Secondo quanto ricordato da Foucault nella Naissance de la biopolitique, la formula “vivere pericolosamente” (vivre dangereusement) può essere, per ciò stesso, elevata a massima del liberismo o, con le parole stesse del pensatore francese, a “marchio esistenziale interiorizzato dalla soggettività costruita dalla governamentalità liberale”. Nel quadro del regime neoliberale, “gli individui sono messi continuamente in stato di pericolo o, meglio, sono posti nella condizione di esperire la loro situazione, la loro vita, il loro presente, il loro avvenire, ecc., come fattori di pericolo”. Il rischio d’impresa si socializza alla società tutta: dà luogo a una sorta di economia del rischio, che non conosce nulla di esterno a sé. La crisi economicida, in questo senso, non è che la “pericolosità” politica e sociale analizzata dal punto di vista sistemico della produzione e del mondo della vita. Vivere pericolosamente significa primariamente adattare la propria intera esistenza al paradigma del rischio d’impresa, divenuto modello unico e onniavvolgente della società aziendalizzata, secondo quella che è stata definita la nuova “ontologia imprenditoriale”, alla cui luce tutto – dalla salute all’educazione – deve essere gestito come un’impresa. La liquidità universale del tempo flessibile si caratterizza, appunto, per la pericolosità che ubiquitariamente la innerva. Induce i soggetti a percepire il presente e l’avvenire come stabilmente incerti e a rischio, precari e non soggetti a garanzie di alcun genere, secondo il trionfo di “un vero e proprio quotidiano della precarietà”5. Nel suo dispositivo fondamentale, la crisi genera una condizione periclitante all’insegna dello squilibrio, dell’emergenza e dell’insicurezza: situazione in ragione della quale si chiede alle classi dominate – immancabilmente come se fosse una mera questione sistemica – di cedere sempre di nuovo qualcosa al fine di essere salvate dalla catastrofe in corso. Ne scaturisce quel circolo vizioso a cui il nuovo assetto del massacro di classe ci sta sempre più abituando; circolo vizioso in forza del quale, per un verso, la flessibilizzazione del lavoro e le misure di austerità depressiva vengono presentate e giustificate come necessità imposte dalla situazione di crisi. E, per un altro, la crisi stessa – che sia quella finanziaria o quella epidemica, di cui ci siamo occupati in altra sede – corrisponde a un’ars regendi, attraverso la quale i dominanti possono imporre senza discussione democratica e come se fossero una necessità inaggirabile la flessibilizzazione del lavoro e l’austerità depressiva, la privatizzazione e il sovvenzionamento delle banche, ossia le operazioni coerenti con le loro politiche di classe e corrispondenti a un preciso orientamento liberamente perseguito. La crisi, insomma, assurge al rango di forma globale di governance neoliberale nei perimetri reificati della Risikogesellschaft.

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