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CRITICA

“Non è per certo effetto di leggerezza, ma del giudizio maturo dell’età moderna, che non vuole più oltre farsi tenere a bada da una parvenza di sapere, ed è un invito alla ragione di assumersi nuovamente il più grave dei suoi uffici, cioè la conoscenza di sé, e di erigere un tribunale, che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento, non arbitrariamente, ma secondo le sue eterne ed immutabili leggi; e questo tribunale non può essere se non la critica della ragion pura stessa”. (I. Kant, Critica della ragion pura)






A cura di Diego Fusaro

Stavo tra me e me riflettendo quanto sia importante, in generale e oggi più che mai, il concetto di critica. E questo vale non solo per la filosofia, che in quel concetto trova una delle sue figure fondamentali, ma per la nostra vita in generale. Vivere senza “spirito critico”, come anche il lessico comune lo chiama, significa in fondo vivere senza consapevolezza, senza saggiare costantemente la consistenza di ciò che ci sta intorno. La parola “critica” deriva dal greco “krino”, che alla lettera significa “io giudico”. L’atteggiamento della critica è, dunque, quello di chi giudica, senza accettare passivamente l’oggetto che gli sta dinanzi: oggetto che, in verità, può essere variamente inteso ora come una condizione (sociale, politica, economica, ecc.), ora come una presunta verità esposta in una proposizione. La critica non si accontenta che le cose siano: vuole indagarne l’essenza e la ragione. Per questo, come dicevo, non si dà, in senso proprio, filosofia in assenza di critica. La filosofia è, per sua vocazione, critica. E tale era l’atteggiamento più tipico di Socrate: del quale si narra che fosse solito trascorrere le sue giornate nella piazza ateniese dialogando filosoficamente con i suoi concittadini, quale che fosse il loro mestiere e il loro orientamento di vita. Come una torpedine, Socrate era solito “elettrizzarli” con il suo domandare, che era, appunto, un domandare critico. “Che cos’è l’arte militare?”, chiedeva Socrate ai generali. “Che cos’è la poesia?”, domandava invece ai poeti. Al cospetto delle domande socratiche, l’interrogato rispondeva senza esitazioni, certo di possedere la risposta. Ma Socrate, puntualmente, criticava le definizioni che i suoi interlocutori gli fornivano, mostrandone l’inconsistenza. E, in questo modo, li costringeva a cercare definizioni migliori, che resistessero al fuoco della critica di Socrate. In ciò sta, appunto, la differenza tra l’atteggiamento critico del filosofare socratico e l’atteggiamento opposto, che potremmo definire “dogmatico”, dei suoi interlocutori, immediatamente certi del loro sapere. Il dogmatico è colui che fonda le proprie conoscenze e i propri stili di vita su presupposti che non ha discusso e che, non di meno, ritiene immediatamente veri, a prescindere da ogni investigazione filosofica. Il critico, invece, è colui che opera in maniera inversa: non accetta nulla per presupposto, ma tutto sottopone a un’investigazione radicale, senza dare alcunché per scontato. E, alla fine, accetta solo ciò che ha resistito alla critica stessa. Insomma, il dogmatico si muove secondo certezze indimostrate, che egli neppure avverte l’esigenza di discutere e di dimostrare. Il critico si muove sempre da capo mettendo in discussione le apparenti verità immediate, anche quelle che, a tutta prima, appaiono più evidenti e meno questionabili. V’è un tratto in comune tra il critico e lo scettico: entrambi respingono l’immediatezza delle verità che i più accolgono in modo irriflesso. La differenza, però, sta nel fatto che lo scettico, come abbiamo mostrato, prende da ciò lo spunto per negare l’esistenza della verità in quanto tale: il dubbio è il suo stato privilegiato, il suo approdo ultimo. Al contrario, il critico usa il dubbio come strumento per mettere in discussione le verità immediate, accettate per pregiudizio o per inerzia. Per il critico, infatti, il dubbio è un mezzo, non un fine: il suo fine è, invece, la ricerca della verità. Se lo scettico si arresta alla dimensione del dubbio, il critico si avventura oltre: seguita nella ricerca della verità o, più precisamente, di una verità che sia dimostrata e, dunque, tale da resistere al dubbio della critica. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare seguendo il lessico comune, la critica non presenta, dunque, una valenza necessariamente negativa. La vera critica, anzi, è in sé positiva: smaschera il falso e l’inconsistente in vista di un’ulteriore ricerca che finalmente sia in grado di approdare al vero e al consistente. Kant, in epoca illuminstica, si spinse a sostenere che la sua era l’epoca della critica, a cui nulla – nemmeno il potere e la religione – potevano più sottrarsi. Ma che ne è della critica, oggi? La nostra epoca, a differenza di quella di Kant, sembra averle voltato le spalle. Ovunque prevale il dogmatismo di chi accetta le opinioni e le condizioni date come se fossero in sé automaticamente ovvie, fondate e indiscutibili. Per questo, ancora una volta, se vogliamo fare filosofia, dobbiamo restituire dignità alla critica.

Citazioni

"A me manca in tutto e per tutto la pazienza di vivere. Perché la mia anima e i miei pensieri sono così sterili, e tuttavia sempre torturati da dolori senza contenuto, voluttuosi e penosi? La lingua del mio spirito non si scioglierà mai in me, dovrò sempre balbettare? Io ho bisogno di una voce penetrante come lo sguardo di una lince, terrificante come il sospiro di un gigante, persistente come il suono della natura, mordente come il sibilo del vento gelido, sinistro come lo scherno impietoso dell'eco, di una gamma che va dal basso più profondo fino ai toni più teneri, modulati a partire dal bisbiglio sacro fino all'energia frenetica. È di questo ch'io ho bisogno per respirare, per esprimere ciò che tengo nell'anima, per scuotere le viscere sia dell'ira come della simpatia. Ma la mia voce è rauca come il grido del gabbiano o spenta come la benedizione sulle labbra di un muto". (S. Kierkegaard, “Aut-aut”)
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