Nel De Genesi ad litteram, Agostino sviluppa il dualismo dell’amore di sé e dell’amore di Dio in chiave più apertamente sociale, mostrando come il primo coincida con l’egoismo possessivo e il secondo con l’altruismo comunitario. Chi ama egoisticamente se stesso, non può amare Dio e, in generale, gli altri. Solo chi abbia decentrato il proprio io rispetto all’egoismo assoluto e si sia aperto alla trascendenza del divino può, per ciò stesso, realmente amare gli altri. Da un diverso punto di vista, l’uomo che voglia piacere a Dio non cerca niente per sé: egli si apre all’amore e offre tutto se stesso. Per converso, l’uomo che ardentemente cerchi la lode altrui è pronto a impiegare qualsiasi mezzo per raggiungere i suoi fini: egli è animato dall’orgoglio e disposto a commettere ogni sorta di nefandezza. Così nel De Genesi ad litteram (XI, 15, 20): “Due amori, dei quali l’uno puro e l’altro immondo, uno sociale e l’altro privato, uno sollecito di servire all’utilità comune in vista della città superna e l’altro pronto di subordinare anche il bene comune al proprio potere in vista di un’arrogante dominazione, uno suddito e l’altro rivale a Dio, uno tranquillo e l’altro turbolento, uno pacifico e l’altro sedizioso, uno che preferisce la verità alle lodi degli erranti e l’altro avido di lodi in qualsiasi modo, l’uno amichevole e l’altro invidioso, uno che vuole al prossimo ciò che vuole a se stesso e l’altro che vuole sottomettere il prossimo a se stesso, uno che governa il prossimo per l’utilità del prossimo e l’altro che governa per la sua utilità… hanno fondato e distinto le due città”. Dall’impostazione teorica del De civitate Dei si inferisce che il potere temporale, di per sé, non è malvagio: lo diviene allorché si pone unicamente al servigio dei fini dell’uomo, connessi all’orgoglio e alla sete di potere e di ricchezza. V’è, dunque, la possibilità di un potere buono, rivolto ai fini di Dio e, dunque, ispirato dal bene e dall’esigenza dell’amor socialis, aperto alla sfera della salvezza e rispettoso del senso del limite e del carattere non onnipotente dell’individuo. Ed è nel nome di questo potere buono, perché comunitario e aperto all’esperienza del divino, che occorre contrastare quello malvagio. Dalle considerazioni agostiniane emerge, una volta di più, la correlazione cardinale tra l’ateismo oggi imperante nella società a cinismo avanzato e l’individualismo capitalistico: la morte di Dio è sempre, in pari tempo, morte della comunità solidale delle creature come immagine trascendentale del divino. Assume pieno significato, in questo orizzonte cognitivo, la definizione che la Fenomenologia dello Spirito prospetta della comunità come der allgemeine göttliche Mensch, “l’uomo divino universale”. La modernità a forma di merce deve, fin dal suo sguardo aurorale, dissolvere ogni comunità preesistente e ogni legame solidale, affinché l’immediatezza aprospettica del do ut des consumistico sia la sola forma relazionale consentita, in una società insocievole essa stessa basata, secondo la teorizzazione di Smith, sul nesso utilitaristico tra birrai, macellai e fornai. La società individualizzata degli eremiti di massa è quella nei cui spazi alienati prevale l’amor privatus di ordine egoistico, che è poi il fondamento antropologico dell’ordine neoliberale. Come evidenziato da Taylor nell’Età secolare, l’“Ordine Morale Moderno” è immanentista e fondato su individui autonomi, sciolti da ogni cornice comunitaria tradizionale.

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