LAVORO
“La coscienza giunge a se stessa mediante il lavoro”.
(G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito)
A cura di Diego Fusaro Che cosa significa lavorare? E qual è il rapporto dell’uomo con questa dimensione? Con una prima approssimazione, mi avventuro a sostenere che il lavoro è una attività intenzionale, con la quale modifichiamo la realtà che ci sta intorno. Pensiamo, ad esempio, al lavoro del fabbro: egli, con la sua azione, trasforma il metallo che gli sta dinanzi. Lo modella, assegnandogli una forma che era già presente nella sua mente e che adesso, mediante l’atto del lavoro, diventa realmente esistente nell’oggetto lavorato. Componente fondamentale del lavoro è, dunque, un’azione trasformatrice finalizzata e tale da produrre effetti pratici. Non ogni azione, dunque, è in quanto tale lavoro: lo è soprattutto, in senso più proprio (anche se poi, per estensione, si può parlare di lavoro in termini più generali), l’azione che muta la realtà e che lo fa secondo un fine. Specifico del lavoro è, dunque, un rapporto che si viene a instaurare tra il soggetto umano e l’oggetto esterno: rapporto in forza del quale il primo opera sul secondo, modificandolo secondo obiettivi. In filosofia, v’è chi ha sostenuto – e, mi pare, con buone ragioni – che il lavoro, non meno della ragione, è ciò che distingue gli uomini dagli animali. Anche questi ultimi operano sulla realtà, come fa il castoro che produce la diga o come fa l’ape che costruisce le sue celle. E, non di meno, l’agire animale è per istinto, non è mosso da un fine: là dove il lavoro umano, anche quello meno perfetto, si fonda sempre su un agire mosso da finalità. Il lavoro è talmente importante che la stessa storia dell’umanità potrebbe anche essere riletta, nella sua interezza, come storia dei diversi modi in cui, a seconda dell’epoca, gli uomini hanno inteso e organizzato il loro lavoro. Se letta in questa chiave, la storia ci mostra una verità inquietante: in ogni epoca, sia pure in forme differenti, vi sono sempre stati schiavi e padroni, ossia individui che erano costretti a lavorare e altri che, senza farlo a propria volta, beneficiavano dell’altrui operato. Non è forse vero che le piramidi, in Egitto, furono prodotte dal lavoro schiavile di coloro i quali trascinarono i blocchi? E, ancora, nel Medioevo non erano forse i servi a lavorare e, così facendo, a mantenere in vita anche i loro signori? Anche nella nostra epoca sopravvivono forme di schiavitù mascherata, forse meno evidente rispetto a quelle passate: penso ai bambini che in varie parti del pianeta sono costretti a lavorare per produrre merci. E penso, ancora, alle persone che, pur con un libero contratto, lavorano per ore e ore, come schiavi contemporanei, nei call centers dell’Occidente che si proclama libero. Certo, questi ultimi, a differenza degli schiavi antichi, firmano liberamente un contratto: ma sono davvero liberi di farlo? Se non lo firmassero, resterebbero senza lavoro e non avrebbero, dunque, di che vivere. In che senso il lavoro ci distingue dagli animali ed è, in qualche modo, connesso con la ragione? In parte l’ho già sottolineato: solo l’uomo agisce secondo finalità, modificando il reale in vista dei propri bisogni e dei propri ideali. E, tuttavia, accanto a questa determinazione, il lavoro è “antropogenico”, ossia “formatore dell’uomo”, perché è solo per il suo tramite che acquistiamo piena coscienza del mondo in cui siamo: chi lavora, infatti, raggiunge una piena consapevolezza di sé e del proprio rapporto nel mondo oggettivo. Chi, invece, non lavora, è come se non pervenisse mai a una piena coscienza di sé. Da ciò segue un paradosso: nel rapporto tra lo schiavo costretto a lavorare e il padrone che ne beneficia, il vero individuo libero è lo schiavo. Egli soltanto ha coscienza di sé e del mondo, perché lavora e, così, raggiunge la vera autonomia. Per assurdo che possa sembrare, è il padrone a non essere autonomo: è lui ad avere bisogno dello schiavo, e non viceversa. In verità, la nostra epoca ha finito per fare del lavoro una sorta di religione: ha perso di vista il fatto che lavorare è una parte decisiva, ma non esclusiva della nostra esistenza. Accanto al lavoro, infatti, deve esservi lo spazio per l’ozio e per il tempo libero: che sono, poi, come sappiamo, le condizioni fondamentali per fare filosofia. |