La figura egemonica, nella società opulenta, è quella dell’ateismo dell’indifferenza (o “ateismo liquido”), per il quale, semplicemente, Dio e la sua esistenza non sono più un problema avvertito come ineludibile o anche solo degno di riflessione. Accanto a questo atteggiamento, che accompagna la vita alienata di una parte sempre più grande della tribù degli abitatori della cosmopoli – gli homines vacui –, troviamo, per quanto forse minoritaria, la dolorosa sofferenza di chi percepisce la morte di Dio come una perdita, vivendo l’esperienza vertiginosa del nulla e dell’eclissi di senso, e, ancora, il contegno di chi, nella comfort zone della civiltà a reificazione integrale e a permanente divertissement garantito, vive il nichilismo assoluto con euforica ebrezza e con stolta letizia, magari convinto, alla maniera postmoderna, di essersi liberato di un gravame dannoso per la vita e di un cumulo di errori e di orrori connessi all’idea di Verità e di Dio (tantum religio potuit suadere malorum). Quest’ultima modalità, all’insegna della baldanza acefala, è particolarmente radicata presso gli avamposti della civiltà dello spettacolo e del suo intrattenimento volto a sterilizzare le anime e ad addomesticare le teste, inducendole a vivere come esperienza entusiasmante e liberatoria l’atroce dramma del nichilismo e dell’immaginario secolare abbandonato da Dio e disabitato dal sacro. Deve, a questo riguardo, fare riflettere una considerazione di Marx, anche al di là del suo stesso orizzonte di pensiero: la civiltà capitalistica lascia insoddisfatti; e, ove essa appaia soddisfatta di sé, è necessariamente volgare, come volgari sono le manifestazioni con cui essa ostenta il proprio irriflesso quanto conformistico giubilo per la morte di Dio e per la desacralizzazione del mondo.

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