Nature

REALTÀ 

“Tutto ciò che è razionale è reale, tutto ciò che è reale è razionale”. (G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)






A cura di Diego Fusaro

Il compito primario della filosofia è problematizzare l’ovvio. E che cosa v’è di apparentemente più ovvio e scontato del concetto di realtà? Realtà – dice il pensiero comune – è tutto ciò che esiste. O, a voler essere più precisi, è ciò che esiste effettivamente, in contrapposizione con ciò che, invece, è illusorio, immaginario o fittizio. Ma è davvero questo il reale? Se così fosse, esso coinciderebbe in tutto e per tutto con l’esistente. La filosofia ci insegna, invece, a distinguere con attenzione e a fare chiarezza nei concetti che troppo spesso impieghiamo disinvoltamente e senza le dovute attenzioni. Propongo, allora, sulle orme di Hegel, una correzione di questo tipo al comune modo di intendere le cose: realtà è ciò che, esistendo effettivamente, esprime una razionalità. Non tutto ciò che esiste, dunque, è in quanto tale reale. Hegel si spinge a sostenere, e non senza buone ragioni, che possono esservi cose esistenti e, non di meno, irreali, perché prive di razionalità: pensiamo, ad esempio, ai luoghi in cui ancora oggi gli esseri umani sono torturati e oppressi. In termini hegeliani, sono esistenti, ma non reali. Ed è così che si spiega una delle più note ed equivoche sentenze di Hegel, da sempre oggetto di fraintendimento: “ciò che è reale è razionale”. Ciò che è reale, appunto: e non tutto ciò che è esistente. In generale, vi sono due possibili concezioni generali del reale, che così vorrei sunteggiare. V’è, per un verso, la prospettiva – che è, poi, la più diffusa – secondo cui la realtà è una sorta di presenza data, un’oggettività che sta dinanzi a noi e che semplicemente chiede di essere osservata e rispecchiata da parte del soggetto conoscente. È quella che propongo di appellare la “realtà come presenza”. Per un altro vero, v’è la realtà intesa come processo storico e come divenire: in virtù di tale concezione, il reale non è, ma diviene, e coincide con lo sviluppo nel quale già da sempre tutto, noi compresi, è immerso. Secondo la prima concezione, la realtà è presenza e, insieme, è il presente: ossia ciò che semplicemente, come dicevo, è dinanzi a noi. In accordo con la seconda concezione, la realtà è processo e, per ciò stesso, aperta ai suoi sviluppi futuri: reale non è solo ciò che c’è, ma anche ciò che, a partire da quel che c’è, potrà esservi. Questa seconda prospettiva mi pare più pertinente e, per così dire, più “ospitale”: essa, infatti, non include solo il presente come mera presenza, ma “ospita” al proprio interno anche il futuro possibile (che nel presente è imbozzolato) e il passato, da cui il presente stesso è scaturito. Questa seconda concezione, di conseguenza, intende il reale come processualità, come possibilità e come storia: e non ci attribuisce il compito di semplici contemplatori, chiamati a conoscere, rispecchiandolo, ciò che v’è di razionale nell’esistente. Al contrario, fa di noi degli attori attivi e responsabili, che nel reale sono chiamati a intervenire secondo il binomio di teoria e prassi: occorre, infatti, conoscere il reale e agire su di esso, contemplarlo e modificarlo. Il reale, infatti, non è qualcosa di dato, di presente e di indipendente dal soggetto conoscente. È, invece, un processo nel quale il soggetto è già da sempre parte attiva: anche dal suo agire dipende, cosicché il reale è anche, e in modo non secondario, ciò che di esso facciamo con il nostro attivo operare. La nostra epoca ha preferito la prima concezione di realtà: grazie alla quale si è, per così dire, liberata dalla responsabilità di agire, limitandosi al ruolo di spettatrice inerte di un mondo che, comunque lo si voglia intendere, resterebbe in ultimo indipendente da noi. Anche per questo, mi pare di imprescindibile importanza tornare a una concezione del reale come processo e come storia: ne va del nostro stesso ruolo di soggetti responsabili. Come dirà Fichte, con un lessico che a tutta prima non potrà non suonare bizzarro, l’Io si pone come determinante il non-Io: detto altrimenti, il soggetto deve pensarsi come agente sul reale, venendo da esso determinato e, insieme, determinandolo.

Citazioni

"Mentre tutti gli altri esseri viventi diventano avidi e rapaci per timore della mancanza, l’uomo lo è in virtù della sua superbia, per la quale si gloria di superare gli altri nell’inutile ostentazione del superfluo". (T. More)
(Visualizzazioni 106 > oggi 1)