Nature

TOTALITÀ

“Il Vero è l’Intero, ma come Risultato”. (G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito)






A cura di Diego Fusaro

Quella di totalità è una categoria della massima importanza, se è vero che, in fondo, la filosofia potrebbe anche intendersi come il tentativo di conoscere, valutare e trasformare la totalità. Ma che cos’è davvero la totalità? Come dobbiamo concepirla? Nella sua accezione più generale, il concetto rinvia direttamente a tutto ciò che c’è: per totalità, infatti, si potrebbe intendere l’insieme di tutte le cose che sono e, dunque, l’essere nella sua interezza. A rigore, rientrano nel concetto non solo le cose che sono qui e ora, ma anche quelle che, a partire da ciò che ora c’è, potrebbe essere. Insomma, la totalità allude all’interezza dell’essere, senza lasciare escluso alcunché. Ed è, per ciò stesso, contrapposta alla parte, che invece chiama in causa una determinazione specifica che, comunque la si intende, si sa limitata rispetto alla totalità stessa. Uno dei grandi dibattiti che attraversano la modernità filosofica riguarda proprio la possibilità di conoscere la totalità. Kant, che sostiene che l’umano sapere può dispiegarsi soltanto nel piano dell’esperienza, nega che sia conoscibile la totalità. Egli, peraltro, la distingue in tre determinazioni fondamentali: l’anima è la totalità dei fenomeni psichici. Il mondo è la totalità degli accadimenti e dei fenomeni naturali. Infine, Dio è la totalità somma, che racchiude tutte le altre. Per Kant, nessuna di queste possibili figure della totalità è conoscibile. Ciò non vuol dire che non esistano. Semplicemente, non possono essere conosciute dall’intelletto umano, che legittimamente opera solo nel piano del finito e del sensibile, dunque – per riprendere la distinzione precedentemente introdotta – nella sfera delle parti. Espressamente contrapponendosi alla prospettiva interpretativa di Kant, Hegel sosterrà che la Totalità può essere conosciuta: e, di più, che un sapere che si limitasse alle parti sarebbe, per ciò stesso, un sapere parziale, incompleto e – come Hegel lo qualifica – “astratto”. In questo senso, astratto significa, letteralmente, “tractum ab”, “estratto” dalla totalità che lo ospita e di cui, appunto, è parte integrante. La totalità così come la intende Hegel, infatti, non è una realtà monolitica e senza differenziazioni interne: è, al contrario, una totalità articolata e differenziata, al cui interno le parti e le determinazioni particolari non sono annullate. Chi intendesse la totalità come qualcosa di indeterminato e senza parti – come fa, ad esempio, Schelling – sarebbe, per Hegel, analogo a chi, al buio di una notte senza stelle, dicesse che tutte le mucche sono nere, senza essere in grado di distinguerle e vedendo soltanto un’unità indefinita. In quest’ottica, Hegel distingue tra la totalità concreta e la parte astratta: tra totalità e parte non si dà contrapposione, poiché la totalità non è altro che la vita concreta delle parti che esistono nella relazione reciproca che le rende, appunto, parti di una totalità vivente. Contrapposto all’astratto della parte, il concreto della totalità riguarda, letteralmente, il “con-crescere” delle parti nella loro relazione interna alla totalità stessa: il concreto non è altro, allora, che il nesso tra parti e totalità; nesso in virtù del quale le prime esistono come relazione interna alla totalità, che a sua volta sussiste come organismo che ospita le parti. Per questo, a giudizio di Hegel, è fuorviante pensare tanto la parte senza la totalità (come fa il pensiero astratto degli illuministi), quanto la totalità senza le parti (secondo il modo di operare di Schelling). Sia Kant, sia Hegel distinguono, a questo riguardo, tra “intelletto” e “ragione”: il primo pensa la parte, la seconda la totalità. E, però, per Kant, dato che la totalità non si può conoscere, il vero organo del sapere è l’intelletto. In modo opposto, per Hegel, che ritiene che la totalità sia accessibile al sapere, l’intelletto è una forma limitata e parziale di sapere: la ragione è la forma suprema del conoscere, in quanto soltanto essa può attingere la totalità. Da questa diversa impostazione, discende una conseguenza degna del massimo rilievo: per Kant, il sapere filosofico, dovendosi attenere alle parti, deve darsi nella forma propria delle scienze, che si tengono a debita distanza da ogni volo metafisico verso il sovrasensibile. Per Hegel, invece, filosofia e scienza si distinguono sia per il metodo, sia per il contenuto: la scienza, che è sapere dell’intelletto astratto, indaga su aspetti limitati del reale, attenendosi al piano empirico dell’esperienza. La filosofia, che è scienza della ragione, mira invece alla totalità: e, per ciò stesso, è “metafisica”, ossia letteralmente tale da avventurarsi oltre i confini delle cose fisiche e sensibili. Ora, nel mio presente, sembra che prevalga nettamente un’impostazione che, in certa misura, si richiama a Kant più che a Hegel: prova ne è, oltretutto, che se le scienze dell’intelletto godono di grande fortuna, sempre meno spazio, per converso, è concesso al sapere metafisico della filosofia come scienza della totalità. L’idea stessa di totalità, per certi versi, sembra essere messa al bando, non di rado, ora in quanto giudicata una inammissibile violazione dei princìpi fondativi delle scienze dell’intelletto, ora perché abbinata ai “totalitarismi” politici del Novecento. Eppure, una totalità intesa alla maniera di Hegel non soltanto non intralcia le scienze nel loro legittimo operare: non può nemmeno condurre ai totalitarismi politici. Se questi ultimi erano, per così dire, la totalità nella forma di uno Stato che annientava le sue parti, cioè le vite concrete, la totalità di Hegel, come abbiamo visto, è strutturalmente diversa: è una totalità rispettosa delle parti e delle differenze, senza le quali non sarebbe.

Citazioni

"Finché si tratta di calzolai che siano incapaci o che sian corrotti, o che si vantino di essere abili pur non essendolo, non ne verrebbe una gran perdita per lo Stato. Ma vedi bene che se fossero i Custodi delle leggi e dello Stato a fingere di essere custodi, mentre non lo sono, sarebbe la Città intera a correre il rischio di una completa distruzione, proprio perché la sua felicità e la sua buona amministrazione sono nelle loro mani". (Platone, “La Repubblica”, 421a)
(Visualizzazioni 46 > oggi 1)