[Manoscritti economico-filosofici del 1844]
Abbiamo preso le mosse da un fatto dell’economia politica, dall’estraniazione dell’operaio e della sua produzione. Abbiamo espresso il concetto di questo fatto: il lavoro estraniato, alienato. Abbiamo analizzato questo concetto e quindi abbiamo analizzato semplicemente un fatto dell’economia politica. Ora, proseguendo, vediamo come il concetto del lavoro estraniato, alienato, debba esprimersi e rappresentarsi nella realtà. Se il prodotto del lavoro mi è estraneo, mi sta di fronte come una potenza estranea, a chi mai appartiene? Se un’attività che è mia non appartiene a me, ed è un’attività altrui, un’attività coatta, a chi mai appartiene? Ad un essere diverso da me. Ma chi è questo essere? Son forse gli dèi? Certamente, in antico non soltanto la produzione principale, come quella dei tempi, ecc. in Egitto, in India, nel Messico, appare eseguita al servizio degli dèi, ma agli dèi appartiene anche lo stesso prodotto. Soltanto che gli dèi non furono mai essi stessi i soli padroni. E neppure la natura. Quale contraddizione mai sarebbe se, quanto più col proprio lavoro l’uomo si assoggetta la natura, quanto più i miracoli divini diventano superflui a causa dei miracoli dell’industria, l’uomo dovesse per amore di queste forze rinunciare alla gioia della produzione e al godimento del prodotto. L’essere estraneo, a cui appartengono il lavoro e il prodotto del lavoro, che si serve del lavoro e gode del prodotto del lavoro, non può essere che l’uomo. Se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, e un potere estraneo gli sta di fronte, ciò è possibile soltanto per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio. Se la sua attività è per lui un tormento, deve essere per un altro un godimento, deve essere la gioia della vita altrui. Non già gli dèi, non la natura, ma soltanto l’uomo stesso può essere questo potere estraneo al di sopra dell’uomo. Si ripensi ancora alla tesi sopra esposta, che il rapporto dell’uomo con se stesso è per lui un rapporto oggettivo e reale soltanto attraverso il rapporto che egli ha con gli altri uomini. Se quindi egli sta in rapporto al prodotto del suo lavoro, al suo lavoro oggettivato come in rapporto ad un oggetto estraneo, ostile, potente, indipendente da lui, sta in rapporto ad esso in modo che padrone di questo oggetto è un altro uomo, a lui estraneo, ostile, potente e indipendente da lui. Se si riferisce alla sua propria attività come a una attività non libera, si riferisce a essa come a un’attività che è al servizio e sotto il dominio, la coercizione e il giogo di un altro uomo. Ogni autoestraniazione dell’uomo da sé e dalla natura si rivela nel rapporto che egli stabilisce tra sé e la natura da un lato e gli altri uomini, distinti da lui, dall’altro. Perciò l’autoestraniazione religiosa appare necessariamente nel rapporto del laico col prete, oppure – trattandosi qui del mondo intellettuale – con un mediatore, ecc. Nel mondo reale pratico l’autoestraniazione può presentarsi soltanto nel rapporto reale pratico con gli altri uomini. Il mezzo, con cui avviene l’estraniazione, è esso stesso un mezzo pratico. Col lavoro estraniato l’uomo costituisce quindi non soltanto il suo rapporto con l’oggetto e con l’atto della produzione come rapporto con forze estranee ed ostili; ma costituisce pure il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e col suo prodotto, e il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini. Come l’uomo fa della propria produzione il proprio annientamento, la propria punizione, come pure fa del proprio prodotto una perdita, cioè un prodotto che non gli appartiene, così pone in essere la signoria di colui che non produce, sulla produzione e sul prodotto. Come egli rende a sé estranea la propria attività, così rende propria all’estraneo l’attività che non gli è propria. Abbiamo sinora considerato il rapporto soltanto dal lato dell’operaio e lo considereremo più tardi anche dal lato del non-operaio. Dunque, col lavoro estraniato, alienato, l’operaio pone in essere il rapporto di un uomo che è estraneo e al di fuori del lavoro, con questo stesso lavoro. I1 rapporto dell’operaio col lavoro pone in essere il rapporto del capita1ista – o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro – col lavoro. La proprietà privata è quindi il prodotto, il risultato, la conseguenza necessaria del lavoro alienato, del rapporto di estraneità che si stabilisce tra l’operaio, da un lato, e la natura e lui stesso dall’altro. La proprietà privata si ricava quindi mediante l’analisi del concetto del lavoro alienato, cioè dell’uomo alienato, del lavoro estraniato, della vita estraniata, dell’uomo estraniato. Certamente abbiamo acquisito il concetto di lavoro alienato (di vita alienata) traendolo dall’economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma con un’analisi di questo concetto si mostra che, anche se la proprietà privata appare come il fondamento, la causa del lavoro alienato, essa ne è piuttosto la conseguenza; allo stesso modo che originariamente gli dèi non sono la causa, ma l’effetto dell’umano vaneggiamento. Successivamente questo rapporto si converte in un’azione reciproca . Solo al vertice del suo svolgimento, la proprietà privata rivela il suo segreto, vale a dire, anzitutto che essa è il prodotto del lavoro alienato, in secondo luogo che è il mezzo con cui il lavoro si aliena, è la realizzazione di questa alienazione.
Dal terzo manoscritto: Critica della dialettica hegeliana In Hegel vi è un duplice errore. Il primo si rivela con la massima chiarezza nella Fenomenologia, questo luogo d’origine della filosofia hegeliana. Quando egli, ad esempio, concepisce la ricchezza, il potere statale, ecc., come enti resi estranei all’essere umano, ciò accade soltanto nella loro forma ideale… Essi sono enti ideali, e quindi sono puramente e semplicemente una estraniazione del pensiero filosofico puro, cioè astratto. Tutto il movimento finisce perciò nel sapere assoluto. Ciò da cui questi oggetti sono alienati e a cui si contrappongono con la pretesa di essere oggetti reali, è appunto il pensiero astratto. Il filosofo – e dunque proprio una forma astratta dell’uomo estraniato – si pone come misura del mondo estraniato. Tutta intera la storia dell’alienazione e tutta intera la revoca di questa alienazione non è quindi altro che la storia della produzione del pensiero astratto, cioè assoluto, del pensiero logico speculativo. L’estraniazione che costituisce perciò l’interesse proprio di questa alienazione e della soppressione di questa alienazione, è l’opposizione, all’interno dello stesso pensiero, tra l’in sé e il per sé, tra la coscienza e l’autocoscienza, tra l’oggetto e il soggetto, cioè è l’opposizione tra il pensiero astratto e la realtà sensibile o la sensibilità reale. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni non sono che l’apparenza, l’involucro, la forma essoterica di queste opposizioni, che sono le uniche interessanti e costituiscono il senso delle altre opposizioni, delle opposizioni profane. Come essenza posta e quindi da sopprimere dell’estraniazione vale [per Hegel] non già il fatto che l’essere umano si oggettivizzi in modo disumano, in opposizione a se stesso, ma il fatto che si oggettivizza differenziandosi e opponendosi al pensiero astratto. [XVIII] L’appropriazione delle forze essenziali dell’uomo, diventate oggetti e oggetti estranei, è dunque prima di tutto solo un’appropriazione che ha luogo nella coscienza, nel pensiero puro, cioè nell’astrazione, è l’appropriazione di questi oggetti come idee e movimenti ideali: perciò già nella Fenomenologia, ad onta del suo aspetto del tutto negativo e critico, e nonostante che vi sia realmente contenuta la critica, spesso anticipatrice dell’ulteriore svolgimento, è latente, ed è presente come germe, come potenza, come un segreto, il positivismo acritico e l’idealismo parimenti acritico delle opere successive di Hegel, questa dissoluzione e restaurazione filosofica dell’empirismo presente. In secondo luogo, la rivendicazione del mondo oggettivo in favore dell’uomo – per esempio, la conoscenza che la coscienza sensibile non è una coscienza astrattamente sensibile, ma una coscienza umanamente sensibile, che la religione, la ricchezza, ecc. non sono che la realtà estraniata dell’oggettivazione umana, delle forze essenziali umane nate per operare, e quindi non sono che la via d’accesso alla vera realtà umana – questa appropriazione, o l’intendimento di questo processo, appare quindi ad Hegel in modo tale che la sensibilità, la religione, il potere statale, ecc., sono enti spirituali – e infatti solo lo spirito è la vera essenza dell’uomo, e la vera forma dello spirito è lo spirito pensante, lo spirito logico speculativo. L’umanità della natura e della natura prodotta dalla storia, dei prodotti dell’uomo, si manifesta nel fatto che essi sono prodotti dello spirito astratto e dunque, in quanto momenti spirituali, sono enti ideali. La Fenomenologia è perciò la critica nascosta, non ancora chiara a se stessa, e mistificatrice; ma nella misura in cui essa tien ferma l’estraniazione dell’uomo – anche se l’uomo vi appare soltanto nella forma dello spirito -, tutti gli elementi della critica si trovano in essa nascosti e spesso già preparati ed elaborati in un modo che va assai al di là del punto di vista di Hegel. La «coscienza infelice», la «coscienza nobile», la lotta tra la coscienza nobile e quella ignobile, ecc., questi singoli capitoli contengono gli elementi critici – se pure ancora in una forma estraniata – di interi settori, come la religione, lo stato, la vita civile, ecc. Quindi, come l’essenza, l’oggetto sono enti ideali, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza, o meglio, l’oggetto appare solo come coscienza astratta, l’uomo solo come autocoscienza; le forme distinte dell’estraniazione, che si presentano, sono perciò solo forme diverse della coscienza e dell’autocoscienza. Come la coscienza astratta – quella nella forma della quale viene inteso l’oggetto – è, in sé, semplicemente un momento distintivo dell’autocoscienza, così pure quale risultato del movimento si presenta l’identità dell’autocoscienza con la coscienza, il sapere assoluto, il movimento del pensiero astratto procedente non più verso l’esterno, ma ancora e soltanto in se stesso come risultato; vale a dire il risultato è la dialettica del pensiero puro.
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