BIOETICA
“Perdonate i miei paradossi. È necessario formularne quando si ragiona e, checché se ne dica, preferisco essere uomo da paradossi che uomo da pregiudizi” (J.-J. Rousseau, Emilio o dell’educazione)
INTRODUZIONE ALLA BIOETICA
Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai son quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; un solo Dio è quello che la sa tutta. (Galileo, Il Saggiatore)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
Salvador Dalì
Nel 1971 venne coniato dal cancerologo americano Van R.Potter il termine “Bioetica” ( Bioethics: Bridge to the future )[1]. Con questo termine, che rimanda alla duplice componente della vita (bìos) e dell’etica (étos), egli voleva indicare un nuovo ambito intellettuale per l’approccio alle questioni sollevate dal progresso scientifico e tecnologico, una sorta di “ponte” per la cultura scientifica e quella umanistica.
Tale nuova e vasta area di riflessione interdisciplinare nasceva, infatti, dagli straordinari progressi delle tecnologie che hanno consentito all’uomo la possibilità di avere il controllo dei processi biologici e ha visto e vede esercitarsi in essa biologia, medicina, filosofia, diritto, teologia, economia, psicologia, ecologia ecc..
Essa è stata definita in vari modi, ma può essere colto il suo carattere pluralistico e profondamente etico nella definizione che di essa ci fornisce Uberto Scarpelli, il quale vede la bioetica come “l’etica in quanto particolarmente relativa ai fenomeni della vita organica, del corpo, della generazione, dello sviluppo, maturità e vecchiaia, della salute, della malattia e della morte. Non è una disciplina autonoma e indipendente: ricomprende problematiche legate al progresso della conoscenza e delle tecniche biologiche, ma un adeguato approfondimento riporta alle questioni e agli atteggiamenti etici fondamentali concernenti l’uomo in quanto anima e corpo, spirito e materia, organismo capace di azioni e interazioni significanti e simboliche eccedenti il campo d’indagine della biologia”[2]. La Bioetica, infatti, cerca di dare una risposta ai nuovi interrogativi morali sorti dall’ampliamento delle conoscenze e dei poteri in ambito scientifico e tecnologico.
Tali domande possono riassumersi in un’unica formulazione: quanto è tecnicamente possibile, è eticamente lecito?
La caratteristica del tutto nuova delle moderne possibilità applicative della scienza, infatti, sta nella possibile irreversibilità delle conseguenze, per l’impatto che esse potrebbero avere sul futuro dell’uomo. In questo senso la bioetica è, come la definì Potter, un “ponte per il futuro” poiché in rapporto alle possibilità del presente considera anche le loro conseguenze nella dimensione futura.
Le problematiche sulle quali il dibattito bioetico è oggi particolarmente vivo sono quelle riguardanti la fecondazione artificiale, la donazione ed il trapianto di organi, l’eutanasia, il rapporto medico-paziente, la situazione dei tossicodipendenti nonché gli sviluppi, già menzionati, nel campo dell’ingegneria genetica.
[1] V. R. POTTER, Bioetica. Ponte verso il futuro ( 1971 ), Messina, 2000.
[2] U. SCARPELLI, La bioetica. Alla ricerca dei principi, in Bioetica laica, Milano, 1998, p. 217.
IL DOLORE
IL DOLORE
Ogni dolore è facile a disprezzare; quello che comporta sofferenza intensa dura poco tempo, e quello che perdura molto tempo nella carne comporta sofferenza temperata. (Epicuro)
A cura di Cristiano Turbil
Il termine dolore (Pain), assume diversi significati, rispetto al sistema etico e al contesto storico-culturale in cui è inserito. In questo saggio breve, si ha l’intenzione di definire il dolore, all’interno di due sistemi etici che ne hanno una considerazione opposta.
Il primo, quello cristiano cattolico, all’interno del quale il dolore viene considerato nella sua veste forse più positiva, assume non più il ruolo di ente negativo che affligge l’uomo ma diventa il mezzo usato dall’umanità per raggiungere e completare, all’interno del viaggio che è la vita, le sofferenze del Cristo, per riscattarsi dal mondo del peccato e raggiungere a pieno titolo la salvezza eterna .
Nella seconda parte, invece, il dolore non viene più analizzato rispetto alla sua valenza negativa o positiva sull’uomo, ma viene studiato all’interno di un contesto logico atto a determinare la sua reale posizione in rapporto con il suo diretto corrispettivo opposto “ Piacere” (Pleasure), muovendo una critica logico-psicologica al valore e al ruolo che hanno questi due termini all’interno delle dottrine etiche di carattere Edonistico quantitativo (ovvero i sistemi etici in cui si agisce con il fine di massimizzare la quantità di piacere senza preoccuparsi della sua qualità) e utilitaristico.
Il dolore nelle etica cristiana:
§1
La tematica del dolore all’interno dell’uomo, nell’orizzonte etico cristiano, viene espresso esaurientemente all’interno della lettera enciclica Salvifici Doloris, qui il Pontefice cerca di spiegare come il dolore e la sofferenza siano inseriti necessariamente all’interno della vita dell’uomo.
La lettera si apre con una frase di Paolo tratta dalla prima lettera ai Colossesi “Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la chiesa”[1], questo piccolo estratto che sarà poi il filo conduttore di tutta la discussione, mette subito in rilievo come la sofferenza nell’uomo e per l’uomo, sia mezzo per raggiungere la salvezza divina.
Va inoltre precisato che il tema della sofferenza, è profondamente inserito nell’anno liturgico della redenzione come giubileo straordinario (Anno 1984). Qui la sofferenza viene considerata come caratteristica propriamente umana, in quanto oltre a rappresentare il dolore fisico che l’uomo condivide con gli animali, assume un senso più alto, sembra infatti appartenere alla trascendenza dell’uomo e addirittura ad uno di quei punti a cui l’uomo è destinato.
§2
La prima grande questione affrontata è la definizione dell’idea del dolore, e tutti i temi ad essa correlati, soprattutto il rapporto tra dolore Fisico e Morale.
Il settore più conosciuto della sofferenza nella società moderna è quello medico che alla luce della scienza dà una più precisa ed esauriente descrizione del dolore e ne determina i diversi metodi del reagire (cioè della terapia). Tuttavia questo è solo un settore, il campo della sofferenza umana è molto più ampio.
Infatti l’uomo soffre in diversi modi, non sempre contemplati dalla medicina, neanche nelle più avanzate specializzazioni. Tutto ciò si può capire nella differenza che intercorre tra dolore fisico e morale:
· La sofferenza fisica si manifesta quando duole in qualsiasi modo il corpo.
· La sofferenza morale si ha quando duole l’anima.
La vastità della sofferenza è quella che fornisce il superamento della medicina come conoscenza della terapia del dolore fisico. Il dolore fisico è solo la parte inferiore del concetto di sofferenza, la vera sofferenza è quella dell’anima.
Infatti della sofferenza morale si trovano moltissimi esempi nelle scritture e in particolare all’interno dell’Antico Testamento, in cui troviamo molti esempi di situazioni che recano i segni della sofferenza:
· Il pericolo di morte
· La morte del figlio primogenito
· La mancanza di prole
· La nostalgia della patria
Tutti questi esempi e molti altri portano a considerare l’uomo come un insieme psicofisico che fa un tutt’uno con la sofferenza, dove la sofferenza viene intesa nel significato più ampio di “esperienza del male”.
Nell’ etica cristiana la nozione del male non esiste propriamente, in quanto tutto ciò che esiste è bene, perché proclama la somma e assoluta bontà del Creatore per le sue creature. L’uomo quindi soffre a causa del male, che è una mancanza, una distorsione del Sommo Bene.
La sofferenza umana costituisce quindi un mondo che esiste insieme all’uomo e possiede una valenza sia soggettiva che collettiva ed ha in sè una propria precisa compattezza.
§3
Il dolore fisico è ampiamente diffuso nel mondo degli animali, però solamente l’uomo soffrendo sa di soffrire e se ne chiede il perché. Questa domanda l’uomo non la pone al mondo che sembra essere causa delle sue sofferenza, ma la pone invece a Dio.
La risposta a questo interrogativo la si trova all’interno del libro di Giobbe, uno dei grandi libri dell’Antico Testamento, dove si narra la storia di Giobbe un uomo giusto che non conosce il peccato che viene colpito da innumerevoli disgrazie. Qui viene mostrato come il male non sia soltanto inteso come pena (espiazione di una colpa), ovvero data da Dio all’uomo nel momento del peccato e dell’errore, quindi intesa come mezzo redentivo per ristabilire la giustizia. Ma si evince anche, e soprattutto nel caso specifico di Giobbe, ovvero di un uomo senza alcun peccato e che quindi non merita alcun dolore, che la sofferenza data da Dio deve essere intesa come un mistero che l’uomo non è in grado di penetrare fino in fondo con la sua intelligenza.
E’ vero quindi che la sofferenza sia legata alla colpa, ma non è altresì vero che essa sia legata unicamente alla colpa. E un importante prova di questo la troviamo appunto nel caso di Giobbe.
Il libro di Giobbe, pone il perché della sofferenza ma non ne dà la risposta; fa solo capire che la sofferenza è l’utile per l’uomo, in quanto serve alla conversione, cioè alla ricostruzione del bene del soggetto che riconosce la misericordia divina nella penitenza.
§4
La soluzione della sofferenza, la troviamo però nella figura di Cristo:
“Dio infatti ha tanto amato il mondo che ha dato il suo figlio unigenito perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”[2]
Questa frase che può essere considerata uno dei pilastri portanti del nuovo testamento mira ad esprimere la vittoria dell’amore sulla sofferenza; infatti Dio dà il suo unico figlio al mondo, per liberare l’uomo dal male, che porta in sè la definitiva e assoluta prospettiva della sofferenza.
Qui si può facilmente notare come ci si è spostati dalla dimensione della sofferenza come giustizia o mistero (Libro di Giobbe), alla nuova dimensione della redenzione, in cui la sofferenza assume il suo ruolo definitivo, ovvero il mezzo per raggiungere la vita eterna.
Il peccato diventa quindi il contrario della salvezza, la perdita della vita eterna; la vera missione del figlio di Dio assume il ruolo di vincere il peccato e la morte e con la resurrezione ottenere il perdono e la vita eterna. Grazie a questo, anche se la vittoria di Cristo non abolisce le sofferenze temporali della vita umana, né libera la totale dimensione dell’esistenza, tuttavia getta su ogni sofferenza una luce nuova, che è la luce della salvezza.
Questa nuova verità, cambia l’intero quadro delle sofferenze umane nelle sue fondamenta, nonostante il fatto che il peccato originale si sia radicato come “Peccato del mondo” e come somma dei peccati personali.
Dio ha mandato il Cristo, affinché tocchi le radici più profonde del male con la sua innocente sofferenza e salvi l’uomo con la sua morte e resurrezione.
§5
Nel simbolo della croce di Cristo, non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta. Cristo si è addossato il male totale del peccato. L’esperienza di questo male su Cristo, diventa il prezzo della redenzione e cosi il mondo della sofferenza viene aperto agli uomini in un modo del tutto nuovo, che permette di considerare il dolore in una nuova prospettiva finalizzata alla salvezza
La croce di Cristo diventa qui il simbolo di tutto ciò: essa getta in modo tanto penetrante la luce salvifica sulla vita dell’uomo perché mediante la fede lo raggiunga con la risurrezione.
La sofferenza diventa quindi una prova per l’uomo, una prova dove tramite la sua debolezza manifesta la sua potenza, la sua grandezza morale la sua maturità spirituale.
E in conclusione tutti coloro che partecipano della sofferenza di Cristo, comprendono il mistero della croce e della resurrezione, nel quale Cristo scende nella debolezza e muore ma allo stesso tempo compie la sua elevazione.
§6
Alla luce di tutto questo, il vangelo assume quindi il ruolo di vangelo della sofferenza, in cui Cristo è la chiave di volta di tutto il sistema, che vince la morte con la sofferenza e ottiene la salvezza con la resurrezione.
La stessa cosa dovranno fare tutti gli uomini, come dice Paolo “Tutti quelli che vogliono vivere pienamente in cristo Gesù saranno perseguitati[3]”.
Questo è in conclusione il vero messaggio della sofferenza, che perde nell’etica cristiana quasi tutta la sua valenza negativa e assume un significato oltremodo positivo, diventando il mezzo anzi sarebbe meglio dire il percorso che permette all’uomo di raggiungere la promessa di vita eterna, completando nel suo corpo. tramite il dolore. i patimenti del Cristo che grazie alla sua morte ci ha salvati dal mondo del peccato.
Il Dolore e il Piacere nell’analisi di Gilbert Ryle
La tematica del Piacere e del Dolore viene analizzata all’ interno del saggio Dilemmas[4].
Nel capitolo quarto di questa piccola raccolta di dilemmi, Ryle analizza le nozioni di Dolore e Piacere rispetto ad una critica motivata del ruolo che assumono all’interno delle classiche dottrine etiche edonistico-psicologiche.
§1
Nella prima parte della breve dissertazione, l’autore fornisce una veloce ma precisa analisi del ruolo del piacere e del suo corrispettivo all’interno dell’edonismo, descrivendo i vari assiomi che solitamente venivano attribuiti ai comportamenti umani, i quali assumevano proposizioni abbastanza plausibili ma talvolta e nella fattispecie non plausibili.
Si considerava infatti l’uomo come mosso e determinato nei suoi comportamenti rispetto ad alcuni desideri, che venivano considerati tutti come desideri del piacere: di conseguenza ogni azione intenzionale compiuta dall’uomo era motivata solo ed esclusivamente da un incremento quantitativo del piacere provato dall’individuo agente e da una netta diminuzione del dolore dello stesso.
In un sistema cosi strutturato, i piaceri differivano tra di loro, solo ed esclusivamente, non su un rapporto di qualità ma semplicemente su un rapporto di quantità, ovvero un piacere ά era migliore di un altro piacere β solo se esso era rispettivamente più intenso o prolungato o tutte due le cose insieme rispetto all’altro.
Perciò in base a questi assiomi sembrò logico considerare l’altruista come colui che incrementa il piacere altrui e l’egoista come colui che incrementa il proprio piacere.
I termini piacere e dolore venivano quindi ad assumere il ruolo di effetti di atti, il cui movente degli atti stessi veniva ad essere il desiderio di quei piaceri.
I piaceri venivano quindi ad essere considerati come delle sensazioni, prodotte da azioni o altri eventi, come ci dice Ryle “ il desiderio di provare queste sensazioni era interpretato come quel che ci spinge a compiere o a garantirci quelle cose che le producono”[5], di conseguenza si assumeva che il dolore stesse al piacere, come il dolce all’amaro, il buio alla luce, cioè essi venivano considerati come l’uno l’antitesi dell’altro o più facilmente come i due poli opposti di una stessa scala graduata, dove il calcolo e la misurazione del piacere doveva essere l’esatto opposto del calcolo della quantità di dolore, quindi dove aumentava uno, diminuiva l’altro.
§2
Anche se queste teorie ci dicono che il concetto piacere è l’esatto opposto del concetto di dolore, in quanto ambedue sono sensazioni, tuttavia ci sono obiezioni invalicabili che non permettono di considerarli come opposti diretti.
Noi uomini siamo abituati a dire che alcune cose ci provocano piacere mentre altre dolore, però non abbiamo la capacità e la possibilità di determinare, ad esempio, il momento in cui abbiamo provato piacere e la sua durata precisa nel tempo. Noi, infatti, possiamo dire al medico dove e quando proviamo dolore ma non possiamo descrivere perché non ne saremmo mai capaci, dove e in che modo proviamo un piacere e come dice lo stesso Ryle “In una parola, il piacere non è affatto una sensazione, e tanto meno una sensazione sulla stessa scala con malesseri e dolori fisici”[6].
Infatti, come ci spiega poi in seguito l’autore, alcune sensazioni sono piacevoli, mentre altre sono spiacevoli, però le une possono cambiare e produrre risultati opposti se cambia il contesto in cui sono inserite, come ad esempio un calore può essere spiacevole, mentre se lo stesso calore prodotto da un the caldo può risultare piacevole.
“Se fosse giusto classificare come sensazione il piacere, dovremmo aspettarci che fosse anche possibile descrivere quindi alcune di queste sensazioni come piacevoli, altre come neutre, ed altre come sgradevoli ma questo è impossibili”[7], ma tutto ciò come spiega Ryle è impossibile, perché se le sensazioni fossero neutre e spiacevoli ci troveremmo di fronte ad una contraddizione, mentre se esse fossero piacevoli risulterebbe una ridondanza.
Anzi, noi abbiamo addirittura la possibilità di ignorare una sensazione, se siamo impegnati a fare altro, per esempio se proviamo male ad un dito ma siamo impegnati in un gioco che occupa tutta nostra attenzione, la sensazione di dolore non viene considerata.
§3
Mentre, scrive Ryle, per quel che compete alle nozioni di Piacere e Disgusto, esse sono connesse alla consapevolezza in un modo del tutto differente dalle sensazioni. Infatti non è possibile né logicamente, né psicologicamente che una persona goda di una musica senza prestarne attenzione, vi è quindi una contraddizione di fondo nel descrivere qualcuno come mentalmente assente da qualcosa che sta gustando o detestando.
Infatti “il piacere e il disgusto non richiedono diagnosi, mentre possono benissimo richiederne le sensazioni”[8].
Le sensazioni e i sentimenti hanno una precisa collocazione nel tempo, esse possono essere un antecedente, un concomitante oppure un susseguente di altri avvenimenti, mentre per il piacere questo non é possibile.
Noi possiamo benissimo determinare il momento esatto in cui proviamo un dolore ma non possiamo altresì cosi facilmente determinare l’esatto istante in cui proviamo piacere per aver visto un bel film, o per aver mangiato qualche cosa di gustoso, in quanto il piacere non essendo una sensazione, non ha una collocazione precisa nel tempo.
§4
Per tornare al discorso iniziale, l’assimilazione del godimento e del disgusto all’ interno delle sensazioni, era solo una piccola parte del programma etico teso alla realizzazione della condotta umana.
In questa teoria i desideri e i piaceri, dovevano essere i corrispettivi mentali della pressione, dell’urto e di tutte le cose proprie della teoria meccanica. Mentre i moti psichici sarebbero diventati calcolabili e misurabili quanto l’intensità dei piaceri e dei desideri. Un piacere sarebbe stato quindi determinato di una precisa grandezza, almeno per ciò che compete alla sua durata e intensità.
Mentre, seguendo le obiezioni di Ryle sopra riportate, si nota precisamente che il piacere non essendo una sensazione, non può essere un processo. I processi, infatti, sono caratterizzati da una precisa durata, mentre l’uomo non può provare un piacere in modo veloce o lento.
Quindi, il ruolo che le nozioni di piacere e disgusto assumono nella teoria etica dinamica non possono di certo avere la valenza di processo.
I dolori, alla luce di quanto detto, vengono ad essere considerarti come “l’effetto di cose come la pressione di una scarpa su un dito del piede, e la causa di cose come gesti agitati di insofferenza”[9].
Dopo aver espresso tutto questo, l’autore muove un ultima critica alle teorie etiche edonistiche ed utilitaristiche; avendo dimostrato l’inefficacia di tutti i sistemi che considerano il piacere come un processo, fa notare come tutti noi abbiamo avuto nella nostra vita i nostri momenti edonistici e utilitaristici e ne siamo rimasti insoddisfatti. In essi non abbiamo trovato, soprattutto nell’analisi profonda delle nozioni di disgusto e godimento,delle certezze le quali hanno subito delle sottili e sospette trasformazioni, allorché sono state presentate come le forze di base che determinano le nostre scelte ed intenzioni.
§5
Nell’ultima parte della dissertazione, Ryle si impegna a definire il concetto di piacere nella descrizione della vita e della condotta umana, scusandosi però di trattarlo da un punto di vista che può ,per il lettore, suonare come arcano o prescientifico.
L’autore definisce infatti come passioni tutti gli stati d’animo agenti sull’uomo potenzialmente sovversivi, come il terrore, la collera, l’allegria, l’odio ecc, e determina che godere o detestare un qualche cosa non vuol dire essere vittime di una passione.
Infatti , se una persona è perfettamente padrona di sé nelle sue azioni, non può essere descritta come agitata, in collera o in preda al panico, nozioni tutte appartenenti in modo intrinseco alle passioni.
Ma nessuna di queste connotazioni si addice al piacere, infatti come ci dice l’autore “se godere di qualcosa con una certa intensità equivalesse ad essere fuori di sé in pari misura, si dovrebbe essere dissennati per tutto il tempo dedicato alle proprie occupazioni preferite”[10].
Una persona in uno stato di perfetta calma può quindi provare anche un grande piacere, la nozione di godimento rifiuta perciò di passare attraverso lo stesso cerchio logico in cui passano le passioni. Il godimento non è qualcosa che noi proviamo a reprimere, che soffochiamo o non riusciamo a soffocare, è una nozione totalmente scollegata al dominio delle passioni.
§6
In conclusione e per riprendere il filo del discorso precedente,Ryle fa notare che i concetti di godimento e disgusto sono stati erroneamente collocati come appartenenti alla categoria delle sensazioni e dolori fisici, alla categoria di accadimenti come causa di altri accadimenti e al dominio più generale delle passioni.
Ma queste nozioni, come fa ben notare l’autore, opporranno sempre resistenza a ogni tentativo di avvicinarle ai concetti di queste altre famiglie.
Per concludere come sostiene Ryle nelle ultime frasi di questo capitolo “I dilemmi derivano dall’attribuzione erronea di analogie di ragionamento”[11], ovvero come detto appena sopra ad ogni uso non proprio dei concetti di Piacere e Disgusto.
[1] Lettere ai Colossesi 1,24
[2] Vangelo di Giovanni 3,16
[3] Seconda lettera a Timoteo 3,12
[4] Gilbert Ryle, Dilemmas 1966 Cambidge University Press, London
Utilizzata nella traduzione italiana a cura Enrico Mistretta 1968 Ubaldini Editore, s.r.l. Roma.
[5] Dilemmas, p. 61
[6] Idem p. 62
[7] Idem p. 62
[8] Idem p. 63
[9] Idem p. 64
[10] Idem p. 69
[11] Idem p. 70
LA FECONDAZIONE ASSISTITA
LA FECONDAZIONE ASSISTITA
Il cosmo è un palcoscenico e la vita è un passaggio sulla scena di questo palco: entri, guardi ed esci. Il cosmo è mutamento, la vita è opinione che si adegua. (Democrito)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
L’espressione “Fecondazione assistita” indica le procedure capaci di permettere e favorire la fecondazione di una cellula uovo di una donna da parte di spermatozoi maschili nel caso in cui essa non avvenga in modo naturale.
Una data da ricordare è sicuramente il 25/7/1978: nasce Louise Brown la prima bambina concepita in provetta con la tecnica denominata “fecondazione artificiale”.
Le tecniche di fecondazione assistita possono dividersi in due tipi principali:
1) Fecondazione assistita in vivo: le modalità utilizzate per questo tipo di fecondazione sono l’inseminazione artificiale e la cosiddetta GIFT.
L’inseminazione artificiale prevede, al di là delle differenze metodologiche, l’iniezione degli spermatozoi ( del partner se è omologa, di un donatore se è eterologa ), nelle vie genitali della donna.
La GIFT, invece, avviene attraverso il trasferimento intratubarico dei gameti: si iniettano cioè, all’interno delle tube femminili sia gli spermatozoi ( del marito o di un donatore ) che le cellule uovo ( della donna stessa o di una donatrice ).
2) Fecondazione assistita in vitro: con questo tipo di fecondazione si cambia il luogo dell’inizio della formazione delle prime cellule embrionali che non avviene più all’interno della donna, ma in provetta. La principale tecnica utilizzata la cosiddetta F.I.V.E.T. ( fecondazione in vitro ed embrio-transfer ). È un procedimento complesso ed invasivo ( soprattutto per il corpo femminile ) che si svolge in due fasi: l’incontro dei gameti (le cellule riproduttive maschili e femminili) in provetta ( F.I.V. ) ed il successivo trasferimento degli embrioni che si sono formati nell’utero ( E.T. ).
Le ovaie della donna sono sottoposte al trattamento di agenti farmacologici ed a vari cicli di controlli e terapie generalmente quotidiane. Dopo 34-36 ore, in anestesia generale, viene effettuata l’aspirazione degli oociti (i gameti femminili o cellule uovo). Entro 18 ore può avvenire il processo di fecondazione che si compie all’interno di provette. Gli embrioni selezionati ( di solito due o tre ) sono quindi trasferiti nell’utero femminile ( o nelle tube di Falloppio ).
“Le questioni aperte”
La “fecondazione in vivo” omologa (i gameti appartengono ad entrambi i partner), sembra comportare esclusivamente problemi legati all’intrusione medica nell’intimità del rapporto di coppia, ed alla manipolazione del corpo ( soprattutto femminile ).
Quella eterologa (i gameti appartengono a dei donatori), invece, solleva questioni molto più complesse, soprattutto di natura giuridica.
Alcuni degli interrogativi che si potrebbero porre riguardano la paternità (nel caso il donatore sia un uomo) o la maternità (nel caso il donatore sia una donna) di un bambino: che diritti ha il donatore nei confronti del bambino? Ha diritto il bambino a conoscere il padre biologico? Sono tenuti il padre, la madre ed il bambino a conoscere l’identità dei donatori, in virtù anche del fatto che il nascituro avrà il corredo genetico del genitore biologico?
Riguardo questa domanda è opportuno ricordare che la scienza medica non è ancora in grado di escludere con certezza se un gamete maschile o femminile possa essere portatore di una qualche forma di patologia: le tecniche di oggi potrebbero essere capaci di individuare o escludere solo alcuni tipi di malattia.
Tuttavia, il fatto che la fecondazione in vivo lasci l’atto del concepimento della vita umana all’interno del grembo materno, evita un complesso numero di problematiche proprie della fecondazione in vitro.
La fecondazione in vitro richiama alla mente motivi faustiani: questa tecnica, come i versi del poeta tedesco Goethe, sembra rispondere alla volontà di appropriazione dell’origine, spostando i luoghi del concepimento tra laboratori e provette, aprendo le possibilità di intervento e manipolazione sull’origine stessa della vita.
Inoltre, da non trascurare è il problema di quella che è stata definita la “medicalizzazione della vita”: l’autonomia del singolo, la sua stessa possibilità di agire, sembrano cedere il posto alle scelte del “tecnico della vita”, un uomo anch’egli, ma investito di una sacra autorità che gli permette di gestire e controllare opportunità e modalità esistenziali di altri esseri umani.
Ciò comporta l’entrata in gioco del fattore medico all’interno del rapporto di coppia, la scelta, delegata a canoni presupposti scientifici, tra la vita, la morte e la crioconservazione (congelamento) degli embrioni.
“Il problema degli embrioni”
Particolare attenzione merita la questione relativa agli embrioni prodotti dalla tecnica di fecondazione artificiale in vitro.
La domanda fondamentale è: è possibile attribuire all’embrione umano lo status di “persona” ( e quindi preservarlo da qualsiasi manipolazione)?
Ci si chiede se sia giusto riconoscere all’embrione umano i diritti propri degli individui sviluppati, primo fra tutti il diritto inequivocabile alla vita.
Il concetto di “persona” presenta esso stesso delle difficoltà inerenti alla sua stessa definizione, difficoltà non da poco. Sono, infatti, diversi gli intendimenti di tale concetto e per molti versi gli uni opposti radicalmente agli altri.
Nel dibattito odierno sullo status da attribuire all’embrione si affermano due ipotesi contrapposte:
– La posizione, sostenuta principalmente dal Cattolicesimo, che attribuisce all’embrione lo stato giuridico di persona sin dalla formazione delle sue prime cellule basandosi sulla sacralità della vita.
– La posizione convenzionalmente definita laica (ma non mancano tra i suoi sostenitori diversi religiosi ), che ritiene l’embrione al suo stato iniziale come un agglomerato di cellule privo di caratteristiche tali (ad esempio l’autocoscienza) da poterlo riconoscere come persona. Tuttavia i sostenitori di questa ipotesi hanno stabilito convenzionalmente un limite massimo di 14 giorni per poter intervenire sull’embrione. Intorno al 13-14 giorno compare la cosiddetta “stria primitiva”, segno di una primitiva diversificazione specialistica delle cellule che compongono l’embrione. Prima di tale periodo le cellule staminali embrionali sono definite “totipotenti” cioè capaci di potersi sviluppare in qualsiasi tipo di tessuto.
Questi due atteggiamenti si confrontano, spesso anche con toni aspri, in virtù del fatto che i sostenitori della seconda posizione ritengono la prima una sorta di freno allo sviluppo scientifico: una volta non riconosciuto l’embrione come persona sarebbe possibile, sulla base di alcuni studi scientifici, attraverso lo studio delle cellule staminali totipotenti trovare una cura per le malattie oggi incurabili. Alcuni scienziati ipotizzano, infatti, di poter controllare lo sviluppo di queste cellule verso una determinata e voluta specializzazione.
I propugnatori della personalità dell’embrione ribattono che gli studi in questo versante sono del tutto incerti facendo anche notare l’altissima propensione a mutarsi in cellule cancerogene delle cellule staminali totipotenti. Principalmente, inoltre, la loro avversione è dovuta anche al fatto che lo studio di queste cellule comporta la soppressione dell’embrione stesso al momento del loro prelievo.
Risulta chiara la totale incompatibilità con una visione personalistica dell’embrione.
È opportuno ricordare che, oltre alle cellule staminali embrionali, esistono altri due tipi di staminali sui quali è comunque rivolta la ricerca scientifica:
– le cellule staminali presenti nel sangue del cordone ombelicale;
– le cellule staminali fetali che sono ricavate da aborti.
Lo studio di queste cellule potrebbe, comunque, per ammissione dell’intera comunità scientifica, risolvere i medesimi problemi che la ricerca sulle cellule staminali embrionali si propone di superare.
La sperimentazione su quest’ultime non esaurisce il campo di ricerca avente come oggetto gli embrioni.
Le moderne tecnologie, accompagnate dalle conoscenze in materia di corredo genetico che esse stesse hanno consentito, rendono possibile prevedere in anticipo alcune eventuali malattie che, l’embrione una volta divenuto adulto, potrà sviluppare.
Ciò introduce l’interrogativo se sia giusto o meno intervenire sul suo patrimonio genetico in modo da modificarlo ed eliminare il rischio di tali possibili patologie.
Inoltre seri problemi sorgerebbero quando, con la conoscenza del patrimonio genetico di un individuo, inizierebbero a farsi strada strane tentazioni, come quella di scegliere le caratteristiche fisiche del nascituro, o magari creare ad hoc un individuo con i desiderati tratti somatici.
Questa prospettiva inficerebbe non poco il rispetto della libertà dell’individuo e della sua libera autodeterminazione: partendo, ad esempio, dall’eliminare progressivamente patologie come la sindrome di Down, poiché l’individuo che ne è affetto non potrebbe condurre una vita consona alla categoria sociale di appartenenza, si potrebbe arrivare al programmare gli “esseri perfetti” per la società.
Gli uomini diverrebbero le creazioni di altri uomini e verrebbero così privati della loro libertà di esseri nati da coincidenze naturali e non precostituite e conseguentemente anche della loro libertà sociale, essendo, in ogni caso, il frutto di scelte dettate dalle preferenze sociali dominanti ossi di criteri eugenetici.
LA CLONAZIONE
In silenzio, è venuta crescendo un’umanità che aspira solo alla costrizione e alla limitazione che le vengono imposte dall’assurda continuazione del dominio. (T.W. Adorno, Minima moralia, 80)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
DE CHIRICO
Il termine “clonazione” indica nel lessico scientifico contemporaneo il processo che consente la duplicazione del patrimonio genetico di una singola cellula o di un intero organismo.
Il “clone” è perciò un insieme di molecole di DNA, cellule o interi organismi, derivanti per copie successive da un unico progenitore rispetto al quale risultano identiche.
Le principali tecniche utilizzate per conseguire la clonazione del corredo biologico sono due:
a) “fissione gemellare” (embryo splitting): consiste nella separazione di singole cellule o di gruppi di cellule nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, quando le cellule sono dette “totipotenti”, cioè non ancora specializzate e quindi in grado di potersi evolvere verso qualsiasi direzione compreso un intero organismo;
b) “trapianto nucleare”: trapianto del nucleo di cellule specializzate di qualsiasi tipo in una cellula uovo fecondata o non fecondata, dopo aver provveduto all’eliminazione del nucleo della cellula uovo.
Oggi si parla anche di “clonazione terapeutica” la quale consiste nella produzione di embrioni umani in laboratorio col corredo genetico del paziente, finalizzata ad ottenere una cultura di cellule staminali cosiddette “autologhe” cioè compatibili con il corpo del paziente. L’embrione così generato verrebbe distrutto al 5° giorno del suo sviluppo e le cellule staminali “autologhe” sarebbero utilizzate per consentire la riparazione degli organi danneggiati del paziente.
“Brevi cenni storici: dai tentativi di clonazione alla clonazione vera e propria”
I primi esperimenti di clonazione di organismi pluricellulari furono compiuti negli anni Cinquanta, sulle rane. Due ricercatori inglesi, Robert Briggs e Thomas King riuscirono a trapiantare il nucleo di una cellula di embrione di rana in un ovulo, gli embrioni che si ottennero vennero quindi cresciuti in vitro. Nel 1979 fu la volta di esperimenti sulla divisione di embrioni, allo stadio di otto-sedici cellule al fine di ottenere embrioni identici. Nel 1993 la tecnica appena descritta fu applicata all’uomo: due ricercatori statunitensi, Jerry Hall e Robert Stillman, dopo avere ottenuto embrioni umani mediante fecondazione in vitro, ottennero 48 cloni di tali embrioni, che successivamente congelarono.
Nel 1996 il dibattito sulla clonazione si impenna in modo vertiginoso con la nascita della pecora Dolly, il primo mammifero della storia clonato a partire da un individuo adulto. La clonazione fu realizzata dai ricercatori del Roslin Institute di Edimburgo che prelevarono il nucleo di una cellula mammaria di una pecora adulta e successivamente la trasferirono in un ovulo privato del suo nucleo. Quest’ultimo fu in seguito trapiantato nell’utero di una terza pecora che ha dato alla luce la famosissima Dolly.
Le tecniche utilizzate per la nascita di Dolly evidenziarono alcune novità nel campo degli studi fino ad allora condotti in materia di clonazione. Anzitutto si trattò non di una scissione gemellare ma di un’innovazione radicale che consentiva per la prima volta di parlare a tutti gli effetti di clonazione, si era realizzata, infatti, una riproduzione asessuale e agamica (priva dell’utilizzo delle cellule sessuali degli organismi animali) volta a produrre individui biologicamente uguali all’individuo adulto, fornitore del patrimonio genetico nucleare.
Inoltre, fino a qual momento si era ritenuto che questo tipo di clonazione vera e propria fosse impossibile: si credeva che il DNA delle cellule somatiche (n.b. :del corpo) degli animali superiori, essendo ormai differenziate, non potesse più recuperare la totipotenzialità originale e, conseguentemente, la capacità di guidare lo sviluppo di un nuovo individuo.
“Le questioni etiche”
A differenza di altri temi suscitati dallo sviluppo scientifico, le opinioni riguardo le problematiche etiche della clonazione non presentano sostanziali divergenze.
Fa eccezione la posizione della Chiesa cattolica che direttamente con la voce di Papa Giovanni Paolo II fece sapere la propria avversità a qualsiasi forma o tipo di clonazione anche nel caso di un buono scopo.
Per tale motivo e possibile riassumere le varie argomentazioni dividendole, per una maggiore chiarezza, solamente tra quelle riguardanti la clonazione animale e vegetale e quelle inerenti l’uso di essa per l’uomo.
Si ritiene comunemente che le pratiche di clonazione animale e vegetale possono essere accettate, a condizione che:
1. siano chiarissimi gli intenti volti a realizzare un adeguato bene umano e ambientale, in particolare terapeutico e comunque non riducibile esclusivamente in termini di lucro commerciale;
2. gli animali sui quali si esperimenti non siano sottoposti a sofferenze non giustificate e non proporzionate al bene da realizzare;
3. non implichino attentati o rischi per la biodiversità.
Per quanto riguarda i problemi della pratiche di clonazione per individui umani si ritiene che possono essere considerati leciti gli interventi a carico del genoma umano (l’intero patrimonio genetico di un organismo vivente; si può paragonare ad un’enorme enciclopedia in cui sono contenute le istruzioni che regolano lo sviluppo e il funzionamento dell’organismo.), che abbiano finalità terapeutica e le tecniche biologiche che abbiano per obiettivo non la clonazione di un essere umano, ma quella di tessuti o di singoli organi e che abbiano una chiara finalità terapeutica.
Sorgono difficoltà di una rilevanza maggiore nel momento in cui si considera la clonazione riproduttiva di un intero individuo o di clonazione terapeutica.
Nel caso della clonazione di un intero individuo la pratica potrebbe rientrare nel progetto dell’eugenismo e quindi essere esposta a tutte le osservazioni etiche e giuridiche del caso.
La clonazione, secondo la maggioranza delle opinioni, costituisce una radicale manipolazione della costitutiva relazionalità e complementarietà di uomo e donna che è all’origine della procreazione umana, sia nel suo aspetto biologico sia in quello propriamente personalistico.
Proseguendo sulle ipotesi aperte da questa osservazione ci si imbatte nel fatto non trascurabile che le moderne tecnologie dischiudono la prospettiva di ricerca verso la possibilità di costituire uteri artificiali, ultimo e decisivo passo per la costruzione « in laboratorio » dell’essere umano.
Inoltre, dal punto di vista etico, la clonazione, sia terapeutica che non, potrebbe far si che il corpo umano cominci ad essere visto come una macchina composta da pezzi adibiti alla ricerca scientifica contribuendo in tal modo a quella che è stata chiamata “medicalizzazione della vita”.
Sicuramente la clonazione umana potrebbe avere forti risvolti anche in relazione alla dignità della persona clonata, venuta al mondo in virtù del suo essere « copia » (anche se solo copia biologica) di un altro essere.
“La legislazione”
Nel tentativo di mettere ordine ai problemi suscitati dal continuo sviluppo scientifico nel campo della clonazione diversi sono stati i provvedimenti legislativi adottati nello scenario della politica mondiale:
– Luglio 1997: il G7 ha vietato qualsiasi esperimento di clonazione umana.
– Dicembre 1998: il governo inglese rende nota l’intenzione di autorizzare l’uso di embrioni umani a scopo terapeutico; secondo alcuni esponenti della comunità scientifica, le cellule embrionali potrebbero sostituire cellule danneggiate o essere stimolate a produrre tessuti con cui sostituire quelli lesionati in caso di patologie come l’artrite reumatoide, il morbo di Parkinson o il morbo di Alzheimer
– Dicembre 1998: in Italia con un’ordinanza del Ministero della Sanità si vieta la produzione di embrioni umani finalizzati a sperimentazione; il divieto non è valido per la clonazione di organismi transgenici, utilizzati per la produzione di farmaci salvavita.
– Agosto 2000: la commissione scientifica, nominata dal governo inglese ha dato parere favorevole alla clonazione di embrioni umani per creare organi di ricambio. Qualche settimana più tardi anche gli Stati Uniti hanno permesso la ricerca su embrioni umani per la cura di malattie gravi.
– Febbraio 2002: il Parlamento britannico ha concesso l’autorizzazione definitiva alla ricerca scientifica sulla clonazione di embrioni umani a scopo terapeutico e alla costituzione della prima banca mondiale di cellule embrionali.
– Febbraio 2004: con la legge 40/2004 in Italia si vietano “interventi di clonazione mediante trasferimento di nucleo o di scissione precoce dell’embrione o di ectogenesi sia a fini procreativi sia di ricerca”.
Allo stato attuale la clonazione umana con finalità riproduttiva è vietata per legge negli Stati Uniti e nell’Unione Europea ed è stata respinta da tutti gli organismi internazionali (Consiglio d’Europa, Parlamento Europeo, OMS, UNESCO)
All’interno dei singoli Paesi, tuttavia, tranne pochi casi, non esistono, allo stato attuale, normative che sanciscano precise sanzioni al divieto di clonazione.
L’EUTANASIA
Ben lungi dall’esser l’uomo a rendere comprensibile il mondo, è proprio l’uomo l’essere più incomprensibile. (Schelling)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
DAVID: la morte di Socrate
La parola “eutanasia” deriva dal greco antico e significa “buona morte”, “dolce morte” (eu = “buona” e thanatos = “morte”).
L’eutanasia è comunemente intesa come l’azione volta a liberare da dolori intollerabili il morente provocandone la morte.
Se la morte è provocata su più individui l’eutanasia è detta “collettivistica”, se si tratta di un singolo individuo è chiamata “individualistica”.
L’eutanasia “individualistica” è quella più conosciuta dal senso comune in quanto è proprio la conoscenza di casi di tale natura che ha contribuito a sviluppare il moderno dibattito intorno al problema della buona morte.
Questa forma di eutanasia si distingue in:
– eutanasia attiva: la morte di una persona è causata da un comportamento attivo;
– eutanasia passiva: la morte di un individuo è provocata da un comportamento passivo o omissivo, il quale può essere consentito dal paziente oppure essergli sconosciuto e deciso dai medici o dai parenti dello stesso. Per questa ragione si parla di eutanasia passiva consensuale ed eutanasia passiva non consensuale.
Attualmente i criteri per definire un’azione come eutanasia possono riassumersi secondo il seguente schema:
– Si tiene conto dell’obiettivo primario da parte di chi la pratica di estirpare la sofferenza procurando la morte al malato. A questo proposito, si precisa che non deve essere considerata eutanasia una cura palliativa, anche se dovesse come effetto secondario e non voluto avvicinar ela morte del paziente (in casi del genere si parla di eutanasia indiretta).
– È accertata la somministrazione di sostanze tossiche mortali o la non dovuta assistenza medica.
– Il suicidio non è considerato una forma di eutanasia.
– In presenza della richiesta fatta da chi intende morire, gli aiuti o la cooperazione al suicidio sono considerati forme di eutanasia.
L’eutanasia collettivistica, invece, si può riferire all’azione con cui vengono eliminate persone portatrici di handicap per migliorare la qualità della razza (si parla di eutanasia eugenia), oppure agli atti con cui sono soppresse persone anziane o comunque inutili nel processo economico per favorirne altre socialmente più utili (si parla di eutanasia economica).
Nel lessico riguardante l’eutanasia si è da qualche anno fatto strada il termine “living-will” o “testamento biologico”: esso indica il documento che consente ad ogni individuo di scegliere per iscritto come e se vorrà essere trattato quando non potrà essere lui stesso a dare il consenso, nel caso le sue condizioni fossero irreversibili. I “living-will”, infatti, hanno valore giuridico.
“Un po’ di storia”
Si hanno notizie di pratiche simili all’eutanasia sin dall’antica Grecia. Qui, così come a Roma, in determinate situazioni era possibile praticarla. Successivamente, il prosperare delle grandi religioni monoteistiche, le quali tra i cardini delle loro morali avevano e hanno la sacralità della vita umana, fece si che l’eutanasia fosse ritenuta un’azione moralmente inaccettabile. Questa condanna divenne in seguito legale, trovando prima un’enunciazione nelle norme morali e quindi negli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli stati.
Il termine “eutanasia” venne introdotto nel linguaggio medico dal filosofo inglese Francesco Bacone, agli inizi del secolo XVII, ma la situazione cominciò a mutare nella prima metà del XX secolo culminando nella fondazione di alcune associazioni che promuovevano la “liberalizzazione” dell’eutanasia individualistica.
Ciò avvenne nel 1935 in Gran Bretagna e nel 1938 negli Stati Uniti d’America.
Gli anni citati sono da tenere a mente poiché rappresentano l’avvio di un consenso cresciuto esponenzialmente e che ha portato in alcuni paesi occidentali ad un clima tale da consentire delle aperture legislative nei confronti dell’eutanasia passiva consensuale e non consensuale.
In Italia i principi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti, tradizionalmente vicini al credo cattolico, hanno favorito lo sviluppo di una legislazione che ha di fatto equiparato l’eutanasia all’omicidio, tuttavia è opportuno precisare che Papa Pio XII si espresse a favore di quella che oggi è definita “terapia del dolore”, ossia un trattamento volto al controllo dei sintomi e non alla cura della patologia di base che, evidentemente, non è più guaribile. La terapia del dolore si effettua tramite somministrazione di analgesici di natura oppiacea, in pazienti non più guaribili in cui i sintomi della malattia comportino sofferenze-fisiche e psicologiche – insopportabili.
In Olanda, invece, da tempo è possibile optare per l’eutanasia passiva o suicidio assistito ed il dibattito sulla liceità dell’eutanasia attiva si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi interventi. Un caso simile questo è quello dell’Australia.
“Le questioni cruciali”
Gli interrogativi riguardanti questa delicatissima pratica sono aumentati di pari passo con l’aumento delle capacità della tecnica, la quale ha consentito la realizzazione di strumenti in grado di sostituire le funzioni vitali di un individuo.
È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica ( vita dell’organismo ) o la vita biografica.
A tale proposito, come comportarsi nel caso dei bimbi anencefalici? Cosa dire di coloro che sono affetti da malattie a carattere degenerativo? Ad esempio: il malato di Alzheimer, il quale si allontana pian piano dal una propria autocoscienza può essere forse considerato meno in vita di un individuo sano?
Questi interrogativi mostrano pienamente l’intrigo della questione riguardante l’eutanasia. Tuttavia, rispetto alle ovvie risposte che fornisce un pensiero collegato alla sacralità della vita propria della religione cattolica ( l’eutanasia non va applicata in nessun caso ), ad essi ha cercato di dare nuove risposte la corrente utilitarista.
Essa promuove una teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si stabilisce il valore di un’esistenza. Per cui non solo le vite degli individui in stato di coma irreversibile, ma anche di quelli in stato vegetativo persistente o dei neonati con gravi malformazioni non hanno alcun valore in sé.
Le definizioni di vita e di morte si intrecciano con gli importanti i problemi sollevati dall’esigenza di trovare un comportamento condiviso per i medici che entrano a contatto con individui che non presenta alcuno stato di coscienza e quindi non possono esprimere alcun consenso in merito alle terapie da seguire o alla soluzione drastica di interruzione delle cure.
Ancora una volta entra in gioco la tecnica con i suoi strumenti: la constatazione, attraverso l’elettroencefalogramma ( EEG ), della assenza di attività cerebrale, sembra mettere tutti d’accordo sul fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di molto distante da un individuo vivo.
Non costituisce dunque reato per i medici dare luogo alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, avendo constatato regolarmente la morte cerebrale.
A questa argomentazione gli avversari dell’eutanasia introducono l’argomento del “pendio scivoloso”: consentire l’eutanasia vuol dire imboccare una strada dalla quale sarebbe poi molto difficile deviare.
Affermano che dall’eutanasia di individui incoscienti si potrebbe giungere in seguito all’eutanasia di portatori di malattia neurologiche a carattere degenerativo e alla soppressione di embrioni portatori, ad esempio, del morbo di Huntngton ( che non si manifesta prima dei 40 anni ). Si riconsegnerebbe ai medici uno strapotere assai pericoloso, rispetto a cui solo loro e i loro mezzi tecnici sarebbero in grado di dire la verità sulla vita morente e nascente.
I sostenitori dell’eutanasia obiettano a queste considerazioni con l’idea e la convinzione che un buon apparato giuridico consentirebbe di evitare l’imbocco di strade scivolose.
IL VALORE DELL’ASSISTENZA TECNICA NELLA FIVET
Ben lungi dall’esser l’uomo a rendere comprensibile il mondo, è proprio l’uomo l’essere più incomprensibile. (Schelling)
A cura di Pasquale Antonio Riccio
DAVID: la morte di Socrate
La parola “eutanasia” deriva dal greco antico e significa “buona morte”, “dolce morte” (eu = “buona” e thanatos = “morte”).
L’eutanasia è comunemente intesa come l’azione volta a liberare da dolori intollerabili il morente provocandone la morte.
Se la morte è provocata su più individui l’eutanasia è detta “collettivistica”, se si tratta di un singolo individuo è chiamata “individualistica”.
L’eutanasia “individualistica” è quella più conosciuta dal senso comune in quanto è proprio la conoscenza di casi di tale natura che ha contribuito a sviluppare il moderno dibattito intorno al problema della buona morte.
Questa forma di eutanasia si distingue in:
– eutanasia attiva: la morte di una persona è causata da un comportamento attivo;
– eutanasia passiva: la morte di un individuo è provocata da un comportamento passivo o omissivo, il quale può essere consentito dal paziente oppure essergli sconosciuto e deciso dai medici o dai parenti dello stesso. Per questa ragione si parla di eutanasia passiva consensuale ed eutanasia passiva non consensuale.
Attualmente i criteri per definire un’azione come eutanasia possono riassumersi secondo il seguente schema:
– Si tiene conto dell’obiettivo primario da parte di chi la pratica di estirpare la sofferenza procurando la morte al malato. A questo proposito, si precisa che non deve essere considerata eutanasia una cura palliativa, anche se dovesse come effetto secondario e non voluto avvicinar ela morte del paziente (in casi del genere si parla di eutanasia indiretta).
– È accertata la somministrazione di sostanze tossiche mortali o la non dovuta assistenza medica.
– Il suicidio non è considerato una forma di eutanasia.
– In presenza della richiesta fatta da chi intende morire, gli aiuti o la cooperazione al suicidio sono considerati forme di eutanasia.
L’eutanasia collettivistica, invece, si può riferire all’azione con cui vengono eliminate persone portatrici di handicap per migliorare la qualità della razza (si parla di eutanasia eugenia), oppure agli atti con cui sono soppresse persone anziane o comunque inutili nel processo economico per favorirne altre socialmente più utili (si parla di eutanasia economica).
Nel lessico riguardante l’eutanasia si è da qualche anno fatto strada il termine “living-will” o “testamento biologico”: esso indica il documento che consente ad ogni individuo di scegliere per iscritto come e se vorrà essere trattato quando non potrà essere lui stesso a dare il consenso, nel caso le sue condizioni fossero irreversibili. I “living-will”, infatti, hanno valore giuridico.
“Un po’ di storia”
Si hanno notizie di pratiche simili all’eutanasia sin dall’antica Grecia. Qui, così come a Roma, in determinate situazioni era possibile praticarla. Successivamente, il prosperare delle grandi religioni monoteistiche, le quali tra i cardini delle loro morali avevano e hanno la sacralità della vita umana, fece si che l’eutanasia fosse ritenuta un’azione moralmente inaccettabile. Questa condanna divenne in seguito legale, trovando prima un’enunciazione nelle norme morali e quindi negli ordinamenti giuridici della quasi totalità degli stati.
Il termine “eutanasia” venne introdotto nel linguaggio medico dal filosofo inglese Francesco Bacone, agli inizi del secolo XVII, ma la situazione cominciò a mutare nella prima metà del XX secolo culminando nella fondazione di alcune associazioni che promuovevano la “liberalizzazione” dell’eutanasia individualistica.
Ciò avvenne nel 1935 in Gran Bretagna e nel 1938 negli Stati Uniti d’America.
Gli anni citati sono da tenere a mente poiché rappresentano l’avvio di un consenso cresciuto esponenzialmente e che ha portato in alcuni paesi occidentali ad un clima tale da consentire delle aperture legislative nei confronti dell’eutanasia passiva consensuale e non consensuale.
In Italia i principi religiosi del cristianesimo e i valori morali dominanti, tradizionalmente vicini al credo cattolico, hanno favorito lo sviluppo di una legislazione che ha di fatto equiparato l’eutanasia all’omicidio, tuttavia è opportuno precisare che Papa Pio XII si espresse a favore di quella che oggi è definita “terapia del dolore”, ossia un trattamento volto al controllo dei sintomi e non alla cura della patologia di base che, evidentemente, non è più guaribile. La terapia del dolore si effettua tramite somministrazione di analgesici di natura oppiacea, in pazienti non più guaribili in cui i sintomi della malattia comportino sofferenze-fisiche e psicologiche – insopportabili.
In Olanda, invece, da tempo è possibile optare per l’eutanasia passiva o suicidio assistito ed il dibattito sulla liceità dell’eutanasia attiva si arricchisce giorno dopo giorno di nuovi interventi. Un caso simile questo è quello dell’Australia.
“Le questioni cruciali”
Gli interrogativi riguardanti questa delicatissima pratica sono aumentati di pari passo con l’aumento delle capacità della tecnica, la quale ha consentito la realizzazione di strumenti in grado di sostituire le funzioni vitali di un individuo.
È evidente che nel momento in cui a funzionare sia solo l’apparato organico dell’individuo e non quello cosciente sorge il problema se abbia maggiore importanza la vita biologica ( vita dell’organismo ) o la vita biografica.
A tale proposito, come comportarsi nel caso dei bimbi anencefalici? Cosa dire di coloro che sono affetti da malattie a carattere degenerativo? Ad esempio: il malato di Alzheimer, il quale si allontana pian piano dal una propria autocoscienza può essere forse considerato meno in vita di un individuo sano?
Questi interrogativi mostrano pienamente l’intrigo della questione riguardante l’eutanasia. Tuttavia, rispetto alle ovvie risposte che fornisce un pensiero collegato alla sacralità della vita propria della religione cattolica ( l’eutanasia non va applicata in nessun caso ), ad essi ha cercato di dare nuove risposte la corrente utilitarista.
Essa promuove una teoria improntata sul concetto di qualità della vita, rispetto al quale si stabilisce il valore di un’esistenza. Per cui non solo le vite degli individui in stato di coma irreversibile, ma anche di quelli in stato vegetativo persistente o dei neonati con gravi malformazioni non hanno alcun valore in sé.
Le definizioni di vita e di morte si intrecciano con gli importanti i problemi sollevati dall’esigenza di trovare un comportamento condiviso per i medici che entrano a contatto con individui che non presenta alcuno stato di coscienza e quindi non possono esprimere alcun consenso in merito alle terapie da seguire o alla soluzione drastica di interruzione delle cure.
Ancora una volta entra in gioco la tecnica con i suoi strumenti: la constatazione, attraverso l’elettroencefalogramma ( EEG ), della assenza di attività cerebrale, sembra mettere tutti d’accordo sul fatto che ci si trova di fronte a qualcosa di molto distante da un individuo vivo.
Non costituisce dunque reato per i medici dare luogo alla sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione artificiale, avendo constatato regolarmente la morte cerebrale.
A questa argomentazione gli avversari dell’eutanasia introducono l’argomento del “pendio scivoloso”: consentire l’eutanasia vuol dire imboccare una strada dalla quale sarebbe poi molto difficile deviare.
Affermano che dall’eutanasia di individui incoscienti si potrebbe giungere in seguito all’eutanasia di portatori di malattia neurologiche a carattere degenerativo e alla soppressione di embrioni portatori, ad esempio, del morbo di Huntngton ( che non si manifesta prima dei 40 anni ). Si riconsegnerebbe ai medici uno strapotere assai pericoloso, rispetto a cui solo loro e i loro mezzi tecnici sarebbero in grado di dire la verità sulla vita morente e nascente.
I sostenitori dell’eutanasia obiettano a queste considerazioni con l’idea e la convinzione che un buon apparato giuridico consentirebbe di evitare l’imbocco di strade scivolose.