È deceduto Satnam Singh, il lavoratore indiano che aveva perso il braccio nei campi di Latina: anziché essere soccorso, è stato abbandonato lungo la strada. Anziché perdere tempo tra arcobaleni e transizioni verdi, sarebbe d’uopo tornare a occuparsi di lavoro e di sfruttamento. Perfino Fausto Bertinotti, già da tempo transitato dal comunismo a posizioni decisamente più consone con il liberal-atlantismo, ha ammesso candidamente nei giorni scorsi di non riuscire a comprendere dove sia il collegamento tra i pride e la questione socio-economica: infatti non vi è alcun collegamento, se non quello per cui i pride servono a defocalizzare lo sguardo rispetto al problema del lavoro e dei diritti sociali sotto assedio. Puntualmente torna a emergere, in tutta la sua tragicità, il problema del caporalato e dello sfruttamento più disumano del lavoro. Tutti si indignano per il breve tempo legato alla tragedia di turno, e poi tutto torna come prima. Il caporalato, fase suprema dello sfruttamento capitalistico, mette chiaramente in luce la funzione dell’immigrazione di massa: dietro la vernice arcobaleno – cara alla risibile sinistra fucsia – della retorica dell’accoglienza e dell’integrazione no border, si nasconde la ratio reale dei processi di immigrazione di massa, funzionali alla logica capitalistica per tre ragioni fondamentali. In primo luogo, il conseguimento di braccia a basso costo da sfruttare senza pietà, talvolta con gli esiti estremi del caso del povero lavoratore indiano deceduto nei giorni scorsi. In secondo luogo, grazie all’arrivo di braccia a basso costo dall’estero, il capitale può esercitare pressione sulla forza lavoro in generale e produrre dunque un abbassamento complessivo delle condizioni della classe lavoratrice. In terzo luogo, il capitale può adoperarsi acciocché prosperino i conflitti di classe all’interno della medesima classe, ossia gli scontri orizzontali tra lavoratori autoctoni e lavoratori migranti. Tali scontri, con tutto evidenza, sono benefici per la classe dominante che non viene combattuta e di più gode della frammentazione della classe lavoratrice, ora divisa nei due fronti degli autoctoni e dei migranti. Se ci fosse una sinistra degna della propria storia, questo dovrebbe dire, battendosi contro lo sfruttamento della forza lavoro e contro i plutocrati del capitale: tenendo sempre fermo che il nemico non sono i migranti, ma il capitale che li sfeutta dopo averli deportati e che, grazie all’esercito industriale di riserva, sfrutta ancora meglio l’intera classe lavoratrice. Ma invece, lo sappiamo, la sinistra oggi è un deplorevole fenomeno da baraccone, ed è per questo che già da tempo la chiamo sinistrash: le parrucche fucsia e i fondoschiena ignudi al vento dei pride ne sono la più plastica rappresentazione. Anziché battersi contro lo sfruttamento del lavoro e difendere gli interessi delle classi lavoratrici, la sinistrash si consacra ai giullareschi pride e alla celebrazione della retorica dell’immigrazione senza limiti, funzionale allo sfruttamento capitalistico.
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