il suo pensiero dall’eterno all’accidentalità del suo pensare”.(3) Wahl prende spunto da questi attriti tra razionale e arazionale, tra necessario e contingente, per ricostruire nel giovane Hegel la testimonianza di un’esperienza vivente di pensiero. Esperienza, che proprio per le sue qualità è ancora eterogenea rispetto al progetto di un sistema. Anche se non si può negare la continuità e la complessità del percorso formativo hegeliano, bisognerà sempre tenere presente quanto il sistema della ragione dialettica sia radicato in un contesto di temi e argomenti che confinano con l’esperienza mistica e con tutte quelle circostanze peculiari della condizione umana. Con una serie di fatti, cioè, che non possono, per loro natura, uscire dalla vita per farsi razionalità, senso universale. Anche l’indugiare del pensiero hegeliano in problematiche di tipo religioso è, secondo Wahl, il sintomo di un ‘dolore teologico’ vissuto in prima persona da Hegel stesso, e in seguito rimosso nella conciliazione filosofica tra il Logos e la storia dello Spirito. Lo sforzo continuo di includere la dimensione esistenziale nella dinamica del processo dialettico costituisce tutta la dimensione probelmatica della filosofia hegeliana, ma anche il suo momento rivelatore per l’interprete attuale. Il problema non è quello della continuità tra il teologo ed il filosofo, quanto quello dell’incessante tendenza con cui, a dispetto delle raffinate architetture teoretiche, il primo si manifesta dietro le sembianze del secondo. Il nucleo della logica dialettica non è esso stesso logico, ma al contrario minaccia la coerenza e l’inclusività del sistema in ogni sua parte. Questo testimonia uno sforzo mai compiuto, mai riuscito, verso la soppressione delle inquietitudini e delle problematiche che avevano mosso il giovane Hegel al filosofare. “la filosofia di Hegel…costituisce uno sforzo verso la razionalizzazione d’un fondo che la ragione non raggiunge”.(4)
1.3.2 Hegel contro Hegel: radicalizzazione delle tesi di Wahl
Ecco i termini in cui si pone il problema; in se e per sé, la presa di posizione di Wahl non è particolarmente originale, perché già Kroner (Von Kant bis Hegel, 1921-24) aveva constatato che “la dialettica è l’irrazionalismo fatto metodo, fatto razionale”. Per comprendere appieno, cioè nella sua radicalità, la posizione di Wahl, bisogna esplicitare il fondo kierkegaardiano della sua impostazione. Il problema non è costituito dalla religione in sé, ma dal suo contenuto esperienziale, e da tutto ciò che esso veicola: le rivendicazioni del vissuto, i paradossi della decisione, nella loro refrattarietà a qualsiasi cristallizzazione concettuale. La prova concreta di ciò la si ritrova proprio nel fatto che le tonalità dello Hegel ‘storico pensante’, pur rimanendo sepolte all’interno delle grandi opere, possono essere colte proprio mentre “rischiano di far esplodere l’armatura del sistema”(5) L’irriducibilità dei motivi esistenziali e religiosi alla logica totalizzante (incapace di restituire la dimensione esperienziale della realtà umana) del Sapere Assoluto rende essenzialmente disarmonica, oscillante e ambigua l’immagine di un percorso univoco e continuo, omogeneo, tra la prima esperienza del pensiero hegeliano ed il suo successivo sviluppo sistematico. Il pensiero vivente della condizione umana è continuamente sul punto di far collassare i presupposti dell’unità strutturale (dialettica) di logica e metafisica. Il risultato di questa interpretazione, per certi versi iperbolica, è che mediante essa l’opera di Hegel veniva singolarmente rivolta contro se stessa. Essa, infatti, si era nutrita di posizioni caratteristiche dell’antihegelismo di Kierkegaard, di istanze analoghe e in maniera altrettanto radicale. Penetrando a fondo e immedesimandosi nel sentimento religioso, anzi nella dimensione umana ed esistenziale che ne costituisce la cornice, Hegel si rivelava il critico più insidioso e accanito della propria filosofia. Hegel contro Hegel, ovvero Hegel precursore del suo peggior nemico. “Prima di costruire il suo sistema, Hegel è stato uno dei più vigorosi teorici dell’irrazionalismo”.(6)
1.4 Hyppolite
1.4.1 La polis greca, la totalità etica
Hyppolite è un altro protagonista della rinascita francese degli studi hegeliani, un interprete altrettanto attento alla maturazione del pensiero hegeliano, in cui mira a cogliere l’originalità delle fonti giovanili ed il loro differente apporto (i tragici greci, la storia del cristianesimo, i problemi della società borghese ecc.). Il giovane Hegel, per Hyppolite, manifesta sin dall’inizio una fondamentale indipendenza dalle impostazioni ‘moralistiche’ ed individualistiche di Kant e Fichte (a questa indipendenza si unisce la sua refrattarietà per le questioni gnoseologiche come tali). Il filosofo di Stoccarda, rivoltosi alla storia prima che alla filosofia, pensa la sua nozione fondamentale di totalità (o universale concreto) innanzitutto a partire dal significato della polis greca, intesa come esperienza unica ed irripetibile della storia del mondo. In essa la comunità sovraindividuale viene espressa e vissuta direttamente, cioè senza mediazioni, dai singoli; l’intero, la totalità, ci vengono consegnati dalla storia prima che dalla ragione. L’individuo e il tutto si compenetrano, e il primo si realizza attraverso uno spirito finito (oggettivo) che costituisce la destinazione, il senso ultimo del suo agire. La compenetrazione di uno e molteplice, della parte e del tutto viene pensata e riconosciuta in un’esperienza storica. “L’incarnazione dello spirito è una realtà individuale e universale che appare nella storia del mondo sotto la forma di un popolo”.(7) Il tema del necessario manifestarsi dello spirito attraverso una forma finita è sviluppato in un senso e con un tenore che, nella lettura di Hyppolite, fa del tragico un aspetto originario, e perciò gravido di conseguenze, della filosofia della storia hegeliana. Il giovane Hegel, insomma, tentava di elaborare la strumentazione teorica per concepire come lo spirito esista e si manifesti in un’esperenza storica singolare, unica, e ciò significava indicare nel tragico il contesto ed il senso di questa esperienza, che è poi il passaggio dal mondo antico a quello della cristianità.
1.4.2 Il tragico: storia e destino
La ricostruzione del percorso giovanile di Hegel va sviluppata a partire dalla componente tragica quale si manifesta nei principali passaggi della storia occidentale. Tuttavia, per Hyppolite, non bisogna mai considerare questa prospettiva filosofica a prescindere dal suo principale intento: quello di esprimere la necessità dello spirito di manifestarsi nel particolare e nell’accidentale; come particolare e accidentale, quindi. L’idea di un elemento tragico all’interno della storia dello Spirito è ben visibile nel passaggio dal mondo pagano a quello cristiano. Questo passaggio era stato elaborato dal giovane Hegel alla luce della nozione di destino: vediamo come. Il popolo, un popolo è sempre un modo di apparire dello Spirito; esso vi è presente come la compenetrazione reciproca di singolo e totalità, che ogni vita pubblica presuppone in differenti forme. Il mondo greco costituiva il massimo esempio di equilibrio armonico tra singolo e comunità, come espressione di una vita spirituale completa. La possibilità di cogliere in una prospettiva totalizzante la storia passata doveva comunque spiegare la perdita di quest’armonia, la comunità ebraica ed il sorgere del cristianesimo. Il popolo ebraico ha un valore paradigmatico perché ha elaborato la propria identità attraverso una separazione netta dagli altri popoli ed un rapporto esclusivo con il proprio dio monoteistico. A partire da qui, Hegel dà un nuovo senso all’idea tragica di un destino al di sopra dell’uomo. L’ebraismo si pone come consapevolezza del popolo come entità determinata, che si conosce attraverso la propria storia e che tuttavia deve cogliere la sua destinazione come un’insieme di fatti estranei, il cui senso non può essere recuperato e ricostituito nel presente. Il destino appartiene al popolo ebraico nella misura in cui questo non può riconoscersi nei propri atti passati, così come non può riconoscere nel mondo la sede privilegiata del proprio agire. La sua individualità non si fonda solo sull’esclusione delle altre, ma anche sul fattore di estraneazione presente nel rapporto con la realtà (8). L’idea di un destino come attributo esclusivo del popolo esprime questo stato di cose: si elabora la propria identità storica attraverso l’opposizione al proprio altro, ma questa opposizione attraversa l’identità stessa, è interiorizzata dal popolo come individualità consapevole. La dialettica dell’alienazione, che Hyppolite ricostruisce in questa interpretazione, è questa coincidenza sempre mancata tra l’azione (i riti, il culto, la vita pubblica come dimensione esteriore) e il suo risultato, che si rivela un destino estraneo al soggetto, e che il soggetto concorre a realizzare. L’interpretazione filosofica della differenza tra il contenuto spirituale del mondo greco e il destino del popolo ebraico pone su nuove basi la concettualizzazione del tragico, che coincide con l’espressione teorica del rapporto tra Spirito e divenire storico. Ecco i capisaldi per un’idea della storia come dialettica, quindi come alienazione.
1.4.3 Senso generale del pensiero hegeliano alla luce degli scritti giovanili
Per Hyppolite, quindi, la concezione tragica della storia – considerata in modo adeguato – è il primo atto di un pensiero in cui la necessità di una visione totalizzante del divenire mondano deve culminare in un rapporto attivo ed incessante tra razionale e irrazionale, tra senso (azione cosciente) e non-senso (destino estraneo). “La visione che Hegel prende della storia è tragica. L’astuzia della ragione non vi figura da semplice mezzo per congiungere l’inconscio al conscio [Schelling] ma da tragico conflitto, sempre superato e sempre rinnovato, tra l’uomo e il suo destino. Questo conflitto Hegel ha cercato di pensare, e di pensarlo in seno all’assoluto stesso.”(9) Per Hyppolite, il pantragismo, che in questi scritti costituisce la prospettiva dominante per la comprensione della vita all’interno del divenire storico, esprime già l’esigenza fondamentale di una logica dialettica. La comprensione genetica presente nella lettura di Hyppolite è infatti volta a delineare la solidarietà e la complementarietà tra questa visione pantragistica e la successiva fondazione panlogistica. La sua prospettiva interpretativa è più equilibrata e aperta a soluzioni congetturali, rispetto a quella presente in Wahl. Soprattutto, al contrario che in Wahl, essa è proiettata in avanti, nella prospettiva della descrizione razionale del processo dialettico, anche a partire da questi elementi eterogenei. Hyppolite accetta di considerare l’incidenza della mistica, ma per meglio comprendere la logica: “Siamo di fronte ad un’immagine mistica, quella di un Assoluto che si divide e si spezza per essere assoluto, e non può essere che un si che dice no al no; ma in Hegel tale immagine mistica si traduce nell’invenzione del pensiero dialettico, e questo pensiero vale per lo sforzo intellettuale che attua di fatto.”(10) Dedicando un articolato commento alla Fenomenologia dello Spirito (Genesi e Struttura della ‘Fenomenologia dello Spirito di Hegel’,1946) l’hegeliano francese fa suo il bisogno di cogliere il momento centrale, decisivo del percorso hegeliano, nel quale “..troviamo tutto l’itinerario culturale percorso da Hegel prima di giungere alla filosofia, e lo sforzo prodigioso del logico per far rientrare questa viva esperienza nel quadro di una rigorosa riflessione”.(11) La sua prospettiva interpretativa, quindi, elimina in principio l’esigenza di stabilire “..se la logica ha slerotizzato questa vitao se, al contrario, come volle Hegel, questa vita ha pervaso la logica stessa” (12).
1.5 Lukàcs
1.5.1 Un’interpretazione controcorrente
Per completare il quadro delle maggiori letture sul giovane Hegel è necessario mensionare le posizioni di un critico estraneo all’hegelismo francese e altrettanto alieno da quelle tendenze esistenzialistiche che, dalla Germania, si ripercuotevano sugli studi hegeliani, marxiani o kierkegaardiani. Si tratta di Lukacs, del quale esaminiamo lo studio intitolato Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica. L’obbiettivo riconosciuto del libro è quello di togliere terreno proprio a quelle interpretazioni che in qualche modo avevano reso il filosofo di Stoccarda un padre dell’irrazionalismo, rendendolo irriconoscibile. Questa critica si avvale comunque di un criterio di lettura storica già collaudato, perché considera i problemi posti dalla formazione di Hegel, e le linee che si alternano al suo interno, come un unico percorso che conduce dagli Scritti teologici alla prima grande opera, la Fenomenologia. Questo percorso, soprattutto per ciò che riguarda l’atteggiamento implicito in Hegel nei confronti della politica, della religione, del suo tempo è accostato con le alterne vicende della Germania del primo ottocento. Quindi la lettura del filosofo ungherese si concretizza nella rivendicazione di una sostanziale vicinanza tra i primi sforzi teorici hegeliani ed i problemi della realtà tedesca. Proprio a partire da questi si tocca il problema dello Hegel testimone e interprete dell’affermazione del capitalismo e della definitiva formazione della società borghese. Non bisogna con ciò pensare che Lukacs non riconosca il carattere decisivo, teoricamente risolutivo, che la riflessione su motivi teologici possiede, almeno per lo Hegel del periodo francofortese. La sua operazione si opponeva tanto al neokantismo quanto alla traccia posta da Dilthey per la comprensione del giovane Hegel. Nel primo caso, bisognava spiegare che il recupero di Hegel al ‘soggettivismo agnostico’ espresso nella filososia kantiana costituiva un’impresa anacronistica ed illecita; ricondurre la nozione dialettica di soggettività al kantismo era negare il ruolo attivo dell’hegelismo nella filosofia tedesca. Nel secondo, la collocazione degli scritti giovanili all’interno del misticismo romantico operava una falsificazione dei contenuti più importanti dei primi scritti, proprio quei contenuti a partire dai quali potrà essere pensata dialetticamente la storia delle società. Secondo Lukacs, se gli Scritti teologici hanno un valore, esso va considerato insieme alle altre fonti del giovane Hegel, in parte andate perdute in parte escluse dalla raccolta citata. L’edizione Dilthey-Nohl, che escludeva gli scritti di carattere politico, implica una scelta di fondo unilaterale. Le prime formulazioni della dialettica, infatti, esprimono innanzitutto la risposta teoretica agli sconvolgimenti allora in atto nelle scienze naturali (la nuova scienza chimica, la genetica, Lamarck), il cui valore andrebbe studiato e valutato a fondo. Inoltre, il senso, o meglio il ruolo delle filosofie idealistiche, non può essere colto nella sua dimensione formatrice, nella suo riferimento alla società in mutamento, senza che con questo si comprenda proprio il rispecchiarsi dei grandi eventi rivoluzionari nella piccola ed immatura realtà tedesca. “Hegel ha non solo quella che è senz’altro, in Germania, la più alta e la più giusta comprensione dell’esesenza della Rivoluzione Francese e del periodo napoleonico, ma è nello stesso tempo il solo pensatore tedesco che si sia occupato seriamente dei problemi della rivoluzione industriale in Inghilterra; il solo che abbia messo i problemi della economia classica inglesse in rapporto con la filosofia, coi problemi della dialettica”.(13) E’ stata anche la soluzione e l’interpretazione di problemi concernenti la sfera dell’economia politica, presi nel loro significato storico-sociale, a motivare il primo sorgere della teoria dialettica. Il giovane Hegel, grande interlocutore delle questioni politiche e pratiche del suo tempo, le riconosce come il prodotto di un lungo e faticoso processo, all’interno del quale la religione cristiana ricopre un significato fondamentale. Il significato storico della religione, tuttavia, deve essere riconosciuto in questi scritti non a partire dalle influenze del misticismo romantico, ma a partire dall’attenzione del giovane Hegel per i problemi etici, inerenti alla sfera della prassi sociale. Questi problemi, divenuti fondamentali con Kant e Fichte, sono posti da Hegel, sin dall’inizio, su basi non individualistiche. E’ un tema che abbiamo già incontrato: il nostro filosofo cerca, nelle sue interpretazioni storiche, l’unità tra il fattore pratico-morale e la dimensione comunitaria. “..il soggettivismo del giovane Hegel è sin dall’inizio collettivo e sociale..”(14). Un soggettivismo che, perciò, può essere considerato il primo antenato di quella nozione dialettica della totalità, della prospettiva dominante nella costruzione idealistica che influenzò a fondo il marxismo di Lukàcs.
1.5.2 Il rapporto con la religione e l’anticipazione di motivi marxiani
Nella misura in cui il pensiero metafisico del soggetto si nutre sin dall’inizio di queste istanze pratico-sociali, estranee alla prospettiva kantiana, il rapporto con la religione nelle prime riflessioni hegeliane va sottoposto ad una radicale revisione. Il fatto che queste riguardino l’essenza, cioè il significato storico del cristianesimo, vuol dire che esso costituiva, per il filosofo tedesco, “..la causa in ultima istanza decisiva di tutti i fenomeni sociali e politici della vita moderna, contro cui è diretta la sua lotta principale” (15). Hegel distingue le contraddizioni della modernità proprio in quanto la considera un risultato della rottura prodotta ed interpretata dal cristianesimo. La sua sensibilità per i contrasti del mondo borghese si ripercuote negativamente sulla sua spiegazione del cristianesimo. Il fatto che egli abbia avuto, in seguito, degli atteggiamenti oscillanti ed ambigui nei suoi confronti non toglie nulla alla forza di questa interpretazione fortemente polemica e negativa. La forza della tesi di Lukacs sta nel fatto che essa si misura anche con quegli aspetti per i quali le interpretazioni ‘irrazionalistiche’ sembrano più motivate. L’importanza della religione, la centralità dei motivi teologici, vanno comunque ricondotte ad una fondamentale impostazione, ad un atteggiamento di fondo che ha nel soggetto come agente storico collettivo il suo tratto principale. La nozione di positività, infatti, diviene all’interno di queste riflessioni il primo passo verso la futura concezione dialettica della storia, perché in realtà i tentativi teorici presenti in questi inediti testimoniano, da varie angolature, l’importanza che Hegel assegnava alla genesi ed all’efficacia delle idee religiose. Allo stesso modo, il contrasto kantiano e fichtiano tra io e mondo viene riconosciuto e ricostruito a partire dalla portata storico-sociale della religione rivelata, mediante la quale “..questioni di vita decisive diventano problemi trascendenti, inaccessibili alla ragione”(16). E’ questo contatto primordiale tra i bassi bisogni della vita comunitaria ed il carattere rivelato e positivo delle religioni a presentare già un’impostazione dialettica, cioè soggettiva, che poi Feuerbach svilupperà da sé. L’origine di una teoria dialettica, cioè dinamica e totalizzante, del reale, e la volontà di cogliere il carattere dell’esperienza religiosa all’interno della soggettività storica sono quindi correlate sin dall’inizio. Inoltre, la natura aporetica, teoricamente indecidibile, del concetto di positività non è, per Lukacs, un effetto dell’irrazionalismo del giovane Hegel, quanto un risultato della sua coerente posizione idealistica. Tutta la problematicità di questo concetto si ritrova, ad un livello di complessità e di contraddittorietà ancora superiore, in quello più maturo di oggettività, in cui, in sintonia con un idealismo condotto ai suoi ultimi risultati, viene abolito ogni essere indipendente dalla coscienza. Quindi la riflessione sulla positività, in un certo senso, ci restituisce in buona parte le problematiche che Lukacs trova decisive nel primo Hegel. Eccole: le fondamenta idealistiche della sua riflessione storica; la contraddittorietà dei suoi concetti; ultimo ma non meno importante, i ‘presentimenti’ di una dialettica materialistica propriamente detta, ravvisabili in maniera confusa all’interno di questi tentativi. Pensare metafisicamente fatti storici come l’irruzione della morale cristiana significava anche concepire la storia delle società umane come un immenso lavoro collettivo e non consapevole, in cui l’uomo costituisce la sua realtà, pur estraniandone il senso in una dimensione sovramondana. Pensare in termini radicali l’essenza positiva del cristianesimo non significa esprimere filosoficamente inquietitudini religiose o attitudini tragiche. La positività di Hegel è un primo approccio al problema dell’alienazione, perché il soggetto sociale produce la sua essenza relegando i suoi problemi vitali nel mondo pacificato dell’Aldilà, sublimando i bisogni concreti nei contenuti religiosi. Il giovane Hegel viene accostato al giovane Marx, perché in entrambi l’essenza dell’uomo è il lavoro dell’uomo, lavoro mediante il quale l’uomo produce se stesso. Il problema metafisico dell’essenza dell’uomo, cioè, diventa il problema della sua attività di autoproduzione ed autooggettivazione nel mondo storico, a proprosito della quale i significati religiosi (ideologici) rivelano una dinamica fondamentale. Se tutta la storia umana è prodotto dell’attività sociale, questa stessa attività a sua volta produce altro e più rispetto a ciò che gli uomini si sono proposti; il pensiero dialettico è fatto proprio per penetrare in questa dimensione alienata della realtà storica.
Insomma, tenendo fermo quello che si dice a proposito del carattere idealista della nozione hegeliana di oggettività, Lukacs tenta di ricostruire, all’interno del giovane Hegel, quel lato che anticipa la critica marxiana alle forme alienate di oggettività sociale; un lato che fa tutt’uno con il valore del metodo dialettico, ed è inseparabile da esso.
2. La Fenomenologia dello Spirito nella interpretazione di Kojève e Wahl
2.1 Kojève
2.1.1 La centralità dell’autocoscienza nella Fenomenologia
L’interpretazione di Kojéve verte sull’idea della morte all’interno della filosofia hegeliana. La sua interpretazione della Fenomenologia trova nella parte riguardante la relazione servo-padrone (il passaggio dalla coscienza all’autocoscienza) l’asse principale di tutta la dialettica. Analizziamo quindi alcuni tratti di questo capitolo, per poi valutare le tesi sviluppate a partire dalla sua considerazione. L’essenza della coscienza, è chiaro, sta nella sua necessità di trascendersi continuamente, necessità che la rende radicalmente differente da ogni essere esclusivamente naturale. L’essere naturale è costitutivamente incapace di trascendersi da se stesso e per se stesso: è condotto al di là della propria esistenza soltanto da un Altro, cioè dalla morte biologica. “Invece la coscienza è per se stessa il proprio concetto…la negazione delle proprie forme limitate..”(17). La coscienza, al contrario dell’ente naturale, è essenzialmente rapportarsi all’Altro: oggetto, mondo o natura. Ma il rapporto con il proprio Altro è, principalmente, attività. La natura pratica dell’autocoscienza implica un superamento del sapere l’altro in quanto Altro, che è il tratto dominante della coscienza presa nella sua semplicità e nella sua essenzialità. Quindi l’autocoscienza è il farsi attiva da parte della coscienza, a partire dal proprio sapere sé come autonoma. L’autocoscienza esprime il lato soggettivo della vita universale, cioè il rispecchiamento della vita in se stessa, in una forma di attività cosciente. Questo grado superiore, attivo, della soggettività all’interno della vita naturale, non è altro che il desiderio. L’autocoscienza, come desiderio, è una tendenza incessante verso l’attuazione della propria identità; e l’identità dell’autocoscienza, la sua autonomia, può essere ottenuta soltanto come risultato della negazione e dell’inglobamento dell’esser-altro come tale. “l’appetire è questo movimento della coscienza che non rispetta l’essere [naturale] ma lo nega, cioè se ne impadronisce concretamente e lo fa suo”.(18) L’autocoscienza, l’espressione più alta della soggettività, non può trovare la sua oggettività nel desiderio di un ente naturale. Bisognerà quindi descrivere come due autocoscienze si rapportano all’interno della vita animale. L’appetito può raggiungere la verità dell’autocoscienza soltanto a patto che il suo oggetto, il vivente desiderato, si manifesti a sua volta come un altro desiderio. L’autocoscienza è e si realizza come desiderio, e più precisamente come desiderio di un altro essere desiderante (autocosciente); il suo è un processo di conglobamento e superamento dell’Altro come tale. L’autocoscienza è a se stessa certezza assoluta; le manca quindi il lato della verità. Per l’altra autocoscienza, invece, essa è soltanto un vivente, dato ed esteriore. Ma la sua certezza si costituisce proprio attaverso la negazione del dato; essa deve trovarsi nell’altra, cioè attraverso la consapevolezza di questa altra.
2.1.2 Autocoscienza e realtà umana. La nozione di riconoscimento
L’autocoscienza è interpretata da Kojéve come espressione dei tratti determinanti della realtà umana. L’attività di trascendimento del dato, del mero sussistere che caratterizza l’ente naturale, o l’oggetto della coscienza sensibile, contraddistingue la condizione dell’uomo. Il desiderio è quindi la dimensione prevalente della realtà umana; ma si tratta di quella forma particolare che esso assume come desiderio di riconoscimento (vedi sotto). L’uomo contrappone a ciò che è dato ciò che non lo è (ancora); desiderare significa innanzitutto sentire “la presenza di un’assenza”, cioè agire in funzione di qualcosa che non c’è, e negare ciò che c’è per ottenere questo qualcosa. La presenza dell’uomo nel mondo naturale è in un qualche modo, nel suo immediato significato pratico e conoscitivo, una testimonianza della negatività. L’uomo si sa tale soltanto desiderando, e desidera sempre a prescindere da ciò che è ed in funzione di ciò che non c’è. La negatività dell’azione trasformatrice che contraddistingue l’uomo testimonia la sua irriducibilità all’esistenza naturale pura e semplice. Lo Spirito, o, nella terminologia hegeliana, il Sé, esprime proprio la necessità di una sintesi più alta, che possa ricomprendere e ricomporre la negatività dell’azione all’interno della natura, come momento del divenire dello Spirito. La dialettica, in Kojève, viene riscoperta mediante l’analisi e la descrizione delle dinamiche di riconoscimento tra soggetti viventi-autocoscienti. Il significato fondamentale della dialettica è inseparabile dall’interpretazione della realtà umana come desiderio di un desiderio, cioè come azione volta al riconoscimento e alla negazione della datità naturale. Cogliere il suo senso vuol dire cogliere il valore ‘antropogeno’ (cioè generatore dei contenuti della vita umana) di tutta questa dinamica. L’autocoscienza, che ha una certezza soggettiva assoluta, desidera il desiderio di un Altro. Essa, cioè, trova la sua verità soltanto qualora il suo desiderio venga riconosciuto da un altro desiderante, quando un’altra autocoscienza riproduce al suo interno quella dinamica per la quale essa si pone a se stessa come un valore assoluto. Qui assoluto significa: al di sopra della vita biologica. L’autocoscienza deve trovare il suo Sè in un altro essere desiderante, e riconoscerlo e volerlo come tale. Non può realizzarsi se non mediando i bisogni vitali con questa consapevolezza, che è anche un agire. Le autocoscienze ingaggiano perciò una lotta a morte: sanno che il bisogno di essere riconosciuti dall’Altro gli è essenziale quanto la vita stessa, che pure ne costituisce la condizione necessaria ma non sufficiente. Questo fatto, che la vita è comunque altrettanto essenziale del desiderio di riconoscimento, si trova alla fine come risultato e verità ultima della lotta mortale tra le autocoscienze. La morte, dal punto di vista dell’autocoscienza, è un puro fatto biologico, una negazione (astratta) che, come tale, non può soddisfare il bisogno di riconoscimento. La morte dev’essere rischiata, ma non realizzata. Soltanto sapendo che l’altro sa, e riconosce, che ho rischiato la vita per affermare l’autonomia della mia soggettività, troverò appagato il mio bisogno di riconoscimento. Dovrò lasciare la vita al mio avversario, e soddisfare la mia esigenza togliendogli l’autonomia, ma non la vita. La difesa della vita come tale lo situa su un gradino inferiore a quello della realtà dell’autocoscienza. La lotta a morte avrà perciò come risultato un servo ed un signore: ridurre l’altro ad un rapporto servile significa sopprimere dialetticamente il suo lato autocosciente. Il servo, il vinto risparmiato, esiste ora come un essere-dato (cioè come un ente naturale) nella coscienza del signore, perché dal suo punto di vista la conservazione della vita biologica è l’essenziale. La descrizione hegeliana della lotta tra le autocoscienze per il riconoscimento esibisce le qualità fondamentali del pensiero dialettico-fenomenologico: l’universalità della relazione; la centralità della negazione (negazione della datità biologica, rischio della morte). “Con la sua scoperta della nozione di riconoscimento Hegel si trova in possesso della nozione chiave di tutta la sua filosofia: attraverso l’analisi di questa nozione fondamentale si comprende tanto la connessione dei diversi elementi ed aspetti della dialettica hegeliana, quanto i reciproci rapporti tra gli scritti filosofici di Hegel”.(19) Il desiderio, la condizione per la quale ciò che sussiste viene negato per qualcosa che non c’è ancora, e del quale tuttavia si percepisce l’assenza, esprime il suo senso rivelatore proprio nella circostanza che l’uomo, per ottenere il riconoscimento del prestigio – il rischio della propria vita per il riconoscimento della propria autonomia attraverso un Altro – si pone nelle condizioni di negare la sua stessa esistenza naturale. “Affinché ci sia effettivo riconoscimento, e quindi, realtà oggettiva umana (giacché l’uomo è umano e, insieme, oggettivo, solo in quanto riconosciuto), occorre che uno dei due avversari acconsenta a riconoscere l’altro senza essere riconosiuto da lui: uno dei due deve sottomettersi all’altro”.(20)
2.1.3 Valore ateistico della lettura di Kojève
La cosciente esposizione al rischio definitivo della morte ha per la posizione interpretativa di Kojéve un significato dominante: attraverso di essa si esprime la coscienza della propria finitezza e mortalità da parte dell’uomo. E’ a partire da questo spunto che viene sviluppata un’assimilazione dei principali contenuti del pensiero hegeliano in una chiave ontologica, esistenziale ed in ultima istanza ateistica. L’origine dell’attività propriamente umana, della storia, non è che nella presa di coscienza della propria finitezza. Questa coscienza, implicita nella lotta tra servo e padrone, o meglio nella condizione che ne risulta, diviene esplicita nella coscienza del filosofo (Hegel) che sa che nulla sussiste fuori del tempo, che tutto deve manifestarsi attraverso di esso. Descrivere l’esperienza della coscienza vuol dire, di fatto, restituire il suo continuo movimento di trascendimento nella dimensione del tempo. La dialettica servo-padrone, dominata dall’istanza del desiderio, fonda la dimensione della vita propriamente umana e dell’uomo in quanto libero, singolo e storico. Ma questa identificazione della realtà umana non sarebbe possibile se non esprimendo il significato essenziale del contatto con la morte, contatto cui si espongono tanto il servo quanto il padrone, prima di divenire tali. “..se l’Uomo può esistere come individuo, è esclusivamente perché l’universalità della morte può essere presente in lui quando è ancora vivo: idealmente nella coscienza che ne ha; realmente, grazie al rischio volontario della vita…”(21) L’uomo designa una qualità radicalmente estranea a quella dell’ente naturale proprio perché si sa mortale, ed agisce (nega) affermanndo la propria finitezza nel tempo. Producendo la sua essenza come storicità, temporalità. E’ proprio da questi punti che Hegel, secondo Kojève, sviluppa ante litteram un’ontologia della finitezza ed una comprensione autonoma della realtà umana, in piena sintonia con il pensiero heideggerriano. La descrizione della realtà umana e del mondo storico si fonda sulla messa al bando di ogni Aldilà, di qualsiasi nozione di una realtà trascendente. L’alternativa è infatti, nella lotta tra le autocoscienze, quella tra una morte naturale pura e semplice e la vittoria di un’autocoscienza, con il relativo scindersi del processo nei due lati: il servo, il signore. La prima designa l’uomo come essere ancora naturale, passivamente; la seconda ne fa – sia come servo che come signore – il soggetto consapevole del mondo storico, il portatore di valori umani come il prestigio, il lavoro, il progetto ecc. “Negare la sopravvivenza significa in realtà negare Dio stesso. Infatti,dire che l’uomo, il quale effettivamente trascende la natura nella misura in cui la nega (mediante l’azione), tuttavia si annienta non appena si situa fuori di essa morendo come animale, significa dire che non c’è nullla al di là del mondo naturale. Il mondo non-naturale, trascendente, divino, non è in realtà se non il mondo ‘trascendentale’ dell’esistenza storica umana.”.(22) L’esistenza umana ha un valore trascendentale perché introduce l’azione negatrice ed il suo elemento, la temporalità, all’interno della quieta ciclicità della vita biologica. Questo mondo ‘trascendentale’, che l’uomo ha realizzato, non può tradursi in una trascendenza se non a condizione di perdere il suo carattere fondamentale: quello di essere finito in quanto temporalità. E’ proprio quello che avviene con il cristianesimo. Hegel ha preso le mosse dall’antropologia implicita nel concetto giudaico-cristiano: l’azione umana come fatto estraneo al mondo naturale, la libertà umana come dato negativo e negatore di fronte ad un universo perennemente uguale a sé, statico. Tuttavia, a differenza della teologia cristiana, Hegel pone e descrive questo uomo come finito in se stesso e per se stesso nel tempo. Il tempo come dimensione autosufficiente ed esaustiva, tale da conglobare l’essenza stessa dell’uomo, è lo stesso mondo storico creato dall’azione, in quanto ha un inizio ed una fine. Fine che coincide con lo stesso sapere di questo mondo storico-la filosofia hegeliana. L’ azione umana, nel suo apparire tale, è essenzialmente mortale. Cioè: il senso proprio dell’azione umana, la sua universalità che tuttavia resta particolarità, si trova sempre a partire dal contatto estremo con la morte, con la finitezza.
2.2 Wahl
2.2.1 Dialettica e fenomenologia nella ‘coscienza infelice’. La scissione e il dolore
Torniamo agli studi di Wahl, che ha condotto un’operazione analoga a quella di Kojève, ma con risultati e presupposti completamente differenti, se non opposti. La base comune ai due interpreti si può enunciare senza grandi difficoltà. Per entrambi l’idea scientifica di una fenomenologia contiene e costituisce l’intera logica dialettica di Hegel. E’ perciò alla Fenomenologia che ci si deve rifare, per non rischiare di assumere la filosofia hegeliana attraverso uno sterile schematismo. Per entrambi, inoltre, è l’impiego ed il senso di una particolare figura fenomenologica a rivelare il contenuto problematico del pensiero dialettico, costituendo così una vera chiave per misurare l’attualità di Hegel. Wahl parte dalla figura della coscienza infelice per delineare una nuova immagine dello hegelismo, per molti versi alternativa rispetto alla versione ateistica di Kojève. La figura della coscienza infelice, che nella struttura interna della Fenomenologia costituisce il momento della completa interiorizzazione della dialettica servo-padrone, è per Wahl l’anima vivente della dialettica. “La nozione capitale che segna qui l’ingresso della teologia apologetica nella storia, che diviene essa stessa una logica, è quella di coscienza infelice.”(23) Nella coscienza infelice il rapporto tra certezza e verità è continuamente perduto e ritrovato; meglio ancora (vedi sotto), è trovato come già perduto. Essa possiede cioè la sua certezza, il suo sapere sé, proprio come un qualcosa di mutevole ed inessenziale, contrapposto all’immutabile (Dio) verso cui tende. La sua natura è perciò contrassegnata dal dolore, perché alla sua consapevolezza di voler raggiungere l’immutabile si accompagna sempre la coscienza della propria mutevolezza. Il mondo, il lavoro e tutte le sfere dell’attività umana sono sentite come dolorose; la sofferenza dello spirito religioso si traduce in una vera e propria visione del mondo. La sua certezza riguarda soltanto la contraddizione, la coscienza è certa di sé e dell’oggetto attraverso la contraddizione. La realtà implicita nella coscienza infelice è quella di una dualità che è, per la sua forma, unità, che lei stessa è incapace di cogliere. La condizione costitutiva di questa figura fenomenologica è quella di non potersi trovare attraverso questa unità, che è solidarietà di termini contraddittori. Poiché le è impossibile cogliere questo lato della sua dialettica, essa vede al posto di questa solidarietà la confusione ed il reciproco passare dei due termini l’uno nell’altro. “..essa vede bensì che l’immutabile è la sua essenza, senonché separa tale essenza dal proprio essere, la pone fuori di lei.”(24) Le sfugge la sua realtà, che può darsi solo come unità dei due termini, e si conosce soltanto attraverso una scissione, che si traduce in dolore ed in un rapporto negativo con il mondo materiale. Per descrivere la dinamica della coscienza infelice in termini sintetici, diremo che essa, quanto più sente la propria intima lacerazione, tanto più tende alla propria unità. Per esprimerne il significato sistematico e dialettico, seguendo Wahl, diciamo invece che essa non si limita a subire il dolore di questa lacerazione. Al contrario, la spiritualità del religioso permane presso il suo dolore, proprio nella misura in cui non può uscire da sé per cogliere la propria realtà nell’unità dei contraddittori.
2.2.2 Ruolo della coscienza infelice nella logica del concetto
Ci avviciniamo così ad un punto essenziale: questo soffermarsi nel dolore della lacerazione, lungi dall’esprimere l’impotenza e l’inerzia della coscienza, costituisce la possibilità che questo dolore si rovesci nel suo contrario. Che si dia una dialettica in senso propriamente soggettivo, quindi. “L’infelicità, che è il rovesciamento di un opposto nell’altro, diviene essa stessa infelicità rovesciata, diviene felicità”; “..proprio trasferendo nel divino stesso l’idea di separazione, come s’è riferita al divino l’idea della morte, si comprende che questa separazione dev’essere necessaria a un’unione sempre più profonda.”(25) Non c’è formulazione della dialettica, per Wahl, se non a partire dall’esperienza del dolore nella coscienza; infatti la sofferenza del religioso, colta nella sua dimensione fenomenologica, si esprime come separazione e contraddizione, ma rimanda al rovesciamento del dolore nella felicità. Perciò attorno alla figura della coscienza infelice si consolidano le fondamentali nozioni di mediazione e di soppressione dialettica. “Per operare un’unione infinita la religione presuppone una separazione infinita; la riconciliazione presuppone un dolore anteriore; la restaurazione dell’armonia, una differenza profonda.”(26) Il dolore del religioso è quindi inseparabile dalla forza di sopportare questo dolore, e questa forza a sua volta indica la possibilità di una sublimazione della sofferenza nella felicità, della mancanza nella pienezza, del contrasto nell’armonia. Questo punto spiega tecnicamente la qualità principale del concetto hegeliano, una nozione che acquista verità attraverso il suo approfondimento, che diviene contenuto a se stessa inglobando il suo opposto. Il discorso procede ponendo la sintesi progressiva tra l’infelicità della coscienza divina e quella umana, accomunate da una stessa negatività; “..se la natura è il prodotto della negatività di Dio, Dio è la negatività stessa della natura; e al pari della loro infelicità, felicità di Dio e felicità dell’uomo fanno tutt’uno…”(27) Quindi è nell’interiorità dello spirito religioso che si sviluppano gli attributi fondamentali per un’esposizione dialettica e fenomenologica della coscienza: la dualità della coscienza che, incapace di concepire la propria unità, si rivela manifestazione dello Spirito. La conciliazione degli opposti, per il religioso, è necessariamente relegata in un Aldilà, perché la coscienza infelice, in qualsiasi posizione si riconosca e si collochi, si ritrova sempre in quella opposta. Qui la dinamica non è quella dell’autotrascendimento – che, nella Fenomenologia, è inerente ad ogni forma di coscienza – quanto quella dell’interiorizzazione del trascendimento. In altri termini, la coscienza infelice è la consapevolezza che, malgrado ogni superamento della propria essenza mutevole, essa permarrà entro di sé. Non otterrà mai, cioè, l’oggettività come coscienza, ed al tempo stesso non potrà mai annientarsi nel suo opposto. L’Aldilà è irraggiungibile per definizione, e “la coscienza è consapevole della sua nullità perché è consapevole di essere alla sua radice altro da nulla”(28) L’identificazione di sostanza ed autocoscienza, secondo Wahl, si delinea a partire da qui; infatti Hegel pensa la sostanza come passaggio all’opposto mediante il suo approfondimento immanente. La coscienza infelice, che resta nell’interiorità nel suo dolore, esprime la necessità concettuale della permanenza in seno al proprio opposto; realizza quindi le condizioni strutturali dell’unità di sostanza e soggetto. E’ nella dimensione interiore di una spiritualità lacerata, e non nella dialettica servo-padrone, che vanno cercati i caratteri fondamentali della dialettica, così come viene a formularsi nella Fenomenologia. “C’è infelicità perchè c’unità di una coscienza in luogo della dualità del signore e del servo, ed anche, allo stesso tempo, perché c’è conoscenza.”(29)
2.2.3 L’inseparabilità di sapere e dolore
L’intero itinerario della coscienza, e con esso il contenuto stesso della dialettica, è una rivelazione dell’essenza immutabile, dell’Assoluto o dello Spirito, attraverso un sapere che è innanzitutto infelicità. Cioè incapacità di superare completamente quella prospettiva che pone nell’unità un’opposizione, che trova l’immutabilità attraverso un inglobamento e un rovesciamento dell’opposto e nell’opposto. E’ la coscienza che, di fatto, supera il momento della trascendenza pura e semplice, ma tuttavia senza rendersene conto. La sua consapevolezza è contemporaneamente consapevolezza del nulla della sua certezza. Questa condizione, secondo Wahl, esprime in modo completo la relazione essenziale tra l’esperienza della coscienza e la vita dello Spirito che ne costituisce il fondamento ultimo. “…lo stadio della coscienza infelice non si produce una sola volta nella vita dello spirito, si ritrova bensì i differenti momenti della fenomenologia; superato, esso torna tuttavia ad afferrare la coscienza ad una nuova svolta del suo itinerario..”(30)
Come dovrebbe risultare ora, la lettura di Wahl è tutta animata dallo sforzo di restituire al pensiero hegeliano una vitalità che ha origine dalle più originali (e non perciò razionali, né propriamente limpide) intuizioni del nostro filosofo. Intuizioni il cui carattere è quello della refrattarietà alla chiusura del sistema. Le sue tesi sul giovane Hegel vedevano nel problema religioso, vissuto ed esperito prima ancora che pensato, il nucleo di uno sviluppo intellettuale che soltanto in seguito si pretenderà espressione di una razionalità assoluta. Le affermazioni sopra riportate sulla formazione intellettuale hegeliana sarebbero illecite o incomplete, se non si fossero misurate con un’interpretazione della dialettica come questa, che procede da una concreta figura fenomenoologica. Per ammissione dello stesso Wahl, infatti, anche nelle parti più astratte e neutrali dell’opera di Hegel si può ritrovare la “fiamma interiore” dell’esperienza religiosa e del dolore della coscienza. La stessa positività del concetto, motivo centrale della logica, non può derivare che da quella divisione infinita attraverso cui si esprime il divino, e che si riproduce nella coscienza infelice, rivelandosi progressivo arricchimento.
Tutto il ritmo della vita spirituale è dunque caratterizzato dal movimento della mediazione, della conciliazione di opposti. In questo percorso a ritroso, tale movimento si rivela fondato sull’evento fondamentale della vita della coscienza: l’infelicità. Prendere coscienza dell’infelicità è già cercare di superarla; anche, implicitamente, porre la necessità di un convergere degli opposti, di un rovesciamento dell’infelicità nella felicità. La lettura di Wahl, che è una lettura aperta, mette in evidenza la reversibilità di questo processo. E’ la lacerazione, la forza irrazionale del sentimento religioso (sentito da Hegel in prima persona), a riproporsi incessantemente all’interno della formulazione idealistica, costringendola a nuove svolte. Nelle tesi sul giovane Hegel, abbiamo visto, era il romantico a ricomparire dietro al filosofo razionalista. Perciò “non si può muovere obiezione più forte al sistema hegeliano nella sua forma definitiva che questa: per quanto ricco esso sia, non è abbastanza ricco da contenere la moltitudine di pensieri, immaginazioni, speranze e sconforti del giovane Hegel. L’uomo Hegel distrugge il suo sistema nello stesso tempo in cui l’espone.”(21)
Questa contraddizione, esposta nelle sue estreme conseguenze, ci restituisce secondo Wahl la vitalità del pensiero hegeliano, che sopprime e conserva quel sentimento del dolore, l’infelicità dello spirito religioso, in ogni sua parte. “…Wahl è riuscito a ricavare un timbro umano dalle formule glaciali della dialettica hegeliana, mostrandoci la fiamma che quel ghiaccio ricopriva.”(32)
3. La filosofia della storia hegeliana e i suoi interpreti
3.1 La filosofia della storia come problematica generale del pensiero hegeliano
Nei capitoli precedenti abbiamo potuto seguire, anche se non in maniera organica, la formazione di alcune importanti tematiche hegeliane attraverso quella sequenza che porta dagli scritti teologici alla fenomenologia. Ora, a partire da questo capitolo, dobbiamo invece adottare una visione ‘sincronica’, cioè volta ad alcuni temi generali del pensiero hegeliano maturo, a prescindere dal suo contesto formativo. Gli autori che consideriamo ora, infatti, anche se non accettano le coordinate teoriche del sistema come verità ultima della filosofia hegeliana, neppure possono evitare una valutazione generale della dialettica, ripercorrendo verticalmente alcuni motivi fondamentali che vengono sottratti agli stererotipi delle interpretazioni ottocentesche e primo-novecentesche. Si poteva cercare un filo conduttore nella filosofia della storia, perché è attraverso di essa che alcuni motivi concettuali possono essere analizzati in tutta la loro ampiezza, senza essere ricondotti ad un percorso univoco e già dato. Nel primo autore considerato, Bodei, l’attualizzazione della filosofia sistematica viene effettuata attraverso la continua riproposizione dello sfondo storicistico che anima il progetto filosofico di Hegel. Dimostrazione che la partizione del sistema filosofico, organizzato come enciclopedia, non costituisce più la via privilegiata per una valutazione generale dell’incidenza dello hegelismo. Il rapporto tra la filosofia e il suo tempo, infatti, deve essere compreso tenendo presente gli influssi culturali che condizionano la reciproca assimilazione del pensiero e dell’epoca, anche se questi non sono immediatamente riconoscibili all’interno della formulazione sistematica. Il problema è quello di dare nuovi strumenti per ” rendere leggibile il sistema hegeliano nei suoi presupposti e in se stesso “; per spiegare ” l’apparente paradosso di una filosofia, che si proclama variabile dipendente dell’epoca, e poi sembra svolgersi in modo ‘autarchico’ rispetto al mondo.”(33) Anche per Lowith, più concentrato sulla fase storica del dopo-Hegel che sulla filosofia dialettica come tale, il problema della filosofia della storia rappresenta la dimensione ideale per valutare il significato generale, il peso storico, del pensiero hegeliano nel suo insieme. La giusta comprensione della scuola hegeliana, infatti, porta all’affermazione che i problemi che vi si presentano erano già posti con nettezza dalla filosofia hegeliana, e facevano capo al rapporto tra la filosofia e la storia del mondo; è il problema che, in seguito, sarà legato alle vicende dello ‘storicismo’. Anche la prospettiva sistematica, alla quale è essenziale l’idea di una verità che si svolge e si esplica nel tempo e come tempo, è strettamente legata all’interpretazione storica di una verità unica che si manifesta attraverso una pluralità di filosofie. La fede nella storia come unica possibile sede per l’affermazione di un senso globale della realtà fa comunque della filosofia di Hegel un’espressione imprescindibile della metafisica moderna, anche dal punto di vista dai suoi sviluppi successivi, fino alle versioni contemporanee dello storicismo.
3.2 R.Bodei
3.2.1 Il duplice rapporto tra ragione e storia. Due figure simboliche atte ad esprimerlo
L’ampio saggio che ci accingiamo ad esaminare, Sistema ed epoca in Hegel, si può riassumere come il tentativo di pensare l’attualità storica del filosofo attraverso la forma di scienza propugnata nel suo modello di razionalità: il sistema. L’attualità storica è infatti per la ragione hegeliana un termine di riferimento imprescindibile, percorso tanto in direzione del passato quanto in direzione del futuro. Ma cosa lega un nuovo modello di razionalità ad una data età storica? E come è possibile che un sistema scientifico, esposto in forma enciclopedica, possa considerarsi l’espressione e la presa di coscienza dei tempi moderni? Per Hegel il senso, e quindi il ruolo, della filosofia, si determina a partire dalla ragione come contenuto di eventi, eventi che si rivelano la maturazione definitiva di un lungo processo. L’ordine di fatti cui ci si riferisce è quello che esprime il senso unitario della Riforma luterana e della Rivoluzione Francese. Consideriamoli per un attimo, così come fa Bodei. La versione luterana del cristianesimo, rivendicando al singolo un rapporto assoluto con Dio, si pone come momento di massima valorizzazione della libertà soggettiva. La rivoluzione giacobina, d’altro canto, anela alla realizzazione dell’universale-la ragione-come uguaglianza di ciscuno sotto la legge, come riconoscimento globale del diritto di volere attribuito al soggetto. Ora, in Hegel, il potenziale di crisi espresso dai tempi moderni è considerato all’interno di un quadro in cui la ragione si muove da se stessa e si concretizza, in modo contraddittorio, nel reale e come questo stesso reale. Le trasformazioni storiche, i meccanismi economici, l’avanzamento stesso della scienza e del sapere seguono un unico filo, quello di un ‘istinto della ragione’ che solo con il pensiero teoretico ottiene il dovuto riconoscimento. La filosofia dialettica, secondo Bodei, esprime la sua intrinseca attualità rapportandosi sin dall’inizio con l’aspetto critico del mondo storico contemporaneo. Questo mondo, stadio terminale di un faticoso susseguirsi di mutamenti, non è del tutto in grado di esprimere la razionalità che lo costituisce, anche se soltanto in forma casuale, non cosciente e comunque parziale. Non è il giudizio saccente di un sapere estraniato dai fatti; questo pensiero prefigura, in negativo, il compito della filosofia. Cioè: raccogliere e riconoscere, nel contenuto della storia umana, così come nel proprio sviluppo discorsivo, una logica intrinseca agli eventi, ma riconoscibile soltanto a partire dalla loro compiuta maturazione. La ragione è realtà, ma la ragione è anche e soprattutto discorso filosofico: i ruoli e i significati sono differenti, ma soltanto nel loro coappartenersi reciproco. Bodei sviluppa questa problematica prendendo spunto da due metafore compresenti ed interagenti all’interno dell’opera di Hegel. La prima è volta ad esprimere il movimento cieco, e tuttavia orientato, di una razionalità che costituisce l’orizzonte e la comprensibilità-la traducibilità in pensiero-della storia reale. E’ la figura della talpa (34), animale che costruisce percorsi complessi e ordinati attraverso uno scavo incessante nel buio più totale, guidata soltanto dall’istinto di un senso dello spazio particolarmente sviluppato. In Hegel, simbolizza il cammino della storia come un progressivo affermarsi della razionalità inconscia contenuta implicitamente nell’attività degli uomini, nella costruzione di un mondo storico. La seconda figura è quella – famosissima – della nottola (35), animale sacro a Minerva, che in qualche modo esprime il profondo rapporto tra la filosofia e il tempo storico. La ragione filosofica, spiega Bodei, è al tempo stesso assimilazione del proprio tempo nell’elemento del pensiero e, simultaneamente, congedo da esso, presa d’atto del suo essere-compiuto. Cogliere queste metafore nel loro valore sia concettuale che storico-cioè come modalità fondamentali dell’ambivalente relazione tra storia e ragione, è quindi lo scopo del libro esaminato. “La direzione principale di ricerca sarà quella di far scaturire progressivamente la rete categoriale dalla rete metaforica, la forma del proprio tempo appreso in pensieri dal suo contesto concreto..”(36)
In Hegel c’è una forte presa di coscienza di come la nascita di una filosofia sia espressione del precipitare dei tempi, dell’attualità di una crisi irreversibile. Il bisogno della filosofia è radicato all’interno di una condizione sociale di disgregazione e di disarmonia; una condizione in cui gli individui tendono a vedere nel pensiero soggettivo il luogo idoneo per una conciliazione con il reale e per una libertà autentica. La filosofia partecipa al movimento delle forze disgreganti in atto nella realtà storica, ed in questo senso è rivolta al futuro. La filosofia, come parte attiva della propria epoca, ne opera la delegittimazione-o perlomeno la relativizzazione-nel senso di una razionalità che deve ancora tradursi in effettualità, proprio nel momento in cui è stata fomulata come ssitema della scienza. “Hegel sottolinea il peso specifico della filosofia nel provocare il crollo di un assetto politico e nell’aprire una situazione rivoluzionaria…Ogni filosofia, compresa la sua, è anzi secondo Hegel rivoluzionaria, nel senso che, con la potenza del concetto, sottrae forza all’esistente, e presenta, in alternativa, un ‘mondo nuovo’ razionale che accelera la distruzione del vecchio.”(37)
3.2.2 L’epoca come senso e contenuto del sistema
Ora bisogna affrontare quei passaggi dell’interpretazione di Bodei che evidenziano il ruolo anticipatore della filosofia, proprio a partire dalla forma sistematica. Sappiamo che il sistema implica un’idea totalizzante-compiuta ed autosufficiente-, del sapere; tuttavia, in quanto questo sapere è espressione cosciente del reale (l’epoca in cui è stato concepito), è il reale stesso ad essere descritto come insieme compiuto e non-compiuto. Come è possibile? Dovremo concepire la realtà storica come passivo adeguarsi di forme inerti al demiurgo del sistema, se non cogliamo questo elemento. La storia (occidentale, greco-cristiana) è certo compiuta, perché il pensiero, riconoscendosi come l’espressione, come il frutto più maturo della propria epoca, l’ha compresa come il darsi realtà da parte dell’universale, come realizzazione della ragione. La storia è anche incompiuta, aperta al futuro attraverso la crisi, perché la scienza filosofica che ne coglie adeguatamente il senso implica già uno stadio superiore raggiunto dallo Spirito. La coscienza dei tempi contenuta nella filosofia-sistema, cioè, implica alternativamente il riconoscimento dell’inadeguatezza del presente,e del suo necessario venir meno, oppure il nuovo slancio in avanti, verso il superamento dei limiti posti. Rivolgendosi al suo tempo e ai contenuti che lo contraddistinguono, la filosofia incita al superamento di entrambi. La talpa simbolizza il moto inarrestabile della ragione, che tende ad acquisire sempre più realtà, cioè ad esplicitare il contenuto razionale della realtà stessa. La nottola, la filosofia, riconosce post festum la necessità (in senso logico, innanzitutto) di questo processo, ma così facendo, invita la ragione a tradursi nuovamente nella realtà, mettendo in questione il presente attraverso le sue contraddizioni. Il pensiero non può ritrovare la ragione nel momento storico che lo ha visto nascere senza collocarsi attivamente, allo stesso tempo, all’interno della sua dinamica di crisi. La forma scientifica concepita da Hegel attua l’esigenza di “…ordinare il cumulo delle conoscenze secondo un modello sorto nella scienza non meno che nella realtà, di dar loro una sistemazione meno casuale…nella certezza che tale riorganizzazione non solo non avrebbe nuociuto all’esperienza successiva o l’avrebbe resa superflua, ma che anzi si sarebbe riverberata su di essa e le avrebbe aperto nuove strade..”(38) La piena presa d’atto dello stretto rapporto tra un fermento di trasformazione cieco, ma inarrestabile, e una ragione matura per ritrovarsi in tutta la storia passata è per Bodei contenuta nell’idea del sistema. La totalità del sistema, infatti, mostra i contenuti dominanti della cultura e della modernità come inseriti in un processo, quindi nella loro parzialità. Ma la parzialità, l’inadeguatezza, riguarda il modo in cui determinati contenuti (come la libertà, la proprietà, il soggetto) hanno trovato la loro esistenza particolare nella storia (cioè attraverso istituzioni, visioni del mondo ecc.). Che la ragione , come movimento incosciente, ma orientato (la talpa) è presente all’occhio dello Spirito (la nottola della filosofia, che rivive tutto il percorso della cultura soltanto a partire dal suo tramonto), significa allora che questa stessa ragione non ha cessato di realizzarsi, né può farlo. Nemmeno quando chiude l’ampiezza dei suoi significati e dei suoi effetti in una sistematica. Secondo Bodei, infatti, la razionalità sistematica è, soprattutto, la preparazione di un nuovo balzo in avanti dello spirito del mondo. “il sapere fa compiere un progresso alla realtà, perché da un lato affretta il corso oggettivo della degradazione degli ordinamenti vigenti, dall’altro anticipa nel pensiero soluzioni che si riverseranno poi…ancora nel mondo esterno.”(39) Il sistema, insomma, attuando questa anticipazione nel pensiero, esprime anche la tendenza immanente al reale, a partire da cui esso si sviluppa, diviene e perde il suo senso per lasciare il posto ad una nuova epoca.
3.3 Lowith
3.3.1 Hegel: la religione, la storia e la filosofia in Germania
Una concezione nuova della filosofia della storia è quella che emerge dagli studi di Lowith sulla filosofia posthegeliana in germania. Il problema della storia, nella sequenza che porta dai giovani hegeliani a Nietzche, appare sempre più sostituirsi a quello della teologia e della religione, divenendo il terreno di nuove impostazioni filosofiche e polemiche. Questa trasformazione è studiata tenendo per intercalare continuo il pensiero hegeliano, con la cui tendenza ad articolare una coscienza storica totalizzante si confrontano tanto gli avversari quanto i discepoli. “L’opera di Hegel non contiene soltanto una filosofia della storia euna storia della filosofia; ma utto il suo sistema è inoltre pensato fondamentalemente sotto una prospettiva storica quanto nessun’altra filosofia anteriore.” (40)
Per Hegel, poiché il cristianesimo costituisce l’autoriconoscimento della storia occidentale, esso esprime l’Assoluto stesso. La comprensione filosofica esplicita la rottura e ricomposizione tra la Vita e l’Assoluto. Lo Spirito, nell’atto di riconoscersi, si trova come storia compiuta; perciò, come abbiamo visto sopra, il punto di vista della filosofia si poneva come il punto di vista della (auto)comprensione del proprio tempo, come epoca tradotta in pensiero. Perché il cristianesimo, allora? Perché il cristianesimo aveva elaborato il concetto di una continuità tra destino umano e destino divino, e in modo tale da distruggere la visione ellenica di un Fato cieco, che andava superata per via della sua unilateralità. La finitezza umana, elevata a questione fondamentale dal cristianesimo, costituisce la base per una nuova idea della dignità umana. L’idea fondamentale della finitezza, della pienezza dei tempi e del rapporto tra l’apparire dello spirito e il suo compiersi nella storia, come senso ultimo della storia, delinea il significato teologico che permea il pensiero del ‘professore assoluto’. “Hegel coglie la storia dello Spirito nel senso della suprema pienezza, in cui tutto ciò che è avvenuto ed è stato pensatosi raccoglie in unità; egli la compie però anche nel senso di una fine storica, in cui come conclusione la storia dello spirito coglie se stessa.”(41)
Il luteranesimo è al centro di un percorso che dal cristianesimo storico porta allo sviluppo del mondo borghese. La religione cristiana è “la religione della libertà assoluta” perché riconosce il diritto assoluto dell’individualità umana.. L’uomo vero e proprio è soltanto il borghese in quanto soggetto prinipale del sistema dei bisogni; ma l’universalità propria dell’uomo coincide con il suo essere spirito. Solo il cristianesimo nella versione luterana aveva reso uguali tutti gli uomini nel loro libero rapporto con Dio, preparando il terreno per l’individualismo moderno. Lutero aveva realizzato il concetto, presente all’origine della religione rivelata, della libertà come attributo del singolo essere umano; dopo di lui la religione stessa non poteva esprimere più nulla di nuovo sui bisogni supremi dello spirito. L’amministrazione della verità, con e dopo Lutero, era passata nelle mani della filosofia. Definitivamente. Lowith cita la relazione tra l’hegelismo e il luteranesimo non solo perché il primo impatto polemico della scuola hegeliana aveva per contenuto la questione religiosa, ma anche perché la filosofia hegeliana si pone, a ragion veduta, come una teodicea mondana secolarizzata. Cioè come il pensiero di una giustizia divina che si dispiega nella storia reale, alla quale soltanto la filosofia può rendere il dovuto, in quanto essa filosofia dà realtà a questa stessa giustizia. “Appartiene alla natura ambigua della filosofia hegeliana, compenetrante ogni realtà, la particolarità di essere una filosofia dello spirito dal punto di vista del Logos cristiano, di costituire cioè in genere una teologia filosofica.”(42). Il pensiero dialettico, oltre ad essere preparato dal cristianesimo, ne costituisce lo sviluppo e l’espressione; universalità e soggettività si coniugano soltanto nell’elemento del pensare. Il sistema esprime il dominio all’interno del quale la verità storica – quindi il senso definitivo – del cristianesimo può realizzarsi, cioè comprendersi.
3.3.2 Hegel e dopo Hegel
Hegel, dati gli estremi risultati di una concezione grandiosa ma ambigua, che manteneva al suo interno problemi e campi del sapere che ben presto apparvero contrastanti, aveva innanzitutto preparato una rottura. La rottura, irreversibile, tra filosofia progressiva e cristianesimo. “La verità filosofica del cristianesimo consisteva per Hegel nel fatto che Cristo ha conciliato la scissione nell’umano e nel divino….Questa unità della natura divina e umana in genere, confermata per Hegel dall’umanizzarsi di Dio, fu nuovamente dissolta tanto da Marx quanto da Kierkegaard.”(43)
La dimensione totalizzante del sistema portò lasciò in eredità i germi di una nuova rottura tra spirito e mondo storico, pensiero e realtà politica.. Le più profonde reazioni all’interno dei giovani hegeliani, i temi che prevalevano nelle reciproche prese di posizione, dimostravano che la religione, che nel progetto di Hegel manifestava il nesso tra sistema e riflessione storica, era in realtà il punto in cui si concentravano tutte le difficoltà e le ambiguità del suo pensiero. Inoltre, al di là dell’eredità hegeliana, gli argomenti religiosi si prestavano bene a nascondere i contenuti reali di uno scontro ideologico-politico, come era nella tradizione tedesca. Oltre al rapporto tra Hegel ed il cristianesimo, era l’aspetto conciliatore e tutto rivolto al passato della filosofia della storia ad essere accusato o messo al bando dai giovani hegeliani. Questi singoli punti, messi in correlazione da Lowith all’interno di un’ampia ricostruzione storica, convergono nella maggior parte dei casi in un’eclatante rifiuto del sapere filosofico – del ruolo e del senso attribuitogli dal maestro – a favore di una riscoperta degli interessi vitali dell’uomo moderno. Per esempio, in Kierkegaaard, la decisione anti-sistematica ed anti-filosofica si fondava sul riconoscimento di un contrasto irrecuperabile tra le tensioni della realtà storica e la presenza di una teoria, quella hegeliana, che aveva voluto esprimere l’identità di contenuto dei bisogni spirituali. La dimensione comunitaria che unifica le manifestazioni spirituali era del tutto assente dalla Germania degli anni ‘40 del diciannovesimo secolo. La rivendicazione degli interessi e dei bisogni dell’uomo, da Marx a Feuerbach a Kierkegaard, è il risultato di una presa di coscienza nuova nei riguardi delle tendenze del mondo contemporaneo, che comporta irrimediabilmente l’abbandono del puro sapere filosofico-sistematico e del suo ideale di scienza. Dunque, a partire dalla realtà della crisi, l’efficacia della filosofia dialettica e il suo influsso coincidono con la sua decomposizione, col suo progressivo disperdersi nei rivoli di varie polemiche e operazioni intellettuali. “la scuola venne trascinata nel movimento del nostro tempo e si divise fino all’estremo in tutte le tendenze possibili”(44)
Al di là di tutte le contingenze dovute a questo momento storico, quindi, la ricostruzione della sequenza che da Hegel porta a Nietzche ha il valore di esprimere, anche in termini indiretti, il valore permanente ed imprescindibile della filosofia della storia hegeliana. Valore che non coincide esattamente con gli aspetti sui quali si concentrarono gli attacchi degli scolari e dei nemici della filosofia dialettica, ma con una nuova determinazione della natura del pensiero senza la quale anche molte posizioni critiche perderebbero il loro significato.. Hegel aveva postulato la pensabilità della storia e, viceversa, l’essenza storica del pensiero, senza con ciò cedere di un passo al fatalismo o allo scetticismo, anzi riconoscendo la libertà del soggetto come presupposto fattuale per questa idea. Questa operazione sarebbe impensabile senza una preliminare mondanizzazione e concettualizzazione della trascendenza cristiana. L’interpretazione lowithiana, che ha per interlocutrice tutta la rinascita di studi hegeliani nella Germania del ‘900, attacca, a partire da questi punti, la tesi di Dilthey, secondo il quale l’unica vera eredità permanente del pensiero hegeliano sarebbe costituita dall’idea della relatività storica di ogni espressione spirituale. Il vero problema di Hegel è costituito invece dall’inserimento del sistema concettuale nella prospettiva storica, non da quello, posteriore, della relatività storica del conoscere come tale. In effetti, egli vide nella sua filosofia l’origine, e, soprattutto, la fine di una pensabilità della storia. ” la valutazione sostanziale del significato di Hegel per il presente deve partire dalla considerazione che soltanto per opera sua la filosofia ha cominciato a riconoscersi come il pensiero del tempo. La connessione del carattere temporale della filosofia con il suo contenuto sostanziale garantisce l’importanza duratura di Hegel”(45)
3.4 Hyppolite
3.4.1 Cristianesimo e filosofia della storia
Torniamo agli studi di Hyppolite, perché anche qui si delinea un’immagine speciale della filosofia della storia hegeliana. Più sopra, nella prima parte, abbiamo visto come la descrizione di alcuni contenuti presenti negli scritti teologici si concretizzava nella formulazione di una continuità tra il tragismo presente nelle interpretazioni storiche e l’elaborazione di una dialettica come senso definitivo della storia e del reale. La posizione del cristianesimo in questo percorso non può essere sopravvalutata in nessun caso; il cristianesimo, in Hegel, esprime sino alle sue conseguenze estreme la rappresentazione tragica della storia già presente nella nozione giovanile di destino. Il destino di Cristo fu appunto quello di rinunciare a salvare il suo popolo come tale, e quindi di rivolgersi agli individui. Così facendo, il Cristo di Hegel abbandonava la nazione ebraica al suo destino. Da qui il significato tragico presente nel ruolo storico del cristianesimo: la scoperta dell’individuo, della soggettività – attraverso l’amore e il rapporto con Dio – si attua attraverso la rottura con lo Stato, ovvero l’estraneazione del culto dalla vita reale. Il cristianesimo separa definitivamente l’universale dal temporale, la fede dalla vita del popolo; consegna il soggetto alla sua libertà allontanandolo dalle forme della vita mondana. “Tutta la filosofia hegeliana successiva – nella sua pretesa di basarsi sul cristianesimo – dovrà interpretare questa separazione…e tentare di superarla concependo la religione come una forma ancora inferiore dello spirito assoluto. Solo per la filosofia la riconciliazione non riveste più la forma d’un avvenire indeterminato, ma è presente nell’attualità dello spirito del mondo.”(46) Per Hyppolite proprio questa rottura, interpretata filosoficamente, condiziona tutta la concezione hegeliana della modernità e attraversa le linee principali della sua filosofia della storia. Infatti questa implica sin dall’inizio lo sforzo di mostrare la vita dello Spirito all’interno dei popoli, l’oggettivarsi dello Spirito nella storia reale. A partire da qui, l’esposizione dialettica e sistematica della politica e del diritto spiegano come all’interno di ogni Stato sia presente l’idea dello Stato come organismo spirituale. Le prime speculazioni sullo Stato del periodo di Jena vengono però rettificate in molti punti importanti nella Filosofia del Diritto, opera della piena maturità. Il divenire della storia e della politica, il continuo alternarsi di individualità storiche, cioè di civiltà, è sempre e comunque pensato come l’espressione di un’opposizione, di un rapporto tragico determinato in tutte le circostanze della vita storica.e presente in seno all’Assoluto. “La storia del mondo è costituita dalla tragica tensione per cui la vita infinita immanente alle proprie manifestazioni esige da ciascuna di esse un incessante superamento di sé. Ognuna esprime, e al tempo stesso non esprime, l’Assoluto. Ecco perché muore e diviene.”(47) Ogni popolo, ogni civiltà, è destinato a scomparire perché la sua esistenza individuale si fonda sulla sua inadeguatezza ad esprimere lo Spirito come tale, di cui tuttavia è una manifestazione particolare. Hyppolite tende a dimostrare come questa posizione pantragistica e metafisica venga mantenuta, anche se rimaneggiata, all’interno di tutta la riflessione hegeliana sullo Stato.
3.4.2 La società borghese a partire da questi punti
Il cristianesimo, come sappiamo, si è fondato sull’opposizione tragica tra l’autocoscienza individuale e il mondo oggettivo – sulla divisione nella coscienza e nel mondo stesso. L’interpretazione della modernità tiene fermo proprio questo punto decisivo: il diffondersi dell’individualismo in ogni sfera della vita sociale ha infatti un significato che esprime in nuovi termini quest’opposizione. L’uomo, lungi dal trovare il proprio rapporto con l’Assoluto nella città terrena, sente ogni istituzione come una costrizione, perché non trova il significato della sua personalità autonoma all’interno delle espressioni della volontà collettiva. La soggettività dell’individuo moderno, come quella del cristiano, si consolida a partire da un’opposizione: quella tra il cittadino e il borghese, tra il membro di una comunità – la cui esitenza oggettiva si trova nello Stato – ed il soggetto privato di una serie di bisogni vitali e di interessi economici. Hegel, cioè, comprende la particolarità dell’epoca moderna quando vede in essa l’esigenza di una mediazione tra singolare e generale, tra individuo e comunità, e pensa l’essenza dello Stato moderno, e le sorti della rivoluzione francese, a partire da questa mediazione. “..sebbene per Hegel lo Stato non abbia niente di artificiale (essendo la ragione sulla terra), l’elevazione – la liberazione – non è più immediata, ma c’è un conflitto per cui lo Stato moderno comprende ad un tempo l’opposizione tra l’individuo e la volontà generale come la loro riconciliazione.”(48) L’interpretazione della rivoluzione francese è indicativa: in questo caso, senza tener conto della necessità di una mediazione, ci si proponeva di ottenere una compenetrazione tra la libertà del singolo e l’esprimersi della volontà generale attraverso l’abolizione immediata delle differenze sociali. Ma la vita all’interno dello Stato, pensato in termini organici, presuppone nel suo concetto la differenziazione in classi particolari. Ecco cosa è mancato alla rivoluzione francese, ecco perché dalla libertà si è passati, senza soluzione di continuità, al terrore; ecco perché il suo esito finale ha il senso di una restaurazione. Quindi Hegel pensa la differenza tra il mondo antico e quello moderno a partire dal problema della differenza, e quindi della conciliazione, tra particolare e generale, tra borghese e cittadino, che si trova soltanto nel secondo. D’altronde proprio l’idea di un’astuzia della ragione (nella parte dedicata a Bodei abbiamo visto la metafora della talpa), di una razionalità collettiva che si attua attraverso il gioco dei particolarismi, va ricondotto a questi aspetti della riflessione sui tempi moderni. L’idea di una correlazione universale che si attua attraverso il lavoro particolare, condizionato da moventi egoistici, avvicina Hegel agli economisti classici, dei quali fu un avido lettore. Si tratta di pensare come il fine egoistico sia soltanto in apparenza il motore della società, mentre alla ragione storica si rivela come un mezzo subordinato al fine immanente della realizzazione dell’universale. Questo pensiero si condensa nella frase che afferma l’ideale moderno come “l’universalità nella perfetta libertà ed indipendenza degli individui”(49)
Insomma, nella riflessione sullo Stato moderno l’opposizione tragica si trasforma nel dualismo tra l’apparenza di un interesse pubblico esterno agli individui e la realtà di un universale immanente alla loro attività, seppure a scapito dei moventi individuali di questa. “..la volontà generale appare agli uomini privati sotto un aspetto esteriore. Indubbiamente è solo un’apparenza, ma è un momento della storia di tutti i popoli che va preso in considerazione.”(50)
4. Hegel e Marx
4.1 Il marxismo e la questione-Hegel
Tra gli anni ‘30 e l’inizio degli anni ‘50 ha luogo, soprattutto negli ambienti legati alla militanza comunista e al movimento operaio, una continua rilettura dei testi di Marx ed Engels alla luce del loro rapporto con Hegel. Questo fatto fu stimolato e preparato dalla già mensionata pubblicazione degli scritti del giovane Marx, insieme alla diffusione delle note di Lenin sulla Logica di Hegel, raccolte insieme ad altro materiale nel 1930 sotto il titolo di Quaderni filosofici. Marx ed Engels, secondo queste nuove versioni che si venivano affermando, non si limitarono ad esprimere la componente filosofica del proprio metodo materialistico e storico. I fondatori del socialismo scientifico avevano infatti sostenuto che il proletariato non avrebbe realizzato il suo compito storico senza la comprensione (teorica) e l’effettuazione (pratica) del metodo dialettico. Ci si rese conto, in una parola, che tutto il pensiero di Marx, anche nella sua formulazione definitiva e nella sua dimensione di progetto storico, aveva avuto per interlocutore privilegiato il filosofo di Stoccarda. La dialettica appariva ai fondatori del socialismo scientifico come la conquista più alta di un rivolgimento di alto valore progressivo, che si era realizzato nella cultura tedesca e mondiale a partire dagli illuministi e da Kant. Abbiamo visto, nella parte dedicata al libro di Lowith, che il tema di una fine della filosofia e lo sviluppo di posizioni che condannavano il mondo della pura speculazione erano frequenti nel periodo posthegeliano, in Germania. Marx ed Engels, sin da allora, considerarono e valutarono l’esaurimento e la decadenza del pensiero e della scienza in patria come una prova materiale ed indiscutibile del fatto che, dopo Hegel, la filosofia era veramente finita.Questa valutazione convergeva con l’affermazione che il senso progressivo della storia umana non poteva più essere espresso dalla filosofia, ma doveva essere riferito al nuovo ruolo rivoluzionario del proletariato. Il proletariato era “il vero erede della filosofia classica tedesca”(51), come disse Engels, perché ora il significato razionale della trasformazione storica non doveva più essere interpretato nel pensiero, ma poteva realizzarsi nell’azione rivoluzionaria e solo in essa. Marx ed Engels spiegarono il loro debito nei confronti di Hegel a partire dalla differenza tra il metodo dialettico ed il sistema idealistico. La dialettica non era un nuovo modo di formulare problemi filosofici, quanto piuttosto un nuovo modo di porsi di fronte alla realtà, che “..nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso.”(52) Bisognava scindere il metodo dal sistema, il quale esprimeva il lato non-razionale dell’hegelismo e tendeva a risolvere la ricchezza del mondo concreto in una mistica del Logos. Il recupero del metodo dialettico, il ripudio dell’idealismo ed il riconoscimento della filosofia hegeliana come forma insuperabile del pensiero costituiscono ancora i termini principali delle più recenti letture marxistiche di Hegel, o del rapporto Hegel-Marx. Qui prenderemo in considerazione i commenti alla filosofia hegeliana di H. Marcuse e di E. Bloch; ma prima di affrontarle direttamente, bisogna fare qualche altra precisazione. Engels aveva difeso il significato ed il ruolo storico intrinsecamente progressivo della filosofia hegeliana in base all’assunto che il nucleo razionale in essa presente poteva essere restituito all’azione storica, alla prassi rivoluzionaria. La fine della filosofia, per dirla in breve, era l’inizio della presa di coscienza del proletariato. Più tardi fu Lenin ad evidenziare la forte componente hegeliana presente nella critica marxista, ma con scopi differenti. Lenin aveva visto che la ‘fine della filosofia’ , sulla base della quale Engels preconizzava lo sviluppo di una conoscenza globale del mondo, insieme positiva (nel senso delle scienze naturali) e dialettica (nel senso del materialismo), non si era realizzata. La filosofia era ancora viva, e combattere le tendenze reazionarie nella filosofia era ancora un compito politico all’ordine del giorno. Lenin difense le basi scientifiche del marxismo dalle nuove filosofie della scienza, come quella di Mach, che si esprimevano in una concezione del mondo descrittiva e positivistica. Per effettuare questa operazione, egli ritrovò nella Logica di Hegel il significato scientifico che la dialettica doveva ricoprire all’interno delle analisi marxiane sul capitalismo. Cogliere una continuità diretta, nei contenuti concettuali, tra la logica dialettica e la critica del capitalismo, comportava però una messa in discussione radicale di tutto il marxismo posteriore a Marx, il quale non si era preso la briga di cogliere il significato razionale della dialettica all’interno della logica hegeliana, cioè nell’elemento in cui si era venuta formando prima di essere impiegata da Marx, e in questo modo si era precluso la strada per un’assimilazione veramente essenziale del pensiero marxiano. “Lenin attribuiva tanta importanza al metodo dialettico da considerarlo il marchio di fabbrica del marxismo rivoluzionario”(53). Le correnti che, all’interno del marxismo, avevano ripudiato l’ascendente hegeliano e dialettico presente in Marx erano le stesse che, ponendosi in un’ottica positivistica ed evoluzionistica, avevano sostituito le qualità della prassi rivoluzionaria con la fede nel crollo spontaneo e quasi naturale del capitalismo. Gli esiti rivoluzionari del mondo capitalistico erano nell’ordine dei fatti, coincidevano con esso. La critica marxista perdeva il suo riferimento essenziale alla dialettica, che in Marx esprimeva il riconoscimento dell’azione storica come negazione di una condizione data, come superamento delle contraddizioni del presente sulla base della loro comprensione.
4.2 Marcuse
4.2.1 Il pensiero critico come vero erede della dialettica idealistica
Marcuse si muove ancora all’interno di questa problematica quando, in piena epoca fascista, decide di attuare una difesa della filosofia hegeliana dalla sua presunta compromissione con le nuove forme di autoritarismo affermatesi in Europa tra le due guerre. Per Marcuse, la dialettica costituisce il modello di ogni pensiero negativo, cioè di ogni pensiero atto ad analizzare il mondo dei fatti dal punto di vista della sua intrinseca inadeguatezza. Pensare significa cogliere la natura dinamica dell’essere e la capacità, presente in ogni cosa, di rendersi altro da quello che è. La posizione della ragione dinanzi alla cosa è innanzitutto negativa. L’attività del pensiero ha inizio proprio negando la coincidenza dell’oggetto con se stesso, la sua positività pura e semplice. Si toglie al fatto il rango di valore assoluto, mostrandone la contraddittorietà. L’idea di una dialettica del reale, coincidente con il costituirsi del soggetto, e di un pensiero che si attua come negazione dell’esistente, del dato inerte, rende anche conto della natura pratica dell’attività conoscitiva. Tanto il pensiero razionale quanto l’azione storica si concentrano sui dati di fatto per negarne la positività, mostrando che sono altro da se stessi. In questo senso, il legame tra la ragione e l’attività in senso lato (sarebbe più puntuale parlare di lavoro) si trova nella verità che il dato, ogni dato, è fatto per essere superato, cioè negato. Solo tramite questa negazione, spiega Marcuse, l’attività può dirsi cosciente, perché la sua caratteristica iniziale consiste nella considerazione dell’esistente, del qui-e-ora, come di un che di parziale e limitante, cioè inadeguato. Il compito della ragione è quindi negativo e pratico al tempo stesso, perché essa, esprimendo il non-identico, prende atto del sotanziale squilibrio tra essere e dover-essere. “Il concetto hegeliano di ragione ha così un carattere chiaramente critico e polemico. Esso si oppone a ogni facile accettazione dello stato di cose presente e nega l’egemonia di ogni forma di esistenza prevalente dimostrando gli antagonismi che la dissolvono in altre forme.” (54)
Il pensiero dialettico si costituisce in opposizione al senso comune, e quindi ad ogni filosofia che voglia rifarsi alla certezza dei fatti come realtà ultima ed indiscutibile del conoscere. Sia il senso comune che le filosofie ‘scientifiche’ (tutte quelle correnti, cioè, che si rifanno al metodo positivo delle scienze naturali) adottano come criterio normativo per il conoscere il dato di fatto. In questo modo viene trasmessa un’immagine neutrale della conoscenza, che si regola a partire da un’oggettività esteriore per lasciarla così com’è. “Il positivismo, la filosofia del senso comune, si rifà alla certezza dei fatti, ma, come dimostra Hegel, in un mondo in cui i fatti non rivelano per nulla ciò che la realtà può e dovrebbe essere…”(55)
Prendendo le mosse dalle caratteristiche della razionalità dialettica, che da Hegel a Marx si costituisce come uno specifico stile di pensiero, Marcuse si interroga sul contrasto, presente nell’opera hegeliana, tra le potenzialità rivoluzionarie e critiche della ragione negativa ed i suoi risultati comunque conservatori, se non autoritari. Marcuse distinque in ogni caso l’autoritarismo fascista dallo Stato hegeliano, due realtà eterogenee ed incompatibili sin nei presupposti più elementari. “Non vi è alcun concetto meno compatibile con l’ideologia fascista di quello che fonda lo Stato su una legge razionale e universale..”(56) La spiegazione puntuale dei principali passaggi dell’opera hegeliana ha l’obbiettivo di render conto del fallimento della razionalità critica e del depotenziamento del metodo dialettico nella filosofia dello Stato. Qui, secondo Marcuse, la scomparsa dei contenuti veramente dialettici dal quadro teorico ed il venir meno dell’atteggiamento critico e polemico nei confronti della realtà storica data fanno tutt’uno. Soltanto una paziente ricostruzione, però, può spiegare in che modo un pensiero innovatore venga alla fine trascinato dalle contraddizioni del proprio tempo, fino a perdere il suo carattere rivoluzionario. Questo esame è molto importante, perché è proprio in questo punto che subentra, con Marx, il ‘rovesciamento’ della dialettica materialistica. In un certo senso, perciò, Marcuse è portato a considerare il fallimento della dialettica idealistica nel pensiero politico come un momento decisivo per l’intera filosofia moderna, a partire dal quale l’impiego della razionalità negativa, con Marx, comporterà l’abbandono del terreno filosofico e della speculazione pura e semplice. “Ciò che è essenziale nell’opera in parola [ Filosofia del Diritto] è l’autodisintegrarsi e l’autonegarsi dei concetti fondamentali della filosofia moderna. Tali concetti condividono il destino della società che spiegano; perdono il loro carattere progressista…la loro influenza critica, e assumono il tono della sconfitta e della frustrazione..”(57)
4.2.2 Critica (marxista) di Marcuse ai concetti politici di Hegel
Senza abusare della pazienza del lettore, diamo qualche elemento per misurare il significato di questa conclusione, dietro la quale c’è tutta una ricostruzione della filosofia dialettica. Come sappiamo, il significato della filosofia in Hegel è inscindibile dall’idea che nella società moderna per la prima volta il concetto della libertà aveva ottenuto la sua realtà, in quanto attributo del soggetto. la proprietà privata, nel suo conseguente riconoscimento giuridico, costituiva la forma attraverso la quale questo concetto si era attuato. Il nesso tra libertà e proprietà privata era già patrimonio comune del pensiero liberale settecentesco. Tuttavia ora questo nesso si legava al riconoscimento dell’incapacità della proprità privata – ovvero del sistema di rapporti sociali che essa esprimeva – di creare un insieme sociale razionale ed universale, ovvero realmente libero. Proprio la natura critica e dialettica delle nozioni di ragione e libertà rendeva impossibile l’affermazione di una loro compiuta realizzazione nell’ambito della società civile, di cui Hegel conosce perfettamente gli squilibri e le ineguaglianze interne. Hegel si trovò quindi, secondo Marcuse, a dover interpretare la libertà del soggetto in base alle relazioni esteriori della proprietà e del diritto; le conseguenze erano la perdita immediata del contenuto dialettico e delle implicazoni critiche presenti nelle nozioni idealistiche di libertà e soggettività. L’analisi condotta nella Filosofia del Diritto salda la libertà del soggetto alla realtà data della legge. Ma la realtà della legge, qui, non ha carattere dialettico e totalizzante: il suo carattere universale è, infatti, la sua capacità di prescindere dagli individui concreti. Gli individui della teoria politica hegeliana sono sostituiti da una serie di relazioni oggettivanti, non vengono riconosciuti dialetticamente, cioè come singoli concreti che si riconoscono tali attraverso i contenuti di relazioni universali. Hegel dovette accettare il destino dei rapporti sociali reificanti, in cui cioè l’attività umana è dominata e mediata dalla riproduzione materiale del sistema mercantile, pur sapendo che questo stato di cose contraddiceva la sua concezione dialettica del nesso individuo-comunità. Tuttavia Hegel superava il punto di vista del liberalismo, cioè comprendeva che la legalità è incapace di dare alla società gli attributi di quell’ “universale concreto” dal quale aveva preso le mosse la sua concezione dialettica. “La vera unità tra l’individuo e l’interesse comune che Hegel aveva sostenuto essere l’unico e solo scopo dello Stato ha così portato allo Stato autoritario, cioè a reprimere con la forza i sempre crescenti antagonismi della società individualistica….il punto essenziale dell’analisi di Hegel sta nell’affermazione secondo cui la società liberale conduce necessariamente allo Stato autoritario.”(58). Secondo Marcuse la filosofia hegeliana ha veramente ‘fatto il suo tempo’, perché pur sviluppando un punto di vista razionale superiore a quello del liberalismo, ne ha condiviso le sorti autoritarie nel momento in cui ha valutato tutta l’incidenza degli antagonismi presenti nella società, senza comprenderli dialetticamente. Nell’impianto del liberalismo, i meccanismi sociali esprimevano una razionalità intrinseca, e il mondo dei rapporti mercantili costituiva un sistema autosufficiente ed autoregolato, in cui l’apparente contrasto degli interessi privati dava per risultato la ricchezza della collettività. Hegel non poteva far sua una soluzione del genere: qui sta il motivo della sua rivendicazione dello Stato come realtà della libera razionalità. In termini pratici, il diritto perdeva la sua centralità in funzione della forza pubblica e degli apparati burocratici. “Hegel attribuisce allo Stato il compito, che precedentemente veniva affidato alla società civile, di rendere concreto l’ordine della ragione. Lo Stato tuttavia, non sostituisce la società civile, ma si limita a mantenerla in funzione salvaguardando i suoi interessi senza mutare il suo contenuto. Il superamento della società civile conduce dunque ad un sistema politico autoritario, che mantiene intatto il contenuto materiale della società. L’aspetto autoritario presente nella filosofia di Hegel è reso necessario dalla struttura antagonistica della società civile.”(59) In questa lunga citazione troviamo condensata la posizione analitica di Marcuse, che resta in larga misura marxista e storicista; la risoluzione, l’integrazione delle dinamiche sociali nello Stato condiziona l’abbandono della sostanza dialettica, cioè critica e rivoluzionaria, dell’idealismo hegeliano. Il fatto che Hegel vide la necessità di un rapporto superiore dell’ordine politico è inscindibile dal fatto che, comunque, lo Stato effettua la salvaguardia dei contenuti della società civile come tale, cioè a prescindere dagli antagonismi che la costituiscono. Ecco come e perché i concetti di libertà, soggettività ecc. perdono la loro dimensione negativa, cioè il loro contenuto più autentico: dal punto di vista storico, la ragione negativa non può, secondo Marcuse, attualizzarsi veramente in una società come quella dominata dai rapporti mercantili.
4.2.3 Hegel e Marx, a partire da questi punti
La società costituisce un tutto, ma questo tutto si esprime come cieca necessità e non come libera razionalità. Come già visto, il valore rivoluzionario di questa affermazione viene neutralizzato dall’esigenza di dare un significato razionale all’ordine politico dato nel suo insieme. Si tratta di un’esigenza incompatibile con la stessa natura della razionalità negativa, che apre una rottura all’interno del pensiero di Hegel. “Hegel sottolinea ripetutamente la cieca necessità della ragione nella società civile. La stessa cieca necessità che in seguito Marx denunciò come l’anarchia del capitalismo fu dunque posta al centro della filosofia hegeliana quando Hegel volle dimostrare la libera razionalità dell’ordine prevalente.”(60)
Da questo punto di vista, il rapporto di Marx con il nostro filosofo ha il valore di una contestazione e di una rottura. Riconoscere che anche nel pensiero dialettico è presente una componente incosciente, che si concretizza nell’assoluzione dei disordini sociali dalle esigenze della ragione critica, significa riconoscere il limite permanente della ragione negativa all’interno dell’hegelismo. L’interpretazione della storia come alienazione, la storia come funzione del soggetto che sviluppa completamente il suo lato cosciente sino a ritrovarsi come spirito del mondo, assume così in Marx un senso univoco: tutta la storia è caratterizzata dalla subordinazione della vita umana a cose create dall’uomo stesso. “La realizzazione della ragione, pertanto, implica il superamento di questa estraneazione e l’attuarsi di una condizione in cui il soggetto conosce e possiede se stesso in tutti i suoi oggetti.”(61)
La tesi fondamentale di Marcuse sul rapporto Hegel-Marx prende spunto da queste considerazioni sulla dialettica e sulla natura negativa del soggetto hegeliano. Marx si propose di superare l’idealismo in nome dello stesso modello di razionalità che si era formato a partire da esso. La ragione in Marx esprime la sostanziale inadeguatezza del reale, assegnando al pensiero il significato pratico della negazione dell’esistente in quanto dato una volta per tutte. La ragione dialettica hegeliana invece culminava nell’elevazione della razionalità presente nella storia a sistema, espressione universale del Logos.”Il processo dialettico di Hegel era dunque universale e ontologico; in esso la storia si sviluppava seguendo il processo metafisico dell’essere. Marx, invece, separò la dialettica da questa base ontologica. Nella sua opera la negatività della realtà diviene una condizione storica che non può essere considerata come qualcosa di metafisico…la negatività della realtà diviene una condizione sociale…”(62) L’impiego critico e materialistico del metodo dialettico è perciò inseparabile dall’ammissione che l’idealismo aveva comunque superato la separazione di teoria e prassi, sebbene soltanto all’interno del pensiero, e non nella storia reale. “..il capovolgimento materialistico della filosofia di Hegel da parte di Marx, non comportò il passaggio ad una posizione filosofica diversa…ma piuttosto il riconoscimento che le forme di vita stabilite avevano raggiunto lo stadio della loro negazione storica.”(63) Lo sforzo di sottrarre il carattere dialettico e negativo dell’ontologia hegeliana alla forma idealistica nella quale trova espressione va integrata con l’affermazione che il suo luogo privilegiato non è il puro pensiero, ma la liberazione delle forze viventi della storia, l’appropriazione rivoluzionaria delle potenzialità del presente.
4.3 Bloch
4.3.1 Un altro interlocutore marxista di Hegel
Negli stessi anni di Ragione e Rivoluzione, gli anni del fascismo e della guerra, viene composto Soggetto-Oggetto di E. Bloch. Le posizioni espresse in questo ampio commento del pensiero hegeliano sono anch’esse condizionate dal presente storico e dal continuo confronto con il pensiero marxiano. Prima di presentarle, c’è da notare il fatto che sia per Marcuse quanto per Bloch, entrambi estranei alle varie ‘rinascite hegeliane’ in auge a quei tempi, il rapporto Hegel-Marx non è posto in questione per ampliare o perfezionare le basi teoriche del marxismo (come invece accadeva con Lukacs). La rilettura dei testi hegeliani nel loro insieme è invece volta a cogliere il significato che essi assumono di fronte alla crisi della società capitalistica matura, significato a partire dal quale veniva posto in questione il valore del marxismo. Sia per Bloch che per Marcuse la dialettica e la sua sostanza critica esprimevano il migliore antidoto al positivismo, i cui atteggiamenti di fondo avevano fortemente influenzato anche il marxismo ufficiale. Per entrambi, inoltre, un grande merito della filosofia hegeliana consisteva nel definitivo superamento del materialismo illumistico, che si era fondato su quella stessa nozione di un oggetto privo di mediazioni, di una materia inerte indifferente al pensare soggettivo. La stessa nozione restaurata dal positivismo col suo culto del dato: “I positivisti credono che ogni pensiero sia un’aggiunta illecita al dato sensibile”(64). A questo atteggiamento Bloch contrappone il carattere determinato di ogni dato, che non esiste se non come parte di un processo scandito dalla diade soggetto-oggetto. “I dati di fatto in quanto tali Marx li riconosce così poco come Hegel; per lui, essi non son che momenti dei vari processi. E questa processualità fa si che ogni conoscenza abbia il proprio tempo…Il soggetto che comprende è, nell’interazione dialettica, rinviato alla scadenza o maturità storica dell’oggetto da comprendere.”(65) Il soggetto di Marx, cioè, è tutt’uno con la storia reale, e perciò non sarà mai il depositario di un Sapere Assoluto, capace soltanto di ripercorrere attraverso il pensiero un passato definitivamente concluso. Anche in Bloch l’interpretazione di Hegel attraverso Marx diviene ben presto la base per un giudizio articolato e concreto sul valore progressivo del pensiero hegeliano. Però, a differenza di molti altri interpreti marxisti, Bloch non si serve di distinzioni schematiche e divenute stereotipate, come quella tra sistema (reazionario, sorpassato) e metodo (rivoluzionario, da attuare). Per Bloch c’è un aspetto dell’hegelismo che va rifiutato, ed è il suo atteggiamento ‘antiquario’, la tendenza a conciliare i contrasti del presente nel ricordo del passato e a partire del passato. L’idea di totalità, di un tutto compiuto e definitivo che domina, sin dall’inizio, il processo della vita storica, ha un carattere regressivo e paralizzante, perché sostituisce all’apertura sul futuro e sul possibile l’immagine di un copione già scritto, di una logica data ‘prima della creazione’. Concepito alla luce di questa idea, che il vero possa darsi soltanto come intero, cioè come un ciclo che si chiude su di sé, che si compie tornando alla propria origine, il pensiero dialettico rivela la sua tendenza ad esorcizzare le inquietitudini del presente, e i suoi fermenti vitali, nella serenità di un pensiero che pensa se stesso. Per questo il riconoscimento della verità nella storia si attua come un’opera continua di ricordo – Bloch richiama l’anamnesi platonica – e di interiorizzazione. La Fenomenologia aveva rivelato che ogni oggettività è interna al processso di attuazione ed auto-appropriazione del soggetto, ma questo soggetto aveva un carattere puramente speculativo, si doveva congedare dalla storia reale per essere se stesso. Il problema posto dal confronto con Marx è dunque quello dell’atteggiamento passivo nei confronti della storia che è contenuto nell’esigenza di un sistema chiuso. Secondo Bloch, questa problematica attraversa anche la stessa dialettica, quando diviene un ritmo ternario ripetuto indefinitamente e riproposto in maniera quasi formalistica. Dopo un serrato confronto con la dialettica materialistica di Marx, la conclusione inevitabile è che “..è impossibile che tutti questi volti antiquari di Hegel si armonizzino con la prassi trasformatrice. Perciò gli elementi di presa sulla realtà, per quanto siano indissolubilmente connessi al metodo di Hegel, sono un’anomalia rispetto al sistema di Hegel, in quanto sistema chiuso. Tanto meno, però sono un’anomalia rispetto al processo dialettico in cammino in questa filosofia, e meno che mai rispetto al suo concreto concetto di lavoro. E così la dottrina hegeliana…ha un necessario punto di contatto con la concezione marxiana della teoria-prassi.”(66) In Hegel ci sono cioè degli spunti veramente critici che premono verso la futura elaborazione di un metodo dialettico-materialistico. L’oggettività dei fenomeni, la loro indipendenza, è comprensibile solo all’interno della mediazione dialettica, cioè come un prodotto dello stesso soggetto – come processo e come lavoro, quindi. Tuttavia il significato finale della dottrina hegeliana è gravemente condizionato dal suo misurarsi su un passato considerato come la verità ultima del comprendere, in cui l’apertura al nuovo e all’inedito costituisce una minaccia per la coerenza logica e dialettica del pensiero. La discontinuità – quella discontinuità che si presenta in ogni momento critico della storia – è espulsa con gli stessi argomenti idealistici, perché bisogna offrire alla comprensione un tutto privo di lacune che, per Bloch, rischia di costituire nient’altro che un’immane tautologia. “La sostanza in quanto soggetto di Hegel ha soggiaciuto infine alla tautologia, e il processo hegeliano, malgrado le immani tendenze notate all’irruzione verso il nuovo, si è piegato a prender le misure di ciò che è stato, all’antiquariato”(67)
4.3.2 Il valore storico permanente della filosofia hegeliana per Bloch
La filosofia di Hegel, esaminata dal punto di vista materialistico di Bloch, risulta essenzialmente ambigua, e contiene in molti casi soluzioni incompatibili; la dialettica da un lato evoca il divenire come forza che annienta ogni cosa, rendendola momento di un processo sempre aperto. Dall’altro, un Logos totalizzante e presente prima della cosa come significato e termine ultimo del suo nascere e morire (panlogismo), rende il divenire stesso un nonsenso. Nella dialettica sono presenti tanto la tendenza alla cristallizzazione concettuale quanto la dinamica di uno sviluppo ininterrotto, quindi sottratto alla circolarità della chiusura logica. Bloch è stato il primo pensatore marxista a dimostrare che la linea di demarcazione tra un Hegel conservatore ed un Hegel attuale e progressivo coinvolge tanto il sistema quanto il metodo. Il sistema, infatti, non viene esposto se non attraverso un processo sempre aperto e rinnovato, che indica attraverso i suoi contenuti concettuali la fluidità della vita, meglio ancora della vita umana, sempre imperfetta e sempre proiettata sul futuro. “E’ la fluidità dei concetti, è questo elemento assolutamente storico e in divenire, il luogo in cui la dialettica di Hegel ha la sua vita ed esprime e costituisce il contenuto della vita…La dialettica rimane dunque un processo senza tregua di compenetrazione, rimane esposizione del movimento immanente al concetto mediante la sua negatività.”(68)
Quindi, per Bloch, se il sistema si qualifica come il luogo originario della dialettica, è anche vero che il sistema esprime, al tempo stesso, l’attitudine della filosofia ad esprimere la ricchezza della realtà attraverso il nesso articolato di concetti che rinviano l’uno all’altro in una struttura compiuta. Il significato finale dell’idealismo non potrà essere che quello di un monologo in cui si fondono tutte le differenti forme dell’opinione e della conoscenza già attuate; il suo ruolo sarà contrassegnato da un atteggiamento passivo, ‘antiquario’, nei confronti della storia e quindi del lavoro umano, che della storia è il vero soggetto. Tuttavia il senso del processo, dello sviluppo all’interno del sistema, rende possibile anche un’altra soluzione, espressa dal materialismo dialettico marxiano. La dialettica hegeliana è la mediazione tra soggetto e oggetto, ma anche tra il compiuto e l’incompiuto, tra il passato e l’utopia. L’ampiezza di questa mediazione, la dimensione cosmica dell’idealismo, ha fatto sì che essa venisse presentata come un qualcosa che era già stato portato a termine, in modo tale da richiudere la ricchezza della storia e della natura nell’autocelebrazione dello spirito. Il senso del presente, così come la sua comprensione, sono così legati alla mediazione con il passato, e soltanto con esso. Tuttavia la dialettica, in quanto esprime contenuti reali e storici, va al di là di questa presunzione della compiutezza dei tempi, che toglie ogni senso al futuro. “Nel sistema concettuale hegeliano il futuro non ha il suo posto e tuttavia lo ha, in quanto questo sistema, che si offre continuamente compatto, quindi del tutto concluso, lascia vedere dappertutto tante scintille e tanto futuro, invece che semplicemente il passato nel passato, che alla fine della filososfia hegeliana è più che matura l’applicazione del pensiero del processo alla dottrina dello stesso Hegel….Nella filosofia hegeliana c’è materia esplosiva, qui il futuro ha trovato la sua grande fortuna nel fatto che il passato è una sua mediazione; e che il pensiero ora non balza più ardito e astrattamente utopico nel totalmente altro, nel totalmente nuovo…”(69) L’esposizione sistematica del processo dialettico viene vista in questo senso come l’esplorazione e la scoperta del nuovo nel pensiero, cioè attraverso di esso e all’interno di esso; l’ispirazione materialistica di Marx è già presente allo stato embrionale. La dialettica è quindi anche prefigurazione del possibile, proiezione utopica sul futuro. Soltanto la sua pretesa di darsi come la compiutezza dello spirito del mondo, attuattosi nel tempo (passato), ne sminuisce la dimensione liberatoria. Mostrare la realtà della storia nella sua dinamica aperta significa scoprire il nuovo, l’anticipazione, all’interno di essa. L’irruzione di una novità radicale si presenta in modo discontinuo nella storia della cultura, nella politica, ecc.. Soltanto il contenuto teorico e pratico della dialettica può fare di questi momenti la prova concreta dell’incompiutezza di ogni presente, e soprattutto delle virtualità che esso contiene. E’ invece l’aspirazione alla compiutezza dei tempi, quando pretende di realizzarsi come storia cosmica dello spirito, che mette sullo stesso piano tutto ciò che è passato, in quanto morto e superato. L’anima più genuina della dialettica, che rivive in Marx, rivela che non tutto ciò che fa parte del passato è, perciò, morto, perché i salti incompiuti nella direzione del futuro, anche se orientati verso un fine, vengono ripercorsi in vari sensi ogni volta che si rompono le barriere del presente dato. Tutto ciò che una volta si è presentato in radicale discontinuità con il tempo attuale tende a ripresentarsi come possibilità, come tendenza, in ogni epoca a venire. In Bloch, quindi, la dialettica viene restituita al suo senso concreto attraverso la nozione di bisogno, di tendenza (il conatus di Leibniz, che viene recuperato nella sua impronta più decisamente materialistica). “…persino in Hegel è un elemento completamente diverso dallo spirito a costituire il lievito della dialettica. Però solo quando si presenta come dialettica reale, senza panlogismo, senza mitologia concettuale. L’impulso effettivamente dialettico è il bisogno; esso solo, in quanto non appagato, non soddisfatto mediante il mondo che è divenuto di volta in volta per lui, fornisce la contraddizione che scaturisce ed esplode sempre di nuovo.”(70) Il bisogno, il senso della mancanza che porta al superamento e alla negazione del presente dato, è la capacità di sentire il possibile ed il tendenziale all’interno del momento vissuto. La produttività del soggetto umano è inseparabile, in Bloch, dal senso del momento presente come incompiutezza ed insufficienza. Ben altrimenti che lo Spirito, soddisfatto di sé nella mente del saggio che ne contempla l’essere-divenuto nell’orizzonte esclusivo del passato, è il desiderio a costituire il fondamento soggettivo e rivoluzionario (cioè orientato allo sprigionamento delle forze produttive e al dissodamento della continuità temporale) nella dialettica. “Se il bisogno, come pure la facoltà attiva, contraddicono la vecchia forma di esistenza, diventano esplosivi, contengono la vocazione al futuro, cioè al gradino successivo che toglie relativamente la contraddizione. Questa è l’origine esplosiva della dialettica, un’origine dal bisogno, dalla forza produttiva, dalla speranza, non dal puro spirito.”(71). La mediazione di finito e assoluto, soggetto ed oggetto, trova quindi nell’utopica affermazione della forza del futuro all’interno del presente la sua realizzazione, e questa affermazione implica un continuo riconoscimento della dissonanza, dell’imperfezione e dello squilibrio in ogni accadere. Senza un simile riconoscimento, la dialettica non sarebbe stata formulata: essa costituisce già il modello per un pensiero pensiero utopico, radicale, materialistico.
SCHEDE SUGLI INTERPRETI
Queste brevi note sono fatte per agevolare la comprensione delle singole interpretazioni, sia per quanto riguarda il loro rimando reciproco che per quanto riguarda la specificazione del percorso formativo di ogni singolo autore. In ognuno di essi, infatti, l’hegelismo è la fonte o lo stimolo per lo sviluppo di problematiche filosofiche attuali, cioè leggibili all’interno del percorso filosofico novecentesco.
Jean Wahl (1888-1974)
Allievo e uditore di Lévy-Bruhl, Brunschvicg e Bergson, ha dato nuovo nuovo vigore agli studi hegeliani in tutta Europa col suo testo sulla coscienza infelice (La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, 1929). Il tema esistenzialistico dell’irriducibilità dell’esperienza vissuta ad ogni giustificazione razionale diviene un nuovo ed inedito tramite per l’assimilazione dei contenuti più discussi delle opere giovanili. Sebbene Wahl prenda le mosse dall’interpretazione romantica e mistica degli scritti giovanili, il suo discorso va ben oltre la collocazione di questi ultimi nel contesto del contemporaneo dibattito romantico sulla religione e sul divino.
Le posizioni che caratterizzano questa interpretazione, infatti, sono sempre animate dallo sforzo di restituire per intero e senza compromessi l’ispirazione originaria del pensiero hegeliano. Questi tentativi sono alimentati dalla convinzione che vi sia in Hegel un nucleo non-razionale, una specie di sentimento, e che esso costituisca il centro e l’ispirazione permanente delle grandi formulazioni metafisiche della maturità. Wahl vuole ricomporre il senso dell’esperienza religiosa, contenuto negli scritti giovanili, con la maturazione propriamente filosofica del pensiero dialettico. Hegel, che considerava ogni mescolanza tra la vita personale e l’attività scientifica come un che di inammissibile (una volta rispose ad una sua ostentata ammiratrice: “tutto ciò che vi è di personale nella mia filosofia è da considerarsi falso”). La tesi di Wahl – in questo quasi provocatoria – è che, al contrario, il nostro pensatore era stato spinto a filosofare da una particolare sensibilità per il dolore espresso dall’esperienza religiosa. Non bisogna pensare che così Hegel venga consegnato ad un biografismo sterile: il contenuto dell’infelicità religiosa – il senso del mondo come dolore, separazione – va ritrovato all’interno della logica dialettica, perché ne costituisce la linfa vitale. Logica che è tutta tesa tra esperienza interiore e concettualizzazione, così come la stessa fenomenologia ha il suo nucleo imprescindibile nella figura della coscienza infelice. Il sentimento religioso si poe attraverso un’ambivalenza essenziale: è al tempo stesso anelito al superamento del dolore e approfondimento del dolore. Soltanto la dialettica può spiegarne le implicazioni: una coscienza che si dà come rottura e separazione tra sé e il divino, è anche, al tempo stesso consapevolezza implicita della lacerazione all’interno del divino. Hegel, non a caso, è il primo pensatore che ha trovato la scissione nell’Assoluto, che ha pensato l’Assoluto a partire da questa scissione. Il peccato vale innanzitutto come un’esperienza dell’opposizione (tra la mutevolezza dell’umano e l’immutabilità del divino), e acquista un significato ancora maggiore allorché il riconoscimento dell’opposizione esprime l’esigenza di una riconciliazione profonda dell’umano col divino, dell’esistenza con l’essenza. Il cristianesimo, la religione della morte di Dio, esprime già nelle sue etreme conseguenze la separazione profonda tra mutevole e immutabile; ma lo sviluppo dialettico non fa che descrivere come la separazione si approfondisca sino a farsi inglobamento dell’opposto, e quindi unità restaurata. L’analisi teoretica della coscienza infelice, quindi, tiene sempre presente il piano dei contenuti culturali impliciti nella costruzione di una logica della vita interiore (il medioevo mistico, il romanticismo). La lettura di Wahl si nutre della riscoperta del mondo dell’esperienza umana attuata in ambito esistenzialistico, ed ha costituito un termine di confronto imprescindibile per gran parte degli altri autori considerati, in particolare per Kojève e Hyppolite (v. sotto).
Alexandre Kojève (1902-1968)
Moscovita emigrato dall’URSS, Kojève ha una formazione eterogenea, che ha il suo perno negli anni ‘20. In questi anni, infatti, dopo aver studiato alcune lingue orientali e la storia delle religioni (in particolare il buddismo), si unisce a Parigi al circolo di intellettuali slavi di orientamento husserliano, tra i quali va ricordato Koyré. L’incontro con quest’ultimo è denso di conseguenze per la cultura filosofica, perché era stato Koyré, nell’ambito di un seminario di scienze religiose all Ecole Pratique des Hautes Etudes di Parigi, ad iniziare un corso sulla Fenomenologia, per poi far subentrare Kojève al suo posto. Il corso di Kojève durò dal 1933 al 1939, e oltre allo studio puntuale della terminologia hegeliana (i francesi non disponevano di traduzioni veramente valide delle principali opere hegeliane) ebbe come risultato immediato quello di dare una nuova portata all’influenza hegeliana nella Francia esistenzialista. Gli appunti delle lezioni vennero raccolti e sistemati da R. Queneau sotto il titolo: Introduzione alla lettura di Hegel (1947). Come più tardi Heidegger, Hegel pensa l’essere a partire dall’uomo, e pensa l’uomo a partire dalla morte: su questa traccia, più o meno, si svolge il commento di Kojève. L’uomo è l’unico essere consapevole di sé e della propria mortalità; quindi è a partire dalla morte che si penserà l’essenza dell’uomo. La morte, per Hegel, ha un significato diverso se considerata come fatto naturale oppure come fatto saputo. La coscienza che sa di potersi annientare, infatti, non può porre al di sopra di sé alcun valore, e anzi può affermare il proprio valore assoluto-cioè indipendente dalla datità naturale – proprio confrontandosi con la possibilità della propria morte. L’affermazione del proprio desiderio e della propria soggettività passano attraverso un altro soggetto, come riconoscimento da parte di quest’ultimo. L’autocoscienza, nella Fenomenologia, viene descritta come il prodotto di una lotta mortale, perché il soggetto può porsi come valore superiore per un altro soggetto soltanto correndo il rischio del proprio annientamento. La dialettica servo-padrone, compresa a partire dalle nozioni di lavoro e di riconoscimento, esprime il tentativo di fondare un’ontologia dell’essere finito, indipendente da qualsiasi contenuto trascendente e concentrata sulla creazione di significati umani attraverso il mondo storico. Il desiderio e l’attività negatrice vi si trovano correlati: il soggetto è richiamato a sé dal desiderio, ma al tempo stesso questa coscienza di sé deve riversarsi nel reale negando il presente dato in funzione dell’appagamento futuro. I caratteri principali dell’attività (come lavoro) e della storia (come lotta) testimoniano la finitezza dell’uomo, essere che deve determinarsi portando la negazione nell’esistente. Per dirla con Hegel – una frase che Kojève cita spesso: “l’uomo è sempre ciò che non è e non è mai ciò che è.” La descrizione hegeliana, per Kojève, non può essere fraintesa nella sua portata ateistica, perché le alternative che scandiscono il ritmo della dialettica dell’autocoscienza eliminano alla radice la possibilità di un mondo trascendente, di un Aldilà. Il mondo umano è determinato, finito alla radice; lungi dal costituire un limite estrinseco, la morte ne circoscrive le possibilità peculiari. E la filosofia, dal canto suo, testimonia la finitezza della stessa storia umana; se la storia ha un contenuto razionale, questo può essre riconosciuto e ricostituito solo al suo termine: e se la filosofia hegeliana è vera, la storia è finita. Non c’è storia né vita umana senza un rapporto attivo con la mortalità, non c’è filosofia senza riconoscimento dell’essere come finitezza, cioè come accadere storico.
Jean Hyppolite (1907-1968)
Le influenze di Hyppolite si raccolgono intorno ai nomi di Bergson, Marx e Freud, oltre all’insieme del movimento esistenzialistico. L’incontro con Hegel avviene mediante le interpretazioni di Haering, Kroner e Glockner (il primo a contrapporre, in Hegel, la primitiva visione ‘pantragistica’ al successivo ‘panlogismo’ che ne costituisce l’esito filosofico, una prospettiva che Hyppolite tiene costantemente presente). A questi vanno
SULL’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA ALL’UNIVERSITA’
Lettera al regio consigliere del governo di Prussia, Professor Friedrich von Raumer (Norimberga, 2 Agosto 1816)
Illustrissimo, con la presente mi permetto, in base al nostro colloquio di persona, di esporre ulteriormente le mie idee sull’insegnamento della filosofia all’università. Devo davvero pregarLa di essere cosi’ gentile da accontentarsi della forma. Non cerchi più connessione ed esaustività di quella che permette una lettera rapida, che deve raggiungerLa ancora nelle nostre vicinanze! Affrontando il tema come in generale verrebbe in parola, allora, dal momento che può sembrare cosa ben facile, comincio subito con questa osservazione: per l’insegnamento della filosofia, potrebbe valere semplicemente lo stesso, che vale per tutte le scienze. Al proposito, però, non voglio soffermarmi sul fatto che anche l’insegnamento della filosofia dovrebbe unire chiarezza e profondità all’ampiezza opportuna. Né voglio dilungarmi sul destino, che la filosofia condivide con le altre discipline all’università, di dovere essere organizzata nei termini di tempo, di solito un semestre, previsti (e sarebbe pertanto necessario diluire o condensare la materia secondo questi tempi), eccetera. Tutto ciò vale anche per le altre scienze. La forma specifica di imbarazzo, che si avverte oggi di fronte alla filosofia, va senz’altro ricondotta alla svolta che questa scienza ha imboccato e da cui deriva la situazione attuale. Oggi come oggi, infatti, forma e contenuto della formulazione scientifica di un tempo risultano più o meno antiquate, sia per quel che riguarda la filosofia, sia per quanto riguarda le materie in cui essa era suddivisa. D’altra parte, però, l’idea nuova di filosofia, che si è fatta strada, è ancora priva di una formulazione scientifica. Il risultato è che il materiale delle scienze particolari rimane ancora senza un proprio accoglimento e una propria trasformazione nell’idea nuova. Da un lato, dunque, vediamo scientificità e scienze senza interesse, dall’altro interesse senza scientificità. È per questo che, tendenzialmente, ciò che si legge e si vede presentato all’università sono ancora alcune delle scienze di un tempo: logica, psicologia empirica, diritto naturale, forse un po’ di morale. E al tempo stesso, però, la metafisica – anche se si riallaccerebbe alle scienze di una volta – è scomparsa, come, a Giurisprudenza, diritto pubblico tedesco. Certo, alcune altre discipline che un tempo costituivano la metafisica, non vengono rimpiante troppo. Ma questo avviene principalmente perché ancora si tiene in considerazione la teologia naturale (il cui oggetto è la considerazione razionale di Dio). Per quanto riguarda le altre scienze che ancora si conservano, poi, in particolare la logica, sembra essere quasi soltanto il rispetto per la tradizione e l’utilità formale dell’educazione dell’intelletto a tenerle in vita: la loro forma e il loro contenuto, infatti, sono ormai troppo in contrasto con l’idea di filosofia su cui si è ora spostato l’interesse – e col modo stesso di filosofare che dall’idea nuova deriva – perché esse possano ancora garantire una sufficiente soddisfazione. Quando i giovani intraprendono, anche per la prima volta, lo studio delle scienze, sono già venuti a contatto – anche soltanto per via di voci indeterminate nell’aria – con nuove idee e con nuovi atteggiamenti. Si avvicinano così allo studio privi del necessario pregiudizio sulla sua autorità e importanza: col risultato che ben presto i giovani non trovano quel quid, per il quale le attese si sono già risvegliate. Bisogna dire che anche nell’insegnamento di tali discipline, a causa dell’opposizione una volta tanto forte, non si ha più la disinvoltura e la fiducia piena di un tempo. Malumori ed incertezze di tale origine non portano, come è ovvio, a creare credito e apertura. L’idea nuova, per parte sua, non ha ancora soddisfatto l’esigenza di conformare il vasto campo degli oggetti, che appartengono alla filosofia, in un tutto ordinato, formato per mezzo e attraverso le sue parti. È venuta meno la richiesta di conoscenze determinate. La stessa verità, una volta riconosciuta, che il tutto può essere compreso soltanto nella misura in cui si lavora in profondità sulle parti, non soltanto è tramontata: è stata addirittura sostituita con l’asserzione che determinatezza e pluralità di conoscenze sarebbero per l’Idea superflue, quando non addirittura all’Idea opposte e inferiori. Da un simile punto di vista, la filosofia diventa compendiosa come la medicina, o per lo meno la terapia, ai tempi del sistema di Brawn: la si può sbrigare in una mezz’ora. Forse a Monaco Lei avrà già fatto, nel frattempo, la conoscenza di un filosofo che appartiene ad una tale corrente intensiva. Franz Baader, di tanto in tanto, fa stampare due o tre fogli, e questi dovrebbero contenere tutta l’essenza di tutta la filosofia, oppure l’essenza di una scienza filosofica particolare. Chi, in questo modo, fa soltanto stampare, ha ancora il vantaggio di mantenere nel pubblico la fede che egli sarebbe un maestro anche nello sviluppo di tali pensieri generalissimi. Ma dell’esordio di Friedrich Schlegel, con le sue lezioni sulla filosofia trascendentale, ho fatto esperienza io stesso ai tempi di Jena: dopo sei settimane egli era già a posto con il suo seminario. Non precisamente soddisfatti, invece, furono i suoi uditori: credevano di finire dopo il semestre che avevano pagato. Con l’aiuto della fantasia, si è visto dare grandissimo spazio ad idee generali. In modo brillante ed oscuro vennero sposati assieme l’Alto col Basso, il Vicino col Lontano: spesso in un senso profondo, ma altrettanto spesso con la più grande superficialità. Per di più si è fatto uso degli ambiti della Natura e dello Spirito che per sé stessi risultano più oscuri ed arbitrari. Un cammino opposto ad una sempre maggiore estensione è il cammino critico e scettico, che, nel materiale già pronto, trova un canovaccio da seguire, ma che del resto riduce a nulla, portando soltanto alla scontentezza e alla noia dei risultati negativi. Questa via presenta in qualche modo l’utilità di aguzzare l’ingegno. La via precedente della fantasia, vorrebbe avere l’effetto di risvegliare un passeggero fermentare dello spirito, ciò che si chiama anche edificazione, e di accendere in pochi individui la stessa idea universale. Di fatto, nessuna delle due vie offre ciò che deve essere offerto e quanto costituisce lo studio scientifico. I giovani, al sorgere della nuova filosofia, diedero dapprima il benvenuto alla possibilità di disfare, con formule che vorrebbero comprendere tutto, lo studio della filosofia, se non della scienza in generale. Ma il vuoto di conoscenze e l’ignoranza (tanto dei concetti filosofici quanto delle scienze professionali specifiche) che da tale opinione sono derivate, hanno incontrato una opposizione troppo forte e una ripulsa fattuale nelle esigenze dello Stato (ma anche nelle altre forme di cultura scientifica) perché quelle oscurità, alla fine, non cadessero in discredito. La necessità interna della filosofia fa in modo che questa debba essere elaborata scientificamente in tutte le sue parti. Questa necessità, d’altra parte, mi sembra dovere essere anche il punto di vista in sintonia col nostro tempo: non ci si può voltare indietro e ritornare alle scienze di una volta. Al tempo stesso, però, la massa di contenuto e concetti, che le scienze di una volta contenevano, non può essere ignorata. La nuova forma dell’Idea fa valere i propri diritti e il vecchio materiale ha bisogno, pertanto, di una rielaborazione conforme al punto di vista attuale. Certo, una opinione su ciò che è in sintonia col tempo, non può essere più che un giudizio soggettivo. (All’inizio ho considerato soggettiva anche la direzione che ho preso quando mi sono posto un tale obbiettivo: e si tratta allora di attendere la reazione del pubblico ora che ho terminato l’edizione dei miei lavori sulla logica). Una cosa è senz’altro vera: ciò che deve offrire l’insegnamento universitario della filosofia, cioè l’acquisizione di conoscenze determinate, può di fatto essere offerto soltanto seguendo un andamento preciso, metodico e ordinato, il quale renda conto anche del dettaglio. È soltanto così che la filosofia – come del resto ogni scienza – può essere imparata. Anche il maestro che preferisse evitare questa parola deve avere la consapevolezza che si ha a che fare anzitutto e principalmente proprio con questo: con l’imparare. Su come si debba “pensar da se” si è infatti diffuso un pregiudizio: e qui non mi riferisco solo allo studio della filosofia, perché nella pedagogia la stessa idea è ancor più radicata. Per esercitare il “pensar da se”‘, secondo tale pregiudizio, non si deve mai dipendere dal materiale. Si fa quindi come se l’imparare, e il pensar da sé, fossero due cose opposte. In realtà, però, il pensiero non può che esercitarsi su un materiale. (Materiale che è certo pensiero, non immaginazione, parto della fantasia o intuizione, la si voglia definire intellettuale oppure sensibile). Non si vede, poi, in che altro modo un pensiero possa essere imparato, se non – appunto – pensandolo da sé. Un altro errore diffuso fa in modo che un pensiero sembra possedere tanto più l’impronta del “pensar da sé”, quanto più è divergente dal pensiero altrui. (Qui verrebbe proprio da dire: “Ciò che è nuovo, non è vero. E ciò che è vero, non è nuovo”). È di qui che si è originata la smania per cui ciascuno vuole farsi il sistema filosofico proprio! E di qui che una trovata viene considerata tanto più originale e azzeccata quanto più è insulsa e pazza, perché appunto cosi’ sarebbe dimostrata l’originalità e la diversità dai pensieri degli altri uomini. La filosofia, al contrario, può essere imparata soltanto nella misura in cui attraverso la determinatezza, diventa chiara, comunicabile e capace di diventare un bene comune. L’universale comunicabilità che le è propria strappa alla filosofia l’immagine, che ha assunto negli ultimi tempi, di essere una idiosincrasia per qualche cervello trascendentale. (Il che non significa, però, che la filosofia non debba essere studiata o che la filosofia sia già, per natura, un bene comune, soltanto perché tutti gli uomini sono dotati di ragione). Solo in questo modo la filosofia diviene conforme al ruolo che le spetta, di seconda scienza propedeutica in vista di una professione, dopo la filologia che è la prima. Può certo ancora capitare che qualcuno non vada oltre il secondo livello propedeutico. Ma almeno non più per la ragione che si scopriva una volta, quando alcuni diventavano filosofi perché non avevano studiato nient’altro di serio! Questo rischio, tuttavia, oggi non sembra più così grande. Ed è in ogni caso ben maggiore il pericolo di adagiarsi sul primo livello, di non andare cioè oltre la filologia. Una formazione filosofica scientifica, infatti, conduce – già per propria forza interna – al pensiero determinato ed ad una conoscenza approfondita. E il contenuto della filosofia (l’universale delle relazioni spirituali e naturali) porta da sé, immediatamente, alle scienze positive. Queste ultime, anzi, mostrano tale contenuto in forma più concreta: col risultato che, inversamente, lo studio delle scienze si rivela necessario per una visione profonda della filosofia stessa. Gli studi filologici, invece, una volta che si vada nei dettagli (i quali dovrebbero rimanere soltanto uno strumento) hanno un carattere tanto estraneo alle altre scienze, che tra la filologia e una scienza o una professione effettiva nella realtà si trova poca connessione e pochi punti di passaggio. In quanto scienza propedeutica la filosofia deve farsi carico dell’educazione e dell’esercizio formale del pensiero. Questo è possibile soltanto grazie ad un allontanamento complessivo del fantastico, alla determinatezza dei concetti e ad un procedere metodico e conseguente. La filosofia deve prendersi cura di questo esercizio ancor più della matematica: infatti non ha, come la matematica, un contenuto sensibile. Ho prima fatto riferimento all’edificazione, che spesso si sente richiedere alla filosofia. Secondo me la filosofia, anche quando la si insegna ai giovani, non deve mai essere edificante. Deve però soddisfare un bisogno, non tanto lontano dall’edificazione, che ora voglio affrontare brevemente. È senz’altro vero che oggi più che mai sono stati riimmessi in circolazione un materiale solido, idee più alte e la religione. A fronte di ciò, però, sono meno che mai sufficienti la forma del sentimento, la fantasia e i concetti confusi. Ecco allora il compito della filosofia: giustificare razionalmente una tale ricchezza di contenuto, afferrarla e concepirla in pensieri determinati. Questo è il modo in cui la filosofia preserva dal torbido, da strade cattive! Sempre a proposito del compito della filosofia e del suo contenuto, voglio ancora menzionare uno strano fenomeno. Si vedono alcuni filosofi insegnare alcune materie più o meno diffusamente di altri. Capita addirittura che un filosofo insegni materie completamente diverse rispetto a un altro. Eppure il materiale, cioè il modo naturale e spirituale, é sempre lo stesso: e non potrà dunque che articolarsi nelle stesse scienze particolari. Una simile svariata disomogeneità dipende prima di tutto dalla confusione, che non permette di arrivare a differenze stabili e a concetti determinati. Ma anche l’incertezza e l’imbarazzo fanno la propria parte. E come potrebbe essere diversamente? Non ci si trova forse a dovere insegnare, accanto alla filosofia trascendentale più nuova, la vecchia logica? Accanto ad una metafisica scettica, la teologia naturale? In ogni caso, come ho già detto, il vecchio materiale non può essere semplicemente messo da parte ma ha bisogno di una profonda trasformazione. D’altra parte, l’articolazione necessaria delle materie è già sufficientemente stabilita. – L’universale del tutto astratto, assieme a ciò che un tempo costituiva la metafisica, appartiene alla logica. – Il concreto si articola nella filosofia della natura, che rende soltanto una parte del tutto, e nella filosofia dello spirito. Qui troviamo: psicologia e antropologia, dottrina dei diritti e dei doveri, filosofia della religione e, da non dimenticare, storia della filosofia. Quali che siano le differenze nei principi che potrebbero esserci, la natura stessa dell’oggetto porta comunque con sè questa suddivisione e il trattamento delle scienze menzionate. Sono diventato terribilmente prolisso. Per non abusare della Sua cortesia non aggiungo nulla a proposito degli appoggi esterni all’insegnamento (colloqui, eccetera). Le auguro un buon proseguimento del viaggio e Le assicuro la mia stima e devozione.
SULL’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA NEI GINNASI
Hegel a Niethammer (Norimberga, 23 ottobre 1812)
Lei mi aveva incaricato di stendere per iscritto le mie riflessioni intorno all’insegnamento della filosofia nei Ginnasi e di sottoporglieLe; già qualche tempo fa stesi il primo abbozzo, ma non ho potuto più trovare il tempo necessario per elaborarlo adeguatamente. Per non rinviare troppo di mandarLe qualcosa al riguardo, secondo il Suo desiderio, lo faccio ricopiare per Lei, nella forma che ha assunto dopo una certa qual rielaborazione, e glielo invio ora. Dato che questo parere non ha che un fine privato, potrà bastarLe anche così com’è; mi farà cosa gradita se attribuirà certi pensieri disordinati e ancor più l’elemento polemico che c’è qua e là, alla forma grezza, la quale, per un altro scopo che non fosse quello di esporre a Lei il mio pensiero, avrebbe di sicuro richiesto una maggior politezza. La polemica potrebbe essere più sconveniente in quanto il parere è diretto a Lei, e quindi non ci sarebbe nessuno all’infuori di Lei contro cui si potrebbe polemizzare: ma Lei vedrà da sè che si tratta di una uscita occasionale, venuta così non volutamente nell’affrontare questa o quella maniera od opinione. Manca inoltre una osservazione finale, che io però non ho aggiunto in quanto io stesso, in merito, sono ancora incerto; — ossia, che forse ogni insegnamento filosofico nei Ginnasi potrebbe apparire superfluo, che lo studio dell’antichità sia l’introduzione alla filosofia più adatta alla gioventù ginnasiale e costituisca, sostanzia1mente, la vera. — Del resto, come posso io, professore di scienze filosofiche propedeutiche, combattere contro la mia disciplina e contro la mia funzione? togliere a me stesso il pane e acqua? Ma d’altra parte io — che dovrei anche essere un pedagogo-filosofo —, avrei pure, nella veste di Rettore, un diverso ufficio oltre a questo; quindi anche un interesse diretto a che i professori delle scienze filosofiche nei Ginnasi venissero dichiarati superflui e venisse loro o affidato un diverso incarico, o si mandassero da qualche altra parte. Ma una cosa, comunque, mi spinge di nuovo verso il primo punto di vista: il fatto che la filologia stia diventando sempre più erudita e tenda alla sapienza verbale. I Padri della Chiesa, Lutero e gli antichi predicatori citavano, esponevano e utilizzavano i testi biblici in maniera libera, senza alcuna cura per l’erudizione storica, ed essi potevano metterci così tanta più dottrina ed esemplarità. Con le chiacchiere estetiche del pulchre! quam venuste!, alle quali ancora oggi assistiamo, è all’ordine del giorno l’erudizione linguistico-critica e metrica: non so quanto di tutto questo sia penetrato nel personale a Lei sottoposto; ma capiterà anche ad esso, e nell’uno e nell’altro caso ne risulterà che la filosofia venga così svuotata. Non voglio tormentarLa ulteriormente con il malessere generale imperante qui; le cose, alla fine, vanno come sempre. Il male sta nel non avere intercessori contro l’amministrativo, visto che non abbiamo qui un consiglio distrettuale che è invece così lontano da risultare impossibile comunicargli una qualsiasi cosa che abbia in primo luogo una rilevanza amministrativa… Di ciò che rimane da fare per l’anno 1810-11 è altum silentium e non ci resta che ricorrere ad un’immagine litografica. Tutto ciò, e altro ancora, fa sì che la speranza senza opere mi ripugni oggi più che mai, cosicchè debbo ancora parlarLe dell’idea di fare da parte mia un passo nel Württemberg… A proposito di quanto emerge dalla Sua ultima, ricordo che Lei parla di porre un termine alla scempiaggine. Lei sa come andò a finire a Sancio Panza quando cadde giù dalla vetta della sua scemenza. Stando, almeno, al racconto del suo padrone, egli precipitò da quella vetta nell’abisso della sua stupidità, e vi fu in ciò lo stesso male di prima. I più cordiali saluti a Lei ed ai Suoi da parte di mia moglie e del suo H. Un parere riservato per il regio consigliere superiore scolastico per la Baviera Immanuel Niethammer. Norimberga, 23 ottobre 1812 L’insegnamento delle scienze filosofiche propedeutiche nei Ginnasi presenta due aspetti: I) I temi stessi dell’insegnamento. II) Il metodo. I) I TEMI Per quanto riguarda i temi da insegnare e la loro ripartizione nelle tre classi, la normativa stabilisce quanto segue. 1) Nella classe inferiore (III, § 5 III) è prescritta la conoscenza della religione, del diritto e dei doveri. (In V. c, però, troviamo scritto che nella classe inferiore l’esercizio del pensiero speculativo potrebbe iniziare con la Logica). 2) Nella classe media: Cosmologia e teologia naturale(in rapporto alle critiche kantiane) Psicologia 3) Nella classe superiore: enciclopedia filosofica. Dato che nella classe inferiore la logica non si adatta bene ad essere insegnata assieme alla dottrina del diritto, dei doveri e della religione, io finora ho fatto in questo modo: nella classe inferiore tratto soltanto la dottrina del diritto e la dottrina dei doveri, assieme alla dottrina della religione. La logica, invece, la riservo alla classe media, dove la alterno, in questa classe, con la psicologia, che è un corso biennale. Nella classe superiore, infine, come stabilito, ho fatto seguire l’enciclopedia. Se devo esprimere un mio giudizio complessivo su tutta questa ripartizione (sia considerandola astrattamente, sia secondo la mia esperienza) posso solo dire che l’ho trovata molto opportuna. Ma entriamo nei particolari. 1) Per quanto riguarda i primissimi argomenti di studio troviamo, nella normativa, questa formulazione: “Dottrina della religione, del diritto e dei doveri”. Il presupposto implicito sembra essere che, tra queste tre dottrine, si deve cominciare con la religione. Visto che però non è ancora presente nessun Compendio, deve senz’altro rimanere all’insegnante la libertà, secondo il suo giudizio, di trovare l’ordine e di stabilire i collegamenti. Per parte mia, non so come iniziare se non col diritto. Il diritto è infatti la conseguenza più astratta e più semplice della libertà. Dal diritto passo poi alla morale e di qui arrivo alla religione, come al livello più alto. (Questo, comunque, riguarda già più da vicino la natura stessa del contenuto, e non è questo il luogo per approfondire ulteriormente la questione). Se qualcuno mi chiedesse: “Ma questi temi sono adatti come primissima introduzione alla filosofia?”, non potrei rispondere altro che sì. I concetti di queste dottrine sono semplici e hanno al tempo stesso una determinatezza che li rende adatti all’età di questa classe. Il loro contenuto è appoggiato dal sentimento naturale degli alunni ed ha una realtà effettuale nella loro interiorità, poichè è il lato della realtà interna stessa. È per questo che preferisco di gran lunga, in questa classe, trattare queste dottrine piuttosto che la logica. La logica ha un contenuto astratto, esclusivamente teoretico, che è particolarmente estraneo all’immediata realtà interiore degli scolari. Libertà, diritto, proprietà… Queste sono le determinazioni pratiche che sentiamo e con cui abbiamo a che fare ogni giorno. Esse hanno anche, al di là dell’esistenza immediata, una realtà istituzionalizzata e una validità effettiva. Invece, le determinazioni logiche dell’universale e del particolare, eccetera, per uno spirito che non ha ancora familiarità con il pensiero, sono solo ombre rispetto al reale. (Per quanto, certo, lo spirito si serva di queste determinazioni ancor prima di averle studiate e di essersi esercitato a tenerle ferme indipendentemente dal reale stesso). Ciò che si sente chiedere all’insegnamento introduttivo della filosofia è di cominciare dall’esistente e che la coscienza venga portata – a partire di qui – al più alto, al pensiero. Ma nel concetto di libertà è presente appunto l’esistente e l’immediato in una forma tale che il pensiero è già presente (ancor prima di analizzare, anatomizzare, astrarre, eccetera). Affrontando questi temi, pertanto, si comincia davvero con il richiesto, col vero, con lo spirituale: si comincia davvero con la realtà effettiva. In questa prima classe ho sempre trovato un interesse maggiore per queste determinazioni pratiche, che non per quel po’ di teoretico che ho dovuto premettere. E questa differenza di interesse l’ho sperimentata ancora di più quando – la prima volta – ho seguito la parte esplicativa della normativa ed ho cominciato subito coi concetti della logica. Un’esperienza che non ho più ripetuto. 2) Il grado più alto, per lo studente, è lo spirituale teoretico, il logico, il metafisico, lo psicologico. Se si confrontano tra loro il logico e lo psicologico, il logico risulta assolutamente il più facile, perchè il suo contenuto sono le determinazioni più semplici ed astratte. Lo psicologico, invece, ha qualcosa di più concreto: si tratta dello spirito stesso. (Certo, però, la psicologia può diventare addirittura troppo facile se viene intesa, trivialmente, come psicologia esclusivamente empirica: penso ad esempio alla Psicologia per bambini di Campe. Quello che conosco, poi, di Carl Gustav Carus Manier, non è proprio sopportabile: è così noioso, inedificante, senza vita, senza spirito!). Io divido l’insegnamento della Psicologia in due parti: a) Psicologia dello spirito fenomenico. b) Psicologia dello spirito in sè e per sè. Nella prima (a) affronto la coscienza seguendo la mia Fenomenologia dello Spirito, ma soltanto nei suoi primi tre gradi: l)Coscienza, 2)Autocoscienza, 3) Ragione. Nella seconda (b) tratto la successione di sentimento, intuizione, rappresentazione, immaginazione, eccetera. Entrambe le parti io le suddivido in modo tale che lo spirito – in quanto coscienza – opera ed è attivo sulle determinazioni come su oggetti ed il suo determinare diventa come una relazione ad un oggetto. Ma lo spirito – in quanto spirito – è attivo solo su determinazioni sue proprie e i suoi cambiamenti sono (e vengono considerati) come la sua attività stessa. Poichè l’altra scienza della classe media è la logica, la metafisica sembra non ricevere nessuno spazio. Si tratta senza dubbio di una scienza con la quale, al giorno d’oggi, si è di solito in difficoltà. Nella normativa è prescritta la presentazione della cosmologia antinomica di Kant e la teologia naturale, altrettanto dialettica. In questo modo, di fatto, ciò che viene prescritto non è tanto la metafisica, quanto piuttosto la dialettica che le è propria. Questa parte ricade così nella logica: precisamente, appunto, nella logica dialettica. Tutto ciò coincide con la mia visione della logica: anche secondo la mia visione del logico la metafisica ricade senz’altro qui dentro. Al proposito posso fare valere l’autorità di Kant come mio precursore. Dopo la sua critica, la metafisica viene ridotta ad una considerazione sull’intelletto e sulla ragione. In senso kantiano, dunque, la logica puo venire considerata come segue. Al contenuto ordinario della logica generale, deve essere unita e premessa una logica trascendentale (come Kant la chiama). Cioè, secondo il contenuto, la dottrina delle categorie, i concetti della riflessione e i concetti della ragione (tanto i concetti della ragione analitica quanto quelli della ragione dialettica). Queste forme oggettive di pensiero sono un contenuto autonomo, autosufficiente, la parte de categoriis dell’Organon di Aristotele – o l’ontologia di un tempo. Inoltre, queste forme di pensiero, sono indipendenti dal sistema metafisico: sono presenti tanto nel dogmatismo quanto nell’idealismo trascendentale. Il dogmatismo le chiama determinazioni dell’ente, l’idealismo trascendentale le considera determinazioni dell’intelletto. La mia logica oggettiva servirà, spero, a purificare nuovamente questa scienza. E a ridarle la sua autentica dignità. Fino a quando essa non sarà più nota, le distinzioni kantiane contengono il minimo indispensabile o il materiale grezzo. A proposito del carattere dialettico delle antinomie kantiane, comunque, più sotto dirò ancora qualcosa. Per quanto riguarda il loro contenuto fattuale, invece, esso è in parte il logico, in parte il mondo, lo spazio, il tempo, la materia. Se viene preso in considerazione il loro contenuto logico, cioè le categorie antinomiche che esse contengono, il fatto che esse riguardano la cosmologia cade via. E in realtà quel contenuto ulteriore (mondo, materia eccetera) è davvero una inutile palla al piede ed una nebbia della rappresentazione, priva di qualunque valore. Per quanto riguarda la critica kantiana della teologia naturale, essa può, come ho fatto io, venire trattata nella dottrina della religione, dove questo materiale, particolarmente per un corso di tre o quattro anni, non è inopportuno. È interessante anzitutto far conoscere le celebri prove sull’esistenza di Dio. Trattare quindi l’altrettanto celebre critica kantiana alle prove dell’esistenza di Dio. Infine criticare la critica kantiana stessa. 3) L’enciclopedia, dato che deve essere filosofica, esclude senza dubbio l’enciclopedia letteraria, la quale è completamente priva di contenuto e che non è nemmeno ancora utile ai giovani. Essa non può che contenere il contenuto generale della filosofia, cioè i concetti fondamentali e i principi delle sue scienze particolari. Le tre discipline fondamentali sono: 1) la logica 2) la filosofia della natura 3) la filosofia dello spirito. Tutte le altre scienze, che non vengono considerate come filosofiche, di fatto, rientrano qui, per quanto riguarda i loro principi. Ma siccome abbiamo a che fare con una enciclopedia filosofica, devono essere trattati, appunto, soltanto i loro principi. Subito viene fatto di pensare che al ginnasio sia molto opportuno dare un tale sguardo di insieme, complessivo. Ma, dopo una considerazione più profonda, può anche sembrare superfluo. Questo perchè nell’enciclopedia vengono considerate, in breve, scienze in gran parte già trattate in maniera approfondita. Non solo, per esempio, è già stata trattata la prima scienza dell’enciclopedia, la logica, di cui ho appena finito di parlare. Lo stesso vale anche per terza, per la dottrina della spirito. Questa è già stata presa in considerazione 1) nella psicologia e 2) nella dottrina del diritto, dei doveri e della religione. La stessa psicologia, del resto, che si articola nelle due parti di spirito teoretico e spirito pratico (o dell’intelligenza e del volere) può in gran parte fare a meno della trattazione della seconda parte: essa, infatti – nella sua verità – è già stata presa in considerazione in quanto dottrina del diritto e dei doveri e in quanto dottrina della religione. Questo perchè il lato meramente psicologico (come sentimenti, desideri, impulsi, inclinazioni) è qualcosa di solo formale, il quale, secondo il suo vero contenuto è già stato considerato come un rapporto necessario nella dottrina dei doveri. (Per esempio l’impulso al guadagno, o verso il sapere, l’inclinazione dei genitori verso i figli, eccetera, nella dottrina dei diritti o in quella dei doveri sono già stati trattati, nella loro forma di rapporto necessario, come dovere di guadagnare nei limiti dei principi del diritto, come dovere di formarsi, come dovere dei genitori e dei figli, eccetera). Alla terza parte della enciclopedia appartiene anche la dottrina della religione ed anche a questa è stata dedicato un corso particolare. Rimane allora, per l’enciclopedia, anzitutto la seconda scienza, la filosofia della natura. Soltanto: 1) Lo studio della natura presenta ancora poca attrattiva per i giovani. Essi, infatti, non a torto, avvertono l’interesse per la natura più come uno svago teoretico, se paragonato all’agire e all’operare umano e spirituale. 2) Lo studio della natura è la cosa più difficile. Lo spirito, per concepire la natura, deve trasformare il contrario del concetto in concetto. Si tratta di una forza di cui soltanto il pensiero rinforzato è capace. 3) Lo studio della natura, in quanto fisica speculativa, presuppone la conoscenza dei fenomeni naturali, cioè della fisica empirica. Si richiedono insomma cognizioni che in questa classe non ci sono ancora. Quando, nel quarto anno di esistenza del ginnasio, nella classe superiore, ricevetti gli studenti che erano già passati attraverso i tre corsi di filosofia nella classe media e superiore, dovetti fare l’osservazione che essi conoscevano già la maggior parte del cerchio delle scienze filosofiche. Mi sembrò quindi di potere tralasciare gran parte dell’enciclopedia soffermandomi soprattutto sulla filosofia della natura. Trovai però desiderabile che anche una parte della filosofia dello Spirito, precisamente la parte del bello, venisse svolta ulteriormente. L’estetica, oltre alla filosofia della natura, è la scienza particolare che ancora manca nel ciclo di studio. Eppure può benissimo essere una materia ginnasiale. La si potrebbe passare al professore di letteratura classica nella classe superiore, se non fosse che questi ha già molto da fare con la letteratura e sarebbe dannoso togliergli delle ore. Comunque sia, sarebbe utilissimo se gli studenti di ginnasio, oltre a più approfondite nozioni di metrica, possedessero anche un concetto più preciso della natura dell’epos, della tragedia, della commedia e simili. L’estetica potrebbe fornire i nuovi (e migliori) punti di vista sull’essenza e lo scopo dell’arte. Non dovrebbe però davvero rimanere un mera chiacchierata generica sull’arte. Dovrebbe piuttosto addentrarsi nei diversi modi di poetare e nei particolari generi poetici antichi e moderni. Introdurre alla conoscenza specifica dei massimi poeti delle diverse nazioni e dei diversi tempi. Sostenere questa conoscenza attraverso esempi. Si tratterebbe di un corso davvero istruttivo e piacevole che fornirebbe conoscenze adattissime agli studenti del ginnasio. Del resto è davvero un difetto reale che l’estetica non venga studiata nei ginnasi. A questo punto il nocciolo dell’enciclopedia, nei ginnasi, con l’eccezione della filosofia della natura, sarebbe in sostanza presentato. Mancherebbe giusto una visione filosofica della storia. Questa, tuttavia, può ancora essere trascurata. E comunque potrebbe trovare il proprio posto anche nella filosofia della religione, con la dottrina della provvidenza. È assolutamente necessario che la suddivisione generale dell’ambito complessivo della filosofia (la tripartizione in pensiero puro, natura e spirito) venga ricordata il più spesso possibile nella determinazione delle singole scienze. II) IL METODO In generale, si distingue il filosofare in sè stesso dal sistema filosofico articolato nelle sue scienze particolari. Secondo la mania attuale (tipica nella pedagogia) non si deve venire istruiti sul contenuto della filosofia: si deve piuttosto imparare a filosofare, senza contenuto. È un po’ come dire: bisogna viaggiare, viaggiare, sempre viaggiare: ma non fare la conoscenza di uomini e città, di fiumi e paesi. In primo luogo, però, mentre si conosce una città e si raggiunge magari un fiume, poi un’altra città e così via, si impara senz’altro a viaggiare. Anzi. Si viaggia realmente. Allo stesso identico modo, mentre uno studia il contenuto della filosofia, conosce la filosofia. Viene cioè a conoscenza non soltanto del filosofare, ma filosofa egli stesso. In fondo, anche lo scopo di imparare soltanto a viaggiare, non coinciderebbe in realtà con il conoscere città, fiumi eccetera? Non coinciderebbe cioè con un contenuto? In secondo luogo, la filosofia contiene i più alti pensieri razionali sugli oggetti essenziali. Contiene la loro universalità e la loro verità. È pertanto importantissimo conoscere questo contenuto e accogliere in testa questi pensieri. Il perenne cercare e bighellonare qua e là senza contenuto, questo modo di procedere soltanto formale, questo elucubrare e sofisticare, ha come conseguenza la vuotezza di contenuto e la vuotezza di pensieri nelle teste: ha insomma il risultato che non si sappia proprio nulla. Ma la dottrina del diritto, la morale, la religione sono ambiti ricchi di un contenuto importante. Allo stesso modo, anche la logica è una scienza piena di contenuti. La logica obiettiva (Kant: trascendentale) contiene i pensieri fondamentali di essere, essenza, forza, sostanza, causa, eccetera. L’altra i concetti, i giudizi, i sillogismi, eccetera: cioè altrettante importanti determinazioni fondamentali. La psicologia contiene il sentimento, l’intuizione, eccetera. L’enciclopedia filosofica, infine, l’insieme complessivo in tutti i suoi ambiti. Il fatto che le scienze wolffiane (logica, ontologia, cosmologia, eccetera, diritto naturale, morale, eccetera) siano più o meno sparite non significa certo che la filosofia abbia perso il carattere, che le è proprio, di complesso sistematico di scienze. E di scienze piene di contenuto! Inoltre la conoscenza dell’assolutamente assoluto (poichè le diverse scienze devono conoscere il loro proprio contenuto particolare anche nella sua verità, cioè nella sua assolutezza) è possibile esclusivamente attraverso la conoscenza della totalità dei livelli di un sistema. La diffidenza davanti ad un sistema richiede una statua di Dio priva di forma. Il filosofare asistematico è un pensare casuale, frammentario. L’atteggiamento formale di fronte al vero contenuto, invece, è il pensiero conseguente. In terzo luogo, infine, il processo, pieno di contenuti, che consiste nel venire a conoscenza di una filosofia ha un nome soltanto: si chiama studiare. La filosofia non può che venire insegnata e appresa. Non si fa forse così con tutte le altre scienze? Lo sfortunato prurito di educare al pensar da sè e a produrre in proprio, autonomamente, ha messo in ombra questa verità. Come se mentre io studio cosa è la sostanza, la causa o qualsiasi altra cosa, non pensassi io stesso. Come se non fossi io a produrre, nel mio pensiero, queste determinazioni, ma venissero buttate dentro al mio pensare come pietre. Come se, mentre esamino la verità di queste determinazioni, non mi convincessi io stesso della loro realtà. Dopo che ho studiato il teorema di Pitagora e la sua dimostrazione, non sono forse io stesso che so questo teorema? Non sono io stesso che ha dimostrato la sua verità? Lo studio filosofico, insomma, è, di per sè stesso, tanto un fare proprio quanto un apprendere: quanto lo studio di una scienza già elaborata, che già esiste. Si tratta di un patrimonio di contenuti tramandati , elaborati e formati. Di un tesoro chè è già presente, ma che deve venire acquisito dal singolo che lo eredita. Il patrimonio filosofico deve insomma venire studiato. L’insegnante lo possiede e lo pensa per primo, gli allievi lo ripensano dopo di lui. Le scienze filosofiche contengono i pensieri universali e veri dei loro oggetti. Questi sono il prodotto del lavoro del genio pensante di tutti i tempi. Si tratta di pensieri veri, che superano ciò che un giovane studente, non formato, può produrre da solo, con la sua testa. (Come la massa di un tale lavoro geniale supera di gran lunga le fatiche di un giovanotto). Il rappresentare originale e personale sugli oggetti essenziali, proprio della gioventù, è anzitutto ancora povero e vuoto. Ma per la sua più gran parte è addirittura fatto di opinioni, di illusioni e imperfezioni, di errori e indeterminatezza. Attraverso lo studio, al posto di tali illusioni, si fa strada la verità. Solo quando una testa è ben piena di pensieri ha la possibilità di sviluppare ulteriormente la scienza, di persona. Soltanto allora può essere raggiunta una originalità autentica. Con tutto questo, però, le lezioni negli istituti pubblici, soprattutto nei ginnasi, non hanno nulla a che fare. Qui si deve aver di mira qualcos’altro: si deve fare in modo che, attraverso le lezioni, si impari qualcosa e venga cacciata l’ignoranza, mentre la testa vuota si riempie di pensieri e contenuti. Si deve fare in modo che venga bandita quella naturale tendenza, propria del pensiero, che consiste nell’accidentalità, nella arbitrarietà, nella particolarità soggettiva dell’opinare. Il contenuto della filosofia ha – per metodo e anima – tre forme:
- astratto
- dialettico
- speculativo.
È astratto, anzitutto, in quanto si è, in generale, nell’elemento del pensiero. Ma è anche meramente astratto in quanto – in contrapposizione al dialettico e allo speculativo – costituisce il cosiddetto momento intellettivo, cioè il tenere ferme e conoscere le determinazioni nelle loro salde differenze. Il dialettico porta il movimento e lo scompiglio in queste determinazioni intellettuali rigide: è la ragione negativa. Lo speculativo, infine, è il razionale positivo, lo spirituale: l’unico momento propriamente filosofico. Per quanto riguarda l’insegnamento della filosofia nei ginnasi, la cosa principalissima è in primo luogo la forma astratta. I giovani devono per prima cosa lasciar perdere il vedere e il sentire. Devono venire strappati dalle rappresentazioni concrete. Il giovane deve ritirarsi dentro la notte interiore dell’anima e vedere anche a questo livello. Deve cioè essere in grado, anche a questo livello, di tenere ferme le determinazioni e imparare a distinguerle. Bisogna anche sottolineare che si impara a pensare in maniera astratta attraverso il pensiero astratto. Si possono infatti seguire due vie. Si può cominciare dal sensibile e concreto, sollevarlo e portarlo all’astratto attraverso l’analisi. (Questa sembra la via naturale, che andrebbe dal più facile al più difficile). Ma si può anche cominciare, subito, con l’astratto stesso: prendere l’astratto in sè e per sè, studiarlo e renderlo comprensibile. Confrontiamo fra loro le due strade. 1) La prima è certo la più naturale: ma, appunto per questo, non è la strada scientifica. Certo, è più naturale che un disco – in qualche modo già tondeggiante – venga definitivamente arrotondato da un tronco d’albero levigando le irregolarità e le sporgenze. Ma il geometra non procede così. Il geometra fa – subito! – un cerchio astratto, col compasso o a mano libera. E questo è conforme alla cosa. Il puro – cioè l’alto, cioè il vero – è natura prius e con ciò deve cominciare anche la scienza. Se quello è il primo, allora anche la scienza deve agire secondo verità. La scienza è infatti il contrario del rappresentare meramente naturale, ossia del non spirituale. 2) È completamente sbagliato considerare la via naturale, che parte dal concreto sensibile ed arriva al pensiero, la via più facile. Al contrario, è la via più difficile. Non è forse più facile leggere e pronunciare gli elementi della lingua, le singole sillabe, che pronunciare e leggere tutte le parole intere? Siccome l’astratto è il più semplice, è anche più facile da comprendere. La immediata naturalezza, sensibile e concreta, è senz’altro da gettare via. Ed è superfluo incominciare proprio con ciò che dopo dovrà essere disfatto. È dispersivo. L’astratto è in quanto tale comprensibile a sufficienza, tanto quanto basta. Certo deve poi anche subentrare la filosofia, e solo così si ha un vero e proprio intelletto. Si deve cioè anche fare in modo che i pensieri dell’universo entrino in testa. Ma i pensieri sono in primo luogo l’astratto. (Anche il raziocinare privo di contenuto è abbastanza astratto. Il punto è che bisogna presupporre che si abbia un contenuto e il contenuto giusto. E in ogni caso ho già scritto sopra che l’astrazione priva di contenuto, cioè il formalismo vuoto – fosse anche sopra l’assoluto – viene cacciato con la presentazione di un contenuto determinato). Se si resta fermi esclusivamente a questa prima forma – astratta – del contenuto della filosofia, si ha una cosiddetta filosofia dell’intelletto. Siccome al ginnasio si deve introdurre e fornire un materiale, questo materiale intellettuale (cioè questa massa di pensieri certo astratti ma al tempo stesso pieni di contenuto) fornisce immediatamente il materiale filosofico e costituisce l’introduzione, perchè avere un materiale è il primo elemento necessario per un sapere reale ed effettivo. Al ginnasio sembra dunque che la parte principale vada affidata a questo primo livello astratto. Il secondo livello della forma è il dialettico. Da un lato, è più difficile del momento astratto. D’altro canto è anche il meno interessante per i giovani, che sono assetati di un contenuto che li riempia. Le antinomie kantiane, nella normativa, sono prescritte in rapporto alla cosmologia. Esse contengono una base profonda del carattere antinomico della ragione. Questa base, però, rimane troppo nascosta e, per dir così, troppo poco riconosciuta nella sua verità, troppo senza pensiero. E d’altra parte si tratta davvero di una dialettica cattiva: si tratta davvero di antitesi soltanto enunciate. Nella mia logica, io, le ho chiarificate, con guadagno. La dialettica degli antichi eleati, e gli esempi che ci sono stati conservati, sono infinitamente migliori. Poichè – in un tutto sistematico – ogni nuovo concetto emerge attraverso la dialettica di quanto lo ha preceduto, l’insegnante, che conosce questo carattere della filosofia, ha la libertà di fare un tentativo anche con il dialettico, tanto spesso quanto può. Ma se questo tentativo non trova risposta nella classe, può passare al concetto successivo senza evidenziare il passaggio dialettico. Il terzo è lo speculativo vero e proprio, cioè la conoscenza degli opposti nella loro unità. Oppure, più esattamente, la conoscenza che gli opposti – nella loro verità – sono uno. Solo il momento speculativo è veramente filosofico. Si tratta, come ovvio, del momento più difficile: si tratta della verità stessa! Si presenta in forma duplice. 1) Nella forma della rappresentazione e della immaginazione. È una forma più comune, in qualche modo anche più vicina al cuore. Questo avviene, ad esempio, quando si parla della vita universale della natura che muove sè stessa e che si configura in una forma infinita (panteismo e simili). Oppure quando si parla dell’eterno amore di Dio, che si fa creatore per amare e contemplare sè stesso nel suo figlio eterno e poi in un figlio dato nella temporalità. Il diritto e l’autocoscienza, come il momento pratico in generale, contengono già – in sè e per sè – i princìpi o gli inizi dello speculativo. Tanto che dello spirito e dello spirituale è propriamente impossibile dire anche una parola soltanto che non risulti speculativa: perchè lo spirito e lo spirituale sono l’unità con sè nell’essere altro. Altrimenti, anche se si usano le parole anima, spirito, Dio, si parla solo di pietre e carboni. Quando dunque si parla in maniera meramente astratta o intellettualistica dello spirito, il contenuto può essere comunque speculativo (così come il contenuto della religione perfetta è altamente speculativo). Ma in questo caso l’insegnamento – sia esso ispirato o, se non è ispirato, comunque narrativo – porta l’oggetto solo davanti alla rappresentazione. 2) Nella forma del concetto. Il compreso, e questo significa lo speculativo che poggia sul dialettico, è soltanto il filosofico nella forma del concetto. Questo può comparire con prudenza durante le lezioni al ginnasio. In generale viene afferrato da pochi e, in parte, nemmeno si può essere sicurissimi che questi pochi l’abbiano davvero capito. Ciò che la normativa prevede come scopo principale delle lezioni di filosofia, insomma, cioè imparare a pensare in maniera speculativa, è senz’altro da considerarsi come lo scopo necessario. Ma la preparazione al pensiero speculativo è, in primo luogo, il pensiero astratto seguito dal pensiero dialettico e in secondo luogo l’acquisizione di rappresentazioni dal contenuto speculativo. Poichè l’insegnamento ginnasiale della filosofia ha un carattere essenzialmente preparatorio, le lezioni dovrebbero consistere soprattutto in un lavoro approfondito su questi aspetti del filosofare.
L’HEGELISMO NELL’OTTOCENTO
INTRODUZIONE GENERALE
Con la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si apre una questione di gran rilievo per la storia del pensiero: il sistema hegeliano, organico ed estremamente compatto, trova nel fatto stesso di essere un sistema un punto di forza ma anche di debolezza. Infatti, non appena ne “crolla” una parte, anche il resto entra inevitabilmente in crisi. Ed è proprio quel che avviene negli anni Trenta dell’Ottocento; sorge dunque, presso il “popolo degli intellettuali”, l’assillante quesito: “come comportarsi nei confronti del sistema hegeliano?”. L’Hegelismo si manifesta pertanto, dopo la scomparsa del filosofo che l’aveva elaborato, in differenti forme e correnti, di cui se ne possono individuare essenzialmente tre. La prima corrente è quella che si muove, sia pur criticamente, nell’ambito dell’hegelismo, rimanendo fedele ad esso. Questa corrente seguace del sistema hegeliano si dividerà, a sua volta, in Destra e Sinistra hegeliana. Il motivo di tale scissione tra i sostenitori del sistema hegeliano sarà essenzialmente dato dal fatto che in Hegel convivono tranquillamente la sfera rivoluzionaria ( ciò che è razionale è reale ), secondo la quale tutto ciò che è giusto deve essere realizzato, e la sfera conservatrice ( ciò che è reale è razionale ), secondo la quale le cose così come sono vanno bene, in quanto manifestazioni di una razionalità profonda. La Sinistra coglierà nella filosofia di Hegel il continuo cambiamento dialettico della realtà, leggendo in chiave progressista e spesso rivoluzionaria il motto ‘tutto ciò che è razionale è reale’. La Destra, invece, guarderà con maggior simpatia al motto ‘tutto ciò che è reale è razionale’, dandone una lettura fortemente stagnante e conservatrice, ostile a cambiamenti di ogni sorta. E’ però opportuno ricordare che la scissione tra Destra e Sinistra nacque, ancor prima che sul versante politico, su quello religioso: la Destra, legata ai valori della religione e della Chiesa, tenterà di fondare una scolastica hegeliana, ovvero un tentativo di apologizzare la religione cristiana attraverso i concetti dell’hegelismo. Hegel aveva, infatti, insistito sul fatto che i contenuti della sua filosofia e quelli della religione cristiana coincidessero; e, tuttavia, aveva anche sottolineato la superiorità della filosofia sulla religione, sostenendo che la filosofia esprime gli stessi contenuti della religione cristiana, ma ad un livello incommensurabilmente superiore. Ed è su questo che si basa la Sinistra hegeliana, convinta che ormai la religione fosse stata definitivamente superata dalla filosofia. Abbracceranno la causa della Sinistra hegeliana pensatori del calibro di Feuerbach, Engels e Marx, sicchè non è sbagliato affermare che il marxismo è una sorta di “eresia” dell’hegelismo. Ma, accanto a questa corrente (divisa in Destra e Sinistra) che segue criticamente gli insegnamenti di Hegel, vi è anche un nutrito gruppo di pensatori che si ribella al panlogismo hegeliano, alla sua esasperata ricerca della razionalità, rivendicando la natura irrazionale della realtà: aderiranno a questa corrente di pensiero Schopenhauer, Kierkegaard e Nietzsche. Sul versante opposto, vi è poi un anti-hegelismo di stampo razionalistico: in sostanza, questa terza corrente di pensatori rinfaccia ad Hegel di aver elaborato una filosofia razionale in cui però la ragione in questione non è quella della scienza di tipo illuministico, ma è quella dialettica, in grado di dimostrare solo e soltanto che ” il vero è l’intero ” o che ” il negativo è insieme anche positivo “. Questo terzo filone costituirà quella corrente di pensiero passata alla storia con il nome di Positivismo: tesi portante di questa corrente è l’identificazione totale della ragione e, in generale, di ogni conoscenza, con la scienza (a cui Hegel non aveva dato molto peso), come se ciò che esula dalla scienza non potesse costituire in alcun modo la conoscenza. Ricapitolando, le tre correnti che si affacciano sulla scena filosofica successiva ad Hegel possono essere così riassunte:
- prosecutori dell’hegelismo, seppur criticamente: Destra e Sinistra.
- anti-hegeliani sostenitori della superiorità della scienza in ogni ambito: Positivismo.
- anti-hegeliani avversi ad ogni forma di razionalità: Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche.DESTRA E SINISTRA HEGELIANE
Come abbiamo accennato poc’anzi, la Destra e la Sinistra hegeliane nascono all’indomani della scomparsa del filosofo: un esponente dell’hegelismo, Strauss, definirà le due correnti opposte nate nell’ambito dell’hegelismo come “Destra” e “Sinistra” richiamandosi esplicitamente al parlamento francese. La Destra hegeliana, detta anche dei “vecchi” per il carattere marcatamente conservatore che la contraddistinse, si opponeva alla “Sinistra”, detta anche dei “giovani” hegeliani in virtù del fatto che a comporla erano per lo più giovani progressisti: il primo motivo che portò le due “fazioni” a scontrarsi fu di materia religiosa. Hegel aveva, infatti, sostenuto che la filosofia e la religione esprimessero gli stessi concetti, ma aveva anche aggiunto che la filosofia li esprime in maniera decisamente migliore. Dall’ambiguità del discorso hegeliano, nasce la spaccatura tra Destra e Sinistra: la prima, tende a sottolineare l’identità di contenuti della filosofia e della religione, avvalorando in questo modo la religione; la Sinistra, dal canto suo, sottolinea come la filosofia sia per natura superiore alla religione, poichè quest’ultima, come aveva detto Hegel, può solo esprimersi attraverso narrazioni mitologiche. In altri termini, la Destra approva la religione poichè ne sottolinea l’identità di contenuti con la filosofia; la Sinistra, invece, è contraria alla religione poichè ne sottolinea l’inferiorità della forma rispetto alla filosofia. Ne consegue inevitabilmente che i seguaci della Sinistra si dedicheranno assiduamente all’indagine filosofica, mentre invece gli esponenti della Destra arriveranno ad anteporre la religione alla filosofia, cosicchè i loro contributi alla storia del pensiero sono pressochè irrilevanti. Ma la questione religiosa non è la sola a creare disaccordi tra gli hegeliani: se in Hegel convivevano ambiguamente la superiorità della filosofia rispetto alla religione in ambito formale e l’uguaglianza tra le due in ambito contenutistico, è anche vero che nel filosofo trovavano il loro spazio anche due concezioni della realtà contrapposte; da una parte, infatti, egli diceva che tutto ciò che è giusto perchè razionale deve essere realizzato, dando così una veste progressista al suo pensiero; dall’altra parte, invece, sosteneva che la realtà, così come è, è razionale e, in ultima istanza, giusta, dando così una colorazione conservatrice alla sua filosofia. Ora, come per quel che riguarda la religione, anche qui si crea una spaccatura: la Destra sostiene che tutto ciò che esiste è razionale e, pertanto, non deve essere cambiato; la Sinistra, invece, è del parere che tutto ciò che è razionale debba essere fatto diventare anche reale, in una prospettiva progressista e, talvolta, rivoluzionaria. Ricapitolando, i due punti di “disaccordo” tra Destra e Sinistra sono:
- il rapporto religione-filosofia
- il rapporto tra razionale e reale
Sul versante religioso, merita di essere ricordato DAVID FRIEDRICH STRAUSS (1808-1874), convinto sostenitore della Sinistra, il quale dà del cristianesimo e della figura di Gesù un’interpretazione molto particolare: nell’opera Vita di Gesù (1835), recante lo stesso titolo di quella pubblicata a suo tempo da Hegel, egli sostiene, in netto contrasto con la tradizione, che la figura di Gesù sia il frutto dell’elaborazione mitologica dei cristiani. Strauss non mette in dubbio l’esistenza di Gesù, ma ciononostante è convinto che, paradossalmente, sia Gesù come elaborazione mitologica a derivare dal cristianesimo e non viceversa, come invece aveva sempre sostenuto concordemente la tradizione. Con queste riflessioni, Strauss può a pieno titolo rientrare nella sfera della Sinistra hegeliana, rivelando, tra l’altro, una certa tendenza (che sarà meglio espressa da Feuerbach) a naturalizzare il concetto di spirito, a riportarlo ad una dimensione immediata e calata concretamente nell’umanità. Altro grande esponente della Sinistra, fu BRUNO BAUER (1809-1882), curiosamente partito da posizioni proprie della Destra: nonostante le posizioni iniziali, egli si “converte” alla Sinistra ed espone la sua concezione della religione in La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo (1841). Con quest’opera, pubblicata anonimamente, egli attua una finzione letteraria, presentandosi come pensatore iper-conservatore e religioso e polemizzando aspramente con Hegel, accusato di essere ateo e anticristo. Con questo gioco intellettuale, Bauer vuole mettere in luce le tesi della Sinistra, facendo notare come se si vuole essere hegeliani non si può essere religiosi, poichè ciò che dice Hegel è inaccettabile per la religione: è dunque impossibile essere al contempo hegeliani e religiosi, come invece fanno gli uomini della Destra, ed è per questo che Bauer si dichiara apertamente ateo. Del problema politico si occupano soprattutto Ruge e Heine, i quali sottolineano (riprendendo concezioni illuministiche) come la Sinistra privilegi l’idea di una razionalità che deve a tutti i costi diventare reale: in quest’ottica, viene anche recuperato Fichte (molto più rivoluzionario di Hegel) e la sua concezione dinamica della realtà come tensione costante. Il succo del discorso di Ruge e di Heine è che se la Germania ha già fatto una rivoluzione sul piano intellettuale con il percorso che da Kant giunge fino ad Hegel, ora non resta che fare la rivoluzione sul piano politico ed è per questo che i pensatori della Sinistra guardano con particolare simpatia al liberalismo e alla democrazia, in un periodo particolarmente oppressivo e conservatore (siamo all’incirca nei foschi anni che di poco precedono il rivoluzionario 1848). Ed è curioso ricordare che, quasi sempre, gli esponenti della Sinistra furono emarginati dalle università, poichè il mondo accademico tedesco restava saldamente nelle mani degli hegeliani di Destra: non potendo esporre il loro pensiero nelle università, i filosofi della Sinistra si scatenarono (Ruge in prima persona) nella pubblicazione di riviste e giornali, per coinvolgere in modo democratico la società; ed è in questo contesto che muove i suoi primi passi il giovane Marx. La più serrata critica alla religione e uno dei più sentiti inviti ad abbracciare la causa democratico-rivoluzionaria in questi anni provengono da FEUERBACH (1804-1872), convinto sostenitore della Sinistra. Il punto da cui egli muove è la filosofia hegeliana e, soprattutto, il momento della “coscienza infelice” (Fenomenologia), dell’uomo medioevale che si sente radicalmente contrapposto a Dio e ne soffre. Feuerbach estende quest’infelicità all’intera religione (e non solo a quella medioevale), criticandola aspramente. Verso Hegel stesso egli è critico, poichè non può in alcun modo accettare che con Hegel termini la storia della filosofia: si propone pertanto di presentare una “filosofia dell’avvenire”, ponendosi come superamento dialettico di Hegel stesso. Con queste considerazioni sullo sfondo, Feuerbach scrive la sua opera più importante, L’essenza del cristianesimo (1841): Schleiermacher aveva ragione, egli dice, a considerare la religione come sentimento di dipendenza dell’uomo nei confronti dell’Assoluto; ma tale Assoluto altro non è se non l’umanità stessa alienata. Infatti, non è vero (come invece afferma il cristianesimo) che Dio crea l’uomo a propria immagine e somiglianza; al contrario, è l’uomo che crea Dio a propria immagine e somiglianza, il che vuol dire (essendo Dio una “produzione” dell’uomo) che la teologia, cioè la scienza di Dio, è un’antropologia, ovvero una scienza dell’uomo. E perchè l’uomo “produce” un Dio a propria immagine e somiglianza? Feuerbach dice espressamente che l’uomo è dotato di qualità quali la potenza (il poter amare, agire, conoscere) e sente l’esigenza di prenderne coscienza; ma l’uomo di cui parla Feuerbach non è il singolo, ma è, molto hegelianamente, l’umanità, poichè l’uomo è davvero tale solamente in rapporto con gli altri, quasi come se, restando solo, egli non fosse davvero “uomo”. Quelle facoltà che riferite ad un uomo erano finite, se estese all’intera umanità si moltiplicano all’infinito, cosicchè l’umanità, volendo prendere coscienza di sè e delle proprie infinite facoltà, si deve oggettivare, deve cioè proiettare fuori di sè le proprie caratteristiche per poterle così osservare come oggetto. Ed è con questo processo di oggettivazione (per molti versi simile al confronto tra autocoscienze tratteggiato da Hegel) che l’uomo crea Dio. Dunque, Agostino sbagliava a dire che nell’uomo si possono trovare tre nature poichè in Dio vi sono tre nature; al contrario, è corretto affermare che in Dio ci sono tre nature poichè nell’uomo vi sono tre nature: in altri termini, la somiglianza tra Dio e uomo si spiega nel fatto che l’uomo crea Dio. Ma la religione, nota Feuerbach, è stato un momento necessario nella storia dell’uomo e, proprio in quanto necessario, è stato giusto, anche perchè ha permesso all’uomo di prendere coscienza di sè. Tuttavia, il lato negativo di tutto ciò risiede nel fatto che l’oggettivazione è anche alienazione, vale a dire che l’uomo, creando Dio, è come se si fosse privato delle proprie facoltà, poichè ciò che viene dato a Dio viene inevitabilmente tolto all’uomo. Il problema che il pensiero moderno deve dunque affrontare consiste nel recupero della dimensione antropologica della religione, partendo dall’alienazione originaria con cui si è creato Dio. Una tendenza in questo senso, Feuerbach la scorge a partire dalla Riforma Protestante: con Lutero, infatti, Dio cessa di essere importante in sè, e diviene importante per ciò che è per l’uomo. La storia di riappropriazione della dimensione antropologica, avviatasi con Lutero, prosegue e culmina in Hegel, che però non è stato in grado di riconoscere l’autentica natura dell’umanità, bensì si è limitato a parlare di spirito o, tutt’al più, di umanità in termini troppo astratti. Feuerbach, invece, è ostile ad ogni astrattismo e quando parla di umanità, si riferisce non all’umanità spiritualizzata di Hegel, bensì a quella caratterizzata dall’esistere concretamente, quella cioè da cui siamo circondati e con cui abbiamo a che fare nella nostra vita quotidiana. Ed è per questo che Feuerbach può affermare in modo provocatorio che ” l’uomo è ciò che mangia “, come recita il titolo di un suo scritto: bisogna recuperare l’uomo materiale e sensibile, non alienato in Dio, e la sensibilità stessa assume un valore gnoseologico profondo, poichè attraverso il corpo e il contatto con esso, dice Feuerbach, si penetra nell’essenza delle cose e delle persone. Il bisogno di rapportarsi materialmente con gli altri è naturale a tal punto che la dimensione sensibile diventa sensoriale, come se coi sensi si potesse conoscere profondamente la realtà, cosicchè nel rapporto “io-tu” che si instaura materialmente per recuperare l’umanità smarrita in Dio, il contatto fisico gioca un ruolo fondamentale e l’amore fisico diventa anch’esso una forma di conoscenza. Si potrebbe obiettare a Feuerbach il fatto che egli si sforzi di cercare la concretezza per poi fermarsi all’umanità, senza pervenire ai singoli individui (come faranno Kierkegaard o Stirner); la risposta a questa possibile obiezione è molto semplice: se Feuerbach avesse concentrato la sua attenzione sui singoli e non sull’umanità (che comunque egli intende nel più concreto dei modi possibili), non avrebbe potuto spiegare l’oggettivazione dell’uomo in Dio. Infatti, perchè vi sia un’oggettivazione in qualcosa di infinito (Dio), è necessario che ad oggettivarsi sia qualcosa di infinito, come è appunto la somma infinita delle facoltà dell’umanità, facoltà che se considerate finitamente nel singolo non potranno mai oggettivarsi in qualcosa di infinito. Non c’è poi da stupirsi se un acceso rivale della religione come è Feuerbach, finirà per dare una veste religiosa alle proprie idee: infatti, l’oggetto della sua religiosità resta sempre e comunque l’umanità concreta (mai Dio), immanente nella realtà, quasi come se l’oggetto della teologia diventasse l’umanità nel suo complesso. Le considerazioni religiose di Feuerbach si intrecciano con quelle politiche: egli sottolinea, infatti, il carattere pericolosamente conservatore della religione; in essa, l’uomo tende a diventare schiavo, a sentirsi dipendente da un’entità superiore, e uno schiavo incatenato nel “mondo delle idee” diventa inevitabilmente anche schiavo nella realtà materiale, quasi come se oltre ad essere schiavo di Dio diventasse anche schiavo di un padrone materiale. Ne consegue che la liberazione politica dell’uomo dovrà passare per l’eliminazione della religione: infatti, solo dopo la scomparsa della religione l’uomo cesserà di essere schiavo di Dio e, successivamente, dei padroni materiali. Diametralmente opposta sarà la concezione di Marx, secondo la quale ” la religione è l’oppio del popolo ” : secondo Marx, infatti, l’uomo ricorre alla religione perchè materialmente insoddisfatto e trova in essa, quasi come in una droga (“oppio”), una condizione artificiale per poter meglio sopportare la situazione materiale in cui vive. Per Marx, dunque, non è la religione che fa sì che si attui lo sfruttamento sul piano materiale (come invece crede Feuerbach), ma, al contrario, è lo sfruttamento capitalistico sul piano materiale che fa sì che l’uomo si crei, nella religione, una dimensione materiale migliore, nella quale poter continuare a vivere e a sperare. Ne consegue che se per Feuerbach per far sì che cessi l’oppressione materiale occorre abolire la religione, per Marx, invece, una volta eliminata l’oppressione, crollerà anche la religione, poichè l’uomo non avrà più bisogno di “drogarsi” per far fronte ad una situazione materiale invivibile. Si può anche fare un cenno al rapporto che intercorre tra Hegel, la Sinistra hegeliana e Marx: se Hegel vedeva i processi meramente a livello materiale, con la Sinistra hegeliana si afferma la convinzione che le idee servono per trasformare la realtà, nella convinzione che il razionale debba diventare reale; in altri termini, con la Sinistra la rivoluzione ideale diventa premessa per la rivoluzione materiale. Marx, invece, sostiene che si debba dialetticamente cambiare non il mondo delle idee (poichè, cambiate le idee, le condizioni materiali non cambiano), bensì bisogna cambiare il mondo materiale e, cambiandolo, cambieranno anche le idee. Marx non è d’accordo con quella che definisce “ideologia tedesca” (cioè con quel mondo che parte da Hegel e giunge fino alla Sinistra), poichè secondo lui le idee, di per sè, non sono in grado di cambiare le cose: al contrario, bisogna prima cambiare le cose, e poi cambieranno pure le idee; e il primo atto filosofico per costruire una “filosofia dell’avvenire” consiste nel mutare il mondo con la rivoluzione a mano armata, grazie alla quale spariranno le vecchie idee (tra cui la religione) e ne nasceranno di nuove. Ecco perchè Marx può dire che ” fino ad oggi i filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo, si tratta ora di cambiarlo ” e che ” bisogna sostituire alle armi della critica la critica delle armi “, nella convinzione che l’unica vera critica la si fa con le armi sulle piazze. Al di là delle posizioni appena tratteggiate, troviamo anche chi scorge nell’individuo la massima espressione della concretezza ed arriva a sostenere posizioni anarchiche: in questa prospettiva, troviamo le figure di MAX STIRNER (1806-1856) e MICHAIL BAKUNIN (1814-1876), accomunati dal concetto di “individualismo”; entrambi respingono tanto l’astratto spiritualismo hegeliano, quanto l’umanità di Feuerbach e la classe di Marx, ritenute anch’esse troppo astratte. Nelle filosofie di Bakunin e Stirner aleggia la convinzione che, in fin dei conti, a contare e ad aver diritti sia solo il singolo, per cui non ha senso parlare di “Stato etico” superiore ai singoli (come aveva fatto Hegel) o di “umanità” (come fa Feuerbach). Al contrario, solo il singolo individuo ha diritti ed è degno di essere indagato filosoficamente: se Bakunin si qualificò sempre come anarchico e partecipò perfino alla Prima Internazionale, Stirner, invece, non si è mai occupato di politica in senso stretto, anche se la sua filosofia ha ispirato maggiormente le ali di estrema destra per via delle posizioni accesamente individualistiche da lui propugnate. L’anarchia può infatti essere appannaggio tanto delle sinistre quanto delle destre ed è per questo che se la Sinistra, ispirandosi a Bakunin, mira all’individualismo come estrema libertà, la Destra, invece, (ispirandosi a Stirner) tende all’individualismo come superiorità del singolo sulle masse. In L’unico e la sua proprietà (1844), Stirner arriva a sostenere che ad esistere è solo l’individuo è ciò che per lui conta è, paradossalmente, solo lui stesso; tutto il resto (le cose, gli animali e perfino gli altri uomini) è solo uno strumento per l’affermazione di sè. Il mondo stesso viene concepito come strumento volto ad attuare la realizzazione del singolo. Sull’altro versante, Bakunin elabora anch’egli un anarchismo individualista, ma rimane nell’alveo dell’anarchismo di ispirazione socialista (proponendo, ad esempio, l’autorganizzazione), ma rispetto a Marx nutre molti sospetti verso la dittatura del proletariato, temendo che essa possa trasformarsi in stato autoritario. Infatti, Bakunin sostiene che bisogna abolire, anche violentemente, lo Stato, in quanto sinonimo di dominio coercitivo e di disuguaglianza; tutto ciò, portava Bakunin a privilegiare il sotto-proletariato, del tutto disorganizzato e per ciò in grado di agire spontaneamente in chiave rivoluzionaria e di rovesciare lo Stato. Marx, che nutriva profonda antipatia per Bakunin (peraltro cordialmente ricambiata), non esitò a definire utopistico tale progetto, contrapponendo ad esso il proprio, incentrato sulla dittatura del proletariato. Ma Bakunin ebbe ragione a temere una degenerazione autoritaria della dittatura del proletariato: la dittatura staliniana ne fu la conferma.
E’ curioso che, proprio quando Hegel riteneva di aver chiuso definitivamente la storia del pensiero ( la nottola di Minerva inizia il suo volo soltanto sul far del crepuscolo ) sostenendo che con l’autotrasparenza della realtà attuata nella sua filosofia terminasse la filosofia stessa e cominciasse la sofia, fioriscano ben tre correnti diverse che riaprono da capo il discorso che Hegel riteneva chiuso. Karl Löwith, nell’opera ” Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del XIX secolo ” ha scorto nella filosofia che da Hegel giunge fino a Nietzsche e alla fine dell’Ottocento un processo rivoluzionario e di “rottura”; tuttavia, dice Löwith, se è vero che dalla filosofia di Hegel muoveranno i loro passi filosofi che prenderanno le distanze dal “maestro” ed elaboreranno pensieri tra loro opposti, è anche vero che in questo processo di frattura rivoluzionaria vi è un filone unitario, che accomuna i vari pensatori. Il fatto stesso che per tutti questi filosofi Hegel resti il punto di riferimento avvalora la tesi di Löwith: infatti, per i Positivisti e per gli “irrazionalisti” Hegel costituisce (per motivi opposti) un bersaglio contro cui scoccare i propri dardi velenosi, mentre per gli hegeliani alla Marx, il filosofo del Sistema resta un maestro a cui ispirarsi, un maestro di cui si può magari anche compiere il parricidio, come aveva fatto Platone con Parmenide, ma non è questo ciò che conta. Affiora bene, in sostanza, come Hegel resti al centro della riflessione filosofica a lui successiva: anche per chi lo rifiuta e lo disprezza cordialmente, egli resta pur sempre l’idolo negativo combattendo il quale si costruisce la propria filosofia. Si può poi ravvisare un elemento di unitarietà, oltre che nel fatto che Hegel resti il punto costante di riferimento, anche nel senso della concretezza che pervade le filosofie tra loro opposte di questi pensatori. Se nella terminologia hegeliana, per “concretezza” si doveva intendere il privilegiamento per il saper cogliere le cose nelle loro relazioni reciproche, cosicchè il pensiero era più concreto della materia, la ragione più dell’intelletto, ora tale termine si colora di un nuovo significato, al quale anche noi siamo abituati: e così, paradossalmente, tutti i pensatori successivi ad Hegel possono accusarlo di “astrattezza”, quasi come se leggendo Hegel si avesse l’impressione che egli non stesse parlando di cose reali. Il termine “astratto” passa cioè a designare ciò che è sganciato dalla realtà, ciò che non è “concreto”. E’ quasi come se si attuasse un capovolgimento dialettico dei termini, per cui l’accusa infamante di “astrattismo” che Hegel muoveva all’Illuminismo, ora si ritorce contro di lui, seppur in una nuova accezione. Per citare degli esempi, in Marx “concretezza” vorrà dire che, pur accettando egli la dialettica hegeliana, la criticherà per il fatti di poggiare ” sulla testa “, cioè sulle idee: si tratta pertanto, dice Marx, di mantenerla valida così come è, rigirandola però in modo tale che poggi non sulla testa, ma sui piedi, ovvero sulle condizioni materiali ed economiche; ne scaturirà un processo dialettico che non si realizzerà astrattamente sulle pagine dei libri, come l’aveva inteso Hegel, ma, al contrario, si svolgerà concretamente e in modo rivoluzionario sulle piazze. Discorso simile sul versante positivistico, dove si esalta la concretezza del sapere scientifico e del dato di fatto ( ecco perchè “Positivismo”: dal latino positum , “ciò che è posto”, ovvero il dato di fatto); si tratta di una contrapposizione netta al pensiero di Hegel, il quale, nella Fenomenologia dello spirito , aveva posto il dato di fatto ( da lui definito certezza sensibile ) al gradino più basso. Anche tra gli irrazionalisti serpeggia l’aspirazione alla concretezza e, per addurre un esempio, Schopenhauer insiste sul fatto che ” l’uomo non è un angelo “, cioè non è puro spirito disincarnato, ma è essenzialmente un corpo e la natura di tale corpo consiste, soprattutto, nella volontà, nei desideri, negli istinti e nelle passioni, quelle cose, cioè, che Freud avrebbe più tardi definito come “pulsioni”; da notare che la rivendicazione che Schopenhauer fa della concretezza è in antitesi all’astrattezza hegeliana, come pure alla ragione, tanto cara ai Positivisti. Anche Feuerbach rivendica la matrice materiale e “concreta” dell’uomo, arrivando a sostenere che ” l’uomo è ciò che mangia “, facendosi latore di un materialismo di rottura, per alcuni versi molto provocatorio. Nel caso di Kierkegaard (che rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale alla filosofia di Hegel dicendo ” Io, stupido hegeliano! “), poi, la ricerca esasperata della concretezza tenderà a manifestarsi come rivendicazione dell’esistenza singola: in Hegel si ha sempre l’impressione che, anche quando parla dell’uomo, in realtà non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard; da qui emerge il suo interesse per l’io come singolo, ovvero per l’io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l’aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Ed è con queste riflessioni maturate in Kierkegaard che comincia ad affiorare, seppur timidamente, il netto contrasto tra la concretezza dell’esistenza (l’io singolo) e l’astrattezza dell’essenza (l’umanità, lo spirito), contrasto già prospettato da Pascal e destinato a diventare centrale nella filosofia del Novecento con l’Esistenzialismo. Si può poi fare un breve cenno a Nietzsche, il quale in gioventù aderì alle tesi di Schopenhauer e, anche quando se ne distaccò, mantenne con esse un forte legame: infatti, il perno della sua filosofia è la volontà (concetto tipicamente schopenhaueriano) abbinata alla vitalità, contrapposte duramente al pensiero e, più in generale, alla ragione. Sempre Nietzsche rivendica anche quell’individualità già sostenuta da Kierkegaard: ed è per questo che Nietzsche è l’ultimo anello della catena che sancisce la frattura col pensiero di Hegel e, al tempo stesso, la sintesi delle concezioni più disparate emerse nel periodo post-hegeliano. Egli, da un lato, critica l’astratto in favore del concreto, salutando con entusiasmo la vitalità e la volontà di Schopenhauer (da lui cambiata nell’essenza e ribattezzata “volontà di potenza”), dall’altro lato pone l’accento sul problema dell’individuo sollevato da Kierkegaard, portandolo alle estreme conseguenze ed elaborando il mito del superuomo (con una bislacca commistione di elementi darwiniani). Tutte le riflessioni dei pensatori a lui precedenti, convivono in Nietzsche (spesso dando ibridi esplosivi quali il superuomo o la volontà di potenza) sotto un unico denominatore: la vitalità, il ” ritorno alla terra” che egli caldeggia così spesso nei suoi scritti, contrapponendosi bruscamente all’astrattismo hegeliano. Tuttavia, oltre agli aspetti che in qualche modo legano tra loro questi pensatori post-hegeliani, bisogna saper anche cogliere le numerose differenze che li separano: per dirne una, se Kierkegaard rivendica la concretezza come individualità, Marx, invece, molto più hegelianamente, la rivendica come umanità, come classe sociale. Sarebbe pertanto sbagliato ritenere che questi pensatori abbiano concezioni del tutto uguali tra loro; come sarebbe anche sbagliato illudersi che le loro filosofie maturino tutte dopo la morte di Hegel. In realtà, alcuni di questi filosofi cominciano ad elaborare le loro filosofie mentre Hegel è ancora in vita. La prova lampante di ciò è data da Scopenhauer, il quale compone la sua opera più famosa ( Il mondo come volontà e rappresentazione ) nel 1819, in un clima di pieno trionfo dell’hegelismo: ed è sintomatico il fatto che le idee di Schopenhauer hanno fatto breccia presso il pubblico solo dopo la morte di Hegel, tant’è che la prima edizione de Il mondo (composta quando Hegel era ancora in vita) andò al macero. Si può, tra l’altro, ricordare come Schopenhauer desiderasse tenere le sue lezioni universitarie in contemporanea ad Hegel, ma tuttavia non potè farlo per il semplice motivo che non aveva studenti: tutti, infatti, andavano ad ascoltare con entusiasmo Hegel, non tenendo in alcuna considerazione Schopenhauer.
L’irrequietezza dell’essere
A cura di Mario Trombino
Verità e bellezza nello “Spirito del Cristianesimo” di Hegel
“Se si assume, come fece il giovane Hegel, la tragedia come una misura per la ragione e il torto delle interpretazioni della vita e del mondo la tragedia stessa diviene una misura sotto cui d’ora in poi si situa il pensiero. E così il confronto con l’interpretazione hegeliana della tragedia greca può essere una via per spezzare il pensiero hegeliano e fare in modo che si tramandino non tanto i suoi risultati, quanto le domande di cui esso vive” (O. Poggeler) (1)
Francoforte, 1799: il secolo si chiude tra conflitti drammatici, che chiamano a riflettere con urgenza sul presente. Il movimento della storia si fa vorticoso, la rivoluzione non può attendere. Un intellettuale che non vede chiaro sui destini del tempo e non conosce ancora la propria personale via da percorrere trova materia di riflessione sul presente nella storia. A Francoforte Hegel, senza dirci perché, sceglie i primordi. Con gli occhi alla Francia rivoluzionaria rilegge i suoi classici: Eschilo, la Bibbia, Gibbon, Shakespeare …
1. Gli Ebrei e i Greci
“L’impressione che il diluvio di Noè fece sugli animi degli uomini dovette essere di profonda lacerazione e l’effetto dovette essere la sfiducia più smisurata nella natura. Questa, che fino a poco prima era stata benigna o in quiete, usciva ora fuori dall’equilibrio dei suoi elementi e rispondeva con la più distruttiva, invincibile, irresistibile ostilità alla fede che il genere umano aveva in essa. Nella sua furia non risparmiava nulla, non faceva nessuna distinzione d’amore, ma su tutto estendeva la sua furia selvaggia” (2).
Sullo sfondo di una natura irata, che attenta alla vita, in un panorama di spazi aperti ed ancora umidi per il recente diluvio, con gli occhi pieni di immagini di insensata morte, agli albori della storia l’uomo deve riannodare i rapporti col suo mondo, se vuol sopravvivere. L’uomo dipende da colei che ha tentato di ucciderlo ed ha ucciso i suoi simili, la terribile, ostile ed allo stesso tempo indifferente natura.
1.1. Noè
L’uomo è stato tradito: questo è l’inizio della Storia. Tutte le storie dell’uomo dipendono da questo originario tradimento. Un uomo di nome Noè comprende che attraverso un rapporto di dominio potrà difendersi dalla natura ostile. Da essa non può fuggire, perché da essa attende i mezzi della sua stessa vita. Di essa non può fidarsi, perché il diluvio è opera sua: ma in essa deve vivere. L’uomo, solo e debole, ha un nemico in colei cui deve la vita. La risposta è la volontà di potenza, il dominio come strumento di difesa. Da Abramo ha inizio la storia degli ebrei, dei cristiani e, soprattutto, la storia che Hegel sente propria.
1.2 Deucalione e Pirra
Altri uomini – una giovane coppia in terre non lontane – strappano dal loro cuore la paura e rifiutano la logica del tradimento. Non sappiamo perché né come, non ci viene descritta la radice della loro scelta: li vediamo solo riappacificarsi con la natura, stabilire con essa nel loro cuore un patto di fratellanza, imparare a godere della sua bellezza serena, nell’armonia di una comunità felice, pacificato il dramma del tradimento. Sono Greci, e da questo popolo non ha inizio alcuna storia: felici, la loro strada è stata però interrotta in un tempo senza data ed attende ancora un tedesco che sappia ripercorrerla.
Tuttavia non tutto è stato pacificato nel mondo felice della Grecia. Presso di loro compare una forma artistica sorprendente, che non canta la serenità della natura, ma il dramma della caduta: è la tragedia attica, che pone in scena il necessario venir meno di una bella essenza, e su questa necessità piange, e piangendo libera il cuore del popolo da terrore e compassione.
Come conciliare l’immagine serena della Grecia con la necessità tragica del venir meno di una bella essenza? Il poeta non contempla la casualità dell’esistere, ma la necessità che ne governa il ritmo: l’uomo che sa, come può ancora godere della vita, se la vita stessa lo tradirà?
1.3. La bellezza
I due volti della Grecia raffigurano l’antitesi tra la bellezza della natura ed il suo venir meno. In entrambi i volti, infatti, è la bellezza il concetto su cui ruota tutto lo spirito greco. Deucalione e Pirra generano un popolo felice, pacificato con la natura non più ostile, perché vivono in spirito di bellezza. La tragedia rappresenta il crollo cui lo stesso spirito di bellezza va incontro (Antigone, Edipo e, come vedremo in altro ambito, Gesù) per restare fedele a se stesso. Il legame tra questi concetti e la rivoluzione che oscuramente si agita nella mente del giovane Hegel è evidente: l’armonia creata dalla scelta dello spirito greco ha generato una comunità felice e armonica, mentre lo spirito di potenza ebraico ha creato lacerazione negli spiriti e infelicità nella comunità politica. Ma nella storia si è mostrato fertile lo spirito ebraico, mentre la bellezza s’è arrestata. Con la tragedia i Greci stessi ne hanno visto la morte.
Se si potesse suscitare ancora lo spirito di bellezza, e difenderlo contro se stesso e la sua fine …
Converrà guardar bene dentro di esso, ma entrambe le parole che lo descrivono sono oscure: qual è la natura dello spirito, e perché la bellezza ha così alto potere?
2. I due volti della tragedia
“La grande tragedia del popolo ebraico non è una tragedia greca; non può suscitare né terrore né compassione, poichè questi sentimenti nascono solo dal destino del necessario venir meno di una bella essenza. Essa può invece suscitare solo orrore. Il destino del popolo ebraico è il destino di Macbeth, che si staccò dalla natura stessa, si legò ad essenze estranee, e per servirle dovette uccidere e disperdere ogni cosa sacra della natura umana, dovette alla fine essere abbandonbato dai suoi propri dèi (giacchè questi erano oggetti, ed egli il loro servo) ed essere nella sua stessa fede stritolato” (6).
Anche il popolo ebraico ha la sua tragedia, ed è la tragedia di tutti, perché da quel popolo, e non dal greco, è nata la Storia. Dominio chiama dominio, volontà di potenza chiama ostilità. Così dall’ostilità si genera l’orrore. Qui non v’è bellezza, né necessità del suo venir meno in una bella essenza.
2.1. La tragedia attica
Il carattere proprio della tragedia attica è nella rappresentazione del dramma della vita o, meglio, del dramma della vita quando nella sua essenza è posta la morte come principio a lei non estraneo. Essenziale per comprendere la dinamica tragica è la dinamica della bellezza. Non il venir meno della vita genera infatti terrore e compassione, ma la morte della bellezza insita nella vita. Per questo motivo la tragedia greca è finita coi Greci: soltanto essi hanno saputo vivere lo spirito di bellezza sino in fondo, soltanto essi hanno quindi potuto scandagliare i suoi recessi per coglierne la necessaria dissoluzione. Solo essi, ed alcuni ebrei di spirito greco: Gesù, profeta di una nuova bellezza, la Maddalena, spirito semplice (7), Pietro, solo per alcuni tratti, oscillante tra l’altezza di Gesù ed il peso della sua natura (8).
2.2. La tragedia di Macbeth
Il carattere proprio della tragedia di Macbeth è la rappresentazione del dramma della vita quando essa pone di fronte a sé la morte come principio a lei estraneo. Macbeth uccide credendo cha la potenza della morte non appartenga alla sua stessa vita: egli stesso dunque evoca il fantasma di Banquo (9), reso oggettivo di fronte a sé dalla sua stessa concezione dell’essere della vita come cosa, oggetto cui è estranea la dinamica interna di nascita e morte, intesi qui piuttosto come il prodotto di una essenza esteriore. Nella logica della potenza, infatti, la forza appare la relazione esteriore tra cose, il dominio appare come un atto indipendente dall’essere reciproco del dominatore e del dominato. Così gli dèi greci sono potenze interiori all’uomo ed alla vita; gli dèi di Macbeth sono essenze esteriori, oggetti di cui egli si fa servo. Qui la bellezza non muore perché non è mai nata: la dinamica che la produce non è neppure stata avviata.
Le due tragedie corrispondono alla duplice opzione dell’umanità di fronte alla natura insensata e violenta: dominarla o rappacificarsi con essa. L’essenza del tragico, in entrambi i casi, nasce dalla realtà della vita che è tanto in noi quanto nella natura.
2.3. La bellezza assente
Dominare la natura è scelta che implica il dominio della vita sulla vita stessa, la sua lacerazione in realtà oggettive in cui l’unità profonda è spezzata (il soggettivo si è tramutato in oggettivo, la vita di un soggetto è concepita come essenza divenuta oggetto d’un altra essenza, rese estranee l’un l’altra dalla logica del dominio). Tragico è l’atto di Macbeth che, colpendo il nemico, deve accorgersi d’aver colpito se stesso. La tragedia di Macbeth è la nostra, uomini accecati dalla logica del dominio, resi incapaci di scorgere la vita là dove essa è pura: nella bellezza della sua unità con sé. La nostra tragedia è la tragedia della bellezza mai nata. Tragica è la bellezza assente.
2.4. La bellezza morente
Rappacificarsi con la natura è scelta che implica l’esclusione d’ogni lacerazione nella vita, l’unità profonda tra i soggetti viventi, eliminata ogni morta oggettività: la tua vita è la mia, la mia vita è la tua. La bellezza della vita è colta nella sua purezza, nata non però da un evento naturale (la vita, non la bellezza della vita, lo è) ma dalla cosciente scelta della pacificazione. Bellezza non è dunque la semplice natura, ma la coscienza che su di essa si installa come momento di comprensione dell’essere. Questa coscienza è essa stessa un superiore livello dell’essere. Ma la morte è distruzione della vita in un nulla che nessun livello di superiore coscienza – pena l’autoinganno – può interpretare come alcunchè: la vita (l’essere) ha in sé la possibilità del nulla. La vita individuale muore. Un vuoto nella sua pienezza segnala che la sua essenza è segnata da una “irrequietezza” (10) che non le permette di essere semplicemente ciò che è. La vita diviene, l’essere trascorre, e del suo essere il nulla è, semplicemente, parte. Rappacificarsi con la natura è quindi scelta che implica anche il riconoscimento della morte: la tragedia greca è la tragedia della bellezza morente. La fine della tragedia è, ancora una volta, la bellezza assente.
2.5. Due livelli dell’essere
Non del ciclo biologico vita-morte è qui discorso, si osservi, ma della bellezza che nasce e muore nella coscienza, non nel semplice essere della vita. Si incrociano dunque nella duplice visione della tragedia due livelli dell’essere, il livello della vita e il livello della coscienza. Inoltre si è creata una ambiguità del linguaggio filosofico: se la tragedia greca è la rappresentazione del necessario venir meno di una bella essenza ed allo stesso tempo il nulla è una possibilità dell’essere nella sua irrequietezza, non comprendiamo più se la tragedia ci porti al fatalismo dell’ineluttabile, su cui anche l’eroe versa la sua lacrima (11) (Antigone può vivere? Gesù può scendere dalla Croce? C’è una speranza che il volto tragico della Grecia si trasformi nel suo volto sereno e felice? Che le Erinni della nostra essenza – la morte, il nulla del mio essere – si tramutino nelle Eumenidi della nostra coscienza?) o se, abbandonata la via della necessità, vi sia una speranza di fronte all’aprirsi delle possibilità dell’essere (forse una via che la stessa Orestea sembra indicare?).
Ancorta una volta il discorso ci riporta alla bellezza ed alla sua essenza. Là troveremo un chiarimento su quell’essere della vita da cui tutto sembra dipendere.
3. L’essere: i suoi gradi, le sue nature
C’è davvero una ontologia dietro la concezione della bellezza? Certo traspare dalle pagine dello Spirito del cristianesimo una ampia serie di articolazioni dell’essere, su cui Hegel sembra avere idee piuttosto chiare.
3.1. La natura e i suoi elementi: equilibrio contro furia selvaggia (12)
L’intero testo dello Spirito del cristianesimo è percorso dalla visione di un originario stato di natura dalle caratteristiche contradittorie, letteralmente insensate: la natura amica dell’uomo, la natura ostile, capricciosa. L’eco delle pagine roussoiane è forte, le parole sembrano citazioni. L’ottica dalla quale si fa discorso della natura ha una struttura storica in un mondo che apparentemente non ha tempo. Hegel descrive testi antichi, la Bibbia e passi di poeti greci, sebbene di questi ultimi non ci sveli l’identità: oggetto del discorso è davvero la natura? O questa è solo lo specchio della coscienza? Il discorso è storico perché è condotto su testi, l’oggetto è senza tempo perché questa natura non ha identità. Del suo essere cogliamo una coppia concettuale molto nota: l’equilibrio degli elementi, il disordine selvaggio degli elementi. L’eco del mondo greco è manifesto. Il tema ricorda Polifemo contro Ulisse, il pensiero razionale contro il pensiero selvaggio, la natura scandita dal ritmo delle stagioni in una polis ordinata contro il demonico scatenarsi degli elementi in tempesta. Ricorda le elegie di Solone.
Da questa via nessuna ontologia sembra possibile. La natura continua ad essere quel regno del mistero che era per il poeta arcaico. Di essa nulla di preciso possiamo dire. L’alternarsi ordine/disordine è al di fuori di ogni sistemazione filosofica. E’ lo scacco della filosofia stessa, come tentativo di dominare con il pensiero la natura.
Ma v’è un’altra possibilità: che questo regno del capriccio sia esso stesso una parola profonda sull’essere. Dobbiamo rassegnarci ad una ontologia della natura capricciosa? L’ipotesi non è da scartare. In Hegel il tema ritorna, insistente. L’essere sembra fare muro contro le nostre domande, rifuggire da ogni logica. Ma è presto per trarre conclusioni. E se tutto non fosse davvero altro che il riflesso della coscienza? Forse le immagini che ci vengono presentate sono solo immagini di sogno, sospese tra coscienza e inconscio. Questo è il tema: il piano del discorso sull’essere può essere diverso dal piano della coscienza?
3.2. La natura e la vita
La natura però non è solo il muro contro cui si infrangono speranza e fiducia dell’uomo. L’uomo stesso è natura. Egli è un vivente, sente in sé la vita come tensione e passione, come sensazione e forza. L’amorfa natura è in lui individualizzata in un soggetto, e nella natura stessa egli riconosce altri uomini, altre vite di cui sente l’affinità con sé. Cosa ci dice la vita sul piano dell’essere? Di essa sappiamo che coincide con la sensazione e la vita interiore, che è identica con l’io. Di essa dunque l’uomo coglie il terribile limite della morte, perché l’io è fragile e muore. E’ questa l’ultima parola della vita? Essa è solo uno stato della natura connesso in oscurissima maniera alle regole limitanti della soggettività? Se così fosse, la vita ci apparterrebbe in modo esclusivo, in quanto soggetti, e non percepiremmo alcuna affinità con la vita degli altri. Cos’è invece che nell’uccidere Banquo fa scatenare le potenze oggettive della morte che perseguitano Macheth attraverso il suo fantasma? Si tratta forse ancora una volta solo di un gioco di specchi della coscienza?
Forse non v’è nulla di appartenente al regno dell’essere nella hegeliana concezione della unità della vita (13). Forse solo la coscienza con le sue leggi è responsabile di tutto questo, e la vita è solo il capriccio di una natura incostante, che crea dal suo seno individui per uccidere la loro individuale soggettività con lo stesso capriccio con cui l’ha prodotta.
V’è però certamente una seconda possibilità: che l’essere stesso sia vivente. Dall’amorfa natura questa ipotesi fa emergere la vita come un tratto dell’essere che non ha nulla di essenzialmente vincolato alla soggettività. Secondo questa ipotesi l’essere vive nel soggetto, piuttosto che il soggetto vivere nel regno dell essere. Soprattutto il quarto capitolo dello Spirito del cristianesimo sembra esaminare con estrema cura questa ipotesi. Ma non potrebbe ancora trattarsi di un gioco di luci e d’ombre della coscienza, di un mondo di sogno? Se però così non fosse, il capriccio della natura – scacco della filosofia – potrebbe assumere contorni più chiari: l’essere non sarebbe capriccioso, ma semplicemente irrequieto: semplicemente vivo.
Si può dominare concettualmente la vita? Se ne possono descrivere i caratteri? Hegel continuamente oppone il pensiero alla vita, il pensato al vivente. Da questa strada nessuna ontologia è davvero possibile, perché ogni ontologia è sempre costruita nel regno del pensiero. Dovremo trasferirci di livello, e installarci direttamente nel mondo della coscienza della vita.. Prima di farlo, tuttavia, occorrerà segnalare che in questa concezione dell’essere la morte non è insensato nulla, ma qualcosa di estremamente più determinato: è una delle possibilità della vita se a morire non è la vita, ma il vivente (14). Questa sorta di “misticismo” o di “spinozismo” che tanto sembra affascinare Hegel si scontra con la tesi della irriducibilità della vita ad altro che al vivente. Può la vita vivere se il vivente muore? O il nulla è tentazione implicita nella stessa irrequietezza dell’essere? Non possiamo escludere l’ipotesi, per quanto “tragica” essa sia. Qui, però, non troviamo elementi per un discorso sulla necessità: tutto ruota intorno a concetti di possibilità.
3.3. La coscienza della vita
Installiamoci dunque direttamente nella coscienza, piano sul quale sembra non si debba porre il problema dell’equivoco sull’oggetto del discorso: ciò di cui parliamo, senza ambiguità, non è altro che coscienza. Tuttavia, quale è la sua natura?
La coscienza è riflessiva e oggettivante. Essa coglie il sé come vita, cioè come sensazione, distacando il flusso dell’essere dell’io dall’essere della natura. Solo attraverso una oggettivazione concettuale l’io è posto come essere fra esseri, ma in questo modo diviene un “pensato”.
Vi sono dunque diversi livelli della coscienza. Un primo livello coglie la vita là dove essa è, nell’io. Un secondo livello coglie anch’esso la vita là dove essa è, ma la concepisce – al di fuori di una esperienza reale in un vivente, il soggetto pensante – come la caratteristica, concettualmente definita, di tutti i viventi. Vita e morte non sono pensati come essere e nulla, ma come uomo attivo e come cadavere, morto rottame (15). Hegel è fortemente tentato di relegare al nulla questo morto rottame, ma non può farlo senza ridurre la vita stessa a gioco della coscienza, o a pensarla come il carattere di un essere tutto diverso dalla materia e dal sensibile: ma solo nella materia e nel sensibile v’è il primo livello della coscienza che permette di sapere che cosa sia la vita. Altrimenti, come pensato, la vita è solo un oggetto, cioè non è più se stessa. Quel cadavere è lì a segnalare la dipendenza della vita dalla natura, dal vivente nella sua individualità. Esso inchioda l’uomo e la sua coscienza a cercare l’essere della vita nella coscienza a tutti i suoi livelli, sino ai più infimi: il pane dell’ultima cena è solo pane, e si scioglie in bocca, ma non v’è cena senza qualcosa da mangiare (16).
E tuttavia qui nella coscienza per la prima volta compare una nuova dimensione dell’essere (compare o nasce?): è la bellezza, la sensazione che la vita è bella, la consapevolezza che insieme è possibile godere della luna e delle stelle (17). La coscienza ha solo svelato un lato nascosto dell’essere, oppure l’essere stesso è sorgiva creatività e la bellezza un suo prodotto – essere come vivente irrequietezza perché pura sorgente di sé? L’amore sembra indicare questa possibilità. Nell’amore l’individualità è spezzata, lo spirito di Maria Maddalena è già lo spirito di Gesù, la vita è vissuta, non pensata, come una: la bellezza domina il regno intero dell’essere.
Ma, ancora una volta, l’amore è forse un gioco della coscienza? E’ l’illusione di un’anima sensibile votata all’autoinganno? Non è forse vero che l’individualità non si scioglie e che, morto Gesù, Maria non avrà più nessuno da amare?
Forse no. Forse davvero Hegel pensa che vi sia creatività pura nell’essere e che l’amore sia una sua manifestazione, capace di generare bellezza come una qualità pienamente “nuova” dell’essere. Forse egli sta davvero studiando l’idea che attraverso la coscienza si possa creare una nuova e più libera regione della vita: può essere così se la coscienza non è epifenomeno della materia, un tempo inorganica, ma è sorgiva vita dell’essere che per sua natura non rimane mai sé, ma passa e si ricrea, e nel passare non muore che qualcosa di inessenziale. La vita nella materia.
E il morto rottame? Cosa accadrà per Macbeth del cadavere di Banquo? Ma, infine, che accade per Oreste del cadavere di Clitennestra? Le sue Erinni non si sono forse trasformate in Eumenidi?
E’ quest’ultima la strada che Hegel sta studiando?
3.4. La coscienza del nulla
“Il soggetto infinito doveva essere invisibile, poichè ogni cosa visibile è sempre limitata. Prima che avesse il suo padiglione, Mosé mostrò agli israeliti solo fuoco e nuvole che traevano lo sguardo in un gioco di forme sempre diverse e indeterminate senza mai fissarlo in una. Un’immagine di Dio era per loro proprio pietra o legno; non vedeva, non udiva, ecc. Con questa litania ingannarono mirabilmente se stessi, disprezzando l’immagine perché non trattava con loro; né essi avevano alcun sentore della sua divinizzazione nell’intuizione dell’amore e nel godimento della bellezza” (18).
La coscienza non è solo coscienza dell’essere. Il nulla è chiaramente presente ad essa. Hegel è lontano dal mondo greco nel presentare questo concetto, ed è invece vicinissimo al mondo ebraico. Naturalmente il nulla non è altro che un pensato, e come tale appartiene a quel regno dell’essere a cui partecipano tutti i pensati. Tuttavia in almeno due occasioni compare una diversa concezione del rapporto tra nulla e coscienza. Gli ebrei vivono infatti l’esperienza del nulla “sulla loro pelle” e la rappresentano nel vuoto del Sancta Sanctorum, così come nell’inazione del sabato (19). Certo questa senzazione del nulla – primo livello della coscienza – è direttamente figlia della concezione della divinità come signoria potente di fronte all’uomo ed alla natura come nulla – secondo livello della coscienza – e dunque, benchè sia sensazione, essa si rivela come il raffinato frutto di una elaborata ed estremamente coerente articolazione concettuale, ben dentro il regno dell’essere. Ma è anche vero che gli ebrei possono sentire se stessi come nulla, la natura come nulla, la vittima sacrificale come nulla, perché il nulla è una tentazione perenne della coscienza dell’essere – se l’essere è, in senso ontologico, irrequieto.
Infatti, in un passo sotto diversi aspetti illuminante (sul quale torneremo) è descritto in termini sensibili il puro essere, la divinità per gli ebrei. Quando Mosé volle mostrar loro attraverso un segno l’invisibile Dio – invisibile perché soggetto infinito – non scelse nulla di statico, la pietra o il legno di una statua, ma scelse fuoco e nuvole, letteralmente gioco di forme indeterminate e sempre diverse, quanto di più simile alle non-forme potè avere a disposizione nella natura pur sembre ricca di forme perché sensibile. Ebbene questa immagine, nella sua tendenzialmente assoluta mancanza di forma, somiglia tanto al nulla quanto l’essere creatore – la coscienza – da cui le forme non si sono “ancora” formate. L’essere e il nulla sembrano essere – all’origine – letteralmente la stessa cosa: pura azione senza un attore. Tutto questo in perfetta coerenza con l’idea che l’essere viva nel soggetto, piuttosto che il soggetto vivere nel regno dell’essere.
Proprio a questa immagine Hegel contrappone la bellezza ed il suo godimento: i greci nel rappresentare i loro dèi scelgono al contrario degli ebrei forme estramamente definite, le winkelmaniane “forme pure” della statuaria classica: quanto di più lontano vi sia dal nulla, anzi al contrario forme talmente piene da essere complete, totali, racchiudendo in sé i tratti dell’essere come intuizione dell’amore e godimento della bellezza.
E tuttavia i conti non tornano, perché sembrano esservi due diverse nature del nulla e due diverse nature dell’essere. Che vi siano diversi livelli non sorprende, perché abbiamo esperienza diretta del livello naturale e di quello concettuale dell’essere. Ma in questi livelli l’essere è pur sempre uno. Si può, al contrario, osservare una differenza di natura nell’essere? Ed ancora: può esservi una differenza di natura nel nulla? Hegel sembra esaminare questa ipotesi.
3.5. L’essere e la differenza di natura
L’essere è il regno della vita, della relazioni, del sensibile e del pensato, di ciò che muta e nel mutare si trasforma restando essere: è in senso forte spirito, vita che non muore sottesa al soggetto morente. I Greci hanno colto nell’intuizione della bellezza questa natura dell’essere e l’hanno vissuta nelle loro felici comunità rappresentandolo nella statuaria classica. D’altra parte l’essere è creatività pura, spirito senza forma che si rigenera, estremamente lontano dalla fissità d’ogni forma e “identità”. Gli ebrei sembrano avere colto in modo più opportuno questa natura dell’essere con la loro rappresentazione della divinità, sorprendentemente simile al Padre di Gesù (e Gesù è paradossalmente anima bella, spirito greco). Si deve riflettere sul fatto che la concezione ebraica è fertile nella storia, in un tempo scandito dalle date, mentre la concezione greca è sterile, se non in un tempo senza date. D’altra parte le due nature dell’essere possono forse non essere in contraddizione, perché se l’essere è pura mobilità esso in fondo deve essere pensato sia come creatività che come creatura.
I conti non tornano affatto, però, sulla bellezza. Hegel nel passo che analizziamo contrappone la bellezza greca alla mobilità delle nuvole e del fuoco, gioco, si badi, di forme indeterminate. Quando Gesù esalta lo spirito, il rapporto tra Maria e la sua persona, tra la sua persona e il Padre, richiama però immagini di bellezza che non somigliano alla fissità della statuaria classica, ma alla mobilità del Dio ebraico.
Vi sono forse due concezioni della bellezza che si incrociano nel testo hegeliano, parallele alle due concezioni dell’essere?
3.6. Il nulla e la differenza di natura
Nel mondo ebraico il nulla appare simile alla morte, ma separato da essa. Dio si impadronisce delle vittime sacrificali annientandole, il modo più opportuno di rappresentare il divino nel Sancta Sanctorum è una stanza vuota. Il nulla ci viene presentato non come morte, ma come l’altro volto della divinità, e dunque simile a quella tentazione mistica, così a fondo esaminata da Hegel, che lascia sussistere la vita nel morire del vivente. Esso appare dunque come l’altro volto dell’essere creatore: il nulla, anzitutto, come assenza di determinazioni, assenza di necessità. Storia non ancora compiuta, ruota del tempo ancora ferma, campo di possibilità. Qualcosa di puramente teorico? Non esattamente, perché corrisponde ad una esperienza vissuta con certezza almeno come desiderio. Questo nulla somiglia infatti stranamente e ambiguamente a quel desiderio profondo dello spirito di rifluire nel tutto, di fronte al quale Tutto e Nulla – in assenza totale di determinazioni – sembrano identificarsi (è ateo il giovane Hegel? Se Dio non è entità personale, ma vita, fondamento creatore dell’essere, è così diverso dire che Dio esiste o che non esiste?).
Ma il nulla ha anche una natura diversa. Esso è anche la vita perduta del cadavere, la storia come ossario della realtà. Il nulla è la vita già vissuta, il tempo passato, la morte. Di fronte a questo nulla Hegel si ferma a riflettere con frasi ad effetto, aforistiche, scritte come per esprimere un pensiero che sta vivendo la profonda contraddizione del dover ammettere che la vita può morire, l’essere spegnersi, l’irrequietezza placarsi: il nulla come possibilità reale da contemplare non come sorgiva fonte dell’essere, ma come silenzio non udibile perché non v’è alcun rumore rispetto al quale lo si possa udire.
3.7. Deus absconditus
E’ dunque coscienza o essere ciò di cui facciamo discorso? Avevamo creduto che non vi fosse ambiguità nel parlare della coscienza, ma penetrando in essa non abbiamo potuto che proiettarci al di fuori di essa e parlare di Dio e del Nulla, indecisi se contrapporli o identificarli.
Il punto è che l’impianto dello Spirito del crisitanesimo appare utilizzare tanto Kant quanto Spinoza – per usare due nomi come espressione di due posizioni del pensiero tra le quali Hegel sembra oscillare. L’idea del divino nello Spirito del cristianesimo ha evidenti tratti spinoziani: l’assenza di identità personale nel Padre, l’unità della vita, la purezza dell’amore, e così via. La lettura del Vangelo di Giovanni è compiuta in questa chiave.
Tuttavia manca in Hegel il presupposto da cui parte l’Etica di Spinoza, cioè la chiara ontologia del libro primo, o meglio quel nesso tra ontologia e teoria della conoscenza che costituisce uno dei tratti fondamentali dello spinozismo (il pensiero è infatti attributo della sostanza) ed uno dei più complessi problemi di quella filosofia. La concezione dello Spirito e l’impianto stesso dello Spirito del cristianesimo sembrano più vicine invece all’analisi biblica del Trattato teologico-politico, in cui la visione religiosa del popolo è interpretata alla luce di concetti filosofici che non vengono resi del tutto espliciti. Qui l’ottica è storica come in Hegel ed il tempo sembra apparire all’autore come il dispiegarsi di un movimento eterno.
Ciò che è rilevante, tuttavia, è altro. Nel Trattato di Spinoza, come in Hegel, soggetto dell’indagine non e la mente dell’uomo filosoficamente posta nella astrattezza di un principio razionale fuori dal tempo, ma il popolo nella storicità del suo sentire. In entrambi i libri il nesso tra storicità soggettiva del popolo vivente e universalità non vivente del pensiero astratto è analizzato dal filosofo alla luce di princìpi non detti, non espressi; in entrambi il soggetto analizzato è una comunità e, sulla sfondo di questa, alcuni individui.
Da qui uno dei problemi centrali della interpretazione dello Spirito del cristianesimo: il soggetto analizzato può essere identificato con chiarezza? Come in Spinoza, infatti, tanto dietro il popolo quanto dietro le figure individuali (Abramo, Mosé, Gesù, e così via) si deve leggere l’universalità dei principi filosofici di cui popolo e individui sono figura. Non è possibile non farlo, perché con tutta evidenza Hegel legge la storia per ritrovare in essa lumi per il presente, e quando scrive “ebrei” gli interpreti sono tentati di leggere “tedeschi”. Allo stesso tempo, però, lo Spirito del cristianesimo è testo profondamente diverso dal Trattato teologico-politico, perché tutto è tranne che un trattato: esso non espone la conclusione delle ricerche, ma è esso stesso un’opera di ricerca. I principi filosofici non sono espressi, così come non sono espressi in Spinoza, ma qui ciò accade perché essi stanno nascendo, sono oscuramente albeggianti (20) nella mente stessa del loro autore. Hegel rispecchia sé nel mondo dei soggetti analizzati, gioca con loro come il giovane con gli adulti, per comprenderli, imitarli, o allontanarsi da essi. Per imparare.
Allora: ciò di cui si fa discorso è un popolo con tanti individui nella storia, o un modello filosofico costruito attraverso esempi storici? La storia è accessoria o costitutiva in questa indagine? E soprattutto: è dell’essere che si fa discorso, o della coscienza umana nel tempo? Lo Spirito del cristianesimo è uno studio sulla coscienza o sull’essere? E’ uno studio fenomenologico o Hegel è alla ricerca di una ontologia?
Ma Hegel viene dopo Kant. I problemi dell’ontologia non possono essere posti senza tenere conto della struttura trascendentale della filosofia. Su questo punto Hegel non segue affatto Spinoza: per lui il nesso tra ontologia e teoria della conscenza è spezzato come per Kant. Certo un discorso sull’essere è continuamente condotto nello Spirito del cristianesimo, ma non al di fuori dell’esame della coscienza kantianamente intesa.
Per condurre un discorso su Dio, Hegel non può che interrogare la coscienza, perché il volto di Dio è nascosto. L’esame di tutti i livelli dell’essere passa attraverso l’analisi della coscienza. In essa potremo tematizzare il concetto centrale della nostra indagine, quella bellezza dal cui esame ci aspettiamo un chiarimento di tutte queste tematiche.
4. Bellezza e verità
Che cosa intende dunque Hegel per spirito di bellezza? In un testo dal sapore programmatico, Hegel scrive: “La verità è bellezza rappresentata con l’intelletto e il carattere negativo della verità è la libertà“. Questa definizione è posta in connessione con un’altra di poco precedente: “Verità è infatti un che di libero che noi né dominiamo né ne siamo dominati” (21). Fermiamoci a commentare questi testi. La loro matrice è di derivazione kantiana. Vi sono alcuni nessi che articolano i singoli concetti.
4.1. Nesso verità-libertà- dominio
Nello Spirito del cristianesimo il tema della libertà ha un notevole sviluppo in costante dialogo con Kant. In passi molto citati del secondo capitolo Hegel rifiuta la concezione kantiana della libertà opponendo Kant allo stesso Kant. Il fondamento di questa opposizione è la visione storica dell’uomo, coerente con l’impostazione spinoziana della sua indagine. Il punto è a chi debba essere attribuita la libertà come proprietà, se alla mente o all’uomo nella sua realta integrale. Hegel rifiuta l’idea che il soggetto umano possa essere studiato al di fuori del contesto della sua vita, cioè delle relazioni storiche che lo determinano nella sua identità personale e strutturano il mondo della sua passionalità. Per Hegel la libertà in Kant rimane a livello di astratto concetto filosofico perché questi parla di una astrazione, della mente dell’uomo considerato nella sua identità universale. Ma non si dà alcuna identità universale nella storia: l’uomo è un vivente e come tale è individualmente e soggettivamente identificato. Solo l’astrazione di un pensato fa di lui un essere libero, se la sua mente è libera: la mente infatti è essa stessa un puro pensato e non un realtà vivente se non è descritta in quella rete di rapporti e di situazioni storiche reali che la rendono ciò che è.
Tuttavia, la definizione che Hegel dà di ibertà, in astratto, è kantiana: ciò che non dominiamo e da cui non siamo dominati, ciò con cui il soggetto non instaura alcun rapporto di dominio. L’opposizione dunque non è su questo punto, ma su ciò che Kant ed Hegel intendono per soggettività. Poichè per Hegel il soggetto è l’uomo storico ed integrale, questi ha in mano la verità sul mondo quando nel suo rapporto con esso egli è libero: quando non domina il mondo né è dominato dal mondo, e tuttavia è in relazione con esso. Verità è dunque non il carattere del soggetto, non il carattere di un’idea o di una cosa: è la risultante, nel soggetto, di una relazione col mondo. Ma quale relazione trascendentale permette di eliminare il dominio dal regno dei rapporti? In Kant la struttura del giudizio determinante implica necessariamente un rapporto di dominio, e tutto lascia pensare che Hegel accetti su questo punto l’analisi kantiana, visto che l’impianto trascendentale della conoscenza sembra sotteso a tutto lo Spirito del cristianesimo. Perché vi sia libertà nei rapporti tra soggetto e oggetto, tra soggetti diversi, e tra il soggetto e se stesso, è necessario rivolgersi ad un altro tipo di giudizio kantiano, il giudizio riflettente. E questo ci riporta alla bellezza ed al secondo nesso.
4.2. Nesso bellezza-libertà-verità
Cos’è la bellezza in Kant? E’ una delle possibili relazioni tra il soggetto e la natura. Essa non è il carattere proprio né di un soggetto né di un oggetto: è quel sentimento che nasce nel soggetto quando questi riflette il libero gioco delle sue facoltà sull’oggetto e vi trova corrispondenza. Perché nasca la bellezza, per Kant è necessario che le facoltà dell’uomo possano tra loro disporsi in una particolare forma di armonia libera da interessi, sia teoretici che etici, e possano giocare con la libertà che nasce dalla assenza di un risultato da raggiungere: gioco quanto mai serio, perché permette all’uomo di collocarsi sul piano della dimensione estetica e qui superare quella drammatica scissione che egli, sul piano teoretico e pratico, vive nel rapporto con la natura.
Hegel rimane a questa visione della bellezza, ma la intende in relazione alla sua diversa concezione del soggetto umano. Perché si dia verità occorre che la libertà dell’uomo sia realizzata nella vita. Perché si dia libertà piena occorre accordo profondo tra uomo e natura in comunione di vita, perché solo così l’uomo integrale stabilisce una relazione col mondo che escluda il dominio. Ma perché questo sia possibile occorre trovare un piano in cui i rapporti di dominio siano banditi.
La dimensione estetica offre un naturale terreno di incontro di tutte queste esigenze. Nella bellezza non si dà dominio, ma in essa vivono conciliate la libertà del gioco tra le facoltà del soggetto con la corrispondenza altrettanto libera con l’oggetto. Per questo la bellezza assume un ruolo così importante nell’economia delle relazioni tra gli uomini, la natura e Dio. Essa fornisce quella dimensione dell’esistenza che permette alla verità di esplicarsi, alla libertà di concordare con le esigenze della vita, all’uomo di conciliarsi con la natura.
Tuttavia verità e bellezza non coincidono. E’ necessario studiare un terzo nesso.
4.3. Nesso bellezza-verità-intelletto
Non si dà verità sul piano del semplice sentimento. Occorre che il nesso di libertà tra il gioco delle facoltà dell’uomo e la natura sia compreso dall’intelletto. Ma restando a Kant questo è impossibile: l’intelletto infatti comprende se applica le sue forme e dunque se domina il suo oggetto. Perché si dia verità in accordo con la libertà occorre una forma di conoscenza che abbandoni la struttura trascendentale kantiana, ed Hegel non ci fornisce alcuna indicazione in tal senso. Anzi, tutto l’impianto dello Spirito del cristianesimo sembra mostrare che la verità, intesa in questo senso, è un obiettivo di là da verire, una ricerca filosofica incompiuta.
Infatti la predicazione di Gesù che espone la verità sullo spirito non riesce a divenire vita: Gesù muore per testimoniare e così salvare la sua verità, i suoi seguaci finiscono col divenire una setta (22), abbandonato lo spirito di bellezza.
Quali dovrebbero dunque essere secondo questo modello i caratteri dello spirito di bellezza?
5. Lo spirito di bellezza
Riassumiamo la questione. Lo stato delle relazioni tra uomo e natura è di lacerazione: la fiducia originaria dell’uomo è infranta di fronte alla capricciosa minaccia della natura (il diluvio) natura dalla quale pure l’uomo dipende. In questa antica storia non è difficile leggere una forma arcaica di descrizione di quello stato di lacerazione che Kant ha intuito così bene nei rapporti tra il soggetto e la natura e per risolvere il quale ha concepito la Critica del giudizio. Il tema della lacerazione della vita stessa dell’uomo è peraltro ricorrente in questa età di sconvolgimenti internazionali, mentre in nome della libertà interi popoli si muovono sul terreno della storia, resa estremamente veloce dal subitaneo movimento degli eserciti rivoluzionari. Su questo terreno si pone la questione dello spirito di bellezza.
5.1. La via ebraica
Torniamo ai primordi. Hegel ci mostra due possibili soluzioni al conflitto, l’una espressa dal popolo ebraico, l’altra dal popolo greco. Entrambe sono, in ultima analisi, insoddisfacenti, ma offrono indicazioni per il futuro. Il popolo ebraico ha scelto il dominio della natura, ma questo rende l’uomo servo di potenze estranee. Gli ebrei sono diventati servi di un Dio onnipotente e lontano, e le altre figure che percorrono la loro stessa strada non sono da meno: Macbeth diventa servo di essenze estranee, Kant vede l’uomo servo di un principio superiore universale di ragione, e chiama libertà questa servitù. In qualunque modo si proceda, ovunque si guardi, questa strada rende l’uomo servo di potenze a lui estranee. Tuttavia proprio qui va cercata l’indicazione per il futuro. Occorre superare l’estraneità del rapporto con la potenza che permette all’uomo di ottenere il dominio sulla natura, e per far questo occorre spezzare la volontà di dominio e mutare strada: dall’estraneità tra l’uomo e la natura occorre passare alla intimità tra l’uomo e la natura, e questa può essere garantita solo dalla bellezza. Solo sul piano della dimensione estetica uomo e natura si incontrano con libertà e verità.
5.2. La via greca
La seconda via è quella greca. I Greci hanno stabilito un rapporto di fiducia con la natura, hanno imparato a godere della natura, cioè a vivere in essa cogliendone la bellezza. Hanno dunque imparato a conoscere se stessi, lasciando giocare le loro facoltà in rapporto al loro mondo sul quale riflettevano se stessi trovandolo in armonia. Ma neppure essi hanno potuto trovare la verità. Non c’è armonia tra verità e bellezza perché non c’è possibile armonia tra l’intelletto che teoreticamente domina la natura ed il sentimento che coglie l’assenza di dominio nella natura dispiegata di fronte alla vita. La tragedia greca segnala con chiarezza questo. Antigone vive in armonia con le leggi eterne del cosmo, ma queste non si identificano col mondo, ed il mondo la schiaccia. Edipo, il giusto, ha commesso orribili crimini. Perché lo spirito di bellezza permetta la felicità e l’armonia occorre che la verità sia con esso conciliata. Ma la verità senza dominio è al di fuori della portata dell’uomo, come insegna Kant.
5.3. Una strada sbarrata
Lo spirito di bellezza è dunque una buona strada, ma gli uomini che l’hanno percorsa l’hanno trovata sbarrata. Lo spirito di bellezza, infatti, è ancora qualcosa di troppo soggettivo. Esso descrive la disponibilità degli uomini a rinunciare ad ogni spirito di potenza e ad accettare una dimensione dell’esistenza diversa dall’utilità e dal dominio su cui riposa la conoscenza. Il diverso è accolto come diverso perché in sé lo spirito di bellezza riconosce una più profonda unità con esso. La vita profonda delle cose è il sentimento in cui essa vive, ma la vita sul piano del sentire non è sufficiente a se stessa: occorre la verità.
6. E’ possibile una ontologia della bellezza?
La figura di Gesù nello Spirito del cristianesimo ha indubbiamente tratti tragici, se con questo termine ci si riferisce alla concezione greca della tragedia. Gesù è un’anima bella, ed Hegel segue il necessario venir meno della sua bella essenza.
Tuttavia non tutto è così semplice. Il messaggio di Gesù non appartiene affatto alla solare chiarezza dello spirito greco, la bellezza della sua anima è solo vicina alla Grecia. Lo spirito di bellezza che Hegel ha presentato nel contrasto con lo spirito ebraico ha almeno un tratto completamente diverso dal messaggio di Gesù: esso è permeato dalla forma, da ciò che Hegel nell’avvio dell’esame del concetto di religione chiama immagine.
Perché si dia religione – ed Hegel pensa indubbiamente al mondo greco nel dare la seguente definizione – occorre che il sentimento e la sua rappresentazione in una immagine siano unificati dalla fantasia (23) . Il sentimento di cui si fa discorso è sentimento d’amore, cioè unità degli spiriti, bellezza sentita e rispecchiata nel proprio oggetto. In termini kantiani, si tratta di un giudizio riflettente. La rappresentazione è una immagine che l’intelletto dovrebbe poter cogliere come essenza viva della bellezza sentita e riflessa. Qui è la difficoltà teoretica: una simile immagine non può nascere nell’universo kantiano della conoscenza perché nessuna forma dell’intelletto può cogliere secondo “libertà” la bellezza, il sentire in accordo con l’oggetto.
Hegel tuttavia sta pensando ad una prospettiva nuova, perché introduce la fantasia come elemento di unificazione, tema che negli anni precedenti al suo scritto aveva avuto un notevole sviluppo nelle riflessioni di Fichte e di Schiller. Ma non vi sono sviluppi teoretici in questa direzione nello Spirito del cristianesimo. La fantasia non riuscirà nel suo scopo, l’immagine vivrà solo nell’inganno di una setta, quella resurrezione di cui i discepoli hanno bisogno perché nasca la religione (24). Su questa strada, dunque, non v’è speranza. La via greca non si può percorrere: l’immagine non nasce, la fantasia fallisce. Se Gesù fosse una figura tragica nel senso greco del termine il suo fallimento non sarebbe fecondo, così come nella storia non è fecondo il fallimento di Antigone. Il mondo greco rappresenta un paradigma di estremo fascino, una posizione del pensiero d’estremo incanto, ma la bellezza greca non è fertile. Nessun cammino verso l’ontologia è possibile attraverso questa strada. La tragedia non ci svela i segreti dell’essere, ma solo i limiti della mente dell’uomo.
Ma Gesù ha percorso un’altra strada, ben più difficile, adatta agli spiriti puri, a coloro che hanno vissuto, come Maria Maddalena, il dramma della disperazione per essere andati oltre il giusto (25). Né Gesù né la Maddalena sono anime belle nel significato tradizionale del termine in Germania. Essi conoscono infatti fin troppo bene il dramma della lacerazione dell’uomo. La bellezza della loro anima è qualcosa di diverso: è in senso forte una delle vie verso l’essere come vita (ma si tratta davvero di una via all’essere? E se fosse una illusione della coscienza?).
Esaminiamo la figura della Maddalena. Da dove nasce la sua bellezza? Dall’aver superato con la forza della disperazione le regole morali di comportamento, le fratture della legge. Essa coglie la bellezza di Gesù perché è in grado di “guardar oltre” ciò che tutti vedono, di penetrare in un regno dell’essere che contraddice la storia e il tempo, l’identità personale e l’utile. Essa non ama Gesù come individuo, non lo ama come persona individuale, ma coglie in lui l’unità col Padre, quel rifluire della vita che è identica in lui e in lei. La bellezza che essa coglie è la stessa bellezza dell’essere in quanto vivente.
Ma come è possibile questo? La bellezza non è un sentimento? Non è una relazione tra soggetto ed oggetto, attraverso il gioco, la riflessione, e così via? Ma Hegel non resta a Kant. Nello Spirito del cristianesimo si è prodotta per i concetti desunti dalla tradizione filosofica una sorta di progressivo slittamento, una articolazione dinamica, fluida: Hegel sembra lasciar vivere dentro di sé le idee, sembra dotarle di vita propria, costruendo reti di relazioni tra esse che le trasformano, le plasmano, rendendo instabile ogni terreno di precisa identificazione, e rendendo così difficile la lettura critica del testo, come la storia delle sue interpretazione ampiamente segnala.
Per il concetto di bellezza bisogna ricordare che esso nasce da una logica delle relazioni di tipo trascendentale, ma ciò che qui il testo hegeliano ci dice è che la Maddalena è anima bella perché va oltre ogni relazione e coglie immediatamente l’unità della vita tra sé e Gesù. Bellezza non è dunque il carattere di una particolare relazione tra uomo e natura, come per lo spirito di bellezza greco, ma uno dei caratteri della vita, dell’essere della vita.
In che cosa i due concetti di bellezza sono assimilabili, in modo da permetere ad Hegel di utilizzare la stessa parola? Intanto nel godimento che ad entrambi è connesso (godimento che sembra essere lo scopo supremo di questa rivoluzionaria filosofia del piacere), contrapposto al dolore della lacerazione. In secondo luogo i due concetti sono unificati dalla antichissima nozione di bellezza come luce, principio dell’essere, che Hegel richiama nel linguaggio neoplatonico del capitolo quarto. Proprio questa parte ci rimanda con forza ad una ontologia della bellezza di plotiniana memoria, all’idea che la bellezza non sia la qualità di una relazione, ma il tratto profondo dell’unità dell’essere. Hegel ha sovrapposto due livelli concettuali in un’unica parola: ha utilizzato Kant per il mondo delle relazioni, e ci ha dato la nozione greca dello spirito di bellezza; ha utilizzato Plotino, o comunque la tradizione di pensiero che da lì promana, per il mondo unitario dell’essere, e ci ha dato la visione di Gesù dello spirito di bellezza, che ci fa attingere un più profondo livello dell’essere.
Per questo l’immagine del divino come fuoco e nuvole è più vicino alla predicazione di Gesù dell’immagine greca del divino come forma compiuta: essa infatti descrive in forme espressive più adatte, benchè anch’essere superficiali, la bellezza dell’essere come vivente. Hegel sta seguendo il sentiero anticlassico della bellezza come sorgente dell’essere, abbandonato il regno della forma.
7. Tragedia ed essere
Ma lo Spirito del cristianesimo è un testo di ricerca, segue percorsi di pensiero, non espone una teoria filosofica. La bellezza come via all’essere non ci spiega l’essenza profonda della tragedia né ci parla dell’essere nella pienezza delle sue articolazioni concettuali. Che cosa ci dice che non si tratti interamente di illusioni della coscienza? Nel pane non si ritrova forse solo pane, che si scioglie in bocca? Hegel però ci indica una via.
La tragedia dell’anima bella si compie con la morte ci Gesù, così come s’era compiuta nel mito con la morte di Antigone. Ma Hegel non sembra aver abbandonato la speranza che la tragedia recitata dalla Storia tutti i giorni sulla scena del mondo si concluda con una pacificazione in nome della bellezza. Il sentiero della ricerca, però, sembra star dietro non tanto alla tragedia greca, ma a Shakespeare, sebbene il modello mitico sia certamente l’Orestea, per la sua affinità con il modello shakespeariano di oggettivazione della vita offesa (Oreste/Erinni, Macbeth/spettro di Banquo) e per la trasformazione delle Erinni in Eumenidi. E’ infatti soprattutto la tragedia di Macbeth che descrive la nostra tragedia, la tragedia del vivere in un mondo di lacerazione. L’amore riconcilia la vita offesa, supera la lacerazione con l’adesione allo spirito di bellezza e ritrova l’unità della vita.
Ma nella vita della Storia l’amore apre a nuove scissioni: la via è indicata, ma è anch’essa sbarrata. Hegel si trova dinnanzi ad una natura dell’essere completamente diversa dalla unità della vita colta attraverso la bellezza. L’essere va forse coniugato al plurale?
Nelle opere successive la ricera hegeliana prenderà altre strade. E’ però filosoficamente feconda l’idea che si possano dare diverse nature dell’essere, e che di esse una possa essere colta secondo lo spirito di bellezza indicato da Gesù. La riflessione estetica per lunghissima tradizione si coniuga con la riflessione sull’essere, ed Hegel riecheggia antichi temi coniugandoli con una modernità d’impianto nella quale ci ritroviamo. I problemi di Hegel ormai sono i nostri, e non abbiamo bisogno di lunghi discorsi per capire perché la sua generazione ha rifiutato di vivere in un mondo lacerato. Se la sorgente dell’essere avesse una natura creativa, come il nesso bellezza-vita sembra sugggerire, le vie di un futuro di conciliazione potrebbero essere aperte, e le contraddizioni della libertà lasciare posto a quell’idea del gioco che in queste pagine prefigura oscuramente una nuova filosofia dell’esistenza.
8. Tragedia e immagine
La riflessione sulla concezione della tragedia nello Spirito del cristianesimo può seguire poi una diversa via di indagine. Hegel utilizza in modo ricorrente una serie di immagini che hanno un carattere comune: esse sono il prodotto di una oggettivazione inconsapevole, di cui il soggetto è tuttavia pienamente responsabile. Queste immagini vengono vissute come realtà nemiche, ed effettivamente perseguitano il soggetto fino ad indurlo ad agire sotto il peso di una decisiva forza, la cui essenza rimane in Hegel avvolta nell’ambiguità. Questo modello prefigura i modi della dialettica delle opere della maturità ed allo stesso tempo ci mostra un legame tra natura e coscienza, soggetto ed oggetto. Si osservi che, pur se presentate in forte connesione con le figure retoriche di cui ricalcano i modelli, queste immagini non hanno alcuna natura metaforica o simbolica. Esse sono presentate come attinenti al rapporto tra coscienza ed essere, hanno sempre un legame con l’essere. Hegel utilizza moltissimo il linguaggio figurato delle immagini retoriche, ma il dominio di queste ultime è separato, perché di esse non si predica un legame con l’essere.
Studiamo adesso due immagini, incarnate da Noè e da Macbeth. Esse ci portano ancora una volta dinnanzi a due tipi di tragedia, ma il principio di differenza è diverso rispetto ai due volti della tragedia che abbiamo osservato all’inizio del nostro lavoro. Qui la distanza nasce dalla diversa articolazione del soggetto rispetto alla immagine oggettivata.
8.1. La tragedia nella vita: Noè e l’immagine Dio/Natura
Noè di fronte al diluvio – atto con il quale la natura aveva tradito “la fede che il genere umano aveva in essa” (26) – ricucì la lacerazione facendo “esistente il suo ideale pensato e vi contrappose ogni cosa come pensata cioè come dominata” (27). In questa prima immagine Dio stesso, il Dio ebraico e cristiano, è interpretato come il prodotto di una oggettivazione del soggetto. E’ Noè infatti il soggetto che pensa l’ideale, è Noè che lo pone esistente, è Noè che pone ogni cosa come pensata e dunque come dominata. Si osservi che in questo brano l’immagine è sdoppiata in una coppia di elementi complementari, un soggetto ed un oggetto: Dio e la natura, l’uno dotato di forza sull’altra. L’ambiguità riguarda naturalmente soprattutto Dio. Come può infatti Dio essere allo stesso tempo un pensato (un oggetto, qualcosa di dominato) e un ideale (un soggetto che agisce e pensa, dunque un soggetto che domina)? Alla coscienza di Noè la contraddizione non appare, perché egli pone l’ideale-soggetto come esistente al di fuori di sé e capovolge il suo rapporto con l’ideale: Noè pone sé come pensato, e dunque dominato, e Dio come pensante, dunque signore. Alla coscienza filosofica invece la contraddizione appare in tutta la sua forza svelando uno dei possibile meccanismi di salvezza di fronte alla ostilità della natura: Noè attraverso le immagini che egli stesso pone dà un senso al diluvio, lo inserisce in un ordine comprensibile all’intelletto, vincendo le potenze demoniache dell’angoscia e dell’odio. Come il diluvio è lo specchio delle selvagge forze ostili che l’uomo coltiva nel suo cuore, così Dio e la natura pensati come signore potente e realtà dominata sono lo specchio della incapacità dell’uomo di vivere in un mondo in cui l’intelletto non percepisca la presenza di una regolarità, di un ordine che rifletta la civiltà della ragione e plachi le forze ostili.
L’immagine è dunque in questo caso la proiezione del sé come realtà lacerata: se è infatti sia Dio come ideale sia la natura a cui Noè si assimila. Tuttavia in questa proiezione l’immagine si rivela incapace di dare una identità al sé e di conciliare le forze caotiche e selvagge del cuore col bisogno di ordine dell’intelletto. Noè non riesce, ponendo Dio come ideale opposto a sé come natura, a identificarsi con quest’ultima sino in fondo. Egli resta estraneo ad essa, si muove su di essa libero ma “senza patria“: “egli fu estraneo alla terra …” (28).
A questa duplice immagine complementare è connessa una forma molto radicale di libertà. Noè è libero perché non ha legami: egli rifiuta ogni fratellanza con la natura e gli altri uomini perché riconosce in ogni cosa il nulla. Dio infatti è l’unica potenza: affidarsi a un qualsiasi legame con la terra implica il misconoscere l’assolutezza di Dio. Se Dio è l’essere, allora la natura è il nulla (29). La libertà è dunque l’altro volto della più completa servitù: Noè è libero perché si riconosce nulla di fronte al suo signore. Ne concludiamo che l’immagine complementare Dio/Natura è leggibile sia in chiave etica che ontologica: essa corrisponde alle coppie complementari Essere/Nulla, Signoria/Servitù, Libertà come forza dell’essere/Libertà come assenza, come nulla.
A questa immagine così carica di valori ontologici ed etici Hegel accosta un’immagine retorica, la similitudine dell’aquila del Deuteronomio (30): “Mosé (…) paragona il modo in cui il suo Dio aveva guidato gli ebrei per mezzo suo con in comportamento dell’aquila che vuole abituare al volo i suoi nati. L’aquila agita continuamente le ali al di sopra del nido, prende i suoi aquilotti sulle ali e li porta lontano su di esse” (31). Hegel si innesta sulla similitudine biblica e la prosegue, interpretando la storia degli ebrei: “Questi aquilotti non divennero mai aquile. Nei confronti del loro Dio essi danno piuttosto l’impressione di un’aquila che per errore abbia riscaldato delle pietre, che a queste abbia mostrato il suo volo, le abbia portate con sé sulle ali delle nubi, ma giammai abbia innalzato la loro pesantezza a volo, giammai abbia elevato il calore ricevuto in prestito a fiamma della vita” (32). L’importanza filosofica del testo è data dal fatto che nel pensiero hegeliano questi aquilotti non raffigurano solo gli ebrei, ma l’Uomo nella Storia. L’immagine dell’aquila dunque è metafora di quel sogno di libertà e di vita che guida l’opera di questo giovane precettore in cerca della propria strada nella vita. E’ chiaro che Hegel ha costruito con forza sulla similitudine e vi ha inserito nuove immagini a cui sembra essere affezionato (33). Altrettanto chiaro è che Hegel intende restare nei limiti di una figura retorica e non descrivere in alcun modo una immagine che abbia in sé valore ontologico. Tuttavia la suggestione letteraria non è l’unico motivo per l’insistenza sulla similitudine. Il testo è chiaro e non riceve nuove luce dall’esempio (anzi, ne nascono nuovi problemi). Hegel vi insiste forse perché in questo tipo di figura retorica ritrova un modello di pensiero adeguato alla ricerca più che alla esposizione? Dovremmo forse approfondire l’indagine per rintracciare i modelli di pensiero sottesi alla costruzione di queste complesse metafore?
8.2. La tragedia sulla scena: Macbeth e l’immagine di Banquo
Macbeth è figura letteraria. V’è una radicale differenza rispetto a Noè? Da un certo punto di vista non c’è. Anche Noè come Macbeth è per Hegel personaggio di un libro e, se il primo corrisponde ad un uomo che si vuole storico, il secondo ha tratti universali. Il passaggio dal piano della storia a quello della letteratura non è filosoficamente essenziale: entrambi i personaggi sono intesi come paradigma di una situazione umana. Non si può sostenere che vi sia una differenza fondamentale tra la riflessione filosofica sulla tragedia della vita e l’analisi dei personaggi shakespeariani. Se ha senso ciò che accade sulla scena, è proprio per la capacità dell’autore del testo tragico di costruire figure che colgano il reale. Nel testo hegeliano Noè, Mosé, Gesù, Macbeth, le Eumenidi sono trattate come se appartenessero allo stesso piano. Il lettore rimane spiazzato a volte, perché è difficile cogliere il vero oggetto del discorso hegeliano.
Forse Hegel sta sottovalutando la storia? Forse si allontana dalla equazione vita/realtà? Al contrario. Il punto è che la letteratura si dimostra un canale di comprensione ed espressione della realtà pari o superiore alla storia. Di fronte alle differenti versioni del testo evangelico Hegel non sostiene forse che “non c’è niente di alterato“? (34) E davvero non c’è niente di alterato nella letteratura nei confronti della storia, se la prima coglie nella seconda un universale. Forse per Hegel bisogna ricordare la pagina aristotelica della Poetica: “La poesia è qualche cosa di più filosofico e di più elevato della storia; la poesia tende piuttosto a rappresentare l’universale, la storia il particolare” (35).
Non dunque illegittimamente poniamo la figura di Macbeth accanto a quella di Noè. Il punto è che come Noè esprime l’universale schema della oggettivazione della coscienza in una struttura complementare di forze, così Macbeth esprime l’universale schema della oggettivazione della vita offesa in una struttura antinomica. Macbeth infatti uccide Banquo senza comprendere che “l’annientamento della vita non è un suo non essere ma la sua separazione, e consiste in questo, che essa è stata trasformata in nemica” (36). Banquo non è che una scheggia impazzita della vita stessa di Macbeth che gli si pone contro come un nemico.
Naturalmente Macbeth non è cosciente del fatto che egli stesso oggettivando la vita in un pensato arma contro di sé la mano di quest’ultimo come se si trattasse di un vivente. Soggetto dell’oggettivazione, qui come in Noè, è sì l’uomo, ma non la sua coscienza. V’è una soggettività più profonda di cui la coscienza stessa è espressione. Questa soggettività è ciò che Hegel chiama vita. E’ questa il motore del processo. Sia in Noè che in Macbeth la vita è stata offesa. Nel primo caso è la natura ad offenderla, scatenando la reazione dell’intelletto che vuole dare un senso ai fatti (o, meglio, la reazione della vita che esprimendosi nell’intelletto vuole dare senso ai fatti). Nel secondo caso è la vita stessa che si esprime in un soggetto (Macbeth) a recare offesa alla vita di un altro soggetto (Banquo). Qui però non è l’intelletto la facoltà che produce l’immagine oggettivata. E’ piuttosto la fantasia, l’immaginazione.
Il passaggio è fondamentale per l’estetica. Cos’è infatti l’immaginazione? E’ la facoltà che gioca. Cos’è il gioco? Qualcosa di terribilmente serio. E’ lo spontaneo e libero articolarsi delle strutture stesse della vita, senza il limite dei fatti, del “reale”. Non possiamo sostenere che il reale non vi abbia peso. Cosa produce in Noè come in Machbeth il movimento se non la morte, morte reale? Ma la risposta della soggettività vivente trova in sé gli elementi per articolarsi: essa appunto gioca. Hegel sta cercando di mostrare le regole del gioco. Esse potranno portarci ad una migliore comprensione della soggettività vivente dal punto di vista ontologico della sua essenza.
L’immaginazione è dunque facoltà oggettivante: lo schema è quello della separazione di un frammento del sé, della vita del sé, in un essere oggettivo vissuto come vivente. Il fantasma di Banquo è una delle forze della vita di Macbeth. Ma la vita è forse un miscuglio di forze, un insieme articolato di elementi diversi? Il testo lo esclude. La vita è una, come ricorrentemente Hegel sottolinea. Addirittura l’individualità di ciascun uomo è letta come manifestazione dell’unica vita. Hegel dà a questo concetto un valore ambiguo. A tratti l’affermazione appare come il riflesso di una razionalizzazione cosciente che “torna indietro” rispetto ai processi reali per cogliere la loro origine. A tratti essa appare carica di valore metafisico e sembra indicare una identità tra essere e vita di cui viene nascosto il senso profondo. A tratti essa è presentata come una esperienza vissuta, la sensazione quasi “fisica” che uccidendo il mio nemico la mia mano uccida qualcosa di comune a me ed a lui. L’ambiguità lascia aperta la strada a diverse interpretazioni, e certamente lo stesso Hegel aderisce ad una intuizione, non ad una articolato concetto filosofico. Non si può trattare questo concetto di vita come si tratta il concetto di spirito della Fenomenologia. Tuttavia un “salto” all’ontologia in Hegel è certamente presente, perché la vita assume una carattere estremamente concreto: il vivente è continuamente contrapposto al semplice pensato.
Comunque si intenda il concetto di vita, la tragedia recitata sulla scena teatrale è la rappresentazione sul piano dell’arte di una lacerazione dell’essere. L’immagine teatrale, però, manifesta un livello di organizzazione degli elementi del gioco tra le polarità soggetto/oggetto nettamente diversi rispetto alla tragedia della storia incarnata da Noè. Infatti:
a) in Noè la oggettivazione implica l’estraneazione della totalità del sé: il soggetto è nulla, il pensato tutto. Questo implica l’inversione tra soggetto e oggetto: il soggetto pensante si pensa come oggetto di un Dio, immaginato come soggetto pensante. Questo implica la nullificazione di qualsiasi oggetto, e dunque la natura tutta è assimilata al sé e nullificata. Da questo schema Hegel mostra come storicamente l’umanità non abbia saputo uscire. Il tentativo di spezzare questa inversione del sé attraverso l’armonia uomo-natura secondo il modello greco cozza contro insuperabili difficoltà. La strada non è questa.
b) in Macbeth l’oggettivazione implica l’estraneazione di un frammento del sé: il soggetto permane soggetto, ma l’oggetto è vissuto anch’esso come soggetto (37), in una natura divenuta viva essa stessa. La vita è spezzata, ma la situazione è diversa che in Noè. Il fatto che il soggetto non sia assimilato al nulla implica una possibilità di conciliazione – attraverso il destino (38) – che è completamente assente nella posizione ebraica. E’ questa la posizione di Gesù che tenta una strada non assimilabile alla via greca. I Greci hanno tentato la via della fratellanza tra l’uomo e la natura “piena di dèi”; Gesù tenta la via della comunione degli spiriti, cioè della vita con se stessa. In questo senso è centrale nello Spirito del Cristianesimo la figura della Maddalena, che incarna il momento della vita massimamente tragica che supera attraverso l’amore la lacerazione del sé.
La tragedia di Gesù non è dunque assimilabile alla tragedia greca. In questa lo spirito di bellezza è centrato sulla natura, in un rapporto di riflessione di tipo kantiano (giudizio riflettente). In Gesù lo spirito di bellezza abbandona la natura e si colloca su un piano del tutto diverso dell’essere, sul piano della vita espressa al massimo livello della coscienza attraverso l’amore. La natura nel senso greco del termine è abbandonata. Essa è in posizione di opposizione con lo spirito ebraico. Gesù è altrove, al di fuori della polarità ebraismo/grecità.
9. Bellezza e levità come dimensioni dell’essere
Uno dei tratti più sorprendenti della bellezza è la sua fragilità, quel vivere d’attimi fuggenti e presto cadere, quella levità che la rende inafferabile, che la pone al di là del rapporto di dominio. La storia dell’estetica ha contrapposto a questa labilità della bellezza il suo valore ontologico, la sua capacità di guidare l’uomo verso una superiore via di conoscenza.
Hegel nello Spirito del cristianesimo sembra tentato da questa seconda via, sia quando descrive il potere della bellezza nella costruzione dello spirito greco sia, soprattutto, quando si lascia tentare dal modello neoplatonico nel quarto capitolo.
Ma l’esito non è questo. La bellezza resta un attimo fuggente, resta nel gesto della Maddalena, nel profumo che subito si disperde. Resta nella fedeltà di Gesù all’amore, che lo porta alla morte. Resta nel potere di far svanire i fantasmi nell’aria della notte (39). Resta in una dimensione dello spirito che non è che lieve, magica dimensione dell’essere che oscilla. La levità della bellezza è la stessa levità dell’essere, poichè l’essere è irrequieto (40) e l’attimo, per bello che sia, non si ferma mai.
Per Hegel la ricerca sull’essere prosegue, dopo Francoforte, in altra direzione.
Note
1) 0. Poggeler, Hegel e la tragedia greca, in Hegel. L’idea di una fenomenologia dello spirito, a cura di A. De Cieri, Guida, Napoli 1986, p. 134.
2) G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, II, trad. it. di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli 1977, p. 353.
3) Il tema dell’indifferenza della natura giunge ad Hegel dopo le ironie di Voltaire e l’attenzione di Kant.
4) Deucalione e Pirra “dopo il diluvio del loro tempo invitarono gli uomini ad una nuova amicizia con il mondo, con la natura, fecero loro dimenticare con la gioia e il godimento la necessità e l’inimicizia, conclusero una pace di amore, divennero i progenitori di una nazione bella e resero la loro epoca madre di una natura rinata custode del fiore della sua gioventù” (ib., p. 355).
5) Che nel primo caso venga esaminato un testo di natura storica mentre nel secondo caso vengano esaminate tradizioni mitologiche è dal punto di vista di Hegel irrilevante. Si veda su questo puntio più avanti il § 8.2.
6) (p. 372).
7) ib, p. 406.
8) ib., pp. 426 e 430.
9) ib., p. 393.
10) Cfr. A. Koyré, Hegel a Jena, in AA.VV., Interpretazioni hegeliane, a cura di R. Salvadori, La Nuova Italia, Firenze 1980, pp. 146-147 n. 53.
11) Lo spirito del cristianesimo, cit., p. 359.
12) ib., p. 353.
13) ib., p. 393.
14) ib., pp. 442 ss.
15) ib., pp. 396 e 401.
16) ib., p. 414.
17) ib., p. 369.
18) ib., p. 360-361.
19) ib., p. 361.
20) Cfr. E. Bloch, Soggetto-oggetto, a cura di R. Bodei, Il Mulino, Bologna 1975, p. 32.
21) Lo spirito del cristianesimo, cit., p. 364.
228) ib., pp. 446 ss.
23) ib., p. 409.
24) ib., p. 446.
25) ib., p. 405.
26) ib., p. 353.
27) ib., pp. 353-354.
28) ib., p. 356. La frase è riferita ad Abramo, che compie la stessa scelta di Noè.
29) ib., pp. 361 ss.
30) Deuteronomio, 32, 11-14
31) Lo spirito del cristianesimo, cit., p. 367
32) ivi.
33) L’immagine della pietra ritorna a p. 360.
34) ib., p. 405.
35) Aristotele, Poetica, 1451b, Laterza, Bari 1976, p. 52
36) Lo spirito del cristianesimo, cit., p. 393.
37) L’immagine della potenza soggettiva del demone vendicatore della vita offesa torna in un contesto indipendente dal Macbeth a p. 391, ma presenta delle assonanze talmente chiare con lo spettro di Banquo che evidentemente Hegel ha scritto tutta questa parte sotto l’influsso della tragedia shakespeariana (accostata sotto molteplici aspetti alle Eumenidi di Eschilo).
38) ib., pp. 392 ss.
39) ib., p. 400.
40) La levità, l’irrilevanza si direbbe, dell’essere si esprime nello Spirito del cristianesimo anche nella dichiarata irrilevanza della morte, che in diverse occasioni è presentata con ogni naturalezza come qualcosa che non uccide la vera essenza della vita: cfr. le riflessioni sulla morte per gli ebrei (pp. 363-364) e per Gesù (pp. 444-445). In un’altro contesto, testimoniano lo stesso concetto le radicali e libere scelte (libere fino all’arbitrio) di Noè, Nimrod, Abramo, Mosé (pp. 353 ss.).