Con le parole di Marcuse, “l’epoca tende al totalitarismo anche dove non ha prodotto stati totalitari”: ossia anche nel quadro di quella open society di popperiana e poi sorosiana memoria, che non è chiaro per quali ragioni dovrebbe mai essere celebrata come “aperta” e “libera” da parte del Servo nazionale-popolare, ridotto al rango di mero strumento del profitto altrui, o da parte dei popoli bombardati in nome dei diritti umani e dell’inclusione entro il regime del fondamentalismo del libero mercato. L’open society globalista e post-nazionale è, in effetti, tale sempre e solo in riferimento alla merce, la cui libera circolazione assurge a unico parametro per valutare il grado di libertà esistente: libertà che, a sua volta, viene senza riserve fatta ideologicamente coincidere, dall’ordine del discorso, con la libertà del mercato e dei suoi agenti di agire senza impedimenti e senza limitazioni di qualsivoglia genere. La forma merce non può accettare una reale democrazia Per converso, tutto ciò che possa frenare o anche solo controllare l’economico viene additato come autoritario e antidemocratico, sempre sul fondamento del presupposto della niente affatto ideologicamente neutra identificazione tra auctoritas e dittatura, da una parte, e tra democrazia e mercato, dall’altra. La forma merce, infatti, non può tollerare l’esistenza di autorità che si pongano al di sopra di essa (così si spiega, ancora una volta, la vera essenza ultracapitalistica della lotta sessantottesca contro l’autorità), né può accettare una democrazia in senso autentico, come spinoziana potenza collegiale di tutti e di ciascuno, con sovrana decisione del popolo sulle questioni fondamentali dell’economia e della politica. Per questo, l’open society è perennemente in lotta tanto contro ogni autorità che non sia quella del mercato globale (in nome della deregulation da punto di vista della Destra del Danaro e in nome dell’anarchismo libertario dal punto di vista della Sinistra del Costume), quanto contro ogni concezione della democrazia che non sia quella che la intende falsamente come semplice libertà del mercato e dei suoi agenti. L’open society postmoderna e globalizzata viene, così, a coincidere con lo spazio globale e sconfinato del mercato deregolamentato, ove tutto – merci e persone mercificate – circola senza impedimenti e secondo la logica della valorizzazione del valore: tale open space senza confini si presenta, secondo l’ordine ideologico, come universalmente buono e giusto, quando tale è solo per i signori del turbocapitale, che in esso trovano il terreno ideale per il loro trionfo di classe e, dunque, per il massacro univoco ai danni degli sconfitti della mondializzazione. Una vita “spericolata” eccitante e trasgressiva Così, del resto, si spiega l’encomio ubiquitario cantato dal clero intellettuale dell’open mind, ossia della “mente aperta”, id est post-identitaria, post-tradizionale e de-ideologizzata da tutte le ideologie che non siano quella della circolazione illimitata e del liberismo assoluto, del nuovo stile di vita trendy e postmoderno, disegnato su misura per le masse riplebeizzate e indotte a vivere la condanna dello sradicamento turbomondialista e della “vita spericolata” come una chance eccitante e trasgressiva.
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