EDUCAZIONE
“Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la piú grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale.”.
(Platone, Teeteto)
A cura di Diego Fusaro Desidero discutere brevemente di educazione. Per farlo, vorrei partire dal più grande mito che su questo tema sia mai stato elaborato. È il “mito della caverna” di Platone, che per sua stessa ammissione ha per oggetto la contrapposizione tra “educazione” (paideia) e “non-educazione” (apaideusia). Dobbiamo immaginare uomini incatenati fin dalla nascita sul fondo di una caverna: lì vedono solo ombre proiettate sulla parete dell’antro. Non sanno dell’esistenza di un mondo esterno, né, di conseguenza, di essere prigionieri di una caverna. Immagina che, per caso, uno di loro si liberi e risalga verso la luce del sole: costui ora sa distinguere tra luce e ombra, tra libertà e prigionia. Egli ridiscende nella caverna dai suoi antichi compagni: e lo fa con lo scopo di educarli, trasmettendo loro le verità che ha conquistato mediante l’esodo dalla spelonca. Non svelo come il mito si conclude, ma mi limito a dire che esso esemplifica magnificamente cosa l’educazione sia: un “tirare fuori” (il verbo latino educere, da cui il nostro “educare”, dice esattamente questo) mediante il sapere. L’educazione è, in altri termini, il processo mediante il quale ci formiamo alla verità e alla libertà, uscendo dalla condizione di minorità in cui, in origine, siamo. Per questo, educarsi è, nel suo significato più profondo, uscire dalla caverna a rivedere la luce del vero, del giusto e, soprattutto, del buono, che è come il sole che tutto rischiara e alimenta. L’“educatore”, o comunque vogliamo appellarlo, è colui che “forma” (ossia che, letteralmente, assegna una forma specifica) i suoi discenti, affinché si educhino e maturino, acquistando consapevolezza di sé e del loro mondo, della propria provenienza e della propria progettualità. Ora, come anche il mito della caverna insegna, l’educare non coincide mai con uno sterile dispensare, in forma meccanica, nozioni bell’e pronte e dottrine da assumere passivamente, quasi fossero pastiglie da ingerire. Una concezione di questo tipo finirebbe per intendere il discente come un “serbatio” da rimpire in modo meccanico e il docente come un automa, che “eroga” nozioni preordinate. L’educazione, quella vera, procede in maniera decisamente diversa. È un processo e, insieme, una relazione tra persone: una relazione processuale, potremmo anche dire, nella quale il docente si adopera affinché il discente sviluppi le proprie potenzialità, maturando e crescendo, guadagnando la giusta autonomia del pensare e del valutare la realtà. Il discente apprende e si forma, perché il docente lo indirizza e lo supporta, aiutandolo a portare a un pieno sviluppo le potenzialità che ha in sé: Socrate, a tal riguardo, si definiva un “maieuta”. Come le ostetriche aiutano i corpi a partorire, così egli supportava le anime nel loro processo di formazione e nel loro partorire la verità. Per tornare alla metafora della grotta di Platone, l’educatore non trascina fuori i prigionieri, né li costringe a uscire, minacciandoli qualora non lo seguissero. Al contrario, egli dialoga con loro: li aiuta a pervenire da soli, con la propria testa, alla consapevolezza dell’esigenza di uscire dalla caverna, di salire verso la luce del sole. Si limita a mostrare loro la via. Non è, certo, un caso se la strada che, dal fondo dell’antro, conduce all’aria aperta sia in salita: arduo e faticoso è percorrerla, perché – fuor di metafora – l’educazione richiede disciplina e lavoro su se stessi, sforzo e attenzione. E, non di meno, a ripagare per la fatica svolta è la condizione a cui si approda percorrendo quella strada, uscendo alla luce del sole. L’epoca in cui vivo ha nel suo complesso preferito vivere nella caverna, tra ombre rassicuranti e senza compiere la fatica della risalita verso la luce. Per questo, regna ovunque, in forme ostentate, la “maleducazione”, come il linguaggio comune la appella. La si dovrebbe, più opportunamente, definire “ineducazione” o, con la parola di Platone, apaideusia. È, credo, la prima epoca storica in cui l’essere privi di educazione diventa un vanto generalizzato. |