INTERVISTE AI FILOSOFI
“L’umanità geme, semischiacciata dal peso del progresso compiuto. Non sa abbastanza che il suo avvenire dipende da lei. A lei di vedere prima di tutto se vuole continuare a vivere; a lei di domandarsi poi se vuole soltanto vivere, o fornire anche lo sforzo perchè si compia, anche sul nostro pianeta refrattario, la funzione essenziale dell’universo, che è una macchina destinata a creare delle divinità” (H. Bergson, Le due fonti della morale e della religione)
In questa sezione, trovate alcune interviste rilasciate da filosofi. Le interviste hanno il pregio di far emergere aspetti del pensiero di un autore spesso meno noti. Buona lettura! |
IL PROBLEMA DELLA PACE PERPETUA NEL MONDO
Il problema della pace perpetua nel mondo
Intervista a Sir Karl Popper, di David Miller
L’Unità, 24 marzo 1997
La filosofia politica
Professor Popper quale è il significato per l’uomo della dottrina dell’indeterminismo in fisica? In altri termini: il nostro futuro e quello della società sono davvero aperti nello stesso identico modo in cui lo è il mondo fisico per questa teoria ?
In realtà, quando parlo di “futuro aperto”, ho in mente soprattutto l’uomo e la società e questa mia tesi intendo rivolgerla soprattutto contro una certa concezione che io chiamo storicismo.
Secondo tale concezione il futuro non sarebbe aperto e noi potremmo effettivamente prevederne il corso. Lo storicismo asserisce infatti che esistono leggi dello sviluppo storico, che se conosciute permettono di prevedere, a grandi linee ciò che accadrà.
Gli storicisti più importanti della nostra epoca sono i marxisti. La teoria marxista sostiene che vi sarà necessariamente uno sviluppo verso una società senza classi, che si dimostrerà meravigliosa. Questo sviluppo comporta però un passaggio attraverso la dittatura del proletariato, preceduta a sua volta dalla rivoluzione sociale in tutto il mondo. In tal modo, con lo Stato socialista, ovunque avremmo il paradiso di una società senza classi.
Nel suo famoso libro, Il capitale, Marx, dopo aver analizzato le tendenze evolutive generali della società umana, prese in esame soprattutto quelle inerenti alla società capitalista e su questa base sviluppò le sue predizioni. Il fondamento teorico della sua concezione va rintracciato nel determinismo. Ciò significa che l’idea basilare di Marx è che noi non siamo liberi. A dire il vero, per Marx neppure i capitalisti sono liberi, bensì presi, al pari di qualsiasi altro individuo, dentro il meccanismo della società e del suo sviluppo storico.
Mentre Lei, Professor Popper, è di parere ben diverso.
Infatti, contro siffatta concezione io affermo che il futuro è aperto nel senso che in ogni momento vi sono infinite possibilità di sviluppo per l’immediato futuro. Alcune di queste possibilità sono molto remote e si può dire che giochino un ruolo davvero irrilevante; ma altre sono molto reali – e non sono poche! Gli eventi futuri dipenderanno in parte da fatti accidentali, in parte da quel che di fatto già esiste.
Però secondo gli storicisti i fatti accidentali, anche quando si verificano, non influenzano comunque la direzione fondamentale della storia.
Vero. Ma contro questo determinismo si potrebbe obiettare che gli eventi accidentali sono talvolta complessi e importanti, anche se, naturalmente, il loro peso è maggiore nelle società più piccole.
Cosa intendo infatti per “eventi accidentali”? Ad esempio, quel che capitò nella guerra del Peloponneso tra Atene e Sparta, un episodio storico le cui conseguenze avvertiamo ancora oggi, poiché l’esito di quella guerra cambiò il destino della democrazia in Grecia. Ebbene, l’andamento della guerra del Peloponneso risentì certamente dell’accidentale scoppio della peste in Atene. Durante l’assedio la peste uccise Pericle, il faro politico ateniese, sicché, da quel momento, la città rimase senza una guida davvero forte. A questo proposito, vorrei ricordare un libro molto interessante: Ratti, pidocchi e storia, che, attraverso la storia del tifo, illustra quale forza tremenda le malattie abbiano sempre avuto sul corso degli avvenimenti.
Qual è il punto di maggiore debolezza del modo di intendere la struttura sociale proposto dagli storicisti?
Lo storicismo assume come date una gran varietà di cose, che sono in realtà sicuramente importanti, però andrebbero analizzate. La questione di fondo sta, a mio avviso, nell’essere consapevoli dell’esistenza di molteplici possibilità aperte. Tra queste figura anche la nostra capacità di influire su quel che avviene, attraverso le nostre speranze, le nostre valutazioni e le nostre scelte. Tutte queste cose non sono perfettamente prevedibili. Si tratta dunque di distinguere tra quel che una teoria storico-sociale può effettivamente prevedere e le concezioni religiose della prevedibilità assoluta sostenute da molti storicisti.
Ma c’è anche dell’altro. Quando si predicono certe cose, si finisce con l’alterare la situazione di partenza, perché qualcosa lo si esclude sempre, dando maggior peso a qualcos’altro. Capita pertanto che, mentre talvolta le nostre previsioni possono diversamente facilitare il prodursi dell’effetto previsto, in alte occasioni potranno spingere invece i nostri avversari a sforzarsi d’impedire in tutti i mondi che ciò accada. In ogni predizione sono implicite entrambe le possibilità (così, non è affatto escluso che una previsione non conduca all’effetto opposto rispetto a quello previsto).
Si può dire anche che le dottrine della pianificazione scaturiscano dalle concezioni storicistiche ?
Sì, è verissimo e di grande interesse. In effetti lo storicismo conduce a quella che si potrebbe chiamare pianificazione su larga scala: visto che conosciamo il futuro, pianifichiamolo.
In un mio vecchio libro, Miseria dello storicismo – così intitolato per allusione a un famoso libro di Marx, Miseria della filosofia – avanzai la critica a questa pretesa dello storicismo marxista. Inoltre, nei due volumi de La società aperta e i suoi nemici, ho cercato di spiegare come la politica sia in un certo senso simile all’ingegneria sociale, poiché essa cerca di raggiungere certi fini mettendo in opera determinati mezzi. Ciò nonostante, la politica non potrà mai essere quel tipo di pianificazione del futuro su scala globale che gli storicisti hanno in mente; essa dovrà contentarsi piuttosto di essere una forma di ingegneria che ho chiamato “a spizzico”: proprio a sottolineare la relativa modestia di ciò che possiamo fare nell’ingegneria sociale.
Ciò che conta in questa idea è che, soltanto se facciamo certe cose, cercando di soddisfare un certo bisogno sociale per mezzo di una determinata misura politica, solo allora si potrà constatare se, per caso, le nostre misure non portino a un risultato di fatto opposto a quel che intendevamo conseguire. Ecco perché andrebbero fatti unicamente dei tentativi modesti. Ma sia chiaro: tentativo modesto non significa necessariamente piccolo; vuol dire però che non dobbiamo mai farci catturare da una ideologia totalizzante, ingurgitandola, mettendoci al suo servizio e costringendo la gente ad accettarla a sua volta, e così via, fino a diventare completamente incapaci di liberarcene.
Se, invece, vogliamo fare riforme anche importanti, come quella del parlamento, o dei tribunali, o delle istituzioni finanziarie, sarà opportuno ricorrere all’ingegneria a spizzico, il che significa non farle tutte insieme, perché altrimenti non potremmo vedere ciò che effettivamente producono, e si confonderebbero le cause con gli effetti.
L’espressione “utilitarismo negativo” che compare in Miseria dello storicismo, vuol dire che dovremmo soprattutto individuare e correggere le cose sbagliate ?
La cosa più facile è sempre identificare i mali, visto che nessuno sa effettivamente quale sia il bene. Quindi, anziché cercare d’instaurare il bene perfetto, a rischio di rendere l’umanità del tutto infelice, faremmo meglio a combattere i mali che abbiamo sotto gli occhi.
Del resto, l’utilitarismo, come si sa, consiste nell’idea di conseguire la massima felicità per il maggior numero di persone possibile. Ebbene: io ritengo che, a tal fine, si debbano in primo luogo eliminare le disgrazie più grandi, poi quelle un po’ meno grandi, e così via. Questo è esattamente il contrario dell’utopismo, ossia dell’aspirazione a costruire il paradiso in Terra.
In realtà, molto è già stato fatto in questa direzione utilitaristica e antiutopica, solo che la gente non se ne rende conto, perché tende a prendere qualsiasi miglioramento sociale per garantito – il che poi finisce per ostacolare il miglioramento sociale stesso. Io penso che a suscitare una autentica rivoluzione sociale siano stati l’aspirapolvere e, soprattutto, la lavatrice. Questa rivoluzione ha toccato davvero tutti: uomini e soprattutto donne, fornendo una libertà che prima godevano solo pochi.
Alcuni però considerano questi beni di consumo piuttosto espressione di valori borghesi, sostanzialmente superflui.
Cose veramente superflue potranno anche essercene, non lo nego; ma sono questi i beni personali che si associano all’idea della libertà. Qualcuno potrebbe far osservare, invece, che i valori borghesi, sebbene comportino maggiore libertà personale, certamente non portano sempre alla felicità. Essi dunque non dovrebbero essere accettati in modo acritico. Per tutta risposta vorrei ricordare che l'”apertura” del futuro va intesa, nel suo senso più ampio, anche come libertà di scegliersi quei valori ritenuti importanti per sé e la propria vita.
Per questa via giungiamo alla questione dell’origine dei valori. La valutazione è caratteristica della vita, sin dalle sue prime origini. Tutti gli organismi viventi risolvono problemi, ricercando qualcosa di meglio della loro situazione del momento. Ma l’idea di miglioramento, in realtà, richiama implicitamente quella di valore, di valutazione. Così, sin dagli inizi, questi valori si sono evoluti insieme con la vita. E uno dei più grandi, che tutti gli esseri viventi hanno caro, è la libertà: la libertà di azione, la libertà di migliorare la propria situazione.
Il futuro è aperto non solo perché non possiamo predire quel che accadrà, bensì anche perché gli avvenimenti saranno influenzati da noi e dai nostri valori. I valori sono nostre invenzioni – e spesso grandi invenzioni! Ma non sono invenzioni arbitrarie.
Tuttavia, com’è ovvio, anche della libertà si può abusare.
Infatti, il problema fondamentale della vita sociale mi sembra proprio quello di far sì che – come per primo capì Kant – ognuno abbia tanta libertà quanta è compatibile con la libertà degli altri.
In altri termini, la libertà dovrebbe essere più o meno uguale per tutti. Per questo la convivenza pacifica implica una certa restrizione della libertà di ciascuno, perché tutti possano del massimo grado di libertà concepibile nella convivenza sociale. Ovviamente, per riuscire davvero a conseguirlo, oltre alla pace interna, che comunque viene sempre al primo posto, anche la pace esterna avrà un’immensa importanza. Infatti, solo se avremo conquistato la pace tra le nazioni, potremo liberarci del problema militare, dalla mancanza di libertà determinata dalla crescita degli armamenti. La paura scatena il senso di insicurezza, che a sua volta conduce a crescenti limitazioni delle libertà. Kant era ben consapevole che, se la sua idea di libertà fosse stata abbracciata e avesse vinto, ciò avrebbe significato la pace sulla terra. Ecco perché, tra altre cose, scrisse un libro sulla pace perpetua.
Il futuro è aperto
DOMANDA N. 1
Il titolo della nostra odierna conversazione reca: il futuro è aperto. Che cosa intende con questa affascinante espressione e quali sono, se così si può dire, i suoi obiettivi polemici?
L’idea è molto semplice. In ogni momento ci sono cose possibili e cose invece impossibili. L’ambito delle possibilità è stupendamente grande. Per esempio, Gorbaciov può rimanere al potere, come presidente della Russia, diciamo per i prossimi sei anni, ma questo può anche non accadere. Ed esistono molte possibilità del genere e queste possibilità sono del futuro. Le possibilità sono possibilità aperte e il futuro è, pertanto, aperto. Il tuo futuro è aperto, il mio futuro è aperto. Certo, il mio futuro è meno aperto del tuo, poiché io ho 87 anni; tuttavia io faccio ancora le mie scelte e ho ancora, penso, la giusta sensazione che quanto mi capiterà domani dipende in parte da me stesso. Il futuro è aperto e può in parte venir modellato da noi stessi. È infatti una delle mie più radicate convinzioni quella per cui il nostro mondo attuale è davvero molto migliore di qualsiasi altra epoca della storia passata e che tutto questo sia dovuto in misura davvero considerevole ai nostri sforzi. A questa ipotesi si contrappone la concezione deterministica. Essa può venir formulata nella maniera più semplice dicendo: Dio è onnisciente, conosce ogni cosa, e dunque ogni cosa è già stabilita e determinata. Dal momento che Egli sa cosa accadrà domani, è già stabilito che questo o quello, e nient’altro, avrà luogo. Io invece difendo con forza l’idea secondo cui la concezione deterministica è falsa, difendo l’idea che il mondo è aperto, che il futuro è aperto. È ben vero che la concezione deterministica è una concezione molto antica, già discussa al tempo dei Greci, e incentrata sul contrasto fra la potenza degli dei e l’impotenza o la debolezza dell’uomo. Questa deprimente visione venne accantonata con grande sforzo – naturalmente non da tutti – con Lucrezio, che nel suo famoso poema De rerum natura cercò di liberare le menti degli uomini dalla paura degli dei. Ma la dottrina dell’onniscienza divina produsse anche una paura diversa, ovvero la convinzione che il nostro destino sia determinato. Siffatta idea è particolarmente forte nell’islamismo, mentre nella fede cristiana coesistono una visione deterministica – impersonata da Calvino – e una visione incentrata invece sulla libertà dell’uomo – quella di Erasmo. Con l’avvento della scienza moderna si impose poi la teoria fisica newtoniana, in base alla quale si potevano predire con un altissimo grado di precisione i movimenti futuri delle stelle. Questo grande risultato di Newton condusse all’adozione di una concezione scientifica del determinismo. Da un punto di vista filosofico, Kant comprese immediatamente che la teoria newtoniana è una teoria deterministica; allo stesso tempo si rese conto che essa era fatale per noi. Kant capiva che in un mondo deterministico non esiste spazio alcuno per l’azione umana libera e responsabile. E questo contrasto tra l’idea della morale e la concezione di un universo newtoniano deterministico, che Kant fece propria, portò effettivamente ai grandi problemi – in un certo senso insolubili – della sua filosofia, che vede contrapporsi il mondo dei fatti e il mondo morale delle azioni e della responsabilità individuale.
DOMANDA N. 2
Quarant’anni dopo Kant, Laplace sviluppò la sua teoria rigorosamente deterministica, che postula un’intelligenza simile a quella umana, ma molto più possente, la quale, con l’aiuto della teoria newtoniana, disponendo di tutte le informazioni necessarie, potrebbe predire in anticipo, date le condizioni iniziali, tutte le posizioni e i movimenti delle particelle dell’intero universo. Quali ragioni si possono opporre a questa dottrina?
La dottrina del determinismo scientifico, quale venne sviluppata a partire da Laplace, è, a mio avviso infondata, e ho cercato di dimostrarlo. Ho lavorato intorno a questo problema per molti, molti anni. Me ne occupai per la prima volta nel 1950, con una conferenza all’Università di Princeton dal titolo L’indeterminismo nella fisica dei quanti e nella fisica classica, una conferenza alla quale intervennero – lo ricordo con orgoglio – Albert Einstein e Niels Bohr. In generale si usava contrapporre la fisica classica – determinista – alla teoria fisica quantistica, considerata, come fu sottolineato per la prima volta da Heisenberg, indeterministica. L’intento della mia conferenza era dimostrare che neppure la teoria fisica classica è veramente deterministica. Il cosiddetto determinismo scientifico della teoria classica dovrebbe piuttosto venir chiamato una teoria prima facie deterministica. Essa appare deterministica ad una prima ispezione, ma se l’esame viene condotto più a fondo, allora essa si rivela non scientificamente deterministica: ossia, essa non è tale da permettere di predire per principio il futuro. Da questo punto di vista il grande conflitto fra deteminismo del mondo fisico ed esigenze della morale, quale si era delineato nel sistema kantiano, viene a cadere. Per confutare il determinismo della teoria fisica classica ho proposto due tipi di argomenti. Il primo era questo: solo se assumiamo che l’intelligenza super-umana di Laplace sia fuori del mondo, nel senso che non necessiti di alcuna informazione su di esso, solo allora possiamo dire che il mondo sarebbe prevedibile in linea di principio. Se però noi sostituiamo questa super-intelligenza con un computer o un predittore ci accorgiamo che il mondo non è prevedibile in linea di principio. E ciò vale non solo per un mondo aperto, ma anche per un sistema chiuso. Se il mondo non è un sistema chiuso, esso, ovviamente, non è prevedibile, per la semplice ragione che nuovi elementi entrano di continuo in esso, così come ne escono. Ma anche nell’ipotesi di un mondo completamente chiuso dobbiamo escludere che esso sia prevedibile, assumendo che noi in qualche modo dobbiamo interagire con esso per guadagnare le informazioni necessarie e fare le nostre previsioni. Lo si può dimostrare con esperimenti molto semplici. Consideriamo questa stanza. Ora, io cerco di rappresentarla disegnandone una mappa, riportando tutti i corpi in essa presenti sulla mappa. In tal modo costruisco, diciamo così, un modello del mondo, o una mappa del mondo: il mondo è questa stanza. Chiuse le porte, chiuse le finestre, niente può entrare o uscire. Il mondo è chiuso e io cerco ora non di predirlo – cosa che è troppo difficile -, ma unicamente di fissarlo disegnandone una mappa, facendone un modello. Ora, però, nel momento in cui includiamo la mia mappa, che è qui in questa stanza, tra i corpi presenti nella stanza e che devono venir rappresentati nella mappa, ci accorgiamo allora che il mio compito – consistente nel descrivere il mondo – è infinito e che non può mai venir completato. Io non potrò mai conoscere o annotare tutte le cose sul mondo, perché io debbo includere nella mappa di questo mondo anche me stesso e il modo in cui io disegno questo mondo, e devo mettere nella mia rappresentazione un disegno della mappa e quel che è nella mappa. E allorché ho disegnato tutto questo, guardo di nuovo alla mappa e mi rendo conto che essa è incompleta, perché non contiene l’intero quadro: i miei ultimi colpi di pennello non sono contenuti nella mappa, e così io debbo andare avanti, e avanti ancora, e ancora … e mai giungerò alla fine. Questa fu la prima linea argomentativa della mia conferenza. Il secondo tipo di argomenti riguardava più strettamente la teoria newtoniana. Sappiamo che essa offre predizioni esatte per problemi come questi: data la posizione del sole e dati la posizione e la velocità di un pianeta relativamente al sole, in un preciso momento, allora noi possiamo predire il suo movimento futuro attorno al sole con una precisione a piacere per ogni istante di tempo nel futuro. Questo è il cosiddetto problema dei due corpi, che può venir calcolato in maniera soddisfacente all’interno della teoria newtoniana. Daltra parte occorre notare che non cè nessunissima ragione per credere che otterremmo soluzioni analoghe per un problema di tre o più corpi, o che si possa arrivare a una soluzione generale.
DOMANDA N. 3
In che termini questa interpretazione, che nega il carattere deterministico della stessa teoria newtoniana, influisce sulla concezione del libero arbitrio e sul problema della libertà morale? Può proporsi, da questo punto di vista, un’opzione nell’antitesi fra determinismo e indeterminismo in sede metafisica?
Per rispondere a questa domanda mi riferisco ancora una volta ad avvenimenti della mia vita. Doveva essere il 1946: il filosofo Alfred Ayer, che divenne in seguito Sir Alfred Ayer, costituì una specie di club filosofico che si riuniva nel suo appartamento in Whitehorse Street, vicino a Piccadilly, a cui partecipavano famosi filosofi, fra i quali Bertrand Russell. Fra le altre cose, si discusse anche il tema del libero arbitrio. Fu posto in particolare il problema della creatività artistica. Dal mio punto di vista, mi chiesi in che modo il determinismo affronterebbe la spiegazione del genio musicale di Mozart. Sarebbe sufficiente che un fisico e un matematico, completamente al di fuori del mondo della musica, avessero sufficienti informazioni sul cervello di Mozart, oltre che su quanto Mozart ha mangiato oggi, per predire che le sue dita metteranno questi e questi altri segni neri su carta bianca e per arrivare essi stessi a scrivere, per quanto completamente ignoranti di musica, la Jupiter-Sinfonie di Mozart. In altre parole, lo sforzo creativo di Mozart non esiste affatto, secondo una visione deterministica. Contano solo le condizioni fisiche degli atomi del cervello di Mozart. Questo problema, sollevato nel club del professor Ayer, trovò una risposta tipicamente filosofica, ovvero: di fronte a una mia scelta, per valutare se essa sia libera o dettata da necessità, occorre che io mi rimetta esattamente nella situazione in cui ho preso la mia decisione, per vedere se agirei esattamente nella stessa maniera in cui agii allora. Questa è la risposta che essi diedero al problema del determinismo. Io sono determinato, dal momento che non avrei altra scelta: se tornassi indietro, esattamente nella stessa situazione, sceglierei esattamente così come ho scelto allora. Questo modo di affrontare il problema non mi piacque. Già parlare di esattezza, e per di più in un ambito come quello psicologico, significa parlare a vanvera. Neppure nel più evoluto dei laboratori è possibile riprodurre esattamente la stessa situazione. Stando così le cose, io non dissi nulla sul caso discusso. Obiettai soltanto: Il vero problema è questo: si tratta di capire se l’attività creativa di Mozart sia predicibile in linea di principio, a patto che si conosca in maniera sufficiente lo stato del mondo, ivi incluso lo stato del cervello di Mozart. Gli altri partecipanti alla discussione mi guardarono, lasciando intendere che non avevo compreso di cosa si stesse parlando. Russell, invece, non profferì parola, fino a quando, dopo una mezzora, venne fuori improvvisamente dicendo: penso che Popper abbia ragione. Quello che pone Popper è il problema del determinismo. Ciò di cui si discute non è se io avrei potuto agire diversamente da come ho agito, dovremmo piuttosto comprendere se è possibile predire l’opera darte. (Sia detto per inciso, sono dell’avviso che Russell fosse l’unico dei filosofi presenti che avesse realmente fatto del lavoro creativo in matematica). Sin dai suoi inizi la vita ha dimostrato di essere creativa. Tutti gli organismi viventi hanno fra loro una singolare somiglianza, hanno tutti lo stesso metodo di riproduzione tramite il DNA, e ciò forse in ragione del fatto che essi procedono dallo stesso organismo originario. Che ci sia stato necessariamente solo un organismo, oppure no, questo è un problema differente. In ogni caso, in un brevissimo periodo di tempo, vediamo nascere infinite forme viventi, molto diverse l’una dall’altra, ma tutte con la stessa struttura del DNA. È così che la vita stessa ha in qualche modo inventato la creatività. E la creatività di Mozart è esattamente una di queste meravigliose cose in cui la vita si è prodotta, qualcosa che non poteva affatto venir previsto prima che la vita iniziasse. Quanto alla seconda parte della domanda, devo precisare che l’attributo metafisico indica, all’interno del mio pensiero, qualcosa di non controllabile in linea di principio. Pertanto, da questo punto di vista, né il determinismo metafisico, né la sua negazione, l’indeterminismo metafisico, sono controllabili, poiché la controllabilità di uno dei due sarebbe sufficiente per renderli controllabili entrambi. Se, poniamo, l’indeterminismo metafisico fosse controllabile e noi potessimo falsificarlo, avremmo con ciò stesso stabilito il determinismo metafisico. In questo senso sarebbe bene cercare di eliminare la questione e ammettere di non conoscere la soluzione metafisica del problema. Personalmente, è ovvio che io credo nell’indeterminismo metafisico. Infatti, non solo io lo ritengo un risultato scientifico, ma inoltre avverto l’indeterminismo come qualcosa di soddisfacente e sono dunque incline a credere in esso. Così, io posso essere un sostenitore dei diritti di verità dell’indeterminismo in sede metafisica. Ma non posso asserire che il determinismo metafisico sia falso, giacché anch’esso, al pari dell’indeterminismo metafisico, è incontrollabile. Io sento che l’indeterminismo, specialmente riferito a noi stessi e al mondo vivente, nella ricchezza delle sue possibilità, sia capace di liberarci da una sorta di angoscia, quel tipo di angoscia che inquietava Kant, in considerazione della sua credenza nella libertà e nella responsabilità e dall’altra parte della sua convinzione che l’universo newtoniano fosse deterministico – una convinzione che secondo me si può dimostrare errata -. Da questo punto di vista Kant potrebbe respirare liberamente, potrebbe restare newtoniano ed essere anche un indeterminista.
DOMANDA N. 4
Professor Popper, abbiamo visto come l’apertura del futuro venga da Lei interpretata nel senso di una dottrina dell’indeterminismo in fisica. Abbiamo anche brevemente accennato alle applicazioni di questo argomento nellambito della biologia e della teoria dell’evoluzione. Ora, qual è l’importanza di questa dottrina nella concezione dell’uomo e della società?
Quando dico che “il futuro è aperto” in realtà ho in mente soprattutto il futuro dell’uomo e il futuro della società. E questa tesi, secondo cui il futuro è aperto, è particolarmente diretta contro quella visione che io chiamo storicismo. Lo storicismo è la concezione secondo la quale il futuro non è aperto e nella quale si sostiene che noi possiamo effettivamente prevedere il futuro. Lo storicismo asserisce che esistono leggi dello sviluppo storico e che se solo conoscessimo queste leggi noi potremmo, almeno a grandi linee, prevedere ciò che accadrà. Nella nostra epoca gli storicisti più importanti sono i marxisti. La loro teoria afferma che è possibile predire quel che accadrà nella storia, che ci sarà uno sviluppo verso una società senza classi, la quale sarebbe meravigliosa. Naturalmente, questo sviluppo, secondo il marxismo, è la via verso la dittatura, la dittatura del proletariato, che non è affatto una buona cosa. Questa predizione storica si fonda sull’analisi compiuta da Marx della tendenza inerente sin dagli inizi alla società e specialmente della tendenza insita nella società del suo tempo, che egli chiamò “capitalismo”. Nel Capitale Marx, dopo aver analizzato le tendenze generali dell’evoluzione della società umana, studiò soprattutto le tendenze evolutive inerenti alla società capitalista e l’esame di tali tendenze lo portò alle sue predizioni. E il fondamento di questa sua concezione è da trovare appunto nel determinismo. L’idea di fondo sta nel sostenere che noi non siamo liberi. Secondo Marx, neppure i capitalisti sono liberi; costoro sono catturati, al pari di qualsiasi altro individuo, all’interno del meccanismo della società e del suo sviluppo storico. Essi sono costretti ad agire come agiscono. E, pertanto, sebbene debbano venir combattuti e distrutti, i capitalisti in realtà non possono esser biasimati, perché trascinati essi stessi dalle forze storiche e sociali. Ora, contro una siffatta concezione, io dico che il futuro è aperto nel senso che in ogni momento esistono infinite possibilità di quanto accadrà nell’immediato futuro. Alcune di queste possibilità sono molto remote e si può dire che giochino un ruolo davvero irrilevante. Ma altre possibilità sono davvero reali e ne esistono moltissime. Ciò che accadrà dipende in parte da fatti accidentali, in parte da ciò che effettivamente ed attualmente esiste. Noi dobbiamo essere consapevoli del fatto che esistono possibilità aperte. E tra tutte queste possibilità ci sono le possibilità per noi di influire su quel che avviene. Le nostre speranze, le nostre valutazioni influiscono su quel che avverrà in futuro. Prendiamo quanto accade in questi giorni con l’esodo della gente dalla Germania Orientale. Oggi è il 28 novembre 1989 e il grande esodo dei giovani si è più o meno concluso. Non si può negare che, in esso, la speranza e i valori delle persone che lasciano la Germania Orientale abbiano giocato un ruolo immenso. Le loro speranze e i loro desideri sono stati la forza sociale principale di quanto è accaduto. Qualcuno potrebbe obiettare che, con una migliore conoscenza della situazione, il governo della Germania Est avrebbe potuto prevedere quel che sarebbe successo. Forse è vero. Non dico che talvolta non si possano fare previsioni, ma nessuno avrebbe potuto prevedere un fatto del genere con certezza. Qui sta la grande differenza. Le possibilità sono prevedibili, ma le certezze non esistono. Inoltre bisogna tener presente che la stessa predizione altera la situazione, modificando le possibilità in gioco. Le tue predizioni possono produrre ciò che hai predetto; ma esse possono anche far sì che quanti sono contrari a quello che tu predici compiano un più grande sforzo per impedire che questo accada. In tal modo è possibile che la tua predizione di fatto porti all’evento opposto rispetto a quello che tu avevi predetto. In una predizione sono implicite ambedue le possibilità. È per esempio del tutto evidente che la predizione marxiana della rivoluzione influenzò Lenin e dette un grande contributo alla rivoluzione in Russia. Ma, naturalmente, è vero pure l’opposto, e cioè che la predizione marxiana rese più serio lo sforzo di Bismarck per cogliere di sorpresa i marxisti tedeschi. Si può dunque vedere che le predizioni giocano un ruolo, e che possono giocare il loro ruolo in un modo o in un altro. E se le predizioni possono giocare un ruolo, allora anche le nostre speranze e i nostri sforzi giocano un ruolo.
DOMANDA N. 5
Lo storicismo è dunque caratterizzato dalla convinzione di poter individuare le leggi di sviluppo della storia. Come viene concepito, da questo punto di vista, l’intervento dell’uomo in tale corso storico e quale atteggiamento assume invece colui che muove piuttosto dall’idea che il futuro è aperto?
Il marxismo non si limita ad affermare che noi possiamo predire la storia; il marxismo sostiene che noi possiamo abbreviare e rendere meno dolorose le doglie del parto della storia; che noi possiamo sistemare le cose in modo tale che quel che deve accadere accada più facilmente. In questo senso lo storicismo portò all’idea di pianificazione. Pensiamo, per fare un esempio, ai piani quinquennali in Russia. Nel mio libro Miseria dello storicismo – il cui titolo allude a quello di un libro di Marx, Miseria della filosofia – ho sviluppato appunto questa critica. In un altro testo, La società aperta e suoi nemici, ho cercato invece di spiegare che la politica potrebbe essere qualcosa di simile all’ingegneria sociale, nel senso che essa cerca di raggiungere certi fini grazie a determinati mezzi. La politica, però, non può essere quel tipo di pianificazione per il futuro su scala totale, che gli storicisti hanno in mente, ma deve essere quel che io descrivo come “ingegneria a spizzico”. Proposi questo termine come una sfida, una provocazione per sottolineare una certa modestia in quello che possiamo fare nell’ingegneria sociale. Tale termine è stato criticato moltissimo e moltissimo discusso. Le parole, però, non contano. Importante, in questa idea, era che solo se cerchiamo di soddisfare un certo bisogno sociale per mezzo di una determinata misura politica, possiamo constatare se le nostre misure abbiano portato o meno al risultato che si voleva ottenere. Molto spesso infatti le nostre azioni producono il risultato opposto rispetto a quello che intendevamo raggiungere. Unicamente tentativi modesti possono venire sufficientemente controllati e ispezionati nelle loro conseguenze al fine di essere ragionevolmente sicuri del fatto che esse corrispondano almeno approssimativamente ai nostri intenti. Non sono contrario alla passione che i riformatori hanno per le riforme, sono piuttosto contrario al sogno di onnipotenza dei riformatori: al sogno stando al quale noi possiamo davvero cambiare la società così che tutto sia meraviglioso. È questo tipo di passione che io considero molto pericolosa e seriamente irrealistica. Quei riformatori che hanno cercato di realizzare il paradiso in terra in realtà hanno sempre costruito qualcosa di simile all’inferno. Ed è appunto da un inferno che i giovani tedeschi della Germania-Est cercano di scappare.
DOMANDA N. 6
L’idea che il futuro sia anche il risultato dei nostri tentativi di realizzare le speranze e le aspirazioni che guidano il nostro agire non riporta forse in primo piano il problema dei valori?
Quando affermo che il futuro è aperto, con “apertura” intendo, in senso ampio, che noi possiamo scegliere quei valori che sentiamo come valori importanti per noi e per la nostra vita. La valutazione è caratteristica della vita, sin dalle sue prime origini. I primi organismi hanno problemi di sopravvivenza. Affrontare i problemi significa andare alla ricerca di soluzioni, ovvero ricercare qualcosa che migliori la situazione in cui ci troviamo. Se un organismo unicellulare fugge da un luogo molto caldo e si dirige verso un posto più fresco esso sta cercando di migliorare la sua situazione vitale. L’idea di miglioramento contiene, in realtà, l’idea di valore. Se parliamo di miglioramento, noi allora parliamo di qualcosa di meglio e qualcosa di peggio, e queste sono valutazioni. È così che la vita, fin dai suoi primissimi inizi, ha creato i valori in questo mondo, mondo che prima della vita non aveva valori. Problemi e valori appaiono nel nostro universo soltanto attraverso la vita, e assumono una importanza immensa per tutti gli esseri viventi. Noi tutti siamo solutori di problemi; e sempre, ad ogni istante, ci troviamo in situazioni problematiche da risolvere. E risolvere i problemi significa compiere delle valutazioni. Tali valori si sono evoluti insieme con la vita. E uno dei più grandi valori, caro a tutti gli esseri viventi, è la libertà: la libertà di azione, la libertà di migliorare la propria situazione, di risolvere i propri problemi. Poi, una volta che l’umanità ebbe sviluppato il linguaggio, l’altro valore importante divenne la verità. I valori, dunque, hanno una immensa rilevanza. Quando parlo del futuro aperto, io con ciò non solo intendo semplicemente affermare che non è possibile predire quel che accadrà; intendo dire piuttosto che quello che accadrà sarà influenzato da noi e dai nostri valori.
L’IDEA DI GIUSTIZIA
L’idea di giustizia
intervista a Paul Ricoeur, di Antonio Gargano
L’Unità, 17 marzo 1997
Professor Ricoeur, l’esistenza di leggi ingiuste non prova che la Giustizia non si esaurisce nel diritto?
Si tratta di un paradosso che è parte della nostra stessa realtà umana. Da un lato abbiamo infatti l’idea di giustizia, dall’altro le leggi scritte proprie dei diversi paesi e delle rispettive legislazioni nazionali. Abbiamo dunque due concetti di giustizia: l’ideale di giustizia di cui parla la filosofia del diritto, e poi la giustizia legata al diritto positivo e formulata nelle leggi. In effetti ci possono essere atti dichiarati come giusti e leciti perché conformi a determinate leggi, ma queste leggi possono a loro volta risultare ingiuste se vengono considerate in rapporto ad un progetto che oltrepassa le costituzioni e le stesse nazioni, collocandosi su di un piano per essenza cosmopolitico.
Allora la giustizia è soltanto un concetto morale che non prevede se non per accidens una coincidenza con il diritto?
No. Resta comunque il fatto che il concetto di giustizia, quand’anche ci serva a condannare delle leggi ingiuste, non appartiene alla morale, perché con esso non si pone il problema della purezza delle intenzioni, ma piuttosto ci si propone di correggere i comportamenti. Da questo punto di vista Kant e Hegel hanno ragione: il diritto è distinto dalla morale, perché si presenta come la sfera dell’esteriorità, in cui gli uomini appaiono esterni gli uni agli altri ed il tribunale reale risulta anch’esso esterno rispetto al tribunale della coscienza.
Come si può venire a capo di questa aporia allora ?
Il paradosso può essere risolto – anche se solo parzialmente – mediante la nozione di “principi generali del diritto”, di cui si servono i giuristi. “I principi generali del diritto” sono l’elemento di connessione tra la giustizia come mero ideale e la giustizia legata al diritto positivo ed alle leggi scritte, che possono essere talvolta anche leggi criminali: per esempio gli ebrei sono stati sterminati in base a leggi firmate da un capo dello stato legalmente eletto. “I principi generali del diritto” sono appunto l’espressione della sensibilità morale dell’umanità in un dato momento storico, giacché presentano una certa visione dei rapporti di coesistenza tra gli uomini, tali da rendere sopportabile la vita in comune.
In questo senso la giustizia è un concetto che non appartiene né alla morale né al diritto positivo, ma ai “principi generali del diritto”, che si trovano nelle dichiarazioni universali dei diritti come per esempio nella Dichiarazione d’indipendenza della Rivoluzione americana, nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino della Rivoluzione francese e nel preambolo di molte costituzioni, che spesso contengono principi più giusti rispetto al contenuto determinato delle leggi che seguono.
E come si deve porre, per Lei, la giustizia di fronte al relativismo degli interessi e dei punti di vista nelle società complesse?
Così come esiste un rapporto gerarchico tra l’idea di giustizia, i principi generali del diritto e il diritto positivo, allo stesso modo esiste una partizione interna al diritto positivo stesso: abbiamo il diritto pubblico, il diritto privato, il diritto sociale, il diritto penale.La partizione è tale da determinare una specie di divisione del lavoro tra i giuristi stessi.
Credo si debba riconoscere che una tale frammentazione del diritto dipenda semplicemente dal fatto che le forme di relazione in cui si può entrare con gli altri sono di natura molteplice, e ciò è strettamente connesso alla crescente complessità delle società moderne. In una società complessa si danno rapporti diversificati tra le persone, e questo fa sì che le relazioni di diritto pubblico tra concittadini non coincidano con le relazioni che si stabiliscono, per esempio, nella definizione dei contratti, nel diritto di successione o nel diritto sociale. Questo significa un potenziamento della possibilità di conflitti.
E la giustizia è capace di eliminare questi conflitti?
Il conflitto fa parte della realtà umana, non si deve credere che entrando nella sfera giuridica si eviti ogni possibilità di conflitto, si entra piuttosto in una sfera in cui i conflitti sono riconosciuti come leciti e in cui esistono le regole per risolverli. Ma tali regole non sono necessariamente omogenee, né formano un sistema. Uno dei problemi principali del diritto è allora quello di eliminare il maggior numero di contraddizioni, tanto più che in linea di principio una legge non può contraddire un’altra.
Non si tratta dunque di una questione di relativismo, ma piuttosto di un problema di complessità. Una società bene ordinata – per usare un’espressione di Hannah Arendt – non è quella in cui non ci sono conflitti, ma quella in cui ci sono regole per dirimerli, in questa prospettiva consenso e conflitto possono coesistere. Una società crea tanti più conflitti quanto più è complessa, perciò essa richiede un maggior consenso sulle regole procedurali. In questo senso Rawls ha ragione nel sostenere che il progresso principale è quello che si può fare intervenendo sulle procedure.
Professor Ricoeur per Lei è possibile pensare ancora alla giustizia come ad un criterio unificante e universale, indirizzato verso il miglioramento delle condizioni di vita umane?
Se vogliamo passare alla realizzazione della giustizia sul piano pratico, occorre naturalmente chiedersi che cosa si possa fare affinché le società in cui viviamo si conformino all’ideale di giustizia. Innanzitutto bisogna pensare che l’umanità è unica, in modo da porre il problema della giustizia al livello dell’umanità. Se dunque pensiamo la giustizia in senso cosmopolitico, nel significato che avevano dato a questa prospettiva gli uomini del XVIII secolo, siamo indotti a considerare un secondo aspetto della questione, ossia il tipo di disuguaglianza creato dallo sviluppo economico. Credo che il progresso della giustizia stia innanzitutto nel rendere possibile l’umanità come una grande comunità tenuta insieme da legami di convivialità. Mi sembra che, all’epoca del grande indebitamento del terzo mondo, il grande pericolo consista nel commerciare soltanto con le nazioni solventi, soddisfacendo pertanto solo i bisogni di chi può pagare.
La giustizia, secondo il mio modo di intenderla, consiste invece piuttosto nel rompere questa regola secondo cui si debbano soddisfare soltanto i bisogni di chi può pagare, e ciò implica il passaggio dall’idea di un’economia mercantile all’idea di un’economia dei bisogni. Ci sono bisogni umani fondamentali da soddisfare, anzi occorre riconoscere che fin dalla nascita si hanno diritti, giacché nessuno sceglie di venire al mondo. In terzo luogo ritengo che le nostre civiltà occidentali debbano cercare di riconoscere le differenze nella maniera più ampia possibile. Contro il progetto di omogeneizzare l’umanità, rendendo tutti gli uomini simili gli uni agli altri in base ad un modello culturale uniforme, bisogna dare il più largo credito possibile alle differenze, per esempio alla differenza dei diritti dei sessi, alla differenza delle generazioni, delle forme di comportamento che consideriamo devianti, come l’omosessualità o la tossicodipendenza.
E’ indispensabile l’utilizzo della forza nella giustizia? E se è così, come dev’essere regolato?
Occorre riconoscere in primo luogo che la nostra società non può tollerare tutto e che esiste qualcosa di intollerabile, delle deviazioni e delle trasgressioni che devono essere punite anche usando la forza. Ma ciò significa ammettere il fallimento della società, infatti nel riconoscere che non può funzionare senza un minimo di forza, la società sperimenta i suoi limiti e il suo fallimento. Ciò vuol dire che non abbiamo ancora risolto il problema del “vivere bene insieme”, che è in definitiva la nostra utopia sociale. In secondo luogo – come intese Cesare Beccaria – ci si dovrebbe servire della punizione come di un mezzo di educazione, eliminando il più possibile l’idea di espiazione. Tanto più che – come Michel Foucault ha ripetutamente affermato in tutta la sua opera – le forme di reclusione che continuiamo a praticare secondo modelli puramente repressivi producono in realtà l’effetto contrario, visto che le prigioni diventano spesso delle vere e proprie scuole del crimine.
Attualmente dovremmo sperimentare delle forme di pena diverse dalla reclusione, come il lavoro sociale, o qualcosa del genere. In ogni caso il criminale, per quanto possa essere considerato abietto il suo crimine, dev’essere tuttavia rispettato nella sua umanità.
Qual è il rapporto tra la giustizia in quanto tale e la giustizia sociale? Che cosa manca oggi alla realizzazione di una giustizia sociale?
Almeno fino all’inizio del XX secolo, il diritto si è articolato soprattutto in diritto pubblico e diritto privato (5). Solo con questo secolo si è sviluppata una nuova concezione del diritto, che ha aggiunto la connotazione di “sociale” per distinguersi dalla visione limitata del diritto come diritto delle istituzioni e dei contratti. Il diritto sociale è nato quando si è cominciato a riconoscere che la società stessa produce disuguaglianza ed ingiustizie spesso proprio quando funziona al meglio e nella maniera più produttiva, sviluppando benessere, ricchezza e cultura, quando cioè la redistribuzione dei benefici del lavoro di tutti diventa per sé un problema.
A questo proposito ritengo che l’idea di uguaglianza sia altrettanto importante dell’idea di giustizia, ancora legata all’opposizione del “mio” e del “tuo”. Credo che nell’idea di giustizia ci sia una specie di limitazione iniziale, visto che il suo scopo sembra essere non tanto la realizzazione della comunità, quanto più semplicemente, come aveva ben visto Kant, la realizzazione della coesistenza. Ma noi abbiamo un progetto più grande, che è la convivenza e la convivialità; è proprio a questo punto che introduco la mia idea di uguaglianza, perché credo che non sia possibile alcuna comunità se lo stato sociale degli uomini è troppo disparato e se c’è uno scarto troppo grande tra i privilegiati e i più svantaggiati. E’ necessario pertanto avvicinare i livelli della condizione sociale degli uomini, perciò l’idea di uguaglianza dev’essere altrettanto forte dell’idea di giustizia.
LA FILOSOFIA E LA CRITICA DELLA TECNOLOGIA
La filosofia e la critica della tecnologia
intervista a Gianni Vattimo di Ennio Galzenati
(rilasciata il il 23/06/1993 nella sede della Vivarium di Napoli)
L’Unità, 19 maggio 1997
Professor Vattimo, parlando di filosofia e critica della tecnologia, che è naturalmente un prodotto recente della riflessione filosofica, quanto è necessario risalire all’indietro per riconsiderarne i termini?
La demonizzazione della vita razionalizzata della civiltà industriale comincia, secondo me, ad avere un’influenza sulla filosofia alla fine dell’Ottocento in una discussione che sembra molto astratta e molto lontana da questi temi: quella che si svolge, soprattutto nella cultura tedesca – con autori come Dilthey, Rickert e Windelband – sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito.
Il secondo Ottocento è l’età del Positivismo, una filosofia che rivendica, tra l’altro, il modello dei saperi positivi delle scienze come la fisica o la chimica per ogni tipo di sapere: si tratta di far passare allo stadio positivo, come dicevano i filosofi positivisti, tra cui Comte, anche il sapere sull’uomo, il sapere sociologico, psicologico e persino la morale.
Già alla fine dell’Ottocento, comunque, questo impatto della tecnologia sulla società si avverte come il tentativo di ridurre anche l’uomo ad un meccanismo calcolabile, prevedibile, totalmente organizzato, ciò che poi Adorno chiamerà “l’organizzazione totale”.
Le scienze dell’uomo, che i filosofi chiamano “scienze dello spirito”, sembrano invece essere caratterizzate dal fatto che hanno a che fare con movimenti liberi non prevedibili, non calcolabili, non riducibili sotto leggi generali di comportamento. Si rivendica perciò l’originalità delle scienze dello spirito, nei loro metodi, nei loro modi di costruirsi rispetto alle scienze della natura, perché in realtà ci si vuole ribellare al dominio della tecnologia, della razionalizzazione sociale complessiva e dell’organizzazione totale della società.
Cosa pensa dello spirito polemico nei confronti di questa “organizzazione totale” che, a partire dai primi anni del nostro secolo, filtra attraverso il mondo delle avanguardie artistiche?
L’Espressionismo e, in genere, le grandi avanguardie artistiche del primo Novecento – il cubismo, il dadaismo, il surrealismo – non sono più guidate da un proposito di analisi quasi scientifica della sensazione visiva. Al contrario il mezzo artistico serve ad esprimere la volontà di partire dall’interno per manifestare al di fuori piuttosto che subire un ordine oggettivo del mondo e riprodurlo.
Del resto questa interpretazione dell’avanguardia non è originale. La si trova già in un’opera fondamentale per lo spirito di quell’epoca, Spirito dell’utopia (Geist der Utopie; trad.it Firenze, 1980) di Ernst Bloch, scritto e pubblicato nel ’18. E’ un filo conduttore interessante perché contiene l’idea che lo spirito non può essere meccanizzato, spiegato, ridotto entro leggi generali, e afferma anche un principio di unificazione della cultura del primo novecento collegando le avanguardie, la riflessione filosofica e la rivolta contro l’organizzazione tecnologica della società.
Questi stessi temi si ritrovano nell’Esistenzialismo?
Certo. Pensiamo per esempio alla riflessione di Heidegger in Essere e Tempo (trad.it. Torino, 1994), del ’27, maturata però a partire dagli anni ’10. In una memoria autobiografica Heidegger allude allo spirito degli anni ’10, come dominato dalla ripresa di Kierkegaard, di Nietzsche e di Dostoevskij, personaggi che hanno in comune l’esistenzialismo, l’accentuazione, persino eccessivamente patetica, del dramma della libertà dell’uomo, accentuazione tanto più significativa quanto più si afferma in un mondo dove invece l’organizzazione sociale diventa sempre più razionalistica e meccanizzata.
Abbiamo moltissimi criteri per distinguere, in ogni scienza, ciò che vale in un certo campo e ciò che non vale ma, asserisce Heidegger in Essere e tempo, si è perso invece il senso complessivo di che cosa chiamiamo “è”; abbiamo dimenticato il senso di questo termine perché abbiamo ridotto l’essere all’oggettività. Ma allora, se identifichiamo l’essere con ciò che è oggettivamente dato e verificabile ne consegue, prima di tutto, che non possiamo più pensare alla nostra esistenza in termini di essere, perché non siamo mai un tutto già dato, siamo fatti di ricordi del passato, di esistenza nel presente e soprattutto di proiezioni verso il futuro, tutte cose che dal punto di vista della datità verificata non sono nulla.
E’ possibile ricollegare questo discorso heideggeriano allo spirito dell’avanguardia di cui parlavo prima . Se non possiamo più parlare dell’essere dell’uomo, perché il nostro modello di essere è quello della datità oggettiva, ciò non ha solo delle conseguenze conoscitive preoccupanti, ma ha soprattutto conseguenze morali, politiche e sociali drammatiche. Predisponiamo cioè l’essere dell’uomo a diventare oggettività manipolabile nell’organizzazione totale della società.
Parliamo adesso della scuola di Francoforte.
La scuola di Francoforte è un prodotto filosofico molto recente, con cui dobbiamo fare i conti, ma le sue motivazioni restano fondamentalmente quelle che ho raccontato, cioè la rivolta avanguardistica della “Kultur”, potremmo dire con i termini di certi filosofi primonovecenteschi, contro la “Zivilisation”, la cultura contro i meccanismi della civilizzazione che sono diventati oppressivi. La parola “totale Verwaltung”, l'”organizzazione totale” – termine diventato classico attraverso la filosofia di Adorno – esprime l’idea che la razionalizzazione tecnologica della società comporti quasi naturalmente un rischio di totalitarismo politico. Questa tematica è stata molto presente nella cultura europea degli anni Sessanta. Credo che il Sessantotto, l’anno della contestazione giovanile, avesse sviluppato una critica radicale della tecnologia, che oggi è stata ereditata da alcuni filoni dell’ambientalismo e dell’ecologismo, in cui la tecnica è considerata naturalmente orientata a produrre strutture politiche totalitarie .
Adorno pensa alla società tecnologica come a una società “motorizzata”, nel senso che la società tecnologica sembra ad Adorno un grande meccanismo mosso da un motore centrale. Questa idea di Adorno si ritrova anche in alcuni grandi romanzi come quello di Orwell 1984 e quello di Huxley Brand New World. Quando la società si organizza in modo saldamente tecnico ci troviamo di fronte ad una specie di gran sistema di ingranaggi che girano tutti mossi da un centro unitario: la propaganda del regime nazista come la radio di Goebbels che dà ordini a tutti. Secondo l’idea di “pubblicità centralizzata” di Adorno, noi viviamo in una società non tanto diversa da quella nazista. Lì c’era infatti una propaganda politica, ma noi siamo dominati totalitariamente dalla pubblicità delle merci e siamo altrettanto poco liberi.
Professore, Lei crede che ciò sia ancora valido?
Questo modello, secondo me, non è già più il modello della tecnologia avanzata in cui viviamo noi oggi; del resto già l’idea della radio poteva condurre anche Adorno ad una riflessione ulteriore; oggi, per esempio, se noi accendessimo la radio e sentissimo la voce di Goebbels potremmo, con un piccolissimo movimento, passare su un’altra modulazione di frequenza, e sentire invece delle canzoncine dialettali. Quando perciò la tecnologia diventa prevalentemente una tecnologia della comunicazione piuttosto che una tecnologia del motore, la paura nei confronti di questo mondo tecnologico sembra potersi riassorbire in una visione della società come scambio di comunicazione, piuttosto che in una visione della società come grande meccanismo mosso da un unico motore centrale. In un saggio di Sentieri interrotti intitolato “L’epoca dell’immagine del mondo” Heidegger ripercorre la storia della scienza tecnica moderna interpretandola come costruzione di un’immagine del mondo che dipende da colui che costruisce l’immagine. La tecnologia tende cioè ad essere la costruzione del mondo sulla base di progetti del soggetto in qualche modo; anche lo scienziato che fa esperimenti non guarda solo cosa succede, ma provoca degli eventi per confermare o smentire certe proposizioni; il tecnologo che produce macchine prosegue questa stessa vocazione tecnologica della scienza. Così il mondo diventa sempre più l’immagine del mondo che noi ci facciamo e che noi costruiamo attivamente con la tecnica piuttosto che una cosa data davanti a noi.
Nella nostra epoca però le cose sono andate così avanti che l’immagine del mondo non è più una e ce ne sono piuttosto molteplici. Questo accade nella società della comunicazione. Viviamo in una società di intensa comunicazione in cui ci sono tanti giornali, tante stazioni televisive e questi enti di comunicazione parlano anche di loro stessi. Se voi leggete i giornali trovate che molto spesso alcune delle notizie riguardano le loro vicende: il giornale è stato comperato dal tale gruppo che produce dentifrici e noi possiamo essere messi in guardia sul fatto che le notizie che riguardano i dentifrici su quel genere di giornali dovremmo prenderle “cum grano salis”, perché interviene l’interesse del padrone della catena di fabbriche di dentifrici, che è anche proprietaria del giornale.
La molteplicità delle agenzie di informazione nel nostro mondo, che forse è sempre esistita, ma non così largamente come oggi, è diventata così esplicita, che noi oggi sappiamo di vivere in un mondo di interpretazioni, non in un mondo di realtà date. Questo fa sì che la potenza totalizzante dell’informazione porti con sé una sorta di antidoto interno e noi non prendiamo più troppo sul serio l’informazione che ci viene fornita. Non sono solo le “élites” a sapere che la TV mente; tutti sanno benissimo che per sapere ciò che succede devono comprare almeno tre giornali di orientamento diverso, devono guardare programmi televisivi differenti, devono in qualche modo comporre la visione della realtà in una babele informativa che ha certamente delle caratteristiche preoccupanti, nel senso che ci si può sentire confusi, ma ha anche un’intrinseca componente liberante, emancipatoria. Credo che questa sia la nuova situazione con cui ha a che fare la riflessione filosofica sulla tecnologia. Lo spirito in qualche modo soffia dove vuole. La paura che i nostri filosofi e gli avanguardisti artistici del primo Novecento avevano nei confronti della tecnologia, può essere, nella società contemporanea, ampiamente ridimensionata, anche se non del tutto superata, se per esempio ci assicuriamo che il pluralismo dell’informazione sia davvero tale, che non ci siano cioè troppi canali televisivi posseduti dalla stessa impresa per esempio, o che non ci sia una sola informazione di Stato. Ma è bene cercare di spingerci nella direzione della babele, piuttosto che difenderci da essa, perché non dobbiamo eliminare la pluralità dei linguaggi, ma piuttosto moltiplicarla.
Poesia e ontologia
1 Professor Vattimo, cominciamo questa nostra conversazione, sul tema della poesia, ricordando il titolo di un libro che Lei scrisse e pubblicò nel 1968. Si intitolava Poesia e ontologia. Che cosa voleva indicare, mettendo insieme questi due concetti, quello di “poesia” e quello di “ontologia”?
Era un modo di annunciare fin dal titolo uno degli assunti teorici, anche un po’ polemici, del libro. L’idea fondamentale era che l’estetica novecentesca, o anche del tardo Ottocento – ma forse l’estetica postkantiana in generale – avesse teso ad isolare l’arte dal dominio della verità. Si può portare come esempio la teoria estetica di Croce, secondo cui nella dialettica dei distinti i predicati che si possono attribuire all’esperienza estetica, all’arte, sono bello o brutto, ma non vero o falso. Questo significa che l’esperienza estetica non ha a che fare con l’esperienza della verità. Un tale atteggiamento, che è stato dominante nell’estetica filosofica del Novecento, era già stato discusso anche prima della pubblicazione del mio libro da autori – a cui io mi rifacevo – come Gadamer o come Heidegger. Gadamer in particolare, nel suo libro del 1960, Verità e Metodo , era partito proprio da una critica di quella che lui chiamava la “coscienza estetica” – potremmo chiamarla coscienza “estetistica” – cioè muovendo dalla critica di quell’atteggiamento che appunto considera l’esperienza dell’arte e del bello come completamente scissa dall’esperienza del vero. Gadamer argomentava, secondo me giustamente, che questo estetismo, riferito soprattutto alla filosofia dell’arte del Novecento, era il corrispettivo dello scientismo metodologistico del positivismo. Se si domanda perché nell’esperienza estetica non vi siano il vero e falso, si tende a rispondere che questi appartengono esclusivamente a quelle esperienze che si lasciano organizzare dal metodo scientifico. Ecco perché, tra l’altro, Verità e Metodo si intitola così: Gadamer voleva indicare già dal titolo della sua opera che il suo problema era quello di rivendicare l’esperienza di verità che si fa al di fuori dei campi metodologicamente organizzati come quelli della scienza. Ora, uno dei campi classici, o insomma l’emblema stesso di ciò che non è metodico, è l’esperienza estetica.
Gadamer, che poi allargava il discorso anche all’esperienza delle scienze storiche, delle scienze umane – perché poi era questo il suo obiettivo più generale – muoveva dal recupero in senso veritativo dell’esperienza che sembra essere la più lontana dal vero e dal falso, vale a dire appunto l’esperienza estetica. Io procedevo in questa stessa direzione anche con riferimenti che non mi sembrava di trovare già in Gadamer, cioè sviluppando l’idea che le avanguardie artistiche del Novecento erano proprio una forma di rivolta degli artisti, dell’arte militante, contro l’estetismo dell’estetica filosofica. Così, mentre Croce oppure i neokantiani tedeschi sostenevano che l’esperienza estetica non ha nulla a che fare con il vero o il falso, gli artisti pensavano invece che l’arte dovesse uscire dal mondo asettico del museo, della galleria o della pura esperienza della poesia che si raccomandava per la sua sonorità, per la sua bellezza strutturale, per le forme, senza riferimenti esistenziali. In quel libro, l’esperienza delle avanguardie novecentesche mi pareva – e mi pare ancora oggi – interpretabile come una rivolta dell’arte contro la sterilizzazione a cui sembrava volerla condannare l’estetica filosofica della sua stessa epoca. E naturalmente, ancora una volta, il riferimento principale – per me come del resto per lo stesso Gadamer – era la filosofia di Heidegger; questo in parte perché per me essa è stata un’esperienza filosofica di fatto dominante, in parte perché mi sembra che sia oggettivamente fondamentale per il pensiero del Novecento.
È con Heidegger, in fondo, che la poesia è stata completamente ricondotta all’ambito della verità, fuori dalla prospettiva limitata in cui l’aveva collocata l’estetismo filosofico del primo Novecento. Naturalmente i riferimenti a Gadamer e a Heidegger hanno due valenze differenti, perché in Gadamer il fatto che ci sia un’esperienza di verità nella poesia, e in genere nell’arte, si giustifica dal punto di vista di una concezione della verità che risale a Hegel prima che a Heidegger. Io riassumevo la posizione di Gadamer – mi sembra utile questa formula per ricordarla – dicendo che “si fa esperienza di verità, quando si fa vera esperienza”. Se noi teniamo presente questa espressione, capiamo perché la lettura di un’opera d’arte, l’incontro con un’opera d’arte può essere esperienza di verità; basti pensare all’esperienza che facciamo quando leggiamo un romanzo: ci cambia la vita, forse non così radicalmente, ma certo cambia, modifica la nostra visione del mondo. Ora, effettivamente, questa concezione è di origine hegeliana: la verità è, come dire, l’incontro con un’alterità che noi assimiliamo, e quindi che non lasciamo stare nella sua estraneità, ma, assimilandola, diventiamo altri da quello che eravamo.
In Gadamer è molto importante questa idea dell’esperienza come Erfahrung. La parola tedesca Erfahrung ha da fare anche col viaggiare, col fahren, e implica un mutamento: possiamo fare l’esempio di un individuo che ha viaggiato molto, e che, quando fa ritorno a casa, non può essere esattamente lo stesso, perché ha imparato altre cose, sa altre cose, e queste cose sono diventate parte della sua conformazione mentale. Se compiamo una vera esperienza, e cioè qualche cosa che ci costringe, ci spinge a cambiare, facciamo un’esperienza di verità. In questo senso, l’incontro con l’opera d’arte, che è l’incontro con una visione del mondo “altra”, che ci scuote, o anche semplicemente che ci arricchisce, rappresenta il senso dell’esperienza del vero che si fa nell’arte e in genere in tutti quei campi, come per esempio la conoscenza filosofica, la conoscenza storica eccetera., che alla mentalità di ispirazione positivistica del tardo Ottocento sembravano escluse dal campo del metodo scientifico. Certo, la storia non sarebbe capace di verità scientifica, se la scienza fosse solo la conoscenza di leggi generali. Allora il punto è: questi saperi che non hanno da fare con principi generali, con leggi generali, ma con fatti specifici, sono saperi capaci di verità? Direi di sì, se l’esperienza che facciamo in questi saperi è una vera esperienza. L’argomento di Gadamer, che sta alla base di Verità e Metodo, si muove attorno a questa prospettiva.
2 È stato Heidegger che, nel saggio intitolato L’origine dell’opera d’arte, ha chiarito, forse più radicalmente di quanto non lo abbia fatto Gadamer, l’incontro con l’opera d’arte come un’esperienza di verità. Vuole ripercorrere i motivi principali di questo saggio?
Nel saggio L’origine dell’opera d’arte (Der Ursprung des Kunstwerkes ), che è del 1936, Heidegger chiama l’opera d’arte una “messa in opera della verità”. Qui effettivamente troviamo la possibilità di parlare di “poesia e ontologia” o di “poesia e filosofia” o di “poesia e verità” o di “arte” in genere. In che senso l’opera d’arte è “messa in opera della verità”? Prima di tutto è ovvio che, per parlare di opera d’arte come “messa in opera della verità”, bisogna avere una certa concezione della verità, che in Heidegger non è, e non può essere, quella della verità come corrispondenza di una proposizione a uno stato di cose. Molto spesso, naturalmente, la tradizione ha parlato di verità della poesia, ma, poiché ne ha parlato in riferimento a questa concezione della verità come enunciazione vera di stati di cose, cioè in termini di proposizioni che corrispondano a uno stato di cose, ha sempre dovuto concepire la poesia secondo il motto latino del miscere utile dulci, che esprime l’idea per cui nella poesia si possono dire delle verità, descrivendo, per esempio, come stanno le cose con l’essenza dell’uomo o le leggi morali, eccetera. Perché tali verità vengono espresse in poesia? Una ragione può essere, ad esempio, che in questo modo la gente le impara meglio; anche i proverbi, in genere, si formulano come dei versetti, espressi in termini “poetici”, con delle metafore.
Sembrerebbe dunque che vi sia una verità della poesia, che è la stessa verità che si può dire in proposizioni astratte, ma presentata con termini immaginosi, metaforici, perché piace di più o si ricorda meglio. Ora, non è questo il senso in cui Heidegger parla di “una messa in opera della verità”, perché per lui la verità, prima di essere la descrizione oggettiva di uno stato di cose, è l’apertura di un orizzonte di una possibile descrizione dello stato di cose. Non è tanto difficile da capire: noi descriviamo uno stato di cose usando degli strumenti, dei termini, dei paradigmi, dei presupposti, i quali per noi sono alla base della possibilità di descrivere in modo veritiero quello stato di cose. Ma i paradigmi, l’”apertura”, per così dire, il sistema dei presupposti in base a cui possiamo dire la verità, nel senso di descrivere validamente lo stato di cose, tutto questo insieme precede questa verità espressa come corrispondenza nella proposizione alla cosa. E questo insieme difficilmente è oggetto, a sua volta, di una descrizione vera, perché per essere descritta veridicamente avrebbe bisogno di un altro sistema di presupposti, di un’altra apertura e e così via.
Si comprende benissimo che, procedendo in questo modo, si potrebbe risalire all’infinito. Heidegger non vuole tanto risalire all’infinito per distruggere logicamente l’idea di verità, ma richiamare la nostra attenzione su un fatto che era anche, in fondo, alla base della critica marxiana dell’ideologia ossia che quando noi enunciamo una proposizione vera, presupponiamo un sistema di criteri che a sua volta non enunciamo in una proposizione vera, ma all’interno dei quali in qualche modo siamo – come dice Heidegger – “gettati”, ci “apparteniamo”, “ci siamo”: è il nostro equipaggiamento. I nostri occhi noi non li descriviamo, mentre descriviamo ciò che vediamo con gli occhi; quando ci mettiamo a studiare i nostri occhi, magari li studiamo in base a un’immagine, che però guardiamo pur sempre con i nostri occhi, che, nel momento stesso in cui li usiamo per guardare, non possiamo vedere. È una cosa abbastanza ovvia, che però filosoficamente diventa importante, perché in fondo è alla base della stessa idea che la poesia sia capace di verità.
3 Professor Vattimo, in che senso dunque la poesia “dice” il vero?
La poesia non dice verità a livello della proposizione corrispondente all’oggetto, ma “dice” – esprime, rappresenta, mostra – qui è difficile qui usare un verbo adeguato – la verità dell’orizzonte a cui apparteniamo quando poi diciamo delle singole verità. Quando noi parliamo di poesia e verità, per esempio, è abbastanza facile cadere in un errore di banalizzazione. Che cosa dice una poesia, quale verità enunciabile ricaviamo da una poesia di Pascoli, di D’Annunzio, di Carducci? Quando cerchiamo di volgere la verità della poesia in singole verità proposizionali, per lo più ricaviamo delle proposizioni banali: “Gli uomini sono mortali”, “La vita è difficile”, “L’esistenza è sempre schiacciata dal problema della libertà”. Questo vuol dire che, se guardiamo alla verità della poesia, la prima cosa a cui siamo richiamati è una nozione di verità non proposizionale, non descrittiva, non misurata sul principio della conformità. Allora, se c’è una verità nella poesia, questa verità è pensabile solo come apertura originaria dentro cui siamo gettati, orizzonte all’interno del quale possiamo diventare consapevoli di noi stessi, che è dunque cosa ben diversa da una verità enunciata come proposizione descrittiva all’interno di questo stesso orizzonte.
Il rapporto con questa verità è poetico anche perché non può essere descrittivo-proposizionale o scientifico: se noi ci sforziamo di afferrare questa verità, ci accorgiamo che è impossibile renderla in termini di proposizioni dimostrabili, oggettivabili. Con esse siamo in un rapporto che si potrebbe chiamare “abitativo”, nel senso che c’è nella nostra esistenza, alla base di ogni nostro enunciato tematico, una più originaria appartenenza che noi non riusciamo a tematizzare. Noi non possiamo dire che, poiché non riusciamo a tematizzarla, dobbiamo trascurarla. Trascurarla, infatti, significherebbe lasciarsi guidare da pregiudizi che noi non sospettiamo neanche di avere – il che è abbastanza pericoloso. Sapere di appartenere ad un orizzonte che non possiamo oggettivare davanti a noi – perché ciò è contraddittorio con la nozione stessa di orizzonte -, significa già sforzarsi di fare esperienza di questo orizzonte con altri mezzi. In fondo, tutta la storia delle arti nella storia della cultura è questo.
Le arti non hanno mai detto verità utili, utilizzabili, sistemabili in un trattato, e tuttavia ci sono sempre state. Controbattere sostenendo che ciò è accaduto solo perché l’uomo ha inevitabilmente anche un aspetto di “oziosità” è una spiegazione un po’ troppo banale, soprattutto se si pensa alla vita degli artisti, all’interesse che la gente porta all’arte, anche all’importanza sociale che l’arte ha sempre avuto nella cultura. Che l’arte sia messa in opera della verità tende a spiegare meglio tutte queste cose; c’è una verità più originaria delle singole verità che possiamo enunciare e il rapporto con questa verità più originaria non si può per definizione tematizzare in proposizioni enunciabili: esso costituisce il senso dell’esperienza estetica. Nella pittura, nella musica, nella poesia noi mettiamo in opera, in qualche modo, questa apertura della verità. Heidegger naturalmente collega a questo anche tutto un altro insieme di contenuti filosofici. Uno, in modo particolare, è l’idea che la verità non sia sempre la stessa in tutte le epoche, e cioè che non è vero che tutti gli uomini sono sempre gettati in un orizzonte di verità sempre uguale, ma che ci sono delle cesure, dei cambiamenti nell’orizzonte di verità in cui noi ci troviamo. Anche questa è una cosa che si capisce, se si pensa a teorie diverse da quella heideggeriana, ma forse a questa vicine nell’intenzione. Intendo riferirmi, ad esempio, a una teoria come quella di Thomas Kuhn, ad esempio, che parla dei “paradigmi”, secondo cui le scienze provano, dimostrano proposizioni, però all’interno di un insieme di presupposti, di assiomi, che costituiscono appunto il paradigma all’interno del quale si prova o si falsifica una proposizione. A sua volta, il paradigma, anche per Kuhn, non è oggetto di prova o di falsificazione, perché altrimenti si esigerebbe un altro paradigma più ampio all’interno del quale si possa provare qualcosa o falsificare qualcosa. Quindi, anche in questo caso, i paradigmi all’interno dei quali si muovono le verità della scienza sono storicamente dei fatti complessi.
Certamente non si può dire che essi siano dei fatti irrazionali, però sono dei complessi eventi storici a cui gli scienziati appartengono e all’interno dei quali trovano o falsificano proposizioni. Ebbene, se noi pensiamo a questo, possiamo avere un’idea, ancora una volta, di che cosa Heidegger intenda quando dice che l’arte è “messa in opera della verità”. “Messa in opera” che può essere storicamente mutevole, proprio perché le epoche, i paradigmi, non sono sempre gli stessi.
È la ragione per cui l’arte è una storia e non accade una volta sola. Altrimenti basterebbe una sola opera d’arte, come ad esempio una tragedia greca, per tutte le epoche. Ma non è così, perché oltre alla tragedia greca, esiste la Divina Commedia o l’opera di Shakespeare, tra le quali noi cogliamo delle differenze: in queste diverse opere d’arte si aprono dei mondi diversi, dei mondi storici all’interno dei quali l’umanità del passato è vissuta e dentro cui ancora viviamo noi, mediandoli con il nostro mondo storico, con i nostri poeti, con le nostre opere d’arte.
4 In Heidegger l’esperienza estetica come esperienza di incontro con la verità è soprattutto un’esperienza poetica. Perché, professor Vattimo, proprio la poesia, perché i poeti, per dirla con il titolo di un saggio di Heidegger, hanno un ruolo privilegiato?
Perché nel saggio Sull’origine dell’opera d’arte di Heidegger c’è anche una sorta di riconduzione di tutte le arti alla poesia come arte della parola. Ora questo è un tema naturalmente complesso, forse anche controverso tra gli interpreti di Heidegger, però Heidegger certamente ritiene che, in qualche senso, la funzione inaugurale di apertura di un mondo storico che l’opera d’arte ha, si realizza in modo speciale, in modo privilegiato nell’arte della parola. “Apertura di un mondo storico” può voler dire due cose. Svelamento di un mondo storico – e in questo caso ci troviamo in temi che sono familiari alla storia dell’estetica e della filosofia. Hegel, per esempio, sosteneva che, almeno in certe fasi dello sviluppo dello spirito, la verità dell’epoca, la verità dello spirito di un’epoca, si rivela nell’arte e non nella religione o non nella filosofia.
L’estetica hegeliana sostiene che nella storia dell’umanità, l’età in cui l’arte è il luogo supremo di rivelazione dello spirito dell’epoca è stata l’età classica greca. C’è un’epoca nella storia dello spirito in cui lo spirito si rivela a se stesso, si documenta, in qualche modo, più adeguatamente nell’arte che non nella filosofia o nella religione, mentre, ad esempio, lo spirito medievale si rivela piuttosto nella religione cristiana; il senso del gotico è il senso di un’arte la cui verità è però la religione. Bene, noi possiamo intendere in questi termini la posizione di Heidegger, per cui nell’opera d’arte si apre un mondo storico, nel senso che in essa vi si rivela. Ma l’originalità di Heidegger è nell’idea che nell’opera d’arte si “inaugura” un mondo storico: non solo si apre, nel senso che si svela più adeguatamente, ma accade prima di tutto lì.
Il linguaggio è uno degli strumenti fondamentali attraverso cui noi accediamo al mondo; non accade che prima noi vediamo il mondo e poi troviamo le parole per descriverlo, perché, come mostrano le nostre esperienze anche a livello psicologico, se non abbiamo la parola, in un certo senso non vediamo la cosa. Secondo Heidegger, è soprattutto il linguaggio quello che ci dà accesso al mondo. Noi ereditiamo un insieme di capacità per vedere il mondo, ereditando un certo linguaggio, la nostra lingua naturale, che però non è naturale in quanto eterna; è naturale nel senso che è la nostra lingua madre, la lingua che impariamo quando siamo bambini. Ebbene, questo linguaggio, che non è sempre uguale – le lingue sono mai state tutte eguali nel corso della storia – costituisce un fatto naturale e storico insieme. In quanto fatto storico ha dei momenti principali in cui ovviamente cambia. Heidegger identifica i momenti di “inaugurazione” di una lingua di un’epoca con certi grandi eventi poetici. Noi diciamo abitualmente a scuola che Dante è il padre della lingua italiana, che la traduzione della Bibbia di Lutero ha fondato il tedesco moderno, che Shakespeare è, quasi come Dante, il padre della lingua inglese, eccetera. Talvolta questo lo diciamo in maniera banalizzante, ma per Heidegger c’è una verità in tutto ciò molto profonda, e cioè che nella poesia si inaugurano svolte decisive delle lingue naturali. Quindi, anche in questo senso, l’opera d’arte “mette in opera la verità” e la mette in opera come opera d’arte linguistica, perché dal punto di vista di Heidegger, anche per interpretare storicamente delle opere d’arte non linguistiche – per esempio la pittura di Michelangelo o di Goya – noi, per esprimerne il carattere aprente, inaugurale, utilizziamo delle parole.
5 Abbiamo visto che per Heidegger c’è una certa originarietà della poesia rispetto alle altre arti: quali sono i problemi suscitati da questa tesi?
Questo è un punto su cui pochi studiosi di estetica concorderebbero pienamente, perché l’esperienza dello spazio, per esempio, che si fa con la pittura, con l’architettura, con le arti visive, si può considerare ragionevolmente ancora più originaria, o almeno altrettanto originaria, di quella delle parole. Heidegger stesso, in un’opera tarda, la breve ma intensissima prolusione degli anni Sessanta intitolata L’arte e lo spazio, potrebbe fornire elementi per andare in questa direzione, in quanto qui egli sostiene che, se dovesse riscrivere Essere e Tempo, riconoscerebbe altrettanto originario, nella nostra esperienza, lo spazio.
Heidegger, mettendo allo stesso livello spazio e tempo come forme originarie della nostra esperienza, avrebbe forse anche dovuto rivedere il rapporto tra arti del linguaggio e arti visive, spaziali. Dunque per gli studiosi heideggeriani, su questo probabilmente c’è ancora molto da lavorare. Però il senso fondamentale è: l’opera d’arte ha una funzione inaugurale rispetto ai mondi storici, soprattutto in forma di opera d’arte poetica – “dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “poeticamente abita l’uomo su questa terra” è un verso di Hölderlin a cui Heidegger fa riferimento in un saggio sulla poesia. Ovviamente l’abitare richiama l’esperienza dell’architettura, delle arti della visione; il “poeticamente” significa, se dobbiamo prenderlo alla lettera, nell’interpretazione che dà Heidegger di questo verso di Hölderlin, che l’abitare storico dell’uomo ha a che fare con lo stare in un ambiente, ma questo stare in un ambiente è vissuto esistenzialmente anzitutto come appartenenza ad un linguaggio che è parola.
I versi di Hölderlin che Heidegger commenta con l’espressione a cui io mi sono poco fa richiamato, sono in realtà due, tra loro simili. L’altro dice: “voll Verdienst doch dichterisch wohnt der Mensch auf dieser Erde”, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo su questa terra”. Qui, secondo me, c’è un’ulteriore dimensione di questo significato aprente dell’opera d’arte, che vale la pena illustrare. Questo distico hölderliniano, “pieno di merito e tuttavia poeticamente abita l’uomo”, contiene anche un altro elemento, non solo quello dell’abitare, non solo quello della poesia nel senso di arte della parola, ma anche quello di una opposizione tra “abitare poetico” e “merito”.
Ancora una volta, quella verità che si apre nella poesia e che è l’apertura dell’orizzonte all’interno del quale poi noi possiamo enunciare le verità nel senso tematico, proposizionale della parola, quella verità è anche qualcosa che ci proviene e che noi non costruiamo. Ecco perché c’è un’avversativa tra il “pieno di merito” e “tuttavia poeticamente abita l’uomo”. “Pieno di merito” vuol dire: certamente l’uomo abita sulla terra, costruendo case, producendo automobili, ascensori per facilitarsi l’esistenza, per difendersi dai pericoli della natura, e così via; tuttavia, dice Hölderlin, l’uomo “abita poeticamente”. C’è qualche cosa, alla base di tutta questa opera che è propria dell’uomo, che non è attività, ma è prima di tutto qualcosa come ricezione, passività
In fondo, anche noi, quando facciamo esperienza di poesia, parliamo quasi spontaneamente di grazia. Gli applausi che si rivolgono ai grandi interpreti hanno da fare col ringraziamento e poi, tradizionalmente il bello dell’arte è stato accostato all’idea di grazia, non tanto alla graziosità che è un’accentuazione della facilità del movimento – si dice che un balletto è grazioso, che una piccola opera d’arte è graziosa, quasi come se fosse qualcosa di meno del bello -; la grazia è, per esempio, il creare “in stato di grazia”, il che costituisce l’originalità del genio. Tutti questi modi in cui la tradizione ha enfatizzato l’esperienza estetica, hanno una loro radice nel “doch”, nell’opposizione tra l’attività utile, produttiva, volontaria, di cui noi abbiamo merito, l’uomo ha merito, e il trovarsi gettato in un mondo disponendo già, per esempio, del linguaggio e di un insieme di vie di accesso agli enti, che non ci siamo costruiti da noi e che sono alla base di tutto il nostro costruire. Questo è importante per capire qual è quel tipo di verità che si può dare nella poesia.
6 Professor Vattimo, vi sono altre dottrine estetiche che possono illustrare la concezione heideggeriana dell’arte?
Un altro grande pensatore estetico del Novecento è stato Michel Dufrenne, autore di varie opere tra cui una Fenomenologia dell’esperienza estetica, e un saggio intitolato Il poetico; egli è stato un filosofo, diciamo, di scuola fenomenologica ma molto sensibile anche alle suggestioni heideggeriane. Ebbene, Dufrenne aveva descritto l’opera d’arte come un “quasi soggetto”, il che ci serve molto per capire che cosa possiamo intendere Heidegger a proposito dell’apertura nel mondo. Un “quasi soggetto” è un “oggetto” che si incontra nel mondo e che non si lascia trattare come un puro oggetto. Un’opera d’arte è una visione sul mondo, non un pezzo di mondo.
Un romanzo, un quadro, una sinfonia, non sono cose che si aggiungono ad altre nel mondo, ma contengono sempre, in qualche modo, l’appello a reinterpretare il mondo. L’”altro” con cui mi incontro, se non è un individuo che voglio usare per un certo scopo, ma è uno che ascolto come un “altro”, mi offre un’interpretazione del mondo con cui mi debbo misurare, non è un oggetto che metto accanto agli altri tranquillamente, aggiungendo un pezzo al mio mondo.
Qualcosa di questo genere si può intendere per capire di che cosa parliamo quando diciamo che un’opera apre un mondo. È una prospettiva altra sul mondo, che può diventare un oggetto del mio mondo, ma se desidero appendere un quadro nella mia camera, lo faccio non soltanto perché sta bene lì; qualcuno può anche intenderlo solo così, in termini puramente decorativi, ma se poi cercassimo di spiegarci perché sta bene, secondo me, scopriremmo sempre che sta bene perché evoca, apre immagini di mondo alternative a quelle dentro cui sto e quindi non è semplicemente una parte, un pezzo passivo, inerte nel mio mondo, ma è un soggetto che mi parla.
7 C’è però un’altra considerazione che dobbiamo fare, sempre riguardo ad Heidegger. Lei non crede che vi sia in Heidegger una sorta di intonazione religiosa? In fondo Heidegger parla di poesia, ne parla in generale come luogo originario, però poi sceglie, di fatto, alcuni poeti in particolare, ne privilegia alcuni, Hölderlin su tutti. Ecco, che cosa significa questa scelta? Che cosa intende fare Heidegger con questa operazione?
Qui il discorso potrebbe, dovrebbe essere molto ampio. È vero che Heidegger sceglie Hölderlin tra i poeti – uno dei poeti che commenta più frequentemente, con cui ha convissuto, per così dire, per tanto tempo, fino a definirlo come “il poeta del poeta”, cioè il poeta della poesia. Questo è molto interessante perché collocherebbe Hölderlin e Heidegger nell’orizzonte di uno dei tratti caratteristici della poesia novecentesca o dell’arte novecentesca, che è intensamente caratterizzata dall’autoriflessione. C’è tutta una storia della pittura, per esempio, tra Otto e Novecento, che vede l’evoluzione della pittura come un’accentuazione della consapevolezza dei mezzi della pittura: il colore, il quadro, la tela, le linee, la prospettiva spaziale. Quindi mi sembra molto significativo che Heidegger sia così sensibile a questo. Diciamo però che il discorso di Heidegger va ancora oltre, non solo scegliendo Hölderlin in quanto “poeta del poeta”, ma anche Rilke, per esempio, o, negli scritti degli anni Cinquanta, Trakl, che è un poeta difficile perché “maledetto” in molti sensi, un poeta espressionista del tutto diverso dai poeti “vati” che ci si aspetta che Heidegger commenti; ebbene, la scelta di questi poeti non è in Heidegger slegata da una considerazione epocale.
Ancora una volta, non ci sono poeti che esprimono meglio di altri l’essenza eterna dell’arte, ci sono poeti che sono più eloquenti, più capaci di dirci che ne è dell’essere nella nostra determinata epoca.
Il destino dell’essere nella nostra determinata epoca ha probabilmente a che fare anche con il fatto che il poeta poeti sulla poesia, nel senso che l’autoriflessività della poesia hölderliniana, che parla del poeta, diventa determinante per Heidegger, perché è particolarmente in sintonia con un’epoca dell’essere che è quella che Heidegger tenta di cogliere.
Che cosa può voler dire tutto questo? Traduciamolo un po’ sommariamente nei nostri termini. Non sempre e non in ogni epoca culturale o della storia dell’essere è così chiaro che l’esperienza della verità sia esperienza dell’orizzonte piuttosto che esperienza delle proposizioni vere, come ho detto prima. È nella nostra epoca, che Heidegger chiama della “fine”, del “compimento” o del “superamento” della metafisica, che ci diventa possibile capire meglio che la verità non è soltanto o principalmente la proposizione che descrive adeguatamente lo stato di cose, ma è l’appartenenza ad un orizzonte dentro cui siamo “gettati”, che ci è donato.
In questa epoca, in cui diventa comprensibile – perché è finita la metafisica – questa esperienza della verità come appartenenza, allora è più verosimile cercare il vero nei poeti e in certi poeti che poetano sulla poesia. Ecco perché il discorso è complesso. Heidegger non avrebbe mai detto che si debba in ogni epoca cercare la verità piuttosto nella poesia; ma soltanto che nella nostra epoca diventa possibile cercare la verità nei poeti, in quei poeti che sono particolarmente consapevoli del significato della poesia in questa epoca. Quest’idea è complessa, ma non del tutto inverosimile. Non tutti i poeti sono uguali, non sempre il rapporto tra verità e poesia si svela nello stesso modo. Per Heidegger di questa epoca sono emblemi poeti come Hölderlin, Rilke, Trakl, George.
8 Professor Vattimo, lasciamo per un momento la poesia, per tornare proprio al discorso invece più globale sull’arte. Lei ha parlato dell’arte, dell’esperienza estetica come esperienza di verità. Possiamo allora radicalizzare il discorso e intenderla proprio come esperienza ermeneutica?
Possiamo sicuramente parlare di esperienza ermeneutica in rapporto a questa verità intesa come appartenenza all’apertura. L’ermeneutica è quella posizione filosofica che individua l’esperienza della verità non come descrizione oggettiva di stati di cose, o quanto meno non solo come descrizione oggettiva di stati di cose, ma prima di tutto come abitare dentro un’apertura che ci regge e ci rende possibile qualunque descrizione oggettiva. Come a Marx interessava capire l’ideologia che sta dietro le nostre descrizioni del mondo, così a Heidegger interessa cercare di risalire a questa verità come apertura alla quale apparteniamo, a questo paradigma. Ora, questo risalire è un dialogo con la poesia. Heidegger ha spesso parlato della filosofia, del pensare, come dialogo di filosofia e poesia .
Il dialogo di filosofia e poesia è sempre in corso e in esso entra in gioco il modo di vedere la verità come orizzonte a cui apparteniamo, il che non è molto lontano dalla religione. A mio parere una riflessione intensa, approfondita, sul rapporto di filosofia e poesia per il pensiero, non può che condurre anche a ritrovare una certa valenza religiosa di ciò con cui la filosofia ha a che fare. Potremmo dire che se ciò che ci si svela nella poesia è quella verità che ci è data come dono, come grazia – si potrebbe dire -, e con cui siamo in un rapporto di dialogo chiarificatore, interrogativo, non puramente contemplativo e passivo -, allora quell’altra forma della vita spirituale che Hegel, come ricorderete, metteva insieme a filosofia e arte, riguarda sicuramente la religione.
Io credo che il pensiero contemporaneo, attraverso l’esperienza dell’ermeneutica, nella misura in cui riceve di nuovo un accesso ad una ricerca della verità, ad un ascolto della verità che si dà nella poesia, sia in qualche modo richiamato anche ad un’esperienza religiosa. Ciò che caratterizza il pensiero di oggi in una larga parte della filosofia – anche se non in tutta – è dapprima un nuovo ascolto della poesia, ma sempre più anche una nuova sensibilità religiosa che non mette da parte la poesia. Probabilmente se vi sarà una nuova esperienza religiosa del pensiero, essa dovrà essere sempre più intensamente collegata con l’esperienza estetica, comportando, a partire da questo aspetto, una ridefinizione dell’esperienza religiosa stessa.
Intervista realizzata il
20 giugno 1996, Milano – RAI
ETICA DELLA COMUNICAZIONE
Etica della comunicazione
DOMANDA N. 1
Lei, professor Apel, sottolinea costantemente la natura intersoggettiva dell’uomo. Ma ritiene possibile escludere a priori che, in altre parti del cosmo, esistano esseri razionali i quali siano in grado di avanzare pretese di verità, pur vivendo ciascuno del tutto isolato su un diverso pianeta?
Si tratta ovviamente di un esperimento mentale, che non considero affatto realistico. La mia domanda è: per quanto riguarda l’uomo, la sua coscienza del mondo è senza dubbio intessuta di intersoggettività, ma si può dire a priori che ogni coscienza del mondo debba di necessità essere intersoggettivamente costituita?
Penso di sì. E proprio in ragione di quanto Lei ha appena detto: la domanda da Lei posta è quasi la stessa di quella che alcuni oggi avanzano, se cioè esista un’altra ragione rispetto alla nostra. Ritengo che sia possibile mostrare che una simile domanda è priva di senso.
Noi infatti presumiamo di comprendere questa domanda sull’esistenza di un’altra ragione; e se lo presumiamo, dobbiamo essere in grado di rappresentarci come ragione ciò che viene immaginato come altra ragione. In tal caso dobbiamo rimetterci ai criteri che noi stessi possediamo della ragione, a quei criteri che noi attingiamo tramite riflessione.
Ora, tra i criteri conseguibili attraverso la riflessione c’è anche il seguente: che io non posso comprendermi, se non presupponendo l’esistenza di qualcosa come un linguaggio che io possa condividere con altri. In tal modo già si è introdotta la comunità: io mi avvedo di essere a priori, di non poter non essere, membro di una comunità. Naturalmente è pensabile il caso in cui io sia l’ultimo superstite di una tale comunità; tuttavia anche in questo caso il mio pensiero manterrebbe il suo riferimento alla lingua che potrei condividere con altri. Possiamo formarci il nostro concetto di pensiero, di pensiero dotato di pretese di validità, ovvero di pretese di senso e di verità, solo riflettendo su ciò che può essere il pensiero per noi.
Ma per noi il pensiero può essere solo mediato da segni, può essere solo qualcosa a cui è essenziale il condividere una lingua insieme ad altri. Anche quando penso tra me e me, connetto sempre al mio pensiero una pretesa intersoggettiva di senso e una pretesa di verità. Non disponiamo di un concetto di pensiero che ci consenta, per così dire, di seguire simili speculazioni.
DOMANDA N. 2
Il fascino che esercitano su di Lei la filosofia del linguaggio e la teoria dell’intersoggettività risiede anche nel fatto che qui è rinvenibile un punto di unità tra filosofia teoretica e pratica.
È chiaro che l’etica e la filosofia politica presuppongono entrambe l’intersoggettività, ma, tramite il rimando alla natura linguistica del pensiero da Lei costantemente sottolineata, emerge anche l’importanza dell’intersoggettività per la filosofia teoretica. È davvero possibile ricondurre a unità filosofia teoretica e filosofia pratica?
Credo di sì. Anzi, per esprimermi con un pizzico di provocazione, direi che, una volta operata la trasformazione dell’idea del soggetto nel senso di una comunità trascendentale della comunicazione, allora diviene per la prima volta possibile attuare la fondazione ultima di un principio etico. Potremmo mostrarlo ricordando Kant.
Kant ha sì proposto con il suo imperativo categorico un principio etico per il quale nutro un’altissima considerazione, cioè, per dirla in termini moderni, il principio della universalizzabilità, che noi potremmo trasformare nel seguente: sono valide quelle norme universalmente capaci di consenso. Ma Kant non è stato in grado di fondarle. Anche se i kantiani tentano di minimizzare questo aspetto, è possibile mostrare con tutta chiarezza che Kant non è riuscito a realizzare ciò che pur gli stava tanto a cuore: una deduzione trascendentale della realtà della ragion pratica.
Restò cioè intrappolato in un ragionamento circolare, dovendo dedurre l’esistenza della libertà, come autonomia che propriamente determina la legge, dall’esistenza dell’imperativo categorico, secondo la nota frase “tu puoi, tu devi”. Proprio perciò non poté fondare la realtà della libertà, la realtà dell’autonomia, della ragione normativa che dà a se stessa la legge morale.
Alcuni filosofi analitici contemporanei sono persino disposti ad affermare che poté introdurre la legge morale solo in quanto legge larvatamente eteronoma, in quanto Kant credeva nel legislatore divino e lo presuppose. Lo hanno detto Hans Cohn e MacIntyre.
Credo che se si parte non dal solitario “ego cogito”, bensì dall’ “io argomento”, in quanto membro di una comunità ideale della comunicazione già sempre anticipata e in pari tempo quale membro di una reale comunità, prodottasi nella storia, allora diviene possibile una fondazione ultima trascendentale dell’etica. Ed è anche possibile mostrare che essa risulta dal medesimo punto da cui discende la fondazione ultima trascendentale della filosofia teoretica in quanto semiotica trascendentale.
In tal caso l’etica viene per la prima volta ricondotta all'”io penso”, sia in quanto l’ “io penso”, che non è più per definizione solitario e autarchico, significa già sempre “io argomento”, sia in quanto l’inaggirabilità dell’argomentazione implica l’inaggirabilità della comunità della comunicazione.
DOMANDA N. 3
Che cosa intende con l’espressione quasi provocatoria, or ora introdotta, di fondazione ultima? Parlare di fondazione ultima significa attribuire al pensiero la capacità di conseguire e giustificare conoscenze sovratemporali, infallibili e assolute.
Diversamente che in Kant, non avremmo più bisogno di credere nella validità della legge morale, poiché saremmo ormai in grado di fondarla. Inoltre tale fondazione deve riguardare i fondamenti ultimi, se non vuole restare puramente ipotetica, se non vuole dipendere da assunzioni che a loro volta potrebbero rivelarsi arbitrarie. Essa ha quindi a suo oggetto i principi primi della filosofia e dell’etica.
Ma contro una simile concezione viene spesso fatto valere, ad esempio da Hans Albert, il cosiddetto trilemma di Münchhausen, secondo cui una fondazione ultima sarebbe affatto impossibile. Infatti: o si dovrebbe partire da principi dogmaticamente posti e del tutto ingiustificati oppure bisognerebbe fondare gli stessi principi, cadendo così in un regresso all’infinito o in un ragionamento circolare, come ad esempio quello appena ricordato in cui incorse Kant volendo dedurre l’imperativo categorico dalla libertà e la libertà dall’imperativo categorico.
Come respingere tali obiezioni e quindi in che senso è possibile a Suo avviso una fondazione ultima?
Ammetterei senz’altro che la fondazione, così come intesa da Albert e dalla maggior parte dei filosofi, mette capo a un simile trilemma: o regresso all’infinito o circolarità o difesa dogmatica di un assioma. Sono dispostissimo ad ammetterlo.
Solo che con fondazione non dobbiamo intendere proprio ciò che viene supposto dai sostenitori del trilemma, che cioè fondare significhi derivare qualcosa da qualcos’altro, sia in senso induttivo che deduttivo. La fondazione filosofica è a mio avviso qualcosa di diverso, è stata sempre qualcosa di diverso. Ci si era già incamminati verso un altro tipo di fondazione, come si vede esaminando la polemica di Agostino contro gli scettici, leggendo Descartes o Husserl. Già esisteva cioè quella che potremmo chiamare una fondazione riflessiva, solo che per me essa non si configura più come riflessione sui presupposti della propria coscienza bensì come riflessione sugli incontestabili presupposti dell’argomentazione. È importante rendersi conto che per chi argomenta l’argomentazione si rende inaggirabile, qualcosa oltre cui è impossibile risalire. Certo, è sempre possibile rifiutare l’argomentazione, ma chi si rifiuta di argomentare non può più dir la sua; non sarebbe per così dire più presente; non ne sapremmo niente, se non argomentasse affatto. Se invece vuole avanzare una qualche proposta, un qualche argomento, deve prendere parte all’argomentazione e deve quindi riconoscere anche tutte le presupposizioni connesse con la sua partecipazione all’argomentazione. Quando attuo tale riflessione sulle necessarie presupposizioni dell’argomentazione, incontro anche il principio dell’etica. Quel che dico non fa che generalizzare quanto già espresso da Peirce a riguardo della comunità degli scienziati, per riferirlo alla comunità di tutti coloro che sono in grado di argomentare o, se si vuole, di pensare. Costoro hanno già sempre riconosciuto di formare una comunità di persone dotate di pari diritti e insieme di pari responsabilità, ovvero una comunità di persone solidali nella responsabilità e nell’uguaglianza dei diritti. Io credo che tutto ciò sia già presupposto da ogni seria domanda: ponendola, si suppone di essere entrati nello spazio di una comunità anticipata come comunità di uguali nei loro diritti e nella loro responsabilità, relativamente ad ogni possibile soluzione dei problemi sollevati. E quando riusciamo a esplicitare questi presupposti in termini formali e procedurali, otteniamo un principio di fondo per tutti i discorsi in cui vengano affrontati problemi concreti in rapporto a situazioni specifiche. Questo è per così dire il secondo livello: è comunque indispensabile che molti problemi vengano delegati ai concreti discorsi pratici, poiché è lì che possono venir portati a espressione i bisogni degli interessati e messo a frutto il sapere degli esperti. Per il resto sono un fallibilista, anzi per dirla con un pizzico di provocazione, sono un fallibilista conseguente, che rifiuta soltanto una affermazione incondizionata del fallibilismo, tale da distruggere i presupposti del fallibilismo stesso. Il fallibilismo è comprensibile solo a patto di supporre come non fallibili quei presupposti che consentono di comprendere il significato di concetti come fallibilità, controllo, falsificazione; e fra questi presupposti vi è anche il principio del discorso che ho appena tentato di chiarire, insieme con le sue implicazioni etiche. Tale principio è indispensabile per comprendere che cosa significhi controllare un’ipotesi e quindi poterla dichiarare falsificabile. Risulta quindi assurdo, come fa il mio amico Habermas, proporre di controllare le quattro pretese di validità, da lui messe in luce e avanzate necessariamente da ogni argomentante (che io del resto condivido pienamente), di volerle controllare alla stregua di ipotesi linguistiche, interrogando il maggior numero possibile di parlanti competenti. Cosa sensatissima per quanto riguarda le ipotesi linguistiche, ma priva di senso per i presupposti dell’argomentazione in quanto tale, i quali vengono già sempre presupposti in ogni controllo. È impossibile pensare il concetto stesso di controllo, se non assumendo che i presupposti in questione, comprendenti anche il principio dell’etica, siano già sempre riconosciuti da tutti.
DOMANDA N. 4
Con fondazione ultima intende dunque la messa in luce di quanto è da noi già sempre presupposto, allorché argomentiamo razionalmente. Ora, si pone il problema seguente: tale messa in luce, come ha appena sottolineato in opposizione a Habermas, è di natura apriorica e non empirica. Se infatti fosse empirica, non avrebbe un sufficiente grado di validità, di apoditticità. Ora, le proposizioni ottenute tramite fondazione ultima, ad esempio il fatto che noi si debba argomentare, sono proposizioni analitiche, tali per cui chi le contestasse tramite argomentazione si contraddirebbe?
Non sono analitiche nel senso di banali tautologie. Ciò ci rinvia alla distinzione tra la ricerca di autocontraddizioni performative tramite riflessione e l’esibizione di autocontraddizioni semantiche, come “A e non-A”. Ciò che scopro nella riflessione trascendentale non è mai banalmente analitico, bensì qualcosa da esplicitare. Ammetto che le nostre esplicitazioni possono essere rivedibili: io stesso ho spesso corretto mie precedenti esplicitazioni. A questo punto l’amico Albert obietterebbe che sono dunque fallibili. A ciò rispondo che non sono però fallibili alla stregua di ipotesi empiriche, in quanto le revisioni di queste scoperte della riflessione trascendentale si ottengono commisurando i tentativi di esplicitazione con quanto è saputo a priori; ovvero: ciò che è certo, resta tale. E ad esso si è sempre di nuovo rimandati nel processo della riflessione; processo che presenta una struttura autocorrettiva. Si tratta di una struttura unica nel suo genere, del tutto diversa da quella che ci conduce a correggere ipotesi empiriche. Una fondazione filosofica che non sia una fondazione ultima nel senso da me accennato, non sarebbe per nulla a mio avviso una fondazione. Forse è possibile mostrarlo; posso tentare di farlo riferendomi a quanto Hans Albert propone per la fondazione di norme. Albert intende indicare a quali conseguenze determinate norme condurrebbero, nel caso venissero regolarmente applicate. Idea che anch’io condivido. Del resto la stessa etica del discorso, in quanto etica delle responsabilità, prevede che vengano sempre prese in considerazione le conseguenze dirette e indirette. Ma tutto dipende da ciò: se si posseggono o meno dei criteri per la valutazione delle conseguenze. Si potrebbe forse introdurre un criterio minimale, cioè quello della sopravvivenza degli uomini, che però si rivela insufficiente, benché ovvio. Devono dunque darsi alcuni criteri sui quali misurare le conseguenze per gli interessati. Io non mi propongo di avanzare una fondazione ultima delle norme concrete derivabili da una tale idea, bensì soltanto il principio formale e procedurale secondo cui le uniche norme che in ultima istanza possono essere ritenute valide sono quelle che potrebbero riscuotere il consenso di tutti gli interessati, in considerazione delle conseguenze derivanti dalla loro applicazione. Sulla base di questo principio possono poi aver luogo discorsi in cui esaminare le norme alla luce delle differenti situazioni e momenti.
DOMANDA N. 5
In base a quale criterio le norme devono essere giudicate a questo livello concreto?
Bisogna innanzitutto accertare le conseguenze dirette e indirette; e già questo può dare adito a vaste discussioni. Esiste anche il problema di assicurarsi esperti affidabili, i quali determinino ad esempio i pericoli derivanti dalla costruzione di una discarica atomica. È accaduto in un caso che un esperto sia giunto alla conclusione che non potremmo assumerci la responsabilità di un simile intervento, in quanto non siamo in grado di escludere eventuali mutazioni degli strati geologici, con conseguenze che non sarebbe lecito addossare alle future generazioni. Questo sarebbe quindi il primo compito: analizzare la situazione e considerare le conseguenze. D’altro lato, bisogna accertare gli interessi di coloro che risentirebbero delle conseguenze previste, interessi che vanno messi a confronto tra loro e con le conseguenze. Ovviamente si tratta di idee regolative; ciò che in pratica possiamo raggiungere è sempre solo una rappresentanza parzialmente “avvocatoria”, per interposta persona, degli interessi in gioco. Non sarà mai possibile far partecipare al discorso i bambini o le prossime generazioni e neppure tutti gli abitanti di un paese. I discorsi non possono che aver luogo in modo “avvocatorio”, ovvero dando voce e prendendo in considerazione anche gli interessi di chi non può partecipare direttamente al discorso. L’intera democrazia funziona essenzialmente, a mio avviso, secondo tale principio regolativo, se è una vera democrazia, se non conduce soltanto a compromessi di interesse, ovvero se in essa hanno luogo autentici dibattiti, in cui venga data voce, come di solito si presume, ai bisogni di tutti gli interessati, sebbene in via indiretta. Si tratta naturalmente sempre e solo di un’idea regolativa. Ma, come nel caso della teoria della verità, è possibile sulla base di questa idea regolativa sottoporre a disamina e a critica le istituzioni esistenti, ovvero operare in forza del principio regolativo. Sono fermamente convinto che i principi regolativi rappresentino un orientamento per l’agire e ciò vale anche per il principio etico.
DOMANDA N. 6
Le due forme della comunità della comunicazione, cioè l’ideale e la reale, conducono a Suo avviso a due fondamentali principi etici: da un lato il principio della conservazione della comunità reale della comunicazione, cioè dell’assicurazione delle condizioni di sopravvivenza per la comunità reale della comunicazione, che è in certo qual modo l’elemento conservativo della Sua concezione etica; dall’altro il principio della instaurazione di forme di comunicazione sempre più libere, sempre più razionali. In che cosa a Suo avviso questi due principi etici si differenziano da quelli proposti da altri autori?
Il problema della reciproca funzione che i due principi, i due poli della comunità ideale e reale, devono svolgere è ben più complesso. Sviluppando ulteriormente le mie idee rispetto al mio primo saggio di etica, sono arrivato a distinguere tra due parti dell’etica: parte A e parte B. Direi che la necessaria anticipazione, la quale resta però controfattuale, della ideale comunità della comunicazione mi fornisce il principio ideale di un’etica deontica e universalistica della comunicazione o del discorso: il principio cioè della necessità che tutte le norme fondamentali debbono essere capaci di consenso nelle loro conseguenze per tutti gli interessati. Il fatto però che contemporaneamente io sia membro di una comunità reale e storicamente sviluppatasi dalla comunicazione non mi fornisce solo il principio per cui sono responsabile insieme agli altri della conservazione dell’umanità. Il problema è ben più complicato: la circostanza che io di fatto non sia mai membro di una comunità ideale della comunicazione, ma rimanga sempre entro una comunità reale, mostra che non sempre vale ciò che alcuni hanno sostenuto, e che è assolutamente inaccettabile per un’etica della responsabilità: noi non siamo membri di una comunità ideale, sicché non possiamo neppure agire secondo tale massima, che equivarrebbe a una pura etica dell’intenzione, così come delineata da Weber. Quando esaminiamo le effettive massime di azione, dobbiamo tener conto del fatto che la comunità ideale non esiste, e in senso stretto neppure esisterà mai, trattandosi di un’idea regolativa. In tal caso dobbiamo considerare contemporaneamente le situazioni che di fatto ci troviamo dinanzi. Per esempio non possiamo contare sul fatto che a partire dalle ore 9 di domani mattina inizieremo a regolare tutti i nostri problemi in base al principio del discorso ideale. Qui si affaccia il dilemma del prigioniero: nessuno potrà mai sapere se l’altro è disposto a conformarsi al principio. In altre parole: è ovvio che noi dobbiamo riallacciarci alla situazione storica e concretamente esistente, alla eticità sostanziale in senso hegeliano, a ciò che in essa vi è di razionale, ma anche di irrazionale. Dalla differenza tra comunità ideale e reale della comunicazione risulta ad esempio il principio che noi siamo tenuti a operare in quest’ultima, affinché le situazioni mutino sul lungo periodo (senza però presumere di raggiungere il fine ideale), in modo tale da avere maggiori possibilità di risolvere i problemi in discorsi pratici corrispondentemente alle condizioni ideali della comunicazione. Così come stanno oggi le cose, siamo costretti, purtroppo, a mediare i principi ideali dell’etica del discorso con norme di razionalità strumentale, con le norme dell’agire strumentale. A tal proposito desidero notare che la parte B dell’etica è particolarmente spinosa, in quanto si tratta di avanzare un principio formale che integri l’etica del discorso ideale, ma anche allo stesso tempo non permetta qualsiasi cosa nel tentativo di instaurare le condizioni di applicazione dell’etica del discorso. Si pone qui non solo il problema di adattare le norme alle situazioni con capacità di giudizio o phronesis, come si è soliti dire; ma per un’etica post-convenzionale del discorso anche quello di produrre le condizioni di applicazione; ovvero, più precisamente, di cooperare alla creazione sul lungo periodo di queste condizioni di applicazione. E qui potremmo tornare alla comunità reale: non si tratta solo di conservarla, cosa che mi appare sempre più chiara oggi, dopo le mie discussioni con Hayek. Anche Hayek infatti è dell’avviso che la reale comunità comunicativa debba venir conservata, ma egli è disposto ad abbandonare a se stesso il Terzo Mondo, se necessario. I razzisti ad esempio, i sociobiologi direbbero che si tratta di far sì che i geni simili si conservino, e ciò non implica affatto che noi dobbiamo essere solidali con tutti gli uomini. Mentre la solidarietà con tutti i possibili membri della comunità comunicativa è quanto persegue l’etica del discorso. Perciò non possiamo interpretare l’obbligo che abbiamo di preservare la reale comunità comunicativa, come se fosse sufficiente che noi ad esempio si sopravviva, mentre gli altri possono anche morire a vantaggio nostro; idea che possiede una sua plausibilità alla luce dell’attuale sovrappopolazione, dello stato di squilibrio della ecosfera o della scarsità delle risorse, per esempio foreste, legno , ecc. Potrà anche darsi, ma sarebbe spaventoso, che la soluzione sarà questa, che soluzioni umane non potranno essere trovate, che una parte dell’umanità perirà. Non è quindi tutto risolto, dicendo che va presa in considerazione la conservazione della reale comunità della comunicazione. Non basta. Qui posso solo limitarmi ad indicare che i problemi sono ben più complicati.
DOMANDA N. 7
Ritorniamo al nostro tema iniziale, professor Apel. Pur avendo ampiamente contribuito alla recezione della filosofia americana in Germania, Lei resta comunque particolarmente legato alla cultura tedesca. In fondo la catastrofe della Germania L’ha spinta verso la filosofia, ha fatto sì, per citarLa, che Lei divenisse uno studente di filosofia a vita. Come spiega oggi quella catastrofe sulla base delle categorie etiche e filosofico-storiche da Lei nel frattempo elaborate?
Una grossa domanda. A tal riguardo ho espresso alcune idee nel mio ultimo lavoro, non ancora pubblicato, scritto in occasione di un convegno dedicato alla questione: che cosa abbia significato questa catastrofe per i filosofi tedeschi ed i cultori di etica in particolare, che, vivendo in quel periodo, ne abbiano avuto esperienza diretta. Ho tentato di rispondere così alla Sua domanda: è possibile addurre molte ragioni per spiegare la crisi che ha preceduto l’instaurarsi del nazismo, ragioni economiche, il risentimento della popolazione nei confronti del Trattato di Versailles, il fatto che non esistesse ancora una vera base sociale per la democrazia (forse, come anch’io ritengo, sarebbe stato meglio se, come in Giappone, l’imperatore fosse rimasto). Di queste cause della dinamica che ha condotto alla catastrofe rappresentata dal cosiddetto Terzo Reich, dal nazionalsocialismo, si può ben dire senza dubbio che siano tutte importanti e che non sia dunque possibile una spiegazione monocausale. Ma anche la catastrofe morale che ebbe luogo allora con il Terzo Reich, la distruzione dello Stato di diritto e, per usare i termini di Kohlberg, la regressione di quello stesso popolo che aveva generato un Kant a stadi primitivi di una morale puramente nazionalistica del tipo law and order, se non a una morale ancora più arcaica fondata sulla parentela di sangue, come nell’ideologia razzista, tutti questi elementi di regressione morale sono parti essenziali del quadro generale. Al momento avanzerei la supposizione che quella particolarissima situazione, che non poté certo prodursi all’improvviso, fosse anche una sorta di regressione morale, preparata anche a livello intellettuale, dai filosofi, come Nietzsche ad esempio, e che, insieme con gli altri fattori di natura economica, militare e politica, offrirebbe, per così dire, una powerful explanation di quel che accadde allora. Nel lavoro di cui ho parlato prima mi sono preoccupato soprattutto di offrire una analisi di quella regressione dal punto di vista di una logica dello sviluppo morale, dando particolare rilievo ai possibili effetti di certi sviluppi della filosofia ottocentesca; non solo Nietzsche, ma tutte le varie forme di riduzionismo che fecero allora la loro comparsa, come la tentazione di ridurre la morale, tramite una qualche genealogia, a qualcosa di affatto diverso, a un insieme di elementi socio-darwinistici. Una fortissima tentazione di ispirazione scientista, del resto, che affascinò allora gli intellettuali. Se si tiene presente il confluire di ciò con condizionamenti di natura politica ed economica, è forse possibile tentare una migliore ricostruzione di quella catastrofe.
DOMANDA N. 8
È dunque dell’avviso che i filosofi debbano condividere la responsabilità politica di quanto accade nel mondo, giacché essi elaborano modelli di comportamento e categorie mediante cui gli uomini sviluppano la comprensione di sé e delle loro azioni? Ritiene che lo spirito dei nostri giorni, diffusosi a livello mondiale, eserciti una funzione politicamente negativa, possa cioè generare pericoli da cui guardarsi?
Sì, in parte direi di sì, anche se desidererei essere prudente. Forse non è giusto sopravvalutare certi fenomeni passeggeri, che pur occupano la ribalta del momento, dell’odierno panorama filosofico. Se però riconosciamo una rappresentatività a quanto, risultando al momento en vogue fra i media, ci viene presentato come una delle maggiori e più importanti novità filosofiche, si può nutrire a volte una qualche paura. Se si guarda a come certe posizioni di Nietzsche ed altri o una certa predilezione per Heidegger, ormai diffusasi anche all’estero, ci viene ora riproposta qui in Germania come filosofia alla moda, esteticamente banalizzata; quando considero tutto ciò, mi chiedo se questi intellettuali abbiano coscienza dei problemi davvero nuovi con cui oggi siamo chiamati a confrontarci. È singolare ad esempio che il post-modernismo assurga a proposta filosofica complessiva, connessa con una critica radicale dell’epoca moderna e persino della intera storia della cultura e della filosofia. Esistono certo a mio parere molti aspetti di tutto rilievo per cui è possibile sottoporre a critica particolarmente lo sviluppo prodottosi nell’epoca moderna, ad esempio l’unilaterale manifestazione di certe forme di razionalità, come quella tecnica o strategica. E oggi possiamo senza dubbio indicare alcuni fatti che annunciano qualcosa di molto simile a una fine dell’età moderna. Esistono elementi di assoluta novità, come ad esempio il problema della crisi ecologica, con cui non possiamo fare a meno di confrontarci, che nessuno prima aveva previsto e da cui risultano problemi nuovi per la responsabilità tecnica e scientifica. Ma la cosa singolare è che proprio questo movimento che si definisce post-modernista non tematizzi nulla di tutto ciò. Ben altre cose vengono dichiarate importanti e tematizzate, cose dinanzi a cui, secondo me, non si può che scuotere il capo. Si diffondono slogan del tipo: non dobbiamo più perseguire il consenso, ma il dissenso; oppure che sarebbe una catastrofe per l’umanità se si volesse dimostrare come vincolante un principio morale di natura universale, valido per tutti gli individui e le diverse culture. A ciò non posso che rispondere che esattamente questo è necessario. Proprio se vogliamo immaginarci il coesistere di diverse forme di vita e se ogni individuo, così come già Kant esigeva, ha il diritto di ricercare la felicità a suo modo, devono esistere norme universali che lo rendano possibile, che rendano possibile la convivenza di forme di vita diverse. Cosa oggi necessaria a livello mondiale, se le grandi culture vogliono andare d’accordo. Anzi è richiesto ancora di più: le culture devono cooperare tra loro, non solo convivere, se vogliamo aprirci una qualche possibilità per superare la crisi ecologica. E a questo scopo abbiamo ovviamente bisogno di consenso e di norme universali, nel cui quadro, entro i cui limiti, tutti possano realizzare le loro forme individuali di vita. Da questo punto di vista non posso che dichiarare assurde certe affermazioni di Foucault o anche di Lyotard. Posso solo dire che di fatto la catastrofe si verificherebbe, se noi, invece di perseguire il consenso, cercassimo solo di tendere al dissenso. Si verificherebbe una catastrofe, se non ci fossero principi universali, rappresentati ad esempio dai diritti dell’uomo, se non potessimo considerarli vincolanti per tutti.
Intervista di Vittorio Hösle
ETICA DELLA RESPONSABILITÀ
Etica della responsabilità
DOMANDA N. 1
Professor Jonas, Lei è senza dubbio uno dei più famosi pensatori del nostro tempo e il suo nome rappresenta la coscienza ecologica della nostra epoca. Pochi hanno mostrato in maniera più incisiva i pericoli che l’umanità dovrà affrontare e nessuno ha tentato di fornire in maniera più approfondita una fondazione metafisica dei nuovi problemi etici che dobbiamo risolvere. Nel Suo lavoro la coscienza etica e la speculazione teoretica si sono intrecciate in un modo singolare, a partire dai lavori sullo gnosticismo, attraverso il confronto con la filosofia della vita, fino a porre la questione degli organismi nella sua specificità filosofica.
Qual è, dal Suo punto di vista, la caratteristica fondamentale degli organismi?
Interrogarsi sul problema dell’organismo significa porre implicitamente due questioni: occorre infatti innanzitutto chiedersi perché mai una comprensione degli organismi sia filosoficamente rilevante; ma è necessario inoltre indagare anche quali siano le caratteristiche fondamentali della vita e dell’esistenza organica. Per quanto riguarda il primo aspetto del problema, si dovrà riconoscere che, fin dai suoi esordi, la filosofia si è sempre occupata del rapporto tra mente e corpo o materia, ovvero tra anima e corpo. Si tratta di problemi strettamente legati alla questione della mortalità o immortalità dell’anima, anche e soprattutto in rapporto al nostro corpo. È evidente infatti che chi è capace di dire di sé “io”, collocandosi pertanto al di fuori di ogni altra cosa e di ogni altro “io” o “ego”, mantiene le sue relazioni con il mondo e con se stesso proprio attraverso le sensazioni del proprio corpo. Per esempio la nostra conversazione è possibile perché ci sono dei suoni che mi provengono da Lei e degli altri che io Le indirizzo, suoni che riusciamo a decodificare grazie alla mediazione di meccanismi molto complessi e sofisticati che regolano il funzionamento delle nostre orecchie, dei nervi e del cervello in modo tale per cui riusciamo a capirci l’un l’altro, nonostante ogni possibile fraintendimento. Essenzialmente sappiamo di noi, degli altri e del mondo intero proprio attraverso questo modo basilare dell’esistenza che è il corpo vivente, certo non riducibile a un semplice sistema fisico, nonostante il corpo sia anche questo. Anche una macchina molto sofisticata potrebbe essere in grado di dire “io”, ma non diventa per questo una realtà vivente. Tutti i grandi temi della riflessione filosofica, come il problema del rapporto tra mente e materia, tra anima e corpo e pertanto anche il problema della libertà e della necessità, della mortalità e dell’immortalità, del tempo e dell’eternità sono connessi a questo modo di esistere fragile e precario dell’organismo, al tempo stesso meravigliosamente efficiente e altrettanto vulnerabile. Questa inevitabile centratura sull’organismo pone del resto alla filosofia un problema serio e reale, che a lungo si è cercato di risolvere in modo dualistico. Si era scoperto infatti il miracolo della mente, capace di trascendere il momento corporeo e le sensazioni del presente per occuparsi di questioni di rilevanza e validità eterna. A questo riguardo il mio esempio favorito è Pitagora, il quale, scoprendo il suo famoso teorema, capì che esso era valido non solo nel momento della scoperta, ma per tutti i tempi, indipendentemente dal fatto di essere conosciuto o meno. Questa capacità trascendente della mente ha sedotto a lungo la filosofia, inducendola a contrapporre due entità, o, per meglio dire, i due poli dell’esistenza, riferiti a due diversi ambiti dell’essere: l’ambito della materia e della sostanza fisica da un lato, l’ambito della mente, del pensiero puro e dell’anima dall’altro. Si è considerato il primo ambito come caduco, deprivato di ogni forma di sentimento e di passione soggettiva, l’altro invece come immortale, in quanto sfera della pura coscienza e di uno spirito puro. A dire il vero non mancano obiezioni assai consistenti a una tale scissione dualistica della realtà, che pure ha rappresentato il punto di partenza teorico di correnti di pensiero molto importanti. Proprio perché l’organismo risulta il punto di incontro – e forse molto di più che non un semplice punto di incontro – tra questi due differenti ambiti di realtà, mi sembra filosoficamente assai rilevante porre il problema della sua natura. Per quanto riguarda l’altro aspetto del problema, e cioè l’interrogativo a proposito delle caratteristiche essenziali degli organismi viventi, si tratta, ovviamente, di un tema assai ampio, che non può essere esaurito in poche battute. Un aspetto poco considerato dai filosofi della tradizione, compreso Leibniz, che pure ha rappresentato per me un importante punto di riferimento, è proprio il fenomeno della mortalità, il fatto cioè che l’organismo sia qualcosa di caduco, destinato a perire immediatamente se non si opponesse continuamente alla propria distruzione, rinnovando senza posa il suo stesso essere attraverso un’attiva interazione con l’ambiente, comunemente chiamata metabolismo. Il termine tedesco è assai significativo: Stoffwechsel significa infatti letteralmente ‘scambio di materia’ con l’ambiente circostante, e cioè scambio tra materia ed energia. Il metabolismo è in fondo una prova della precarietà dell’esistenza, perché da un lato si tratta di un costante rinnovamento inteso a evitare la morte, dall’altro è un processo assolutamente necessario, giacché, senza il continuo scambio di materia con il mondo esterno, l’organismo ben presto perirebbe. Il fatto di essere collocati tra essere e non essere ha sempre rappresentato ai miei occhi la caratteristica essenziale dell’esistenza organica, perciò ho fatto spesso riferimento agli autori che si sono interrogati sulla condizione degli esseri mortali, esprimendo in maniera altamente spirituale la loro profonda comprensione della condizione umana. Penso ad Agostino, a Pascal e ad altri profondi esploratori dell’anima. Effettivamente noi siamo già segnati, se non addirittura prefigurati da quel preciso modo di essere nel quale si radica la nostra stessa vita, ossia da quel modo di essere organico legato al metabolismo.
DOMANDA N. 2
Alcuni esseri vienti sono caratterizzati da quella che può essere chiamata la “dimensione interiore”, ovvero dalla soggettività e dal sentimento. Ci si è chiesti ripetutamente se questa dimensione fosse presente in tutto ciò che vive, oppure fosse prerogativa degli animali superiori, ma già una questione del genere implica problemi metodologici tremendi, giacché possiamo osservare soltanto gli aspetti esteriori della soggettività: Lei può, sì, ascoltare i suoni che provengono dalla mia persona, ma in fondo può cogliere immediatamente solo ciò che viene dalla Sua stessa interiorità. Perciò non sorprende che un pensatore della grandezza di Descartes abbia negato che gli animali posseggano una dimensione interiore, mentre Leibniz ha pensato, al contrario, che tutti gli esseri, anche quelli inorganici, abbiano una qualche forma di soggettività, per quanto debole. Certamente entrambe le posizioni sono contrarie al senso comune; Lei quale posizione difenderebbe?
Il mio argomento principale a difesa del senso comune è il seguente: la presunta verità in base alla quale si conoscerebbe immediatamente solo la propria coscienza mentre la conoscenza dell’altra coscienza sarebbe solo indiretta, è, a mio avviso, semplicemente una falsa credenza. Se mi riferisco alla mia stessa coscienza, se la considero ontogeneticamente, se guardo a come si è formata, devo riconoscere che non avrebbe potuto formarsi affatto senza l’esperienza di altre coscienze intorno a me, che esprimono se stesse nei loro volti, in suoni, in gesti, in contatti nei miei confronti, senza tutte queste sollecitazioni la mia interiorità sarebbe rimasta probabilmente assai rudimentale. È semplicemente falso ritenere che ci sia un ambito indipendente e isolato della propria interiorità e che si traducano artificialmente i simboli e le sollecitazioni che provengono dall’esterno in termini di coscienza altrui. La realtà è che il nostro linguaggio, così come ciò che esperiamo in noi stessi, è in grado considerevole il frutto di altre coscienze: la società, la tradizione, la cultura nella quale siamo cresciuti e in cui siamo immersi, sono sempre attivamente implicate nella formazione della nostra interiorità. Certamente una volta entrati nel pieno possesso dei nostri poteri spirituali, potremmo anche noi prendere una posizione analoga a quella di Descartes rispetto agli animali. Ma in effetti io non posso credere che facesse veramente sul serio quell’ufficiale, Cartesio, mentre cavalcava al tempo della guerra dei Trent’anni; io non credo che pensasse davvero che il suo cavallo non fosse minimamente animato da nessuna interiorità propria, che fosse una semplice macchina totalmente condizionata nelle sue reazioni e nei suoi comportamenti dalle sollecitazioni del mondo esterno. Se egli avesse avuto un cane – e probabilmente lo aveva -, certo non avrebbe potuto negargli qualsiasi traccia di interiorità. La sua concezione fu dovuta probabilmente a una specie di esagerazione filosofica, dovuta a particolari esigenze metodologiche. Egli infatti aspirava a una natura interamente spogliata da ogni elemento misterioso, in modo tale da poter essere assoggettata completamente ai criteri e ai metodi cognitivi di una conoscenza del mondo esterno quantitativamente misurabile, e cioè alle nuove regole della scienza naturale moderna. Perciò egli riservò solo alla coscienza umana questa capacità speciale di poter entrare in relazione con l’esterno, anche attraverso quel particolare tipo di macchina fisica che è il corpo umano. Ma nessuno di noi prende realmente sul serio una siffatta concezione, anzi dubito del fatto che lo stesso Descartes l’abbia presa sul serio, visto che si tratta di una posizione intrinsecamente impossibile. Per ritornare al punto di vista del senso comune, si può dire che la nostra comprensione delle menti altrui precede di fatto la comprensione della nostra mente.
DOMANDA N. 3
Certamente il problema del rapporto tra mente e corpo è una delle questioni filosofiche più misteriose e difficili. Lei rifiuta, al riguardo, sia l’epifenomenalismo monistico che la soluzione dualistica di Descartes. Come caratterizzerebbe la Sua posizione?
La mia posizione è un tentativo monistico privo del nonsenso dell’epifenomenalismo. Quando si sostiene la concezione dualistica, la situazione allora è chiara: da un lato si ha l’ambito della materia e dell’universo fisico, in cui regna incontrastata la scienza naturale, applicabile ed estensibile ovunque. Infatti, anche laddove tale scienza si dovesse dimostrare insufficiente, ciò indicherebbe semplicemente la necessità di un suo completamento e miglioramento. Dall’altra parte si ha invece l’interiorità, il regno della coscienza, quello che Edmund Husserl ha chiamato propriamente l’ambito dei fenomeni interni, che non ha niente a che fare con la causalità e con le altre leggi che connettono e dominano il mondo della materia. È evidente che una posizione dualistica del genere non è sostenibile per una serie di ragioni. Io stesso mi sono misurato con i problemi del dualismo soprattutto nei dieci o quindici anni di lavoro teoretico dedicato – come Lei ricordava – allo gnosticismo. Ebbene, lo gnosticismo rappresenta appunto l’acme della speculazione dualistica sulla natura delle cose, dell’universo e dell’uomo. Il dualismo ha una storia molto venerabile, basti pensare al vecchio Platone, che è uno dei grandi fondatori del dualismo, oltre che uno dei più grandi pensatori di tutti i tempi. Ma, nonostante Platone, il dualismo non è sostenibile, innanzitutto perché non possiamo formulare il concetto di un’anima che non abbia niente di corporeo, e questo non solo perché uso il mio corpo, per esempio, per parlare e profferire dei suoni, ma anche perché adopero qualcosa di corporeo anche nel formare i miei pensieri, formulandoli poi in suoni che costituiscono il linguaggio. In questo modo ogni concetto che uso è in qualche modo carico o perlomeno permeato di esperienze corporee e fisiche. Perciò non possiamo realmente tracciare una netta divisione tra mente e corpo. In realtà il dualismo non funziona come posizione teorica anche per tutta una serie di ragioni molto più profonde di quelle che sono state brevemente accennate. Anche il monismo, d’altro canto, è assolutamente inaccettabile, perché assoggetta la comprensione della mente alle richieste della scienza della materia. In fondo il monismo ha sempre preteso di dare un’interpretazione unitaria del nostro comportamento, dimostrando l’analogia tra il cervello e la mente: come il corpo agisce in accordo alle leggi di natura, così la mente non sarebbe altro che una semplice espressione di ciò che comunque fa il corpo. Ebbene, una concezione del genere rende nullo qualsiasi sforzo, distrugge la realtà di qualsiasi essere ragionevole che prende delle decisioni, che sceglie tra due linee di azione, che decide di seguire le leggi della ragione piuttosto che l’impulso della passione. Tale concezione nientifica tutto ciò perché, risolvendo tutto secondo leggi deterministiche di natura, rende in realtà la mente nient’altro che una specie di riflesso speculare della materia. Nonostante i limiti del monismo, debbo tuttavia riconoscere che la risposta al nostro problema deve essere, in certo qual modo, ancora monistica, tanto più che siamo inclini a credere che l’essere sia uno. Se ora assumiamo la posizione monistica come una prima ipotesi, da essa segue che non dobbiamo interpretare noi stessi nei termini dell’uno o dell’altro dei due poli – corpo e anima, spirito e materia, oggettività e soggettività – ma che dobbiamo piuttosto interpretare il nostro essere comprendendolo in termini che ammettano la coesistenza dei due aspetti, ognuno con i suoi diritti e inteso come una manifestazione della medesima realtà di base. Tutto ciò mi ha portato a tentare una nuova interpretazione dell’antico problema della libertà umana, in particolare ho cercato di mostrare che la libertà è compatibile con il determinismo imperante nell’ambito della realtà fisica, il che permette di non scindere radicalmente la mente o l’anima dall’ambito della realtà fisica. In altre parole, ho tentato di confutare e respingere il cosiddetto argomento della compatibilità, secondo cui la libertà umana sarebbe incompatibile con le leggi di natura. A mio parere essa è invece compatibile almeno con la nuova concezione delle leggi di natura cui facciamo riferimento da quando è apparsa sulla scena la meccanica quantistica.
DOMANDA N. 4
Lei si sta riferendo alla libertà di quell’essere che sta all’apice dell’evoluzione nel regno animale, ossia alla libertà dell’uomo. È in questa libertà che va individuata la sua essenza?
Il vecchio modo di rispondere a questo interrogativo trasformava aristotelicamente la questione chiedendo quale ne fosse la “differenza specifica” dell’uomo, visto che, in base al “genere”, egli è un animale. Aristotele era molto chiaro su questo punto: anche in seguito a tutta una serie di caratteristiche inseparabili dall’uomo, qualunque ne sia la concezione di riferimento, egli appartiene certamente al grande “genere” degli animali. Ma gli animali non esauriscono la vasta gamma della vita, poiché esiste un’altra grande classe di esseri viventi come le piante. Naturalmente Aristotele non conosceva i virus, che rappresentano una realtà in qualche modo neutrale rispetto alla distinzione tra animali e piante, ma per il momento possiamo lasciare da parte un tale problema. La classificazione di Aristotele può ancora essere considerata come valida: l’uomo, insomma, apparterrebbe al genere degli animali e non a quello delle piante perché, come gli animali, ha organi di senso che lo informano dei cambiamenti nel mondo esterno, si può muovere liberamente, dirigendo i proprî movimenti in accordo alle scelte fatte sulla base della propria percezione del mondo. Nel regno animale vi è dunque la percezione, la motilità, ma anche un qualche potere di decisione, poiché anche una lepre può correre da una parte o dall’altra e scegliere pertanto, pur senza un’adeguata deliberazione, visto che è forse il panico di fronte a un pericolo a motivare la fuga in una certa direzione anziché nell’altra. Certamente l’uomo condivide tutte queste caratteristiche con gli animali e specialmente con gli animali superiori, che hanno il senso delle lunghe distanze, che hanno un grosso controllo dei proprî arti, che sono capaci di una grande motilità, di reazioni rapide e via dicendo. L’uomo ha poi molte altre caratteristiche in comune anche con animali di specie inferiori: per esempio l’uomo è un mammifero, respira aria. Ogni confronto con altre specie animali induce comunque a riproporre la questione del che cosa distingua l’uomo dagli altri animali, visto che egli non è comunque assimilabile semplicemente agli altri esseri viventi animali. Per Aristotele una caratteristica presente nell’uomo ci induce però a riconoscerlo come tale: non si tratta semplicemente del suo corpo, ma piuttosto di qualcosa di cui l’uomo è capace, del ragionamento o linguaggio. Il termine greco è logos, che in tedesco potremmo tradurre con Ausdruck, espressione. L’uomo è per Aristotele l’animale che ha il logos, ossia il linguaggio o la ragione. È una buona definizione, certo non perfettamente adeguata, si può considerarla comunque come una buona definizione di lavoro, che suscita alcuni interrogativi, il primo dei quali è il seguente: questa ragione rende davvero l’uomo quello che è? Sappiamo infatti che l’uomo non è soltanto ragione. Se ci volgiamo al grande mondo dell’arte, guardando, per esempio, alla volta della Cappella Sistina o a qualche altra grande opera, se ascoltiamo una sinfonia di Beethoven, in effetti non ci troviamo davanti al lavoro esclusivo della ragione, anche se la ragione dell’artista ha certamente giocato un suo ruolo. Nella creazione di queste opere l’opera della ragione non ne esaurisce certamente il pregio, la ricchezza e il fascino, altrimenti gli artisti potrebbero essere considerati alla stregua di semplici scienziati. Si tratta piuttosto di un intero complesso di funzioni, di forme di comportamento, di creatività e creazione di un mondo artificiale, si tratta della capacità di trasformare il mondo che ci è dato in qualcosa d’altro, e sono proprio queste le caratteristiche che distinguono l’uomo da tutte le altre creature. Una interpretazione dell’uomo in chiave razionalistica diventa allora una questione di gusto e inclinazione degli interpreti, ovvero dipende dalla situazione particolare dell’antropologia filosofica dei tempi passati, che ha esaltato la ragione sopra ogni altra cosa. Ma io ho dato invece una qualche preferenza anche alla libertà del gioco dell’immaginazione, al fatto che l’uomo, grazie alla sua capacità immaginativa, può e vuole cambiare le immagini e le idee che sono nella sua testa, sostituendo quelle impresse dall’esterno con quelle create da lui stesso nella propria mente, variando così le impressioni esterne. Questa attività continua di creazione ed invenzione è alla base delle capacità più alte della ragione, naturalmente è alla base anche di tutte le sue perversioni, giacché l’uomo può inventare le cose più terribili e le più contrarie all’eccellenza che pure può creativamente immaginare.
DOMANDA N. 5
È proprio questa capacità che ha l’uomo di fare anche scelte orribili ad imporre il problema di ciò che non si deve fare, ossia il tema dei doveri etici. A Suo parere li si può fondare?
Il problema dei doveri etici rappresenta un caso in cui la credenza e la fede che ci sia un fondamento precede la conoscenza di questo fondamento stesso. Abbiamo appena celebrato il duecentesimo anniversario della pubblicazione della Critica della ragion pratica: è stata proprio la riflessione di Immanuel Kant a porre alla base dell’agire il fatto che la voce della nostra ragion pratica, ossia la voce morale dentro di noi è un fatto in se stesso, che appartiene al regno della verità e ci obbliga a trovarne il fondamento. Noi non deriviamo i nostri imperativi morali da un’ipotesi arbitrariamente posta, ma è invece proprio a partire dalla presenza del fenomeno morale in noi stessi che noi sentiamo il dovere di cercare una fondazione che legittimi e giustifichi la nostra pretesa di dire: “Non devi far questo, ti è assolutamente proibito!”, oppure “Devi farlo!”. Siffatti imperativi non sono semplici espressioni di preferenze soggettive, individuali o di classe; essi pretendono piuttosto a una validità intrinseca. Pertanto è necessario trovare un fondamento della morale. Il mio particolare destino teoretico è stato proprio quello che mi ha spinto alla ricerca di un tale fondamento, costringendomi al disaccordo con quasi tutte le correnti dominanti della filosofia del XX secolo, per esempio con la filosofia analitica, con il positivismo logico, con la filosofia del linguaggio, e via dicendo. In queste posizioni – che rappresentano una singolare esagerazione della filosofia critica del XVIII secolo, da Hume a Kant – si è decretato che sono accettabili filosoficamente solo quei problemi per i quali ci si può aspettare una risposta empiricamente verificabile in linea di principio. È stato Wittgenstein a sostenere che non si possono porre i problemi ai quali non si può dar risposta. Ebbene, una siffatta concezione è un’autocastrazione della filosofia, e io mi rifiuto di piegarmi a questo imperativo del XX secolo! Sono abbastanza avanti con gli anni per non temere di sembrare arrogante e per non aver paura se gli altri la pensano diversamente. Non mi preoccupo affatto di quanto diranno i miei colleghi filosofi, cerco al contrario di esprimere le posizioni che a mio parere il filosofo ha il dovere di difendere e posso solo sperare che qualcuno in seguito migliorerà le tesi che io propongo in maniera certo assai imperfetta. Per parte mia, ho sempre cercato di mantenere viva l’antica fiamma della metafisica che sembrava spegnersi o addirittura sembrava essersi già spenta.
DOMANDA N. 6
Penso che sia molto importante il Suo interrogarsi sugli effetti delle nostre azioni e sui loro fondamenti metafisici, ponendo il problema dei diritti non solo delle persone attualmente in vita e proponendo il tema della responsabilità nei confronti delle generazioni future. In realtà per la prima volta nella storia dell’umanità noi abbiamo la possibilità tecnologica di distruggere la terra, ma non dobbiamo farlo. Per quale ragione diciamo che esseri umani non ancora nati – le future generazioni – hanno dei diritti, perché abbiamo il dovere categorico di fare tutto quanto è in nostro potere per proteggere la terra anche per loro?
Lei mi chiede quali diritti abbiano le generazioni future rispetto a noi, ma non è tanto questo il problema. Certo, se noi mettiamo al mondo dei figli, è chiaro che avranno delle esigenze che andranno rispettate, per esempio avranno bisogno di protezione e noi non potremmo certo soddisfare queste esigenze rovinando il nostro pianeta e saccheggiando la loro stessa eredità. Tuttavia, questa argomentazione lineare, che si riferisce ai doveri che abbiamo nei confronti dei nostri discendenti, può venir contrattaccata per mezzo di una semplice domanda: “In base a quale principio si ipotizza che ci debbano essere dei discendenti?”. Forse questa o quella generazione umana potrebbe essere l’ultima. Non sarebbe del resto la prima volta nella storia della vita e dell’evoluzione che una specie si estingue, forse anzi il nostro destino, scritto per noi sul libro dell’evoluzione, è proprio la prospettiva dell’estinzione. Qui si inserisce propriamente il mio argomento: ritengo che non siamo autorizzati a compiere o a permettere che avvenga il suicidio della nostra specie. Ma si potrebbe avanzare un’ulteriore obiezione: perché mai, infatti, dovrebbe valere per l’uomo ciò che non riteniamo valido per ogni altra specie sulla faccia della terra, e cioè che egli debba perpetuarsi all’infinito senza estinguersi mai, come avviene invece per le altre specie? La risposta che si dà in genere a un tale interrogativo rimanda normalmente all’eccellenza dell’uomo, vero culmine della scala evolutiva, in cui si esprimerebbe il tentativo più ardito della divinità di mostrare se stessa nella creazione, ragion per cui noi non possiamo contravvenire a un progetto talmente sublime del nostro creatore. Ma in realtà non c’è nessuna garanzia che noi non manderemo in rovina lo sviluppo dell’umanità e il progetto divino nel mondo, così come questo si è espresso sulla terra. Non sappiamo se altrove, nell’universo, esistano altri mondi abitati da esseri ragionevoli, siamo responsabili di quanto avviene sul nostro pianeta e di come valorizziamo o saccheggiamo il patrimonio a nostra disposizione. Questo è, a mio parere, il punto centrale dell’etica e della sua metafisica. Non si tratta tanto dei diritti dei nostri discendenti individuali, anche se certo non intendo neppure negarglieli in linea di principio, ma in primo luogo occorre riconoscere che i miei discendenti non hanno alcun diritto prioritario all’esistenza. Non si può dire infatti di un essere immaginario che questi ha dei diritti e non esistono diritti di esseri che non ci sono mai stati. Esistono unicamente i diritti degli esseri che già esistono, e se io metto al mondo degli figli, allora ho delle precise responsabilità nei loro confronti. Ma che si debba continuare a generare figli e a proseguire nell’avventura umana è un fatto che poggia su un fondamento diverso dal comune senso di equità, di giustizia e così via. È una questione che ci porta di nuovo su un terreno metafisico. Il nostro dovere di non commettere il suicidio della specie non è in fondo un dovere nei confronti delle generazioni future, che non esistono ancora, ma è un dovere nei confronti del nostro essere e del suo fondamento, si può dire che è un dovere nei confronti di Dio.
DOMANDA N. 7
Professor Jonas, ormai l’umanità non solo è in grado di distruggere la natura esterna, ma può addirittura manipolare e danneggiare la sua stessa natura. Quali principî etici debbono, a Suo avviso, guidare la tecnologia genetica?
Intervista di Vittorio Hösle
I DIRITTI DELL’UOMO D’OGGI
I diritti dell’uomo d’oggi
DOMANDA N. 1
Prof. Bobbio, il vasto dibattito sui diritti dell’uomo che caratterizza il pensiero politico contemporaneo sembra confermare la speranza kantiana di un progresso dell’umanità verso la perfezione morale. Eppure il nostro è un tempo di crisi, di timori e di rischi. Come spiega questa singolare e contraddittoria coesistenza nella nostra epoca di aspetti che inducono all’ottimismo e di altri, invece, che costringono ad un atteggiamento più pessimista?
In uno dei miei scritti sui diritti dell’uomo avevo ripreso l’idea della storia profetica di Kant per indicare, nell’importanza che il tema dei diritti dell’uomo ha assunto nel dibattito attuale, un segno dei tempi. La storia degli storici, attraverso testimonianze e congetture, cerca di conoscere il passato; essa, attraverso ipotesi formulate nella forma “se… allora”, fa caute previsioni circa il futuro, che purtroppo si rivelano quasi sempre sbagliate. La storia profetica, invece, non prevede, bensì presagisce il futuro, estraendo dagli accadimenti del tempo l’evento singolare, unico, straordinario che viene interpretato come segno particolarmente dimostrativo. Essa coglie cioè quello che Kant chiama il signum pronosticum di una tendenza dell’umanità verso un fine, non importa se desiderato o avversato. Sostenevo, quindi, che il dibattito sui diritti dell’uomo che va sempre più diffondendosi poteva essere interpretato come un “segno premonitore”, forse il solo, di una tendenza dell’umanità, per riprendere l’espressione kantiana, verso il meglio. Quando scrissi queste parole non conoscevo il testo del primo documento della Pontificia Commissione Iustitia et pax del 1975, intitolato La Chiesa e i diritti dell’uomo, che comincia così: “Il dinamismo della fede spinge continuamente il popolo di Dio alla lettura attenta ed efficace dei segni dei tempi. Nell’epoca contemporanea, tra i vari segni del tempo non può passare in secondo piano la crescente attenzione che in ogni parte del mondo è attribuita ai diritti dell’uomo, sia per la coscienza sempre più sensibile e profonda che si forma nei singoli e nella comunità intorno a tali diritti, sia per il continuo doloroso moltiplicarsi delle violazioni contro di essi”. I segni del tempo non sono soltanto fausti: ve ne sono anche di infausti. Anzi, mai come oggi si sono moltiplicati i profeti di sventure: la morte atomica, la distruzione progressiva e inarrestabile delle condizioni stesse di vita su questa terra, il “nichilismo morale” – famosa espressione di Nietzsche – il “rovesciamento di tutti i valori”. Del resto, il secolo che ora volge alla fine cominciò con l’idea del declino, della decadenza o, per usare una celebre metafora, del “tramonto dell’Occidente”. Oggi, però, anche per suggestione di teorie fisiche soltanto orecchiate, si va sempre più diffondendo l’uso di una parola ben più forte: “catastrofe”. Si parla di catastrofe atomica, catastrofe ecologica, catastrofe morale. Sino a ieri ci si era accontentati della metafora kantiana dell’uomo come “legno storto”. In uno dei saggi più affascinanti del rigorosissimo critico della ragione, l’Idea della storia universale dal punto di vista cosmopolitico, Kant si era domandato come, “da un legno storto, come quello di cui è fatto l’uomo potesse uscire qualche cosa di interamente diritto”. Ma Kant stesso credeva nella lenta approssimazione all’ideale del raddrizzamento attraverso “giusti concetti”, “grande esperienza” e soprattutto una “buona volontà”. Della visione della storia secondo cui l’umanità continua ad andare verso il peggio, e che chiamava “terroristica”, Kant diceva che “ricadere nel peggio non può essere uno stato costantemente durevole nella specie umana perché a un certo grado di regresso essa distruggerebbe se stessa”. Invece, è proprio l’immagine di una corsa verso l’auto-distruzione quella che affiora in alcune delle odierne visioni catastrofiche. Secondo uno dei più impavidi e melanconici sostenitori della concezione terroristica della storia che, personalmente, non amo molto, l’uomo è un “animale sbagliato”. Un “animale sbagliato”- si badi – non consapevole e, quindi, non colpevole: quella dell’uomo colpevole è, infatti, una vecchia storia che ben conosciamo, secondo la quale il colpevole è comunque redimibile o, forse, a sua insaputa è già redento. Un legno storto si può raddrizzare. Pare, invece, che lo sbaglio di cui parla questo amarissimo interprete del nostro tempo sia incorreggibile. Eppure, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, che è stata, questa sì, una vera catastrofe, mai come oggi si è propagata rapidamente nel mondo l’idea – non so dire se più ambiziosa o sublime o soltanto consolatoria o ingenuamente fiduciosa – dei diritti dell’uomo. Tale idea, di per se stessa, ci invita a cancellare sia l’immagine del “legno storto”, sia quella dell’ “uomo sbagliato”, e a rappresentarci questo essere contraddittorio e ambiguo non più soltanto dal punto di vista della sua “miseria” (per grave espressione di Pascal), ma anche dal punto di vista della sua grandezza.
DOMANDA N. 2
Prof. Bobbio, quali sono i motivi che spiegano la grande rilevanza che il tema dei diritti dell’uomo ha assunto nella nostra epoca?
In linea di principio, l’enorme importanza del tema dei diritti dell’uomo dipende dal fatto che esso è strettamente connesso con i due problemi fondamentali del nostro tempo, la democrazia e la pace. Il riconoscimento e la protezione dei diritti dell’uomo stanno alla base delle costituzioni democratiche, e, nello stesso tempo, la pace è il presupposto necessario per l’effettiva protezione dei diritti dell’uomo nei singoli Stati e nel sistema internazionale. È sempre vero il vecchio detto – e ne abbiamo fatto recentemente nuova esperienza – che inter arma silent leges. Oggi siamo sempre più convinti che l’ideale della pace perpetua non può essere perseguito se non attraverso una progressiva democratizzazione del sistema internazionale e degli Stati che fanno parte di questo sistema, e che questa democratizzazione non può andare disgiunta dalla graduale e sempre più effettiva protezione dei diritti dell’uomo anche al di sopra degli Stati. Diritti dell’uomo, democrazia, pace sono tre momenti necessari dello stesso movimento storico. Senza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti non c’è democrazia. Senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi, e tra quei grandi gruppi che sono gli Stati, tradizionalmente indocili e tendenzialmente critici rispetto agli altri Stati, anche quando sono democratici al proprio interno. Non sarà inutile ricordare che la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo comincia affermando che “il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Con queste parole, essa si riallaccia direttamente allo Statuto dell’ONU, nel quale, alla dichiarazione che fosse necessario “salvare le future generazioni dal flagello della guerra”, seguiva subito dopo la riaffermazione nella fede nei diritti fondamentali dell’uomo.
DOMANDA N. 3
Eppure che l’uomo abbia diritti intangibili e inviolabili è una acquisizione storica abbastanza tarda. Si può collegare questa presa di coscienza con l’avvento del moderno giusnaturalismo, ovvero di quella dottrina che afferma lesistenza di un diritto naturale anteriore all’esistenza del diritto positivo?
In una bella opera recente, Etica e diritti dell’uomo, leggo queste parole: “È indubbio che i diritti dell’uomo siano una delle più grandi invenzioni della nostra civiltà”. Se la parola “invenzione” apparisse troppo forte, potremmo dire “innovazione”. Uso qui la parola “innovazione” pensando a ciò che diceva Hegel quando sosteneva che il detto biblico “nulla di nuovo sotto il sole” non vale per il sole dello spirito, perché il corso del sole dello spirito non è mai ripetizione, bensì è la mutevole manifestazione che lo spirito dà di sé in forme sempre differenti, ed è quindi essenzialmente un continuo progredire. È vero che l’idea dell’universalità della natura umana è antica, anche se irrompe nella storia dell’Occidente col Cristianesimo. Ma la trasformazione di questa idea filosofica dell’universalità della natura umana in istituzione politica (e in questo senso si può parlare anche di invenzione), vale a dire in un modo diverso, e in un certo senso rivoluzionario, di regolare i rapporti tra governanti e governati, avviene soltanto nell’età moderna, attraverso il giusnaturalismo, e trova la sua prima espressione politicamente rilevante nelle Dichiarazioni dei diritti della fine del Settecento. Che si tratti di invenzione o di innovazione, è comunque rilevante il fatto che le parole seguenti si leggano non più in un testo filosofico – come, ad esempio, il secondo dei Saggi sul governo civile di Locke – ma in un documento politico come la Dichiarazione dei diritti della Virginia del 1776: “Tutti gli uomini sono da natura egualmente liberi, e hanno alcuni diritti innati. Per cui entrando nello stato di società essi non possono mediante convenzione privare o spogliare la loro posterità'”. Dobbiamo ammettere che, in quel momento, è nata una nuova, e intendo letteralmente senza precedenti, forma di reggimento politico. Questa nuova forma non si identifica semplicemente con il governo delle leggi contrapposto a quello degli uomini, già lodato da Aristotele ed espresso nel famoso principio secondo cui lex facit regem, non rex facit legem. Nella nuova forma di reggimento politico il governo è insieme degli uomini e delle leggi, degli uomini che fanno le leggi, e delle leggi che trovano un limite in diritti preesistenti degli individui che le stesse leggi non possono travalicare: si tratta, insomma, dello Stato liberale moderno che si dispiega poi senza soluzione di continuità, e per interno sviluppo, nello Stato democratico.
DOMANDA N. 4
Quale innovazione comporta l’affermazione dell’esistenza di una legislazione naturale universale, prioritaria rispetto al diritto positivo, ovvero alle leggi dei diversi Stati?
L’innovazione è duplice: affermare che l’uomo ha dei diritti preesistenti alla istituzione dello Stato, preesistenti cioè al potere cui viene attribuito il compito di prendere decisioni alle quali debbono ubbidire tutti coloro che costituiscono la collettività, significa rovesciare la concezione tradizionale della politica almeno da due punti di vista diversi. In primo luogo, l’uomo, gli uomini, gli individui considerati singolarmente, vengono contrapposti alla società, alla città, o meglio a quella città compiutamente organizzata che è la res publica o lo Stato: in sostanza, viene rovesciata la concezione tradizionale che considera il tutto, la totalità superiore alle sue parti. In secondo luogo, nel rapporto morale e in quello giuridico viene considerato antecedente il diritto anziché il dovere, contrariamente a quello che era avvenuto in una lunga tradizione di testi che va dal De officiis di Cicerone ai Doveri dell’uomo di Mazzini, passando attraverso il famoso De officio hominis et civis di Pufendorf. Il rapporto politico non è più considerato dal punto di vista dei governanti ma da quello del governato, non più dall’alto verso il basso, ma dal basso verso l’alto. La prima inversione ha per conseguenza la contrapposizione della concezione individualistica della società alla concezione organicistica: essa comporta l’abbandono definitivo di quest’ultima, che era stata per secoli dominante e aveva lasciato tracce indelebili nel nostro linguaggio politico, nel quale si trovano ancora espressioni come “corpo politico” e “organi dello Stato”. Riguardo alla seconda inversione, occorre osservare che il primato del diritto non implica affatto l’eliminazione del dovere, perché diritti e doveri sono due termini correlativi, e non si può affermare il diritto di qualcuno senza affermare contemporaneamente il dovere dell’altro di rispettarlo. Ma chiunque abbia una certa familiarità con la storia del pensiero politico sa bene che lo studio della politica è stato da sempre orientato a mettere in evidenza più i doveri che i diritti del cittadino:~basti pensare al tema fondamentale della cosiddetta obbligazione politica. La tradizione del pensiero politico, evidenziando maggiormente i diritti e i poteri del sovrano che quelli del cittadino, ha attribuita la posizione di soggetto attivo del rapporto politico più a chi sta in alto che a chi sta in basso. Per quanto dunque io ritenga che occorra andar molto cauti nel vedere svolte, salti qualitativi, rivolgimenti epocali a ogni stagione, non esito ad affermare che la proclamazione dei diritti dell’uomo abbia tagliato in due il corso dell’umanità per quel che riguarda la concezione del rapporto politico. Ed è un “segno del tempo” – per riprendere l’espressione iniziale – il fatto che a rendere sempre più evidente e irreversibile questo rovesciamento convergano sino a incontrarsi, senza contraddirsi, le tre grandi correnti del pensiero politico moderno, il liberalismo, il socialismo, il cristianesimo sociale. Convergono pur conservando ciascuna la propria identità, ciascuna dando la propria preferenza a certi diritti piuttosto che ad altri. Si dà così origine a una struttura sempre più complessa di diritti fondamentali, la cui integrazione pratica è spesso resa difficile proprio dalla loro diversa fonte di ispirazione dottrinale, e dalle diverse finalità che ognuna di esse si propone di raggiungere, ma che pur rappresenta una meta da conquistare nella auspicata unità del genere umano.
DOMANDA N. 5
Prof. Bobbio, è possibile tracciare una “storia” dei diritti dell’uomo? Quale contributo alla lotta per l’affermazione di questi diritti hanno dato il liberalismo, il movimento operaio e la Chiesa?
Cronologicamente, come è noto, per primi nascono i diritti di libertà della Rivoluzione americana e della Rivoluzione francese. Seguono poi i diritti sociali sotto forma di una prima organizzazione pubblica dell’istruzione e di provvedimenti in favore del lavoro già presenti nelle costituzioni del 1691 e del 1793. Il diritto del lavoro fa la sua prima apparizione in Francia, nei dibattiti della rivoluzione del 1848, senza però determinare grandi conseguenze; successivamente diventa un elemento essenziale in tutte le dichiarazioni dirette dopo la Prima Guerra Mondiale, a cominciare da quelle della Repubblica di Weimar. Quanto al cristianesimo sociale, nel documento già citato della Commissione pontificia Iustitia et Pax e in tanti altri testi (è recente la pubblicazione di un volume della rivista trimestrale di teologia Concilium interamente dedicato al problema dei diritti dell’uomo) si riconosce onestamente che, nel corso dei secoli, l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo non è stata sempre costante. Si riconosce che, specie negli ultimi due secoli, vi sono state difficoltà, riserve, e a volte reazioni da parte cattolica al diffondersi delle dichiarazioni dei diritti dell’uomo proclamate dal liberalismo e dal laicismo. Ci si riferisce in modo particolare agli atteggiamenti di “precauzione” – così vengono chiamati – negativi e talvolta ostili, di Pio VI, di Pio VII, di Gregorio XVI. Nello stesso tempo, però, si pone in evidenza la svolta costituita dall’enciclica Rerum novarum del 1891 di Leone XIII, che, fra i diritti di libertà della tradizione liberale, afferma con forza il diritto di associazione, con particolare riguardo alle associazioni degli operai. Si tratta di un diritto, del diritto di manifestazione, che sta alla base della concessione pluralistica della società e che costituisce, a sua volta, la base di qualsiasi governo democratico. Tra i diritti sociali della tradizione socialista, si mette in particolare rilievo il diritto al lavoro per la cui protezione nei suoi vari aspetti si invoca il concorso dello Stato (diritto a un giusto salario, diritto al debito riposo, tutela delle donne e dei fanciulli). Attraverso vari documenti – tra i quali ricordo i messaggi natalizi, come quelli del 1942 e 1944 di Pio XII, la costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano II, il famoso discorso di Paolo VI indirizzato al segretario generale dellONU – cento anni dopo la Rerum Novarum giungiamo al documento del Primo Maggio del 1991, l’enciclica Centesimus annus. In essa si riafferma solennemente l’importanza che la Chiesa assegna al riconoscimento dei diritti dell’uomo, al punto che, come è già stato osservato, il paragrafo 47 contiene una illuminante Carta dei diritti umani preceduta da queste parole: “È necessario che i popoli che stanno riformando i loro ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante l’esplicito riconoscimento dei diritti umani”. Il primo di questi diritti è il diritto alla vita, cui seguono il diritto a crescere in una famiglia unita, il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà, e quindi la libertà religiosa.
DOMANDA N. 6
Esiste un nemico comune contro cui si volge la difesa indefessa che l’uomo, nel corso della storia, ha fatto dei suoi diritti? E se tante forme di sopruso sono state eliminate, se non di fatto, almeno in linea teorica, oggi contro chi o contro cosa l’uomo deve difendersi?
I diritti dell’uomo, nonostante siano stati considerati sin dall’inizio naturali, non sono stati dati una volta per sempre. Basti pensare alle varie vicende dell’estensione dei diritti politici: per secoli si è ritenuto per nulla naturale che le donne andassero a votare. Possiamo dire che i diritti dell’uomo non sono stati dati tutti in una volta e neppure congiuntamente, anche se oggi non pare dubbio che le varie tradizioni si stiano avvicinando e stiano formando insieme un unico grande disegno di difesa dell’uomo, che comprende tre sommi beni, la vita, la libertà e la sicurezza sociale. Difesa da che cosa? La risposta che ci viene dall’osservazione della storia è molto semplice e netta: difesa dal potere, da ogni forma di potere. Il rapporto politico per eccellenza è un rapporto tra potere e libertà. Vi è una stretta correlazione fra l’uno e l’altro. Più si estende il potere di uno dei due termini del rapporto più diminuisce la libertà dell’altro termine del rapporto e viceversa. Il rapporto politico è un rapporto chiarissimo; esso non si delinea dove si pensa che c’è il potere da un lato e una non libertà dall’altro, oppure una libertà da un lato e un non potere dall’altro. Ebbene, ciò che contraddistingue il momento attuale rispetto alle epoche precedenti, e rafforza la richiesta di nuovi diritti è la forma di potere che prevale su tutti gli altri. La lotta per i diritti ha avuto come avversario prima il potere religioso, poi il potere politico, infine il potere economico: questa è la storia. Oggi le minacce alla vita, alla libertà, alla sicurezza vengono dal potere della scienza e delle sue applicazioni tecniche. Siamo entrati nell’era che viene chiamata – non si sa per quale ragione – “post-moderna”, perché è la continuazione di quella moderna, ed è caratterizzata dall’enorme progresso tecnico, vertiginoso e irreversibile. Irreversibile perché con il progresso tecnico non si torna più indietro. Il progresso tecnico è irreversibile come il tempo: non si torna più alla carrozza a cavalli e non si torna più ai fucili quando ci sono le armi atomiche: questo è chiarissimo. L’età post-moderna è caratterizzata dalla trasformazione tecnologica e tecnocratica del mondo. Dal giorno in cui Bacone disse che la scienza è potere, l’uomo ha fatto molta strada. Mai come oggi, vale il tema di Bacone secondo cui chi più sa più ha potere; oggi però l’uomo sa molto di più di quello che si sapeva ai tempi di Bacone. La conoscenza è diventata la principale causa e la condizione, se non sufficiente, necessaria, del dominio dell’uomo sulla natura e sugli altri uomini. Dopo i diritti tradizionali, quelli alla vita, alla libertà ed alla sicurezza, su cui si incontrano le tre correnti principali del nostro tempo, vengono i diritti della nuova generazione che nascono tutti dalle minacce alla vita, alla libertà, e alla sicurezza, provenienti dall’accrescimento del progresso tecnologico. Bastino i seguenti tre esempi che hanno riempito le riviste, i libri, le conversazioni, i congressi, le tavole rotonde di questi ultimi anni, e che quindi sono al centro del dibattito attuale. Primo: il diritto a vivere in un ambiente non inquinato, donde hanno preso le mosse i movimenti ecologici che hanno movimentato negli ultimi anni la vita politica, tanto all’interno dei singoli Stati quanto nel sistema internazionale. Secondo: il diritto ad una sfera privata che viene messo in serio pericolo dalla possibilità che hanno i pubblici poteri di memorizzare tutti i dati riguardanti la vita di una persona e con ciò di controllarne i comportamenti senza che egli se ne accorga. Non sappiamo se il “Grande Fratello” sappia quello che sta avvenendo ora in una misura molto maggiore di quanto ciascuno di noi è in grado di immaginare. Terzo: il diritto all’integrità del proprio patrimonio genetico, che va ben oltre il diritto all’integrità fisica, già affermato negli articoli 2 e 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Si tratta di un diritto che sta già sollevando dibattiti nelle organizzazioni internazionali, e su cui probabilmente avverranno gli scontri più accaniti è più difficili da risolvere fra due visioni opposte della natura umana.
DOMANDA N. 7
Prof. Bobbio, per concludere, Lei ritiene che i diritti dell’uomo siano una speranza illusoria, un impegno morale o, forse, un’utopia ? Lei sta dalla parte dei profeti di sventura di cui parlava prima o da quella dell’ottimista e illuminista Kant, che credeva nella perfezione morale dell’uomo come eterno dover essere?
I diritti dell’uomo, come è stato recentemente affermato, costituiscono al giorno d’oggi un nuovo ethos mondiale. Naturalmente occorre non dimenticare che un ethos rappresenta il mondo del dover essere. Il mondo dell’essere ci offre purtroppo uno spettacolo molto diverso. Alla lungimirante consapevolezza circa la centralità di una politica tesa alla sempre migliore formulazione e alla sempre migliore protezione dei diritti dell’uomo corrisponde la loro sistematica violazione in quasi tutti i Paesi del mondo. L’ethos dei diritti dell’uomo splende nelle solenni dichiarazioni che restano quasi sempre e quasi dappertutto lettera morta. La volontà di potenza ha dominato e continua a dominare il corso della storia. L’unica ragione di speranza risiede nel fatto che la storia conosce i tempi lunghi e i tempi brevi. La storia dei diritti dell’uomo – è meglio non farsi illusio – è la storia dei tempi lunghi. Del resto è sempre accaduto che mentre i profeti di sventure annunciano la sciagura che sta per avvenire e invitano a essere vigilanti, i profeti dei tempi felici di solito guardano molto lontano. Citando una frase della visione della Sibilla Tiburtina: “E gli anni si accorceranno come mesi e i mesi come settimane e le settimane come i giorni e i giorni come ore”, mostrando quindi come il profeta di sventura dirà sempre: “I tempi sono vicini”, un illustre storico contemporaneo ha messo a raffronto il sentimento dell’accorciamento dei tempi, che si diffonde nelle età dei grandi sommovimenti, reali o soltanto paventati, con il sentimento opposto della accelerazione dei tempi che invece appartiene ormai alla generazione nata nell’era tecnologica. Il passaggio da una fase all’altra del progresso tecnico che un tempo richiedeva secoli, poi ha richiesto decenni, adesso richiede pochi anni. I due fenomeni, come capite benissimo, sono paralleli: per giungere più rapidamente a una meta vi sono infatti due vie: o accorciare la strada o accelerare il passo. Il tempo vissuto non è il tempo reale: qualche volta può essere più rapido, qualche volta più lento. Le trasformazioni del mondo che abbiamo vissuto in questi ultimi anni, sia per il precipitare della crisi di un sistema di potere che sembrava solidissimo e anzi ambiva a rappresentare il futuro del pianeta, sia per la rapidità dei progressi tecnici, suscitano in noi questo duplice stato d’animo, sia dell’accorciamento, sia dell’accelerazione. Talora ci sentiamo sull’orlo dell’abisso e ci sembra che la catastrofe incomba. Ci salveremo? Come ci salveremo? Chi ci salverà? Voi sapete quante discussioni sono state fatte: ci sono famose frasi di Heidegger al proposito. Stranamente questo senso di essere incalzati dagli eventi rispetto al futuro contrasta con il senso opposto dell’allungamento e del rallentamento del passato, rispetto al quale l’origine dell’uomo viene fatta risalire sempre più indietro. Quanto più la nostra memoria storica sprofonda in un passato remoto che continua ad allungarsi senza termine, tanto più la nostra immaginazione si accende all’idea di una corsa sempre più rapida verso la fine. È un po’ lo stato d’animo del vecchio, stato d’animo che io conosco bene: per il vecchio il passato è tutto, il futuro è nulla. Come dire: siamo arrivati alla vecchiaia dell’umanità. Potremmo pensare, con Hegel, che la vecchiaia, a differenza di quanto accade per gli uomini, per i quali essa rappresenta lo stadio finale e senile, per i popoli rappresenti il momento dello splendore. Magra consolazione! Ci sarebbe da stare poco allegri se non fosse che un grande ideale come quello dei diritti dell’uomo rovescia completamente il senso del tempo, perché si proietta nei tempi lunghi, come ogni ideale, il cui avvento, come ho detto all’inizio, non può essere oggetto di alcuna previsione, ma soltanto di un presagio. Ciò che oggi si può dire è che la razionalità non abita più qui: qui sta la vera distinzione tra moderno e post-moderno. Come è lontano il tempo in cui Hegel insegnava ai suoi scolari di Berlino che la ragione governa il mondo! Oggi possiamo soltanto fare una scommessa. Che la storia conduca al regno dei diritti dell’uomo anziché al regno del “Grande Fratello” può essere oggetto soltanto di una scommessa, cioè di un impegno. È vero che altro è scommettere, altro è vincere. Ma è anche vero che chi scommette, lo fa perché ha fiducia di vincere: anche il gioco d’azzardo si affida al caso, ma ha speranza che il caso gli dia ragione. Certo, non basta la fiducia per vincere. Ma se non si ha la minima fiducia, la partita è già persa sin dall’inizio, prima di cominciare. Se poi mi si chiede che cosa occorre per aver fiducia, riprenderei le parole di Kant che ho citato all’inizio e che mi sembrano molto sagge: “giusti concetti”, “una grande esperienza”, e soprattutto “buona volontà”.
Che cosa è la democrazia?
DOMANDA: Professor Bobbio, se la democrazia fosse tanto inflazionata nella realtà così come lo è come concetto, probabilmente vivremmo in un mondo di uguaglianza universale; ma invece non è così. Si parla indistintamente di democrazia a proposito dell’Atene di Pericle e dei Soviet di Lenin; c’è la democrazia liberale, quella socialista, c’è la democrazia cristiana. Possiamo tentare di dare una definizione minima, ma precisa, di questo termine?
Io ritengo che non sia soltanto possibile dare una definizione minima della democrazia, ma che sia necessario. Se vogliamo metterci d’accordo, quando parliamo di democrazia, dobbiamo intenderla in un certo modo limitato, cioè attribuendo al concetto di democrazia alcuni caratteri specifici sui quali possiamo esser tutti d’accordo.
Io ritengo che per dare una definizione minima di democrazia bisogna dare una definizione puramente e semplicemente procedurale: vale a dire definire la democrazia come un metodo per prendere decisioni collettive. Si chiama gruppo democratico quel gruppo in cui valgono almeno queste due regole per prendere decisioni collettive: 1) tutti partecipano alla decisione direttamente o indirettamente; 2) la decisione viene presa dopo una libera discussione a maggioranza.
Queste sono le due regole in base alle quali a me pare che si possa parlare di democrazia nel senso minimo e ci si possa mettere facilmente d’accordo per dire dove c’è democrazia e dove democrazia non c’è.
DOMANDA: Quindi si può parlare di democrazia, sia che si tratti di decidere in un condominio sia che si tratti di decidere una legge dello Stato?
Ha detto benissimo: un’associazione, una qualsiasi associazione. Qualsiasi associazione generalmente stabilisce quali sono le regole in base alle quali si prendono le decisioni che poi valgono. Anche se le decisioni vengono prese da pochi, da alcuni, anche da uno solo, l’importante è che quella decisione venga presa in base a quelle regole.
DOMANDA: Quando Lei dice queste cose mi viene in mente che effettivamente nel mondo esistono alcuni – forse neanche troppi – Stati democratici: ma all’interno di questi Stati democratici – penso a tutti gli apparati della produzione, gli apparati dei servizi, a molte delle istituzioni, dalle scuole alle caserme, ecc. – io non ci ritrovo molte delle due regole.
Lei effettivamente ha ragione: qui stiamo parlando di democrazia politica. Difatti io ho considerato come una delle promesse non mantenute della democrazia proprio il fatto che la democrazia politica non si è estesa alla società e non si è trasformata in democrazia sociale. A rigore una società democratica dovrebbe essere democratica – cioè dovrebbe avere queste regole – nella maggior parte dei centri di potere. Questo in realtà nella maggior parte delle democrazie non è avvenuto. Qual è poi il centro di potere in cui dovrebbe avvenire quest’estensione delle regole democratiche? E’ la fabbrica. All’interno della fabbrica non esiste un regime democratico: le decisioni vengono prese da una parte sola, dall’altra parte c’è la possibilità di un certo controllo delle decisioni, ma le decisioni non vengono prese, da tutte, da tutte le parti che sono in gioco in quel in quel centro di potere.
DOMANDA: Quindi Lei pensa che sia auspicabile questa autodeterminazione della propria vita produttiva?
Io credo che questo sia l’ideale limite della democrazia.
Tratto dall’intervista “Che cos’è la democrazia?” – Torino, Fondazione Einaudi, giovedì 28 febbraio 1985
VERITA’ E METODO
VERITA’ E METODO
DOMANDA: La sua opera principale, Verità e metodo, attrae subito per il suo titolo, che sembra promettere molto al lettore, e che pur tuttavia resta enigmatico. Ci può dire, a partire dal titolo, come va letto il suo libro? Qual è il tema principale?
Un titolo è soltanto un mezzo per attirare l’attenzione. Non può essere univoco e può suscitare una molteplicità di interpretazioni. Per il mio libro ho scelto questo titolo, con l’intento di soddisfare una duplice esigenza: far corrispondere il titolo al contenuto del libro e suscitare interesse per la problematica stessa. Il titolo Verità e metodo è stato spesso frainteso; addirittura è stato compreso nel senso opposto. Molti hanno pensato ad un nuovo metodo per raggiungere la verità, altri hanno affermato che per raggiungere la verità non è in generale necessario alcun metodo. Entrambe queste interpretazioni sono insensate. Mi sembra invece giusto interpretare il titolo in questo modo: non tutta la verità è raggiungibile percorrendo il cammino del metodo scientifico. Un esempio ne è l’arte.
Uno dei punti decisivi che intendevo sottolineare in Verità e metodo è che nelle scienze della natura il linguaggio non è un vero linguaggio, bensì un sistema di simboli matematici, che non può pretendere di rappresentare l’unica forma di comunicazione. Nelle cosiddette scienze dello spirito, nelle scienze umane, accade l’opposto. Nella matematica lo schema simbolico è al massimo un ausilio, mentre il vero elemento è dato dalla capacità del linguaggio di render presente qualcosa. Questa è la funzione svolta dal linguaggio nella poesia. E’ di questo tipo l’intimo rapporto tra l’arte e la filosofia, in primo luogo tra l’arte della parola – il linguaggio poetico – e la filosofia. Questo rapporto è stato indagato profondamente a partire dal Romanticismo tedesco, al quale mi sono ispirato. Su questo tema è stata decisiva anche la potenza espressiva di Heidegger, pensatore geniale che usa il linguaggio con una nuova forza creativa. Ovviamente la mia non è stata un’imitazione; ho invece tentato di lavorare con i miei mezzi linguistici.
In Verità e metodo ho cercato di dare fondamento all’idea che il linguaggio abbia una funzione evocativa anche per il pensiero e ho tentato di fare dell’ermeneutica una filosofia generale, un approccio generale al mondo e non una tecnica speciale per l’interpretazione dei testi. Rispetto ad Heidegger, nella mia prospettiva, la questione diviene più complessa anche se, in parte, ho sviluppato alcuni motivi della sua filosofia. E’ nota a tutti la famosa espressione heideggeriana: “il linguaggio parla”. Nel mio libro credo di aver correttamente sviluppato il senso di questa espressione provocatoria senza essere però così provocatorio. Se si pensa, come facciamo comunemente, che non è il linguaggio a parlare, ma che siamo noi a usare il linguaggio, non si comprende il significato della formula heideggeriana; non si capisce, cioè, che quando qualcuno parla è condizionato da un orizzonte linguistico che lo precede, cioè dalle possibilità offertegli dal linguaggio per esprimere i suoi pensieri. La funzione del linguaggio, nel quale il pensiero diviene del tutto concreto, è stata accentuata da me per chiarire la nostra esperienza del mondo. Come ho precedentemente affermato, la matematica non è un linguaggio poiché è un sistema convenzionale. Il linguaggio autentico è invece quello del dialogo sviluppato da tutti gli uomini nel loro reciproco rapporto, un linguaggio precostituito, dentro il quale gli uomini crescono ubbidendo ad esso.
Tratto dall’intervista “Il metodo dell’ermeneutica” – Capri, Villa Mondadori, mercoledì 27 novembre 1991
IL MIO CONTRIBUTO ALL’ERMENEUTICA (20/1/1998)
1. Come hanno influito Natorp e Heidegger sulla Sua formazione scientifica e filosofica? Quale significato rivestono Platone e Aristotele per il Suo cammino filosofico?
Quando avviai i miei studi di filosofia ho disatteso in pieno le aspettative e in primo luogo i desideri di mio padre, noto studioso di scienze naturali. Egli era molto scontento del fatto che mi interessassi di filosofia, delle belles lettres. Iniziai dunque i miei studi a Breslavia, in Slesia, con Richard Hönigswald, un eccellente rappresentante della filosofia neokantiana che, per così dire, mi ha preparato al neokantismo della Scuola di Marburgo, uno dei cui rappresentanti più autorevoli era per l’appunto Natorp. Questi era un uomo anziano, molto distinto, piccolo come uno gnomo, ed alquanto austero, una figura che incuteva un certo timore ad un giovane studente. Più tardi, occorre dire, un influsso maggiore di Natorp lo esercitò su di me Nicolai Hartmann. Era un giovane professore che mi accolse nella sua casa come un amico. Proprio per i rapporti conflittuali con mio padre, molto scettico data la sua formazione di scienziato, è stato per me di grande aiuto che Nicolai Hartmann mi abbia sempre lasciata aperta la porta di casa. Ed io ho veramente appreso molto da lui. Solo dopo aver concluso il dottorato andai a Friburgo per continuare i miei studi; lì allora insegnava Husserl, ed Heidegger era suo assistente.
In un certo senso Heidegger ha rappresentato l’appagamento di un desiderio che non mi era stato possibile soddisfare a Marburgo. L’esigenza, cioè, di accogliere la dimensione storica nella stessa filosofia. In effetti, solo grazie ad Heidegger sono stato in grado di assumere come compito e impegno filosofico la speculazione di Dilthey incentrata sull’origine storica del nostro pensiero. L’influsso di Heidegger è stato quindi determinante per me, nel senso che egli ha soddisfatto un’aspettativa in me già presente. Per quanto riguarda Platone, mi permetterei di affermare che è stato uno degli antenati della Scuola di Marburgo. E Natorp, in un libro diventato famoso, ha tentato di mostrare come Platone avesse in effetti già anticipato i concetti fondamentali di Kant. Io comunque sono stato educato a considerare ogni cosa da un punto di vista critico, ad indagare le diversità, e quindi anche quelle prospettive che non sono state concepite ed elaborate nell’epoca moderna. Questo è dovuto, in parte, all’influsso di Nicolai Hartmann e successivamente a quello di Heidegger. Raggiunsi poi Friburgo, dove Husserl mi accolse non tanto per studiare con lui la fenomenologia, quanto per studiare Aristotele con Heidegger. In verità Heidegger ed Aristotele costituivano una stessa cosa, poiché Heidegger allora viveva completamente in Aristotele, e questi riceveva una nuova vita attraverso la tecnica di descrizione fenomenologica di Heidegger. Aristotele ha un ruolo anche nella mia riabilitazione della filosofia pratica, penso per esempio al concetto di phrónesis.. Questo è stato il primo frutto della mia relazione con Heidegger, il primo dono ricevuto da lui. In seguito, ho potuto portare a buon termine la mia carriera di filologo classico in quanto allora mi capitò di ingaggiare una polemica con Werner Jaeger e la Scuola di Berlino; polemica che, peraltro, Jaeger considerò con molta benevolenza. Alla fine ho avuto anche la soddisfazione di aver ragione, benché questo sia emerso molto più tardi. Le mie tesi di allora sullo sviluppo dell’etica aristotelica sono oggi generalmente riconosciute e ritenute valide, ma a quel tempo Jaeger era d’opinione diversa.
2. Vorrei parlare della Sua opera Verità e Metodo. Quale spiegazione e quale chiarimento darebbe al titolo di questa sua opera fondamentale? Quale significato ha l’arte, se confrontata con la scienza, nella ricerca della verità?
Un titolo è sempre un mezzo per attirare l’attenzione. Il suo obiettivo non è quello di essere univoco, bensì di suscitare una molteplicità di pensieri. E così ho scelto questo titolo, ad opera terminata naturalmente, per soddisfare la duplice esigenza di far corrispondere il titolo al contenuto del libro e di suscitare interesse per la problematica stessa. Per questo il titolo Verità e metodo è stato spesso frainteso o, frequentemente, compreso in senso inverso. Molti hanno detto che si tratta di un nuovo metodo per raggiungere la verità, altri hanno affermato che per raggiungere la verità non è in generale necessario alcun metodo. Entrambe queste interpretazioni sono insensate. Mi sembra invece giusto interpretare il titolo in questo modo: non tutta la verità è raggiungibile percorrendo il cammino del metodo scientifico. Un esempio ne è l’arte, quale esperienza extrametodica della verità.
Uno dei punti decisivi per me è che nelle scienze della natura il linguaggio in realtà non è linguaggio, ma un sistema di simboli matematici, il quale rappresenta l’unica modalità espressiva corretta. Nelle cosiddette scienze dello spirito, nelle scienze umane, o, per dirla con un’espressione inglese, the humanities, accade l’opposto. Qui la matematica, o lo schema simbolico, è al massimo un ausilio, mentre il vero elemento è dato dalla capacità del linguaggio di render presente qualcosa. Ciò si avvicina molto alla funzione svolta dal linguaggio nella poesia. È dunque di questo tipo l’intimo rapporto tra l’arte e la filosofia, in primo luogo tra l’arte della parola, il linguaggio poetico e la filosofia. Rapporto questo che ha incontrato molta considerazione ed è stato ampiamente condiviso a partire dal romanticismo tedesco. Da qui ho ripreso qualcosa ed in questo contesto costituirono un invito particolare l’arte e la potenza espressiva di Heidegger, pensatore geniale che in effetti usa il linguaggio con una nuova forza creativa. La mia non è stata un’imitazione, ho invece tentato di lavorare con i miei mezzi linguistici. Nel mio libro ho cercato di dare fondamento all’idea che il linguaggio abbia una funzione evocativa anche per il pensiero.
3. Come esprimerebbe, in modo molto breve e sintetico, il significato della parola “ermeneutica”, anche in relazione al concetto di diritto, di attività giuridica?. C’è una qualche analogia con Buber?
La parola ermeneutica deriva da una parola greca, che significa quello che da Lei in Italia viene detto “interprete”. Quindi, si tratta di qualcuno che rende comprensibile e trasmette linguisticamente un linguaggio non comprensibile. L’ermeneutica è perciò l’arte di entrare in dialogo con i testi o con le altre formulazioni concettuali. Per questo essa è strettamente connessa al “principio dialogico” della filosofia. E questo è anche il motivo della forza attrattiva che Platone e Socrate esercitano su di me.Certamente la giurisprudenza ha un ruolo nella mia concezione dell’ermeneutica. Ma, soprattutto, nell’elaborazione della problematica mi fu chiaro che nella storia dell’Occidente avevo avuto due grandi maestri: la giurisprudenza, in cui da sempre l’ermeneutica come parola e come disciplina ha avuto diritto di cittadinanza, e, corrispondentemente la teologia.
Ovviamente vi sono forti analogie con Buber. Si trattava infatti della stessa situazione cui pervenni io. Ho conosciuto molto bene Buber. Come dicevo, percepimmo la stessa carenza nell’idealismo tedesco di tipo neokantiano, allora dominante. Secondo quest’ultimo tutto, per così dire, viene sviluppato dalla soggettività, intesa come “io pensante”; “l’altro” diviene qui inutile, privo di significato. Buber con la sua opera è stato uno dei primi a mostrare tale carenza. Quando ho usato l’espressione “principio dialogico” intendevo citare proprio l’opera di Buber. La modalità però in cui Buber si è espresso era per così dire di tipo letterario, legata alla letteratura. Egli non era un pensatore accademico, era piuttosto un grande scrittore: certamente aveva anche una tempra di pensatore, ma soprattutto sulla base della tradizione chassidica che aveva rinnovato come poeta. In questo ambito non era un vero e proprio ricercatore, come invece era Scholem, ma qualcuno che avvertiva l’assenza del “momento dialogico” nella nostra cultura filosofica. Successivamente, dopo la guerra, mi sono spesso incontrato con lui.
4 “Storia degli effetti”, Wirkungsgeschichte, è una famosa espressione della Sua opera, Verità e metodo. Potrebbe spiegare brevemente quest’espressione?
Per quanto riguarda la prima domanda la spiegazione non è molto difficile. In primo luogo l’espressione fondamentale, da Lei indicata, è “coscienza della determinazione storica”. Essa consiste nel compito di avere coscienza del fatto che il nostro punto di partenza non è un principio primo, una certezza suprema. Noi infatti ci troviamo già sempre in certe condizioni storiche, spirituali, naturali. In questo senso l'”effetto” è qualcosa che ci condiziona. D’altro canto, è chiaro che anche il nostro agire intellettuale dà luogo a un “effetto”. La “coscienza della determinazione storica” va per così dire in due direzioni, quella della condizionatezza in cui noi ci troviamo e quella della condizionatezza che noi produciamo. Questo è ciò che si chiama produrre, dar luogo alla tradizione: riconoscere di essere condizionati e nel contempo porre nuove condizioni nel rapporto con il mondo. Ecco come si sviluppa il decorso dell’accadere spirituale dell’umanità. In questa valutazione della tradizione emerge una certa opposizione all’illuminismo. Non c’è da meravigliarsi, poiché l’illuminismo, come del resto tutti sanno, ha provocato la reazione romantica che per prima ha fatto valere la concezione della tradizione contro l’ideale dei Lumi. Naturalmente l’illuminismo rimane un compito umano ovunque il bisogno e la verità spirituale lo giustifichino. Io stesso non lo contesterei mai, in questo senso. Mi trovo però a vivere in un momento successivo all’illuminismo e credo che dobbiamo riconoscere i suoi limiti, proprio in quanto esseri umani. Finora nessun illuminismo è riuscito ad eliminare la morte.
5. Potrebbe brevemente caratterizzare, in base a Verità e Metodo, la peculiarità del Suo contributo alla storia dell’ermeneutica, rispetto ai precursori? Com’è il suo rapporto con Habermas?
Prescindendo in un primo momento da Heidegger, direi che per gli altri la risposta è semplice. Ho tentato di fare dell’ermeneutica una filosofia, ossia ho fatto in modo che essa venisse considerata un approccio generale al mondo e non un semplice ausilio metodico della conoscenza. Rispetto ad Heidegger la questione diviene più complessa poiché, proprio con la posizione fondamentale del linguaggio, ho aderito e sviluppato le sollecitazioni della sua filosofia. Lei conosce la famosa espressione heideggeriana “Il linguaggio parla”. Credo di aver correttamente sviluppato il senso di quest’espressione provocatoria senza essere però così provocatorio. Se si afferma che non è il linguaggio a parlare, ma noi stessi, non si è compreso il significato di tale espressione; non si è compreso cioè che quando qualcuno parla è dipendente dalle possibilità offertegli dal linguaggio per esprimere i suoi pensieri. La funzione del linguaggio, secondo cui solo in esso il pensiero diviene del tutto concreto, è stata da me accentuata in primo luogo per chiarire la nostra esperienza del mondo. Come ho precedentemente affermato, la matematica non è un linguaggio poiché si tratta di un sistema convenzionale. Il linguaggio è invece quello del dialogo sviluppato da tutti gli uomini nel loro reciproco rapporto, un linguaggio che è anche precostituito, entro cui gli uomini crescono adeguandovisi. Tutti conoscono la “genialità” del linguaggio infantile nei bambini di circa tre anni. Qui non sussiste alcun limite della grammatica e della correttezza, ed è affascinante vedere quanti nuovi poeti si affaccino al mondo dell’esperienza.
Ho condotto una discussione con Habermas, relativa al rapporto tra scienza e ragion pratica. Prendendo le mosse dall’ermeneutica, come nel mio caso, tale rapporto concerne il modo in cui gli uomini giungono a convinzioni comuni all’interno della società e nei rapporti interumani. Questo non riguarda prioritariamente i procedimenti scientifici, ma la dinamica dello scambio reciproco fra i soggetti del dialogo. Habermas però suppone che esista un controllo scientifico ed una critica del modo in cui gli uomini formano le loro convinzioni. Senz’altro vi è una critica, ed è la critica incessante dell’intero dialogo che gli uomini conducono fra loro. Io mi sono difeso quando Habermas mi ha detto: “Nel Suo pensiero manca il momento critico dell’illuminismo”. Direi di no! È Habermas che continua a pensare nei termini dell’illuminismo sviluppandone i presupposti critici. Ma se qualcuno parla con un altro e prende sul serio ciò che questi dice è già consapevole di esercitare una critica. Ascolterei molto volentieri che cosa Lei pensa criticamente, così imparerei qualcosa sui miei pensieri. Certamente ad un uomo che pensa in modo dialogico non si dovrebbe rimproverare l’assenza dell’elemento critico nel pensiero. E se Habermas crede di poter sostituire l’elemento critico con la scienza, allora non sono più d’accordo con lui.
IL COMPITO DELL’INTELLETTUALE (13/1/1999)
Dialogo tra Gerardo Marotta e Hans-Georg Gadamer
MAROTTA: Professor Gadamer nel Suo ultimo libro – da poco uscito in Germania e che viene preparato anche per la pubblicazione in italiano – Lei, parlando della gravità della crisi che investe l’Europa e il mondo, richiama alla mente l’esperienza di Platone nella Grecia della decadenza, ed afferma che la situazione europea è un po’ simile, e che i filosofi, i pensatori si trovano oggi di fronte ad una situazione simile a quella nella quale si trovò Platone nell’esperienza che egli ebbe nell’Atene della decadenza. Cioè Platone si trovò di fronte al fallimento della classe politica di quel tempo, di fronte ad errori gravi di quella classe politica, per cui, quando dovette assistere nientemeno che alla condanna a morte del suo maestro Socrate, comprese e dovette concludere che la politica non era la strada attraverso la quale si dovessero risolvere i problemi della democrazia ateniese e della civiltà ateniese; e quindi non restava al vero uomo di cultura, al vero filosofo, che votarsi tutto alla filosofia, dedicarsi tutto alla filosofia, per creare una nuova classe dirigente. Ecco perché Platone fondò l’Accademia. Lei ritiene quindi – constatato che ci troviamo in questa crisi per cui siamo di fronte all’incapacità delle classi dirigenti di risolvere politicamente il problema – che oggi il filosofo debba dedicarsi tutto alla filosofia e che la filosofia possa rappresentare una soluzione per i nostri gravi problemi?
GADAMER: Penso sia molto istruttivo il paragone da cui Lei muove. La situazione di una civiltà in declino, come quella dell’Atene classica, è certamente analoga all’attuale situazione europea. Ciò che allora si intendeva per filosofia, philosophia, è attualmente rappresentato dall’intero mondo delle scienze con l’inclusione di ciò che anche oggi si chiama filosofia. Si tratta quindi di vedere come la cultura scientifica moderna possa intervenire, con il suo sapere e potere, nell’agire politico. Il politico di oggi opera in una situazione in cui diviene difficile l’attuazione delle idee scientifiche e filosofiche. La moderna democrazia si basa su elezioni e su legislature della durata di quattro o cinque anni, ma il destino del mondo dipende da decisioni, da scelte che hanno conseguenze durevoli e vanno molto al di là di questo lasso di tempo. L’attuale problema europeo, davanti al quale stiamo, è questo: quattro anni di governo presentano una sproporzione, una discrepanza rispetto a scelte che decidono di decenni, di secoli e forse dello stesso destino del pianeta.
2)
MAROTTA: Tutti noi ammiriamo che Lei dalla Sua Heidelberg, a novanta anni, ogni anno compie un giro per i paesi d’Europa, specialmente in Italia, e anche negli Stati Uniti, per istruire i giovani: in questo modo Lei dimostra di sentire la responsabilità della Sua posizione di uomo di cultura, Platone direbbe di vero uomo di cultura. È infatti molto importante comprendere la differenza tra intellettuale di mestiere, di professione e il vero uomo di cultura, il vero filosofo. Da tutta la Sua esperienza si ricava come oggi la responsabilità dell’intellettuale, la responsabilità del vero uomo di cultura, sia in primo piano e che dalla cultura dipendono le sorti dell’umanità. Del resto Lei nella Sua risposta – chiarendo come per vera filosofia oggi si intenda il complesso della filosofia e delle scienze, che era tutto riassunto nell’antichità nella sola filosofia, madre di tutte le scienze – dà una responsabilità globale agli intellettuali, siano essi filosofi, siano essi scienziati. Eppure gli uomini di cultura di oggi sembrano chiudersi nel loro “particulare”. È difficile trovare una personalità come Lei. Direi che i filosofi si sono chiusi nell’accademia, ed in fondo la figura dell’intellettuale si sia rimpicciolita rispetto agli aumentati bisogni del mondo, al bisogno enorme di vera cultura che ha l’umanità per potersi salvare. Gli uomini di cultura dovrebbero indicare una strada nuova, e i valori per formare un’umanità nuova, un’umanità diversa, che non sia guidata dai vecchi schemi e dai vecchi valori. Direi che l’intellettuale di oggi, l’uomo di cultura di oggi, non solamente si è rimpicciolito nei suoi orizzonti, ma non si può fare alcun paragone con gli uomini di cultura del ‘500, del ‘600, del ‘700, i quali avevano ben più chiara la missione dell’Europa, i doveri dell’Europa verso il mondo, e della cultura europea in particolare. Di fronte a fenomeni ed eventi storici terribili e drammatici – come quelli della conquista del Nuovo Mondo, del genocidio perpetrato nel Nuovo Mondo nella cancellazione delle grandissime civiltà degli Atzechi, degli Incas, dei Maya, degli orribili delitti perpetrati dai colonizzatori spagnoli e portoghesi – i grandi intellettuali e i grandi umanisti, come Bartolomeo de las Casas, Montaigne, Paracelso, Erasmo da Rotterdam, levarono alta la protesta per queste infamie dello spirito di rapina che si era andato formando nella mentalità europea, e seppero affrontare anche le monarchie. Las Casas infatti si è rivolto con grande fermezza a Carlo V, a Filippo II, da pari a pari, protestando per quello che avveniva nel Nuovo Mondo e contestando la politica delle monarchie. Questo coraggio, questa forza enorme che ebbero quei grandi umanisti – anche se essi rimasero sconfitti e vinse e prevalse lo spirito di rapina – questa forza, questa capacità di intervenire nella “cosa pubblica”, nella politica, oggi non c’è più. E non c’è più nemmeno quello spirito illuminista degli intellettuali del ‘700 in Europa i quali, anche attraverso sofisticati mezzi letterari, seppero assumere, nelle loro opere, la parte del persiano, la parte dell’egiziano che giudica l’Europa, e seppero quindi studiare anche queste altre civiltà per mettersi dalla parte degli interlocutori dell’Oriente che, vedendo l’Europa, coglievano la situazione disperata nella quale si trovava. E quindi bisogna riconoscere che di fronte all’altissima coscienza di un Montesquieu, di un Diderot – il quale pubblica un intero volume sotto il nome di Raynal per criticare la politica europea – di fronte a uomini come Ferdinando Galiani, Antonio Genovesi, Gaetano Filangieri che hanno saputo ergersi contro i governanti, contro coloro che dirigevano la politica europea, per dire che non era quella la via giusta, oggi l’intellettuale è ben poca cosa di fronte ai bisogni dell’umanità. E se noi guardiamo veramente la situazione della cultura europea, dobbiamo dire che non solamente l’intellettuale non riesce ad essere all’altezza della gravità della situazione, ma la sua stessa cultura non ha lo spessore di quella che è stata la cultura dei grandi umanisti, degli illuministi e di quella che è stata la grande cultura tedesca, del romanticismo tedesco, della filosofia classica tedesca, e neanche , voglio dire, lo spessore di quella che era la cultura delle grandi figure come Gadamer, come Löwith, come Husserl. Praticamente non c’è niente di simile. Eppure il bisogno dell’Europa e del mondo è aumentato, nel senso che richiede che sorgano intellettuali di grande coscienza, di grande responsabilità, che sappiano interpretare il loro tempo e sappiano soprattutto comprendere il loro tempo, il compito che Hegel aveva assegnato ai filosofi. Di fronte a questa situazione, di fronte ad una situazione in cui manca anche la coscienza storica, sembra che gli intellettuali si diano tutti da fare a levare clamori alti, ed a confortarsi della crisi del marxismo e della crisi del mondo comunista, quasi per indicare il valore delle vecchie vie della politica europea; quelle vecchie vie che hanno portato al fallimento dell’Europa, alla perdita del suo ruolo di guida della civiltà, come un giorno Atene perse il suo ruolo di guida della civiltà, quando volle organizzare la guerra e la spedizione contro le città greche della Sicilia e andò incontro alla rovina. Rovina che le preannunciavano i grandi uomini di cultura ateniesi, i quali però non furono sentiti, non furono ascoltati. La spedizione partì e la flotta ateniese fu distrutta nei mari di Sicilia. Ora sembra quasi che la soluzione di tutto il problema sia la caduta del mondo comunista, la crisi del mondo comunista, e che questa crisi sia risolutiva di tutto. Gli intellettuali non hanno la capacità e l’altezza di comprendere che i problemi invece rimangono tutti sul tappeto, come è detto nel Suo libro sull’eredità dell’Europa. I problemi restano tutti sul tappeto. E quindi in questa cornice, in questo quadro, si inserisce il problema della crisi del marxismo. Il marxismo è entrato in crisi più volte nel nostro secolo. Cioè praticamente il marxismo indicava semplicemente – e soprattutto l’interpretazione che si faceva del marxismo – come i problemi dell’umanità fossero tutti economici e non si trattasse invece di costruire un nuovo uomo con altri valori, una nuova umanità con altri valori che non fossero quelli del successo, dell’arricchimento, del saccheggio, della rapina. Ed in sostanza l’Europa è rimasta quella dei mercanti, è rimasta quella delle gare economiche, quella delle preoccupazioni finanziarie e delle scalate alla ricchezza. La habendi rabies, “l’avidità di possesso”, che caratterizza oggi tanta parte del mondo, e che sembra al centro degli interessi del mondo, fu criticata invece dai grandi intellettuali dei secoli passati. Oggi naturalmente spetta agli economisti, ai filosofi, agli scienziati saper immaginare un nuovo mondo, saper indicare le vie d’uscita da questa gravissima crisi. Lei ha scritto un meraviglioso articolo per “Il Mattino” in cui appunto addita all’Europa la possibilità di una catastrofe se a un certo punto non si cambia la guida del mondo, non si cambiano i criteri di guida del mondo. Questo mi pare debba essere posto al centro invece di irridere semplicemente alla crisi di una ideologia, lasciando sul tappeto invece insoluti i veri, gravi problemi dell’umanità che si sono accumulati e sono diventati sempre più gravi nei secoli. La sconfitta dell’umanesimo è il punto da cui noi dobbiamo ripartire per una ripresa della coscienza storica europea. Non Le sembra Professore?
GADAMER: In un’epoca di transizione, come quella in cui viviamo, è molto difficile considerare compiti a breve scadenza. Nella Sua esposizione Lei ha giustamente incluso non solo Atene, ma anche gli albori dell’Europa. Questa ha esercitato così a lungo la sua egemonia culturale ed economica da porci oggi di fronte a compiti del tutto nuovi, al cui interno però l’impegno dell’Europa non si è rimpicciolito, ma è diverso. Cosa può attendersi dalla cultura l’impegno per il risanamento dell’umanità su questo pianeta? La cultura ha un grande vantaggio rispetto a tutti gli altri beni che hanno un ruolo nella vita politica; questi ultimi sono fatti in modo tale da diminuire se vengono ripartiti, se ne riceve solo una parte. La cultura invece è l’unico bene dell’umanità che diventa più grande se molti partecipano ad essa. Questo è per cosi dire l’impegno, il compito del futuro. Viviamo in un mondo in cui non si tratta più solo di ripartire i beni per avere una più equa distribuzione tra ricchezza e povertà, tra la mancanza di presupposti per una vita sana e buona e la sovrabbondanza di lusso e di civilizzazione. L’Europa ha un pesante destino in quanto potenza economica di primo piano, alleata ad altre due grandi potenze economiche che mettono in opera e sviluppano i fattori determinanti della scienza europea. Perciò dubito molto che l’impresa di risanamento possa riuscire se non eleviamo, non incrementiamo la nostra cultura, ossia se non favoriamo la comprensione reciproca per le cose che determinano la qualità della vita. Qui forse possiamo realmente trovare il giusto insegnamento, l’indicazione del giusto cammino. Partendo dalle mie idee e convinzioni filosofiche parlerei a questo proposito di riflessione ermeneutica. Sono cioè convinto che noi non ci conosciamo così bene come ci conoscono gli altri, e gli altri non si conoscono così bene come li conosciamo noi. Questo è il destino dell’uomo, egli è così dominato dai propri interessi e dalle passioni da non riuscire ad ascoltare, a prestare attenzione a ciò che in fondo anima tutti. La crisi del marxismo è stata in sostanza la crisi dell’applicazione di un’importante forma politico-sociale e politico-economica e dei suoi obiettivi di dominio. Si tratta quindi di qualcosa di completamente diverso dalla cooperazione tra la massa degli uomini, che conducono la loro vita, e la classe dirigente, i politici, gli economisti. Il compito del futuro riguarda la presa di coscienza del fatto che non c’è una realtà ideale, ma possono tuttavia esistere approssimazioni alla comprensione reciproca e si può giungere a forme di solidarietà. Ne è un esempio l’ecologia o il fatto che tutte le decisioni da prendere sono possibili, al giorno d’oggi, solo grazie alla cooperazione di tutti i paesi del mondo. Noi possiamo contribuire alla formazione di una coscienza che ci faccia riconoscere questi compiti come “nostri”. A questo scopo dobbiamo indebolire gli egoismi nazionali, gli egoismi personali e distogliere l’uomo dall’ossessione di perseguire le proprie mete. Se vogliamo sopravvivere si devono poter considerare gli altri in relazione con noi, come qualcosa di analogo a noi, come un’istanza che possa continuamente liberarci dall’abbaglio e dall’accecamento. Questo mi sembra essere il compito della cultura. E quella riflessione filosofica, capace di fondare questo compito contro tutte le obiezioni di coloro che la pensano diversamente, mi sembra faccia sperare in un reale esito positivo del futuro processo educativo, il quale, credo, abbia bisogno di molti decenni. Io posso soltanto esortare alla tolleranza, alla perseveranza e alla tenacia. L’avanzare del potere scientifico moderno, la rivoluzione industriale, nella quale viviamo, sono cose che, pian piano, devono trovare nuove forme di adattamento ai compiti politici del futuro. Noi – ossia gli uomini che hanno a che fare con la cultura – possiamo forse preparare l’atmosfera per la disponibilità alla vera cooperazione fra le potenze guida dell’attuale umanità. Questa è la speranza con cui un filosofo guarda al futuro, verso cui nutre preoccupazione, ma anche fiducia; quella fiducia secondo cui, nel corso della storia europea e dei suoi presupposti cristiani, la ragione umana e, in definitiva, il sentimento di solidarietà fra gli uomini sono diventati molto diversi rispetto ai difficili tempi del passato, in cui non si consideravano con molta attenzione gli interessi degli altri, dei popoli limitrofi, degli avversari, dei rivali. Questa è per così dire la visione del ruolo della cultura nella vita dell’umanità che può avere un osservatore misurato, obiettivo e realista.
3)
MAROTTA: Professore, oggi che tutta l’Europa festeggia il Suo novantesimo compleanno e si riconosce in Lei perché La giudica il rappresentante più illustre della cultura europea e vede in Lei la più grande coscienza europea, potrebbe parlarci della Sua esperienza in Italia e spiegarci i motivi della Sua predilezione per l’Italia? Il Suo annuale viaggio in Italia è stato un po’ paragonato ai viaggi di Platone nella Magna Grecia per attingere alla filosofia pitagorica e alla filosofia eleatica. Come Lei giustamente ha detto, l’Atene del quarto e del quinto secolo è un luminoso esempio di civiltà, ma tardo rispetto alla Magna Grecia del sesto secolo. Qui Platone è appunto venuto ad attingere il concetto della aletheia, della verità, dalla filosofia eleatica e ha inteso apprendere la matematica, la politica dai pitagorici. Ora Lei è stato chiamato il nuovo Platone, i suoi viaggi sono stati raffigurati e paragonati a quelli di Platone. C’è un’altra domanda che si fanno tutti in Italia: perché Hans-Georg Gadamer predilige soprattutto insegnare i temi della filosofia greca, del pensiero antico ? Ci si chiede come mai il Suo vademecum siano i libri di Platone e di Aristotele e perché Lei tenga a dare ai giovani, a trasmettere ai giovani, questi contenuti del pensiero antico e non insegni che raramente i principi della Sua filosofia. Anche se è vero che la Sua Weltanschauung ed i Suoi principi filosofici poi si inverano nell’insegnamento che Lei fa della filosofia antica e che quindi Lei tiene sempre presente i Suoi principi, la Sua filosofia, quando insegna i temi della filosofia antica. Allora ci racconta questo Suo viaggio di nuovo?
GADAMER: Grazie. Vorrei dire per prima cosa che naturalmente sono uno dei molti che per fortuna esistono ancora in Europa e riconoscono con piena consapevolezza l’impegno del nostro tempo per il futuro come un “compito proprio”. Non sono così straordinario. Lei però ha fatto due domande. La prima riguarda il motivo per cui considero tanto importante l’insegnamento e la trasmissione della mia filosofia, delle mie idee filosofiche negli altri paesi. L’altra domanda riguarda il motivo per cui nel mio insegnamento filosofico ha un ruolo decisivo la filosofia greca. In effetti entrambi le questioni sono strettamente connesse. Infatti quello che viviamo nel nostro mondo attuale è la crisi di un’incredibile unilateralità, vediamo l’uomo insorgere contro la natura impugnando l’arma della scienza. L’energia con cui questa piccola Europa, con le sue idee civilizzatrici e con la sua potenza tecnologica, si è estesa in tutto il mondo, ci esorta ad indagare come sia possibile raggiungere un equilibrio migliore nella nostra vita; un equilibrio che permetta di non consumare più le nostre energie solo nella caccia furiosa di progresso, ma di promuovere nuovamente, attraverso l’arte ed il pensiero, il sorgere di grandi creazioni, volte alla cura e all’abbellimento della nostra vita, al suo arricchimento, e a promulgare così altri valori che possano attestarsi fra gli uomini e rendere felice l’umanità. Questo è il nostro peculiare compito. Ciò comporta un ritorno alle radici, alle origini da cui l’Europa si è sviluppata divenendo una potenza egemone nel processo di civilizzazione e nel campo economico. All’Europa appartengono anche gli Stati Uniti d’America e l’odierno Giappone. Entrambi sono in effetti conseguenze, emanazioni dell’enorme processo della rivoluzione industriale. Come possiamo, all’interno della rivoluzione industriale e delle sue conseguenze, scegliere strade ed evidenziare forme che producano in questo mondo nuove forme di solidarietà tra la massa degli uomini e le forze guida e produttive? La mia filosofia è soltanto una delle formulazioni di questo compito, ma con essa spero di risvegliare, di sensibilizzare proprio la coscienza dei giovani e di far dire loro: “Ciò che è ora in gioco ci riguarda. Spetta dunque a noi iniziare a trovare, in modo misurato e tenace, le nuove forze che la vita richiede affinché l’incessante e furioso progresso non ci porti alla rovina “. A questo scopo possiamo apprendere molto dai greci e dalla cultura umanista che si nutre di quella greca. E se l’Italia è così attraente per me, ciò è dovuto principalmente al fatto che in questo paese la tradizione umanista, corrispondente allo spirito del popolo italiano, ha conservato una certa sensibilità per la misura, per la moderazione. Noi tedeschi abbiamo una modalità di vita del tutto opposta, siamo sempre spinti a prendere posizioni estreme e radicali, siamo abituati a lavorare energicamente. Ciò ha delle conseguenze. Nella produzione intellettuale, nella sfera del pensiero non siamo certamente gli ultimi, ma non abbiamo la coscienza naturale della misura, palesemente presente invece nella cultura latina e in quelle particolari forme, assimilate dal mondo culturale italiano, che trovo affascinanti ed istruttive. Questo è anche, in parte, il motivo per cui vengo volentieri in Italia ad insegnare filosofia. Sono andato anche in America e dovunque possa divulgare le mie idee avvalendomi, in una certa misura, della mia conoscenza delle lingue straniere. Non è possibile insegnare filosofia senza l’immediata capacità persuasiva del linguaggio vivo, parlato. Affidandosi soltanto alle traduzioni non si può destare, stimolare e rafforzare la capacità creativa del pensiero, non rimane quindi altro che avvalersi della lingua madre di ogni paese in cui si desidera esporre, divulgare le proprie idee. Questo è il motivo per cui ho iniziato, a questa tarda età, a viaggiare e a non insegnare soltanto nel mio paese, bensì, finché ne sarò in grado, anche in altri continenti, in altri ambiti e cerchie culturali. Purtroppo non parlo il giapponese, il cinese e il russo, ma se avessi saputo anche queste tre lingue avrei senz’altro raggiunto questi paesi per insegnare e divulgare i miei pensieri, e tentare così di rafforzare la solidarietà fra gli uomini, la loro disponibilità a quel colloquio che il futuro ci richiede.
4)
MAROTTA: Lei ha dichiarato, in un’intervista molto nota, che l’incontro della cultura, della filosofia, del pensiero occidentale con le grandi civiltà orientali, si è reso al giorno d’oggi indispensabile per la creazione di nuove categorie di pensiero che possano esprimere nuovi valori per l’umanità futura, e che questo potrebbe essere una delle vie per risolvere la crisi nella quale si trova l’umanità. L’incontro tra la civiltà occidentale e quella orientale può creare nuove categorie di pensiero. Vuole chiarire questo concetto delle nuove categorie di pensiero? Sembra una cosa molto interessante, che è stata seguita con molto interesse. Che cosa intende Lei per creazione di nuove categorie di pensiero attraverso l’incontro di queste civiltà? In effetti tutti coloro che si sono interessati in questo secolo alla civiltà orientale non hanno saputo porre l’accento su questo punto. Hermann Hesse ha espresso la sua grande ammirazione per le civiltà dell’Oriente, però non è stata mai indicata così concretamente, specificamente, come Lei ha indicato nelle Sue interviste, questa via nuova, questa strada della creazione di nuove categorie di pensiero come risultato di questo incontro delle civiltà occidentali e orientali. In fondo, Professore, l’Europa è una cattiva pedagoga, ha usato l’oppio per mettere in ginocchio la classe dirigente cinese. Il Ministro dell’Imperatore chiese: “Perché la Regina Vittoria, che è il capo di una grande nazione, manda qui l’oppio per mettere in ginocchio la nostra burocrazia e la nostra gioventù?”. La cultura europea non è riuscita a passare per l’interno degli europei, nell’anima degli europei, ma è diventata qualche cosa di esterno, un patrimonio esterno; come quando si comprano i quadri o si espongono nei musei. Essa non è passata nell’anima occidentale. La tradizione del grande umanesimo e dell’esperienza cristiana non sono passate all’interno; anzi subito dopo la sconfitta dell’umanesimo si è pensato a scristianizzare l’Europa.
GADAMER: Certamente, è proprio dell’egemonia della cultura scientifica basarsi sul monologo. Rispetto alle altre culture noi tutti abbiamo disimparato che non è il monologo e l’impiego delle autorevoli competenze degli esperti scientifici a promulgare la vita, ma lo scambio dialogico, lo scambio che avviene nel dialogo, nella disputa e nella lotta fra le opinioni. Dobbiamo pensare alla retorica, ma non nel senso di un’arma nelle mani dei potenti, bensì come capacità persuasiva delle idee. Ecco perché guardo ai greci con tanta ammirazione. Per questo popolo era naturale discutere in modo sentito, vivace per le strade e nelle piazze di Atene o di altre città. Dobbiamo ritornare alla dimensione del dialogo e sviluppare, completare in questo senso la nostra cultura, divenuta eccessivamente letteraria; dobbiamo cioè tendere ad un dialogo reale all’interno di tutta la cultura dell’umanità. Questo è l’impegno, il compito che riguarda tutti noi. E i nuovi strumenti tecnici, come la radio e la televisione, devono essere impiegati in questa direzione favorendo la diffusione del dialogo. Cosa, del resto, molto difficile poiché si tratta di istituzioni basate sul monologo. I privilegi delle stazioni radio e degli enti televisivi dipendono dal potere di coloro che di volta in volta lo detengono. Ogni rivoluzione del mondo attuale è legata in primo luogo alle stazioni radio e televisive perché l’opinione pubblica trae le sue tendenze di fondo da questi mezzi di divulgazione. Il dialogo dunque, cui pian piano si deve giungere, non è il dialogo degli esperti. Dovrebbero invece essere i popoli, nel loro reciproco scambio e rapporto, a prendere la parola. La mancanza di consenso è stata la catastrofe del comunismo negli ultimi anni. E la mancanza di consenso è catastrofica per la conquista di un’armonica vita sociale e politica. Anche la rivoluzione francese è stata un’esplosione dovuta alla mancanza di consenso, di accordo tra la classe dominante ed il popolo. Abbiamo bisogno di un nuovo accordo tra l’umanità e le grandi forze e potenze, responsabili del destino dell’uomo. Abbiamo bisogno del consenso, dell’accordo fra gli uomini. Seguo con una certa speranza il modo in cui i giovani di tutti i paesi iniziano lentamente a comprendere il problema ecologico. Anche questa è una strada per modificare la coscienza. E solo grazie ad una modificazione della coscienza possiamo sperare di dar vita, di produrre una nuova coscienza comune.
5)
MAROTTA: Pericle, apprendiamo da Tucidide, si rivolgeva ad Atene esortandola seguire i più grandi ideali, a diventare Scuola dell’Ellade, cioè maestra e guida di un mondo più grande. Invece Atene non stette a sentire questi avvertimenti e, dopo la morte di Pericle, si gettò nell’avventura della spedizione contro le città della Sicilia. E – dice Tucidide – da allora cominciò la decadenza di Atene e di tutta l’Ellade.
GADAMER: È giusto, ma allora si trattava di un mondo che aveva modalità di formazione del tutto diverse. Il peculiare destino del nostro mondo è l’interdipendenza. La dipendenza reciproca di tutte le cose è divenuta così enorme, che lo stesso avvicendarsi delle legislature non può incidere in profondità, come a quel tempo poteva incidere l’iniziativa del singolo. Questo vale anche nell’ambito intellettuale e scientifico. Esso è divenuto un sistema in cui effettivamente il semplice intervento di piccoli integrali condiziona la nostra coscienza. Noi non sappiamo, nessuno di noi, né Lei né io, sa cosa può realmente dare, a cosa può realmente contribuire il nostro lavoro per il futuro. Noi tutti però dobbiamo vivere nella consapevolezza che il nostro contributo è teso a favorire la solidarietà e a rasserenare il futuro dei nostri giovani, il futuro della nostra cultura. Si deve sempre considerare che a quei tempi il singolo aveva ancora una considerevole capacità di plasmazione e formazione. Non dobbiamo dimenticare che oggi la stabilità, la solidità delle istituzioni ci preserva in molti casi dal commettere errori. Montesquieu, che Lei ha giustamente citato, nel suddividere i poteri ha indicato un principio con cui è possibile salvaguardarsi dagli errori e dall’abuso del potere. E questo accade anche nelle nuove normative della cooperazione internazionale. La Comunità Europea offre uno scenario in cui costantemente si può vedere come le potenze nazionali ed i loro egoismi debbano di continuo accordarsi con le istanze, le responsabilità internazionali. Non avremo mai condizioni ideali ma, grazie alla ricerca di condizioni ideali, speriamo tuttavia di dare lentamente spazio – non solo in Europa, ma anche in Africa, nell’America del Sud, nel vasto mondo orientale dell’impero russo – a condizioni di vita accettabili, e chissà persino migliori di quelle attuali, sperando così di mettere in atto nuove forme di solidarietà.
6)
MAROTTA: Resta però il problema che la grande voce della cultura, le grandi tradizioni culturali europee non hanno salvato il mondo dalle due guerre mondiali. E quindi ha prevalso l’Europa della barbarie, l’Europa dello spirito di rapina sull’Europa della cultura. L’Europa della cultura ha perso ancora una volta. Come hanno perso i grandi umanisti, così oggi ha perso l’Europa della cultura, perché le due guerre mondiali sono una tragica testimonianza della prevalenza dello spirito di rapina. E riuscirà la cultura europea ad imporsi sugli sviluppi della scienza e delle tecnica? Riuscirà la grande tradizione culturale europea ad imporsi perché gli esiti della rivoluzione industriale non siano nefasti e la scienza e la tecnica servano invece per salvare l’umanità che aspetta, mentre i quattro quinti del mondo sono condannati alla fame, mentre l’Europa continua, attraverso la sua politica finanziaria, a sfruttare tutto il mondo e a condannare il mondo alla fame? Il rapporto che negli Stati Uniti d’America ha fatto il Dipartimento di Stato, dice: “Come abbiamo distrutto il continente africano”. Cioè oggi si ha coscienza del male, ma non si riesce a prendere la strada del bene perché la grande tradizione culturale europea non è all’interno dell’anima europea, non è riuscita a convincere. Ecco perché Croce diceva che solo le grandi religioni, i grandi movimenti religiosi riescono a prendere l’anima dell’uomo. E quindi l’uomo è rimasto come deserto di ideali e si arrabatta a sopravvivere in questa lotta stupida e piuttosto insignificante, banale rispetto a quello che sono i grandi compiti dell’umanità.
GADAMER: Sono completamente d’accordo con Lei nel ritenere incredibilmente difficile il compito da attuare. La cultura che una volta ha realmente contribuito alla formazione dell’umanità e del suo destino, oggi, nel mondo produttivo e del lavoro, è divenuta in qualche modo un museo. Come si possa nuovamente trasformare il museo in tempio, e come il sentimento comune degli uomini, ciò che unisce noi tutti, possa tornare ad essere il centro della nostra vita, del nostro senso vitale, tutto questo è un compito infinito. Per questo posso solo ripetere: dobbiamo conoscere la meta ed avere la pazienza, l’accortezza di procedere a passi lenti, misurati. Le guerre mondiali, cui Lei allude, erano infatti anche il frutto dello sviluppo della scienza e della tecnica , le quali hanno fatto in modo che le armi belliche divenissero un pericolo terribile per l’uomo. Lei ha fatto riferimento alla conquista del Nuovo Continente e alle atrocità commesse. Anche lì il pericolo era dato dall’incommensurabile superiorità dei mezzi tecnici dei conquistatori. Oggi, la grande incommensurabile superiorità delle nostre armi e dei nostri mezzi tecnici può comportare il pericolo di distruggere il mondo naturale e di sostituirlo con un mondo costruito artificialmente. Io vedo i pericoli, ma non sono un profeta, un veggente. Come Platone, posso soltanto dire: ” vedo che tutti gli Stati vengono male amministrati e per questo è giusto lavorare per la trasformazione della nostra coscienza, ossia fare filosofia”.
BIOGRAFIA INTELLETTUALE (20/1/1991)
1. Professor Gadamer, può tracciare un breve profilo della Sua biografia intellettuale, partendo dai suoi primi studi filosofici?
La mia nascita filosofica è stata alquanto travagliata; sono figlio di uno scienziato convinto che i filosofi, in genere, non avessero niente a che fare con la scienza, che fossero dei chiacchieroni: tuttavia mi ha lasciato libero, anche se per tutta la vita è stato scontento per la mia scelta. Iniziai i miei studi durante la Prima Guerra mondiale: il mio primo professore fu il neokantiano Richard Hönigswald; all’epoca studiavo anche sanscrito e seguivo delle lezioni sul Corano. Ebbi i miei primi modesti successi e mi accorsi che tali esiti derivavano dai miei interessi. Andai a Marburgo e lì, molto giovane, frequentai i neokantiani del luogo, ad iniziare da Paul Natorp, di cui divenni assistente; con lui avevo dei dialoghi molto silenziosi, da cui non c’era da apprendere molto: tuttavia ho imparato ugualmente molto con lui. Al tempo stesso incontrai Nicolai Hartmann, un docente più giovane ma di grande qualità: non era uno studioso della statura di Natorp, ma quella di un insegnante acuto e di un amico più anziano: mi ha sempre difeso di fronte alla mia famiglia e si è sempre interessato del mio destino personale. Con lui ho
appreso la prima forma di scetticismo verso il neokantismo, cominciando a provare simpatia per la fenomenologia. Conseguii il mio dottorato molto giovane, durante la grave crisi economica tedesca, quindi mi sposai. Infine incontrai Heidegger, a ragione molto stimato da Natorp: devo infatti riconoscere che incontrare Heidegger significava trovare un nuovo metro di misura. Avendolo conosciuto, mi resi conto di non aver imparato nulla, di non aver preso possesso dei fondamenti di alcuna scienza, tanto da poter dire: “so cos’è la scienza”. Così decisi di diventare un filologo classico per insegnare in un liceo. Ma, grazie ad Heidegger, strinsi un’amicizia più stretta anche con Rudolf Bultmann, il grande studioso del Nuovo Testamento e filologo di grande valore. Dal 1924 al 1927 studiai filologia classica con la massima concentrazione; erano gli anni in cui non c’era quasi nessuno studente: l’ideale per lo studente che ci arriva! Ero con il filologo classico Paul Friedländer in un seminario dopo un primo anno di avviamento; grazie a lui conobbi Friedrich Wolters. Non eravamo conservatori, ma liberali: volevamo la Repubblica di Weimar, la democrazia che ci era stata imposta. Sin qui la mia giovinezza fino all’abilitazione all’insegnamento universitario, un ambiente in cui era sorto un grande gruppo di amici: queste amicizie si sono conservate senza eccezione fino alla morte: Karl Löwith, Gerhard Krüger, Walter Bröcker. Dopo il dottorato mi ammalai di poliomielite, che mi colpì le gambe e le mani: per superare gli strascichi della malattia devo aver sviluppato qualche energia. Torniamo ai miei amici: Krüger era un lettore e un declamatore eccezionale, ma anch’io non ero niente male. Posso citare i miei studi su Hölderlin, iniziati negli anni ‘20, prima ancora che Heidegger avesse cominciato ad occuparsene: anzi, lo ha conosciuto grazie a me. La gente pensa che sia stato Heidegger ad influenzare me anche nella poesia e nell’arte, ma è il contrario. La mia prima moglie aveva molto senso musicale e introdusse la musica fiamminga del ‘400 e ‘500, quella musica del Rinascimento che non esisteva come musica viva, in stile “a cappella”. Studiavo arte perché avevo un amico poeta e storico dell’arte, Oskar Schürer; più tardi anche Max Kommerell divenne un mio vero amico.
2. Leggendo la Sua biografia, mi ha colpito la descrizione della vita universitaria a Marburgo, dove Lei parla del rapporto tra i professori e gli studenti e tra gli studenti stessi. Può descrivere alcuni momenti di questa vita universitaria di allora, oggi inconcepibile?
Quando mi stavo accingendo a pubblicare la mia autobiografia su invito dell’università di Marburgo, ne inviai due capitoli sui miei anni a Marburgo ad Heidegger, che mi rispose: “La cosa è ben fatta. Essa deve essere letta da tutti i giovani studenti di oggi, per apprendere come si sviluppa la cultura non grazie a finanziamenti, borse, facilitazioni, ma grazie alla concentrazione e alla disciplina”. È vero: la situazione era completamente differente perché tutti i seminari erano piccoli e pochi gli studenti che li frequentavano. Al seminario di filologia classica erano con me solamente altri due partecipanti; anche al seminario di storia dell’arte conoscevo tutti gli studenti, come anche i laureati della scuola di Richard Hamann, il mio professore di storia dell’arte. Devo dire che, in effetti, conoscevo anche tutti i giovani colleghi dell’Università che si trovavano nella mia posizione. Erano in massima parte teologi e filologi che vivevano in un clima molto familiare anche con i professori. Nicolai Hartmann mi chiamava con il nome di battesimo, cosa rara in Germania; neanche io chiamavo mai Kommerell con il nome di battesimo, neppure Schörer. Un altro dei miei maestri da ricordare è stato Ernst Robert Curtius, giovane professore di filologia romanza, una delle grandi figure di questa disciplina. Il suo libro sulla letteratura medioevale, La letteratura europea e il medioevo latino, pubblicato per la prima volta nel 1948, è divenuto uno standard book, un libro famoso. Mi aveva concesso il privilegio di fare due volte a settimana una passeggiata nelle foreste, sempre alle due dopo pranzo; faceva una lettura alla liseuse e quando io entravo si alzava. Non si stancava di dare consigli su ciò che si doveva leggere: un giorno pronunciò subito il nome che non bisognava dimenticare: Marcel Proust, del quale Curtius fu il primo lettore in Germania. Mi introdusse, tra l’altro, alla poesia di George; un giorno mi presentò a Max Scheler, suo amico, sebbene egli fosse più giovane di Scheler, il che gli faceva considerare un privilegio questa amicizia. Imparai molto anche da Friedrich Wolters, storico dell’economia. Effettivamente mi furono di grande giovamento i contatti di questo tipo, dove un uomo di cultura, già maturo e produttivo, mi trattava come un partner. Questo è vero nel caso in cui l’occasione sia ben usata, altrimenti diviene anche un po’ pericolosa per l’autocritica che bisogna necessariamente esercitare nei confronti di sé stessi. Nel mio caso tutto andava bene, perché la superiorità di Heidegger mi immunizzava contro ogni forma di sopravvalutazione di me stesso.
3. Cosa può dirci della figura di Max Scheler?
Era un demonio, il più volgare, il più terribile. Aveva un grosso naso e nel mezzo aveva una specie di grondaia: quando parlava, cadevano le gocce di sudore. Era animato da grande entusiasmo. Credo che fosse l’unico ad avere, forse, qualcosa della capacità che mi è propria di affascinare un uditorio: in effetti era molto differente da me, ma indubbiamente il suo entusiasmo suscitava un effetto positivo. Era un vero genio, finì per convincere lo stesso Heidegger che, essendo a quel tempo in competizione con lui, gli era molto ostile. Max Scheler fu certamente una grande personalità: purtroppo morì molto giovane, a 54 anni, ma aveva una capacità straordinaria, era forse comparabile come talento a pochi altri, starei per dire a Walter Benjamin, sebbene fosse un altro tipo, completamente differente, ma anche lui ebreo; Benjamin era un timido, un introverso, mentre Scheler era un vulcano sempre in esplosione.
4. Cosa può dirci della figura di Leo Strauss?
Leo Strauss era amico del mio compagno di studi Jacob Klein, anch’egli ebreo. Klein divenne poi molto noto come il Dean, il decano del Saint John’s College a Indianapolis e come riformatore del sistema educativo nelle università. Era uno degli ispiratori del movimento dei “Cento Libri” negli Stati Uniti, il cui programma era sostanzialmente basato sull’assunto che cultura non è universalità, ma sono cento libri della letteratura mondiale che devono essere studiati: nient’altro. Questo corrisponde in qualche modo alle mie idee: anch’io facevo lo stesso in un certo senso. Da Leo Strauss, che pure era suo amico, rimasi, invece, inizialmente distante: era molto timido e molto orgoglioso, si offendeva facilmente senza che gli altri lo volessero ed io ancora non mi interessavo molto a lui. Un mutamento nei nostri rapporti si verificò solo nel 1933, quando eravamo a Parigi. In quel momento, nella Pasqua del ‘33, mi resi conto che stava arrivando la fine del periodo in cui avrei potuto compiere frequenti viaggi: allora presi gli ultimi soldi che riuscii a mettere insieme e andai Parigi, dove trascorsi due settimane con Leo Strauss e Alexandre Kojève: da quel momento divenimmo amici. Naturalmente più tardi ammirai molto il suo libro su Hobbes, che mi parve molto interessante benché non approvassi la sua linea di pensiero. In ogni modo, Strauss e Klein non erano tanto lontani dalle mie idee: esiste una corrispondenza fra tutti noi che è stata pubblicata. Con Klein esiste un epistolario, anche questo un giorno forse sarà pubblicato. Ho già detto che entrambi erano ebrei; del resto, anche altri miei professori erano ebrei: Friedländer; Leo Spitzer; il romanista Erich Auerbach, con cui divenni molto amico dopo il ‘33. Citerò un episodio significativo, che servirà anche a chiarire certe posizioni di Heidegger. Recentemente venne qui ad Heidelberg il filosofo francese Jacques Derrida, per tenere una conferenza: chiese anche il mio aiuto per discutere dell’affaire Heidegger, perché sono considerato un heideggeriano non oltranzista. In un dibattito con dei giornalisti fu posta la domanda se Heidegger sarebbe divenuto nazista nel caso in cui fosse rimasto a Marburgo. Si tratta di una domanda molto intelligente: in effetti, a Marburgo il cattolicesimo praticamente non esisteva e si può sostenere che Heidegger sia divenuto nazista anche per opporsi all’imperialismo della Chiesa romana. A Marburgo nel ‘33 gli amici erano gli stessi ebrei che menzionavo prima. In seguito, la facoltà di teologia divenne il centro della cosiddetta Chiesa confessante (bekennende Kirche), che animò una forte opposizione al regime nazista: i suoi capi spirituali, von Soden e Bultmann, risiedevano in parte a Marburgo. Per quanto mi riguarda, ci furono due fattori che facilitarono per me la presa di distanza dagli inizi del nazismo. Heidegger era irritato per il cattolicesimo da cui proveniva; in fondo era un homo novus, formato con un’educazione di origine piccolo-borghese, ovviamente molto ammirato dalla sua famiglia. Tornando alla teologia luterana a Marburgo, va detto che costituiva un filone culturale molto vitale, durante i miei studi e anche durante i primi anni del Terzo Reich; non c’era molta politica: la distanza verso il nazismo era comune. Ma tutto faceva di Marburgo una città normale. Lipsia, dove mi trasferii, lo era anche di più: I nazisti erano, per così dire, “nazisti dell’università”, nel senso che tutti erano più o meno attestati in un primo momento sul nazionalismo, ma dopo due o tre anni avevano preso le distanze; allora fui il benvenuto a Lipsia.
5. Professore, Lei ha visto nella sua vita le due terribili guerre mondiali e la terribile crisi dell’Europa. A differenza di quanto si poteva aspettare fino a qualche anno fa, oggi ci troviamo di fronte a nuovi scenari di guerra: secondo Lei, quali sono le conseguenze di questa nuova vicenda sul piano culturale per l’Occidente, per l’Europa?
Molto dipende naturalmente dal futuro, dagli eventi che verranno. Nel caso che gli episodi di guerra finiscano, sono del parere che dovrà esserci una nuova organizzazione di tutto l’Est, del Vicino Oriente, perché quella attuale è un’organizzazione artificiale nata dopo la II Guerra Mondiale: tutti questi Paesi sono creazioni della burocrazia diplomatica dopo la guerra. Nel frattempo sono venuti fuori anche altri fattori, perché 40 o 50 anni contano qualcosa per formare una tradizione, nuovi equilibri e anche per la cultura: naturalmente la fondazione di Israele non è revocabile, ma anche gli altri Stati hanno una certa forma di identità. La prima condizione che deve realizzarsi è che ci sia una nuova organizzazione di quella regione con una restrizione delle ambizioni di Israele: questo è chiaro. Ma va garantita la sicurezza per Israele, che non sarà più costretta a militarizzarsi in modo così massiccio. Naturalmente questa è un’evoluzione del tutto nuova, senza dimenticare che i problemi della nostra cultura sono più o meno planetari. Per questo credo che la costante tensione Europa e America con l’Islam sia solamente marginale. Si tratta di capire come sia possibile organizzare una competizione pacifica senza ricorrere ad una forma di politica militare. La fondazione di Israele fu certamente un modo per riequilibrare ragionevolmente e moralmente tutte le sofferenze del popolo ebreo, ma non venne preparato bene l’ambiente per organizzare la coesistenza. Naturalmente di questo sono colpevoli il commercio, il petrolio, il mercato. La mia speranza è che si rimanga abbastanza forti per evitare nuove guerre. Ma lo spettro della guerra rimane naturalmente terribile, un incubo. La III o la IV guerra mondiale sarebbero la catastrofe della cultura umana, tanto è stata sviluppata la tecnica distruttiva: non c’è solo il problema nucleare, ma anche quello dell’ecologia, è uno dei più fatali poiché nessuno conosce il rimedio. L’unica possibilità consisterà nell’organizzare un’economia di libero mercato che sia anche solidale sul problema dell’ecologia. Ma come realizzare questo obiettivo? Le prospettive per il futuro sono terribili, ma si spera che diventi possibile stabilire un nuovo equilibrio mondiale, cosicché potrà porsi anche con urgenza il problema dell’ecologia. È difficile giudicare, perché dipende dal fatto che la nostra possibilità di misurare tutto è una invenzione recente. Vorrei che il buco dell’ozono fosse stato cinquant’anni fa come oggi: semplicemente nessuno allora lo avrebbe potuto misurare.
INTRODUZIONE ALLA “FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO” DI HEGEL (9/4/1991)
1. Qual è il contesto storico in cui Hegel scrive la Fenomenologia dello spirito?
La Fenomenologia dello spirito marca una cesura biografica nella storia dello sviluppo di Hegel. Essa infatti è nata a Jena, dove Hegel era docente durante il periodo del dominio napoleonico e prima della guerra antiprussiana. È noto con quali enormi attese i giovani intellettuali svevi, di Tubinga e in genere della Germania meridionale, abbiano salutato la Rivoluzione Francese: giovani teologi e studenti, furono allora animati dal grande pathos della libertà. Diversamente da quel che in genere si pensa, Hegel sino alla fine della sua vita è rimasto convinto del significato fondamentale della Rivoluzione Francese. Si narra che, in occasione di una visita a Tieck nella città di Dresda, Hegel, ormai famoso, a un certo punto sollevando il bicchiere abbia detto: “Sa Lei che giorno è oggi? È il giorno dell’assalto alla Bastiglia. Beviamo a questo giorno!”. La Rivoluzione Francese e il suo pathos della libertà costituivano, com’è comprensibile, la base sulla quale il ceto degli intellettuali borghesi poteva sperare di ottenere un riconoscimento sociale e politico. Si sa con certezza, per esempio, che fu necessario conferire un titolo nobiliare a Goethe e a Schiller prima di presentarli alla corte del Granduca di Weimar. Queste condizioni sociali in conseguenza della Rivoluzione Francese, e quindi anche dopo l’occupazione napoleonica, iniziarono a modificarsi lentamente. Fu allora che si formò una nuova struttura sociale sulla quale si è costruito lo stato nazionale tedesco.
La Fenomenologia dello spirito, questo libro tanto singolare da non potersi quasi riassumere e da essere comprensibile solo in alcune parti, è stato completato da Hegel proprio durante la guerra antinapoleonica della Prussia. Il rombo dei cannoni della città di Jena ha per così dire accompagnato la conclusione del libro. Quando poi Napoleone entrò a Jena Hegel scrisse: “Oggi ho visto la Spirito del mondo a cavallo”. Queste sono le circostanze esterne sotto le quali è sorta la Fenomenologia dello spirito.
A Jena Hegel era già un libero docente affermato. Il fatto che venisse capito è e resterà sempre uno dei misteri della storia universale. Come sia possibile che, nonostante il dialetto svevo parlato da Hegel a Berlino, questi abbia potuto influenzare una cerchia di allievi resta affatto misterioso e dimostra che i giovani studenti hanno la meravigliosa capacità di aprirsi senza riserve ad una persona che ha qualcosa da dire, di comprenderla fino in fondo e di trasmettere ad altri quello che hanno capito. I
l vero onore del nostro lavoro universitario non è quello di manifestare occasionalmente una opinione politica razionale o magari irrazionale, ma quello di trasmettere da generazione in generazione lo stimolo a pensare e la propria capacità di giudizio. Con questa digressione intendo sottolineare che pensatori come Hegel, Schelling e naturalmente anche Fichte, che in quel periodo a Jena era la figura predominante, non hanno semplicemente arricchito la scienza filosofica. Essi tutti hanno reso possibile una solidarietà morale, sociale e politica, sulla cui base almeno per un secolo si è edificato lo stato nazionale tedesco.
2. Il sottotitolo della Fenomenologia dello spirito suona: “Scienza dell’esperienza della coscienza” Quali significati assumono nell’opera di Hegel i termini di “fenomeno” e di “coscienza”?
Quando ci si accinge ad esaminare la Fenomenologia dello spirito, bisogna innanzitutto chiarire il termine “fenomenologia”. Oggi è molto noto, perché in Germania si è formata una scuola, la cosiddetta “scuola fenomenologica”, fondata da Husserl e alla quale appartenevano anche Heidegger e Max Scheler. Questa “scuola fenomenologica” ha fatto proprio il termine “fenomenologia”, che originariamente apparteneva alla medicina, dove dava il nome allo studio delle manifestazioni dei diversi tipi di malattia. La fenomenologia è dunque una dottrina delle manifestazioni; in Hegel, delle manifestazioni dello Spirito. La fenomenologia è la storia delle manifestazioni dello Spirito, dei modi in cui lo Spirito si manifesta.
La missione che la generazione di Hegel attribuiva al pensiero di Kant, era il ristabilimento dell’unità laddove lo stesso Kant aveva istituito alcune differenze. La prima di queste differenze è che da un lato le scienze e l’esperienza da esse elaborata costituiscono l’inizio di ogni conoscenza e, se gli oggetti non sono dati nell’intuizione, la metafisica e le sue proposizioni restano vuote; dall’altro la libertà rappresenta un’eccezione a queste limitazioni. La libertà umana, quella determinazione morale con la quale l’uomo sa e sente ciò che in lui o in un altro è buono oppure cattivo, non è un fatto empirico, ma determina l’umanità del nostro comportamento ed anche le possibilità di una metafisica. Con questa missione da svolgere, Fichte, Schelling ed Hegel si misero al lavoro. La Fenomenologia dello spirito fu il capolavoro in cui Hegel ha tentato di mostrare come si possa comprendere l’intera struttura spirituale del mondo a partire dall’autocoscienza, cioè superando quell’atteggiamento fondamentale che si può definire “punto di vista della coscienza”.
La coscienza non è infatti nient’altro che quello che in lei stessa appare. Nel mondo antico non era possibile un concetto di autocoscienza o un concetto di Io, di ciò che noi oggi chiamiamo “soggetto”; il pensiero greco era come un enorme occhio aperto che guarda l’ordine celeste, l’ordine umano – cioè quello cittadino -, e l’ordine della propria anima. Con la mediazione del Cristianesimo è iniziato il cammino della interiorizzazione e il “subiectum”, che in senso stretto significava solo “sostrato”, viene ora a significare la “soggettività”, cioè l’autocoscienza che appartiene alla coscienza. Hegel si era posto il compito di mostrare che ogni coscienza è in fondo autocoscienza, di darne la consapevolezza a chi pensa, e si chiedeva come comprendere la totalità della nostra esperienza reale a partire dall’universo interiore dell’autocoscienza. Di qui il lungo cammino che questo libro presenta: dalla coscienza all’autocoscienza, dall’autocoscienza allo spirito e a tutte le forme di organizzazione spirituale della realtà, quali la società, lo Stato, l’arte, la religione e la filosofia. Un programma enorme, che spazia dalla coscienza sino alle forme di quel “sapere assoluto” che arte, religione e filosofia pretendono di essere. Su questa base le nostre riflessioni si devono articolare, a partire dall’autocoscienza, in due passi fondamentali. Il primo passo consiste nell’indicare come si perviene all’autocoscienza e perché in ogni coscienza c’è già autocoscienza; il secondo nel mostrare che ad avere l’ultima parola non è l’autocoscienza, ma lo spirito.
3. Qual è il cammino che dalla coscienza porta all’autocoscienza?
Hegel mostra la presenza dell’autocoscienza nella coscienza muovendo da una prima certezza che chiama “certezza sensibile”. Quando qui ed ora si trova qualcosa davanti a noi, è certo che ne siamo coscienti, ma in realtà siamo coscienti solo della sua datità. Che cosa sia ciò che traiamo (nehmen) come vero (Wahr) da essa, che cosa, cioè, la percezione (Wahrmehmung) veramente sia, questo l’esperienza della datità non può ancora dircelo. Né certamente la percezione è compiutamente compresa quando l’oggetto è colto come “oggetto con le sue proprietà”. La chimica può offrire una buona rappresentazione di quel che è il mondo; essa studia e ricerca la struttura del percepito – poiché gli oggetti reali che ci vengono incontro consistono di elementi base, l’analisi chimica può mostrarcene la struttura. Ma in realtà questo atteggiamento non è ancora autocoscienza, ma solo un atteggiamento oggettivante che con i mezzi dell’intelletto cerca nel mondo della percezione un ordine legale e si sforza di provarlo. Che genere di ordine è questo?
Inavvertitamente, e perciò sorprendentemente, ci siamo già avvicinati molto a ciò che cerchiamo: alle forze. Il mondo si mostra come un gioco di forze. Cos’è veramente una forza? Una forza che non si estrinseca è una forza? O forse una forza è solo la sua estrinsecazione? Certamente una forza non è solo questo, però la sua estrinsecazione deve essere provocata da un’altra forza. Allora si usava l’espressione di origine latina sollizitieren: il mondo reale delle forze è composto di forze che sollecitano e che vengono sollecitate. È chiaro che la forza in questo senso non è visibile, se non nella sua estrinsecazione. Muovendo dalla percezione, che ci svela l’oggetto con le sue proprietà, siamo passati al mondo dominato dalle leggi di natura. Hegel sente acutamente il limite di ciò che è posto, di quel che chiamava il “positivo” e che propriamente per lui era negativo (in modo particolare in campo religioso, dove la “positività” caratterizza una vita religiosa non veramente sentita). Allo stesso modo ancor oggi i codici e le leggi sono per noi solo degli ideali, che ci permettono di mantenere l’equità, la conformità e l’ordine. Il gioco delle forze è effettivamente un ottimo esempio di dialettica. Una forza è tale solo se si estrinseca. Il fatto che le forze si estrinsechino, che entrino per così dire in gioco tra loro, dà vita a quell’ordine naturale noto come ordine legale della natura. Un tale ordine non è certo sensibile, ed Hegel ne parla infatti come di un ordine soprasensibile. Il mondo delle leggi è per così dire un mondo fenomenico: esse appaiono come forze e come loro estrinsecazioni.
4. Professor Gadamer, non si potrebbe piuttosto dire che sono le leggi la vera realtà?
Secondo il Neokantismo le leggi naturali sono appunto la vera realtà; Natorp ha persino affermato che questo era già il senso delle “idee” platoniche. È dunque importante capire cosa significa che le leggi sarebbero la realtà. Esse lo sono non da sole, ma nell’unione con quel che esse determinano. Questa unione è nota come la dialettica tra la legge ed i suoi “casi”. Che cos’è il caso di una legge? In tedesco il caso (Fall) di una legge è ciò che è caduto (fallen) sotto un universale; questo universale, ammesso che abbia realtà, la può avere solo nei suoi “casi”. In medicina, per esempio, si parla di un “caso di malattia”, e la malattia può esistere solo nei suoi “casi”. Quindi la vera realtà non è affatto l’universale, ma l’inscindibile coappartenenza dell’universale e del suo caso. Nella nostra esperienza la incontriamo – e questo è il grande passo che Hegel prepara – nel vivente. L’aveva capito già Kant che, sebbene abbia fondato la fisica di Newton e mostrato che la filosofia può acquisire delle conoscenze effettive solo se è in rapporto con la conoscenza scientifica e non si appoggia alle mere costruzioni concettuali della metafisica, si è però accorto che la scienza matematica della natura non è tutto. Accanto ad essa la nostra ragione ed il nostro intelletto tendono necessariamente a concepire la totalità, e in particolare tutto ciò che si comporta come un vivente, non come una calcolatrice costruita, ma come qualcosa che si comporta rispetto a se stesso. È stato proprio Kant a insegnare che senza il concetto di scopo, senza il giudizio teleologico, non possiamo comprendere che cosa sia davvero il vivente. Il vivente si “comporta”: questo è il fenomeno dialettico basilare con cui Hegel prepara il passaggio all’autocoscienza.
In quanto vivente ogni gesto che faccio non dipende dal fatto che qualcosa mi stuzzichi; piuttosto sono io a muovermi. Già per Platone era questa la caratteristica della natura vivente; egli parlava dell’automovimento, dello Autokinoûn. Poiché siamo sulla soglia dell’autocoscienza, vorrei citare una frase per mostrare cosa questa soglia significava per Hegel. Giunto al capitolo sull’autocoscienza, egli scrive la frase seguente, che mostra anche la sua enorme forza stilistica: “(…) nell’autocoscienza come concetto dello spirito, la coscienza raggiunge il suo punto di volta: qui essa, muovendo dalla variopinta parvenza dell’al di qua sensibile e dalla notte vuota dell’al di là ultrasensibile, si inoltra nel giorno spirituale della presenzialità”. Quindi aggiunge che per questo motivo il capitolo sull’autocoscienza è l’autentico punto di volta rispetto al quale misurare l’intero sviluppo del pensiero che muovendo dalla certezza sensibile raggiunge nell’arte, nella religione e nella filosofia la più interiore certezza della verità. Cosa significa allora “comportarsi rispetto a se stesso”? Come mai ci si può comportare rispetto a se stessi? Che cosa è questo “se stesso”? Certamente non risulta dalla astratta identificazione che noi facciamo, quando diciamo indicando qualcuno: “è proprio lui, è lui stesso!”. Noi ricorriamo a questa espressione quando vogliamo identificare qualcuno, ma questi non identifica se stesso, questi è un Sé. Non è che il Sé si comporti rispetto a se stesso, bensì il “comportarsi rispetto a se stesso” è il Sé medesimo. Ma questo è solo il primo passo che il pensiero compie per elevarsi ad un più alto grado. La vita, la vitalità in quanto tale, chiaramente non si comporta rispetto a se stessa in maniera cosciente. Il vivente in quanto tale è inserito nella grande “circolazione sanguigna dell’organico”. Nessun essere vivente è un Sé astratto, ma si trova in un ciclo continuo di assimilazione, eliminazione e ricostruzione della propria materia organica. È noto che il nostro stesso corpo nel giro di pochi anni rinnova completamente le parti materiali che lo compongono. La struttura dialettica della vita è un continuo fluire ed rifluire.
5. Una delle figure più celebri dell’intero percorso fenomenologico è quella del “servo-signore”. Di cosa si tratta?
Facciamo un esempio: poniamo di avvertire la fame; questo appetito, per così dire, ci dà la certezza di esistere, ma appena siamo sazi questa autoconferma svanisce. L’appetito ci ha fatto “ricordare di noi”, ma è qualcosa di momentaneo. Non posso ancora riconoscermi come un Sé, se subisco il ritmo dell’appetito e della sazietà insieme a tutte le forme di desiderio che vi corrispondono; per diventare un Sé non solo reale, ma anche autocosciente, è necessario ancora qualcos’altro. Cerchiamo palesemente il riconoscimento, ma il semplice riconoscimento attraverso la soddisfazione dei desideri è insufficiente, perché poi, con i desideri, viene meno anche il riconoscimento.
Il concetto di riconoscimento è assai importante per Hegel: il mancato riconoscimento da parte di altri distrugge la propria autoconsiderazione, mentre il riconoscimento avvenuto la rafforza e la arricchisce. Si crede che quel che conta sia di saper dominare l’altro per costringerlo a riconoscerci, ma è una stupida follia ritenere che la nostra autocoscienza possa fondarsi sul riconoscimento di una persona che abbiamo asservito o schiavizzato. È follia, ma è anche una forma di desiderio, un desiderio di possesso che certo non può essere soddisfatto dalla conferma del proprio Sé data dal servo.
Nella società nobiliare valeva il concetto feudale dell’onore. E infatti c’era il duello: chi aveva offeso qualcuno poteva riconciliarsi di nuovo con lui, se accettava di esporsi al rischio comune di un duello a morte. Poi, per il fatto di essersi per così dire posti in comune, non si correva più il pericolo di essere annientati nel proprio Sé; attraverso il duello si dimostrava la propria libertà. Ma anche questa è ovviamente, come si vede subito, una conferma di sé assai momentanea; si supera una offesa, ma non si consolida una autocoscienza durevole. Per questo scopo nella società feudale c’è invece il servo, lo schiavo. La sua è infatti una dedizione continua.
6. Professor Gadamer, l’abnegazione del servo nei confronti del padrone può mai fungere da base all’autocoscienza?
Qui noi facciamo l’esperienza sorprendente: è, infatti, il padrone che non ha una autocoscienza durevole. Egli è per così dire incatenato agli oggetti che il servo gli presenta. Una rivoluzione sociale come quella che nel nostro secolo si è vista in Russia, ha evidenziato in un modo addirittura sconcertante che anche sul patriarcale asservimento dei contadini di un feudo ad un padrone molto umano si sono fondate grandi forme di autocoscienza. Alexandre Kojève – il suo cognome russo era Kojevnikov – divenne hegeliano dopo l’esperienza della rivoluzione russa, durante la quale suo padre, un proprietario fondiario amato e riverito, era stato improvvisamente ucciso dalla folla inferocita.
La base per una autentica autocoscienza non è il dominio sugli altri, ma il lavoro: è avere la capacità di fare qualcosa che dà autocoscienza. Tutti noi sappiamo che negli anni instabili dello sviluppo l’autocoscienza è labile, si oscilla tra una smodata arroganza ed una altrettanto smodata autocommiserazione. Ma conosciamo pure la lenta crescita dell’autocoscienza che si basa sulle proprie capacità. Come educatore della gioventù universitaria cerco di destare in essa la coscienza del proprio poter fare qualcosa. Con questo poter fare si apre lentamente un’autocoscienza che non si cura più narcisisticamente solo di se stessa, com’è caratteristico degli anni dell’adolescenza. Lentamente si diventa più obiettivi, si impara, e lentamente, grazie alle proprie capacità – siano esse scientifiche o letterarie – si viene inseriti in una comunità di lavoro o nell’insieme dei compiti che ci si pone da sé. Tutto ciò forma alla lunga una specie di quasi-visibilità dello spirito: in realtà non è una vera visibilità, ma solo una forma di solidarietà professionale, ad esempio quella dell’associazione dei medici. Naturalmente una autocoscienza inavvicinabile ha anche i suoi pericoli; la traboccante vanità di noi professori è un fatto assai noto di cui dobbiamo essere coscienti e autocritici e dobbiamo moralmente, socialmente e umanamente superare questo senso di superiorità che ci proviene dalla nostra posizione di docenti. Per far questo il miglior mezzo pedagogico è, da un lato, fare in modo che l’Altro si senta riconosciuto e, dall’altro, l’ammissione dei propri errori. Questo atteggiamento crea una nuova apertura tra maestro e allievo, tra padre e figlio, e in genere tra gli uomini.
PARMENIDE
Parmenide
1. Professor Severino, quali possono esseri i motivi che ci spingono oggi a interessarci della filosofia greca e in particolare di un filosofo come Parmenide?
Certamente questa domanda tocca un tasto dolente, e cioè quello della nostra cultura, la quale pensa di potersi disinteressare del pensiero greco e di non aver nulla a che fare con esso. Invece si tratta di rendersi conto che non solo la nostra cultura, ma l’intera nostra civiltà si sviluppa all’interno delle categorie che sono state espresse per la prima volta dal pensiero greco. Ci sono anche dei segnali che fanno capire l’importanza dei Greci e in particolare modo di Parmenide. È vero del resto che oggi qualche autore – ad esempio Popper – si interessa di Parmenide, e in generale c’è il segnale che non si tratti proprio di uno sconosciuto. Per quanto riguarda i filosofi antichi, sappiamo che ad esempio Platone lo chiama “venerando e terribile”. Aristotele, che in genere è così compassato, dice che quelle di Parmenide sono maníai, cioè follie. Eppure questa “pazzia” di Parmenide è il punto di riferimento per l’intera storia del pensiero filosofico. Si tratta di capire che il pensiero greco stabilisce il terreno su cui noi oggi ci muoviamo, si tratta del terreno che potremmo chiamare ontologico.
“Ontologia”, questo termine così tecnico, vuol dire riflessione sul senso dell’essere e del niente. Queste due parole, “essere” e “niente”, sembrano estranee al linguaggio nostro di tutti i giorni, ai nostri interessi, all’articolazione concreta del sapere scientifico; eppure queste due categorie costituiscono l’ambito all’interno del quale tutta la storia dell’Occidente è cresciuta, e si tratta anche di comprendere che queste categorie sorgono per la prima volta con i Greci. Questo è importante perché i Greci non solo portano alla luce una teoria, cioè una comprensione del mondo che non era mai apparsa, ma anche una comprensione del mondo che consente di porsi come la prima grande forma di rimedio contro il dolore. Quindi, secondo al mia opinione è errato insistere e considerare il pensiero greco, sin dalle sue origini, come una mera elaborazione teorica che non abbia il compito di prendere posizione rispetto a ciò che vi è di più angosciante nell’esistenza, e cioè il dolore. Io credo che la nostra riflessione potrebbe procedere cercando di vedere quali sono i rapporti tra le categorie dell’ontologia greca e il dolore dell’esistenza.
2. In generale si pensa alla filosofia di Parmenide e a tutta l’ontologia greca in relazione al desiderio di conoscenza. Come si inserisce in questo ambito la categoria del dolore?
Aristotele dice che la filosofia nasce dalla meraviglia, e la parola che egli usa per indicare la meraviglia è yaËma (thaûma). Ma anche qui, come in tutte le grandi parole del nostro linguaggio, thaûma non significa semplicemente la meraviglia ma vuol dire anche terrore, vuol dire il terrore di fronte all’angosciante. Non sto dicendo, alla Nietzsche, che la forza della teoresi, la forza della teoria sta nella sua capacità di risolvere i problemi pratici; non è stato certo questo l’intento dei greci e si può giustamente rilevare che i filosofi greci abbiano avuto innanzi tutto la vocazione per la teoria disinteressata, contemplativa. Ma intendo dire che proprio il carattere disinteressato della teoria, e cioè il suo essere verità, consente di affrontare il problema dell’esistenza e della vita. Il problema della vita è innanzitutto la terribilità del dolore: allora io non sostengo che l’unico valore della teoria consiste nel suo essere semplicemente uno strumento in base al quale, conoscendo come stanno le cose, si fa argine contro il dolore; dico che proprio perché la teoria intende essere verità – e cioè non una teoria qualsiasi ma la teoria assolutamente vera – proprio questo consente di andare incontro al dolore con occhio diverso da quello che gli uomini possiedono quando ancora non sanno. A tale proposito bisogna vedere qual è il rapporto tra teoria e dolore, perché anche il modo in cui spesso si tratta Parmenide prescinde da questa tematica, isolando il momento teorico; al contrario o credo che Parmenide dia la prima grande risposta al problema del dolore.
Dicevo prima che i Greci portano per la prima volta alla luce il senso dell’essere e del niente. Se noi crediamo di morire senza saper nulla del senso del niente – e quindi del senso dell’essere a cui il niente si contrappone – la nostra morte è profondamente diversa dal modo in cui moriamo quando sappiamo che noi andiamo nel niente. Questo vuol dire qualcosa di eccezionale e cioè che con i Greci gli uomini incominciano a morire – e quindi a nascere – in modo diverso da come nascono e muoiono prima dei Greci, prima di saper qualcosa del niente. I Greci evocano questo significato terribile e radicale – il significato del niente – nella sua contrapposizione infinita all’essere, come l’assoluta negatività che non ha alcunché dell’essere. In questo modo il processo del mondo acquista un carattere estremamente angosciante, proprio perché il pensiero greco e questa cosa apparentemente astratta che è l’ontologia – la riflessione sull’opposizione infinita tra l’essere e il niente – evoca la minaccia estrema, quella dell’esistenza portata innanzi dall’annientamento delle cose. Ma il Greco evocatore della minaccia estrema é insieme il Greco che va alla ricerca del rimedio contro la minaccia estrema. Parmenide, trovandosi proprio all’inizio di questo processo è l’evocatore; infatti non abbiamo notizia che prima di Parmenide si sia parlato dell’essere o del niente, della contrapposizione infinita tra l’essere e il niente. Il modo in cui Parmenide pensa è un modo singolare – e poi si tratterà di vedere che ne è nella storia della nostra cultura di questa singolarità. Parmenide evoca l’estrema minaccia, la contrapposizione infinita tra l’essere e il niente, ma insieme evoca il modo singolare di costruire un rimedio contro questa minaccia: il rimedio è dato dalla metafisica e l’ontologia.
3. In che modo Parmenide pone il nulla nella condizione di non nuocere?
Parmenide si trova in una posizione singolare perché in un certo senso dà la prima risposta dell’Occidente alla minaccia e al carattere nocivo del niente, dell’annientamento delle cose, interrogandosi sul significato del niente; in un cert’altro senso è il punto di maggiore vicinanza dell’Occidente all’Oriente. Vorrei fermarmi su questo punto. In generale la prima grande soluzione, la prima grande forma di rimedio al dolore è la filosofia: se noi dovessimo fare rapidamente l’elenco delle forme di rimedio dell’Occidente dovremmo dire che la prima è la filosofia, cioè il fatto di sapere in modo incontrovertibile il senso del mondo, il senso unitario del mondo. Poi la grande forma di rimedio è – quando l’esperienza antica del pensiero filosofico è andata al tramonto – il Cristianesimo e poi la scienza.
La posizione di Parmenide è singolare perché è anche il punto di maggiore contatto con l’Oriente. Qual è infatti la soluzione che la filosofia dell’Occidente dà al problema del dolore e dell’annientamento? Che cosa ci angoscia quando noi abbiamo a che fare con il dolore? Non parlo del dolore che noi attualmente patiamo, perché ciò che patisco in questo momento – poniamo – ormai è accettato, è lì e non c’è nulla da fare, perché ormai è recepito. Mi riferisco invece all’angoscia del fatto che il dolore abbia a continuare, facendoci chiedere: “che ne sarà di me tra un momento, domani, tra un anno? Continuerà questo dolore?” Voglio dunque dire che l’angoscia si riferisce all’imprevedibilità del futuro, e in questo caso il rimedio non può essere altro che la previsione del senso del tutto; ecco perché prima ho parlato anche di scienze, perché la previsione scientifica sarà in un certo senso l’erede della previsione filosofica. Previsione filosofica vuol dire §pistÆmh (epistéme), questa grande parola greca che significa, alla lettera, la capacità di stare; “steme” deriva infatti dal verbo ·stasyai (hístasthai), la capacità di stare, mentre epí vuol dire sopra: dunque si tratta di “stare sopra tutto ciò che intende negare ciò che sta”. Ciò che sta è l’apertura di senso, l’apertura del senso del tutto che intende stare e che si ritiene capace di imporsi su ciò che presume negarla, e insieme su tutti gli eventi che sopraggiungono e che costituiscono quello che oggi noi moderni chiameremmo la novità della storia. L’epistéme è al di sopra di ogni innovazione storica: questo è stato il grande sogno della filosofia da Parmenide ad Hegel. Se si conosce incontrovertibilmente, stando sopra ogni negazione e ogni evento sopraggiungente, il senso del tutto, allora si è in grado di prevederlo e la previsione rende spiegabile il dolore. “Perché il dolore, dice Eschilo, getta nella follia?” Proprio perché non ha senso fintantoché non si vede il senso del tutto. Ebbene la soluzione di Parmenide è singolare, perché successivamente l’Occidente intenderà costruire un sapere che sta sopra la minaccia del divenire controllandola, guidandola e quindi costruendo al di sopra di esso quella serie di strutture immutabili che vanno dal Dio teologico al Dio cristiano, alle strutture necessarie secondo le quali si sviluppa la storia.
Parmenide adotta un’altra strada che non sarà percorsa dall’Occidente – dicevo prima che era la strada più vicina all’Oriente. Di fronte al divenire l’Occidente dice: “Tu non mi minacci più perché io ti prevedo e quindi prevedo il senso di ciò che tu, divenire, fai irrompere su di me”. Prevedendo il senso di ogni irruzione, l’irruzione non è più l’imprevedibile angosciante e il dolore acquista senso: lo stesso annientamento si inscrive in un ordine. Questa è la voce della filosofia dell’Occidente dopo Parmenide. La sua voce invece è diversa e singolarmente vicina all’Oriente perché Parmenide dice al divenire: “Tu non esisti”. Questo è molto singolare, perché tutto il pensiero, non solo filosofico, dopo Parmenide dice al divenire: “Tu esisti ma io ti domino”; e chi parla è appunto il rimedio, cioè il sapere epistemico.
L’affermazione di Parmenide non viene pronunciata per un semplice desiderio – ormai purtroppo il senso radicale della filosofia in certe forme della nostra cultura va perdendosi – ma perché vi sono delle strutture concettuali che lo portano a dire questo. In questo modo, mentre nella soluzione post-parmenidea il dolore è vinto perché c’è un padrone che domina il divenire, la soluzione radicale di Parmenide è questa: il divenire non minaccia più, non può essere nocivo perché non esiste. Con questa cancellazione del divenire entriamo nel grande paradosso del pensiero di Parmenide, che è la cancellazione del mondo, con cui tutto l’angosciante, tutto il terribile, tutto l’orrendo del mondo è illusione; questo è il senso della doxa di Parmenide. Ebbene questa è anche la strada percorsa dall’Oriente: i Veda, le Upanishad, la ripresa buddista del bramanesimo sono tutti grandi motivi che convergono su questo punto: l’uomo è infelice perché non sa di essere felice, perché non sa che il dolore è al di fuori di lui, e che lui è un puro sguardo che non è contaminato dal dolore che gli passa innanzi, così come lo specchio non è contaminato dall’immagine che si riflette in esso. Questa è la vicinanza di Parmenide rispetto all’Oriente, ma bisogna anche guardarsi dallo spingere troppo l’analogia perché c’è anche una radicale diversità; Parmenide è l’inventore dell’ontologia, l’Oriente è la saggezza che si sviluppa prima, indipendentemente dall’ontologia. Questa non è una differenza da poco, perché l’Oriente muore non sapendo nulla del niente; potremmo dire che la morte dell’Oriente è lieve e non ha la perentorietà, non ha quel carattere di lama assolutamente affilata che ha la morte nel nostro tempo – a partire da Parmenide – proprio perché la morte è vista in connessione con la assoluta negatività del niente. La differenza tra l’Occidente come patria, luogo dell’ontologia e l’Oriente come dimensione pre-ontologica non va quindi trascurata.
4. In Parmenide vi è questa radicale distinzione tra la alétheia, la verità, e la dóxa, l’opinione, quasi che coincidano con l’essere e non essere. Per Parmenide l’opinione – l’opinione comune e gli oggetti che noi guardiamo tutti i giorni – l’apparente movimento e il divenire di tutte le cose, sono una pura illusione dei sensi oppure sono qualcosa che semplicemente ha un carattere finito e pertanto è un non-essere?
Non è un caso che tutto il pensiero filosofico abbia fatto riferimento a Parmenide, proprio perché lo scandalo consiste nel dire: “Il mondo non è, il divenire non è, non c’è il mondo”. Ma ciò è motivato – ci tengo a sottolinearlo – da un’articolazione logica che forse è il caso di tener presente, poiché accostarsi a Parmenide, come è per lo più accaduto fino agli anni ’50 – partendo dal linguaggio, impoverisce il suo pensiero. Vi è ad esempio la tesi sostenuta, anche in modo estremamente intelligente, da Guido Calogero, nei suoi Studi sull’eleatismo, secondo cui l’essere di Parmenide sarebbe l’ipostasi della copula, di modo che la singolarità della copula, della parola “è”, avrebbe attratto l’attenzione di questo altrettanto singolare pensatore il quale avrebbe fatto di una voce del linguaggio uno stato. L’idea che la singolarità del linguaggio e quindi della lingua che Parmenide parla – che è una singolarità delle lingue indoeuropee; la preminenza della copula in ceppi linguistici non indoeuropei è assente – abbia potuto spingerlo a soffermarsi, a prestare attenzione al significato di questa parola apparentemente irrilevante – cioè l’”è” – è ammissibile. Ma si tratta appunto di una spinta, mentre la grandezza di Parmenide sta invece nell’intendere l’essere come l’assolutamente “altro” dal niente.
Le parole usate da Parmenide sono: e‰nai (eînai), che è l’infinito del verbo essere, §Òn (eón), che è la forma participiale arcaica che corrisponde allo ˆn (ón) del linguaggio platonico-aristotelico. L’ón, l’essere, è l’assolutamente opposto al niente; c’è chi si scandalizza delle tautologie di Parmenide, ma io vorrei augurare a ogni discorso di essere tautologico, perché la tautologia potrà non interessare solo chi è alla ricerca curiosa delle differenze del mondo, quelli che Platone nella Repubblica (480 a) chiamava i filÒdojoi (philódoxoi), gli amanti delle opinioni. La tautologia è qualcosa di formidabile, è l’identità con sé di qualcosa che è assolutamente non smentibile. Certo, le grandi tautologie di Parmenide incutono il timore reverenziale; si tratta di capire, non di alzare le spalle. Perché Parmenide dice: “L’essere è, il non-essere non è”? Che cosa vuol dire? Innanzitutto il significato di questa affermazione porta a quelle conseguenze paradossali di cui parlavamo prima, il che vuol dire che la tautologia non è così innocua come potrebbe sembrare se porta al paradosso, al più grande paradosso che sia mai apparso nella storia della nostra cultura – e si potrebbe dire della cultura in generale.
Noi delle volte vogliamo sapere come si scandisce la storia e allora, per esempio, parliamo del grande passaggio dal matriarcato al patriarcato come uno dei segnali che scandiscono il movimento storico. Oppure si parla di Gesù, che ha diviso la storia in due. Io direi, senza timore di sembrare a mia volta paradossale, che il pensiero di Parmenide segna una frattura tra il passato e il nostro tempo ancora più radicale che non il passaggio dal matriarcato al patriarcato, ancora più radicale della stessa nascita di Gesù. Perché dico questo? Perché lo stesso messaggio di Gesù è diventato quello che è diventato solo in quanto si è inscritto nelle categorie del pensiero greco. Se noi eliminiamo queste categorie dal messaggio cristiano, questo si impoverisce – e purtroppo oggi, volendo de-ellenizzare il Cristianesimo, si sta riuscendo ad impoverire il Cristianesimo che non dice più nulla, essendo stato distolto dal contesto ontologico in cui esso parla.
5. Come si sviluppa l’argomentazione di Parmenide?
Secondo una prima articolazione esso suona così: se l’essere è assolutamente opposto al niente, allora la prima conseguenza è che esso è immutabile, eterno, incorruttibile, ingenerabile. Perché? Anche in questo caso, Parmenide non si limita ad affermarlo, poiché egli dice – e qui l’attenzione deve diventare massima – che se si generasse o si corrompesse, esso sarebbe stato niente e tornerebbe ad essere niente. Ma l’essere non è il niente, dunque è impossibile che sia stato niente, che torni ad essere niente; questo vuol dire che è impossibile che non sia, e dunque deve essere eterno, ingenerabile, immutabile. Si può dire che questo discorso che abbiamo esposto così alla svelta, è uno dei discorsi che devono essere messi nei tabernacoli della filosofia.
L’altra articolazione si riferisce alla negazione del molteplice – questa è senz’altro l’interpretazione che di Parmenide danno tutti quelli che l’hanno seguito, cominciando da Empedocle, a Democrito, Platone, Aristotele, fino ad Hegel. Che il molteplice non “è” vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non “è”. Anche in questo caso si arriva a questa conclusione perché è in gioco la tautologia. Vediamo come. Noi possiamo chiamare le differenze per nome: la lampada, la telecamera, gli arredamenti della stanza, poi le stelle, il cielo; possiamo semplificare e dire A, B, C, D chiamando con tali lettere le varie cose del mondo. Ci dobbiamo chiedere: “A”, come poi “B” e “C”, significa “essere”? Supponiamo che “A” sia il brillare delle stelle; Tentiamo di lasciar parlare Parmenide: “Luce significa essere?”. “No!”. Questo “no” lo dice Parmenide per la prima volta, ma poi lo diranno tutti gli altri e se noi chiedessimo ad un linguista se “essere” significa luce, anche il linguista, con tutta la sua correttezza scientifica, ci direbbe che “essere” non significa “luce”. Ma allora luce non è “essere”; ma “non essere” vuol dire “ni-ente” che vuole dire “non-ente” – io amo sostenere questa etimologia della nostra lingua – e allora “luce” è “non essere”. Ma lo stesso discorso lo possiamo dire di tutte le cose che ci stanno attorno che costituiscono il punto di riferimento della nostra vita. Ognuna di queste determinazioni della vita non significa essere e quindi è niente.
Prendiamo ora la grande tautologia che dice: “L’essere non è il niente”, e a questo punto si fa innanzi la conclusione che ci riguarda – noi uomini della civiltà della tecnica – molto da vicino: dire che la luce, i colori, le cose, le case, gli uomini “sono”, significa ammettere che il niente “è”. Vorrei ripetere questa cosa. Le differenze del mondo hanno un significato che non coincide con il significato dell’essere; questa non coincidenza vuol dire la loro diversità dall’essere, e cioè che sono “non essere”. Se allora l’amante o amico del mondo vuol dire: “il mondo è”, egli deve anche dire: “Il niente è”. La ragione dell’Occidente nasce qui, dall’esigenza di tener ferme le determinazioni – potremmo dire l’esigenza di non contraddirsi. Se si afferma che il mondo molteplice è, si afferma che il niente è. Allora abbiamo questa conclusione straordinaria: Parmenide, proprio per evitare che il niente sia, proprio per evitare di identificare l’essere al niente, afferma che le cose sono niente, che le differenze sono niente; se si afferma il mondo, se si è amici del mondo si sta nella pazzia che identifica l’essere e il niente.
A questo punto abbiamo gli elementi per rispondere alla Sua domanda. Il lógos, che costituisce il pensiero incontrovertibile perché si appoggia sulla tautologia dice appunto che il divenire non è, e che non esiste molteplicità. Qual è il significato di questa negazione? Vuol forse dire che Parmenide non vedeva il divenire e non vedeva la molteplicità? Sarebbe strano, avremmo a che fare con un qualche cosa che non appartiene alla nostra esperienza; noi vediamo il mondo, vediamo il divenire e la molteplicità delle cose e ne godiamo, perché senza di esse la nostra vita non avrebbe significato. L’Oriente dice invece che la nostra vera vita è al di là del molteplice e del divenire.
Parmenide invece dice che l’essere è immutabile e semplice – semplice vuol dire non molteplice e non differenziato; in questo caso l’apparire del mondo come diveniente è molteplice e non verità, cioè è illusione, è dóxa. Con una battuta direi che tutto il pensiero successivo, ma non solo filosofico, anche scientifico – e dico scientifico sapendo che questa affermazione può suonare paradossale – intende salvare il mondo da Parmenide, perché egli pone il mondo come non verità.
6. Non le sembra che forse Parmenide, per un eccesso di cautela nei confronti dell’essere, abbia alla fine consegnato – proprio grazie a questa assoluta separazione tra essere e non-essere, tra verità e dóxa – agli scettici, ai futuri sofisti, i quali si potranno sbarazzare di questo essere proprio perché non c’è nessuna possibilità di comunicazione tra l’essere e il non-essere ?
Questo è accaduto storicamente. Lo scetticismo, per esempio la forma di scetticismo pirroniano, prende spunto da Parmenide, perché se il mondo è illusione, quando non si crederà più nel logos di Parmenide rimarrà il gioco illusorio del molteplice e del divenire. Ma il problema ancora più consistente, non sono gli esiti scettici della filosofia di Parmenide, ma quello di salvare il mondo, perché la grande storia dell’Occidente non è fatta in prima battuta dallo scetticismo; lo scetticismo è prezioso perché è il pungolo che tallona e impedisce di riposarsi e di acquietarsi nel dogmatismo; – quindi Hegel faceva bene ad invitare a un salutare bagno nello scetticismo.
7. Il mondo di Parmenide è un mondo della necessità assoluta, è un mondo immobile, eterno, e quindi senza tempo. Evidentemente ci sono stati dei motivi di critica che hanno spinto i filosofi successivi a prendere le distanze, a compiere questo “parricidio” nei suoi confronti, come ad un certo punto sembra fare Platone. Ci può spiegare bene questo passaggio?
La volontà di andare contro Parmenide si sprigiona in Occidente e costituisce l’Occidente, mentre l’Oriente non l’ha fatto, sia per motivi cronologici, sia per motivi di attitudine psicologica. Noi oggi diciamo che la civiltà della tecnica domina sulla Terra e quindi domina sull’Oriente, ma non dimentichiamo che la prima grande invasione dell’Oriente è di Alessandro Magno che arriva fino in India. Ciò vuol dire che la cultura greca, che arriva e domina l’Oriente, controlla la stessa saggezza orientale. La protesta contro Parmenide esprime la nostra psicologia, la volontà che il mondo “sia”, e noi occidentali dominiamo il pianeta perché non rinunciamo al mondo, mentre l’Oriente ha rinunciato al mondo. La civiltà della tecnica non è qualcosa che non ha nulla a che fare con Parmenide e la filosofia greca, perché la civiltà della tecnica è il portato ultimo e più rigoroso della protesta della filosofia greca contro la celebrazione del mondo. Ma potrebbe sembrare una pretesa arbitraria. Non ci ha detto Parmenide che il mondo è illusione e che la verità invece è l’eternità e immutabilità dell’essere? Invece a questo punto si tratta di comprendere che Parmenide ha in se stesso il proprio nemico; proprio perché è lui stesso a sostenere l’illusorietà dell’apparire del mondo, egli avrebbe dovuto dire che oltre all’essere, anche l’illusione “è”. Questo è quello che Parmenide non può dire, perché la sua logica lo porta a dire che solo il semplice “è”, e ciò che non è il semplice è niente. Dunque Parmenide è negatore di questo mondo, ma ne riconosce l’esistenza proprio in quanto lo nega: ecco il nemico che parla dentro l’animo di Parmenide. Egli ha in sé questa contraddizione, questa antinomia tragica, cioè il riconoscere che l’illusione “è” tanto quanto l’essere. In questo modo, l’essere non è l’uno, perché oltre all’uno c’è l’altro, il mondo dell’illusione. La conseguenza per la civiltà occidentale è che la coscienza incontrovertibile non è solo la ragione, il logos, cioè l’opposizione di essere e niente, ma è la coscienza dell’apparire del mondo – e questo riconoscimento comincia, prima di Platone, con Empedocle.
Dopo Parmenide ci si è resi conto che l’apparire del mondo è tanto innegabile quanto è innegabile il principio che dice: “l’essere non è il niente”. Il parricidio che Platone compie nel Sofista nei confronti del pensiero di Parmenide ha lo scopo di mostrare come l’apparire del mondo non implichi l’assurdo dell’identificazione dell’essere e del niente. Il grande compito è dunque quello riuscire a salvare il mondo, ovvero, secondo l’espressione di Platone, s—zein tå fainÒmena (“sózein tà phainómena “): “salvare i fenomeni”, e cioè le cose che appaiono, il mondo nella sua concretezza illuminata e manifesta. Il parricidio di Platone forma per così dire lo scudo – sulla cui consistenza nutro dei dubbi – al riparo del quale si porrà tutta la storia dell’Occidente, con tutte le sue grandi costruzioni, contro la minaccia di Parmenide.