Socrate

Ciao Papà,

mi devi scusare se ti scrivo questa lettera con colpevole ritardo. Sono già passati diversi giorni da quando ci hai lasciati, ma io non ho trovato prima la forza di mettere insieme queste parole. Non mi è stato possibile salutarti al momento della tua partenza, perché te ne sei andato via all’improvviso. Imprevedibile, come spesso eri. Ti avevo salutato poche ore prima, sul divano, sorridendoti e dicendoti: “ci vediamo domattina”. Nessuno, nemmeno tu, poteva sapere che quelle erano le tue ultime ore con noi. Non potevamo crederci. Nemmeno Allegra poteva. Quando le abbiamo detto che eri all’improvviso diventato la stella più luminosa in cielo e che da quel momento le avresti scattato da lassù le tue foto, è stata per un minuto intero in silenzio. Temevo scoppiasse in lacrime. E invece ha sorriso chiedendo incredula: “ma come fa nonno Dario a scattare le foto da lassù?”. Le ho risposto che tu sei il fotografo migliore del mondo e che riesci anche a fare questo. Quando siamo entrati in casa, col suo sorriso furbetto, è corsa in tutte le stanze a vedere se c’eri, pensando che fosse solo uno degli scherzi con cui la facevi sempre ridere tanto. Ma questa volta lo scherzo non c’era, e tu nemmeno. È incredibile la vita: ti ho sempre amato, come tu hai fatto con me, ma mai la tua presenza è stata tanto forte nella mia vita come ora che sei assente. Tutto mi parla di te e di noi. Mi sembra che tu debba spuntare qui accanto a me, da un momento all’altro. Mi sembra continuamente di sentire i tuoi passi e il tuo odore. A volte, mi piace pensare che tu sia uscito di casa per una lunga passeggiata. E che, prima o poi, tornerai da noi. La vita è stata sempre troppo severa con te, l’ho sempre pensato. Fin da quando eri bambino hai sofferto ingiustamente: la morte di tuo papà e il collegio, la salute e le ingiustizie. E ora lo penso ancora di più. Andarsene così, a soli 69 anni, senza poterci dare un ultimo abbraccio e un ultimo saluto è stato solo l’ultimo colpo che hai subito. Il giorno dopo doveva essere un giorno importante per noi tutti, e per te soprattutto: il coronamento di un piccolo grande sogno che si realizzava anche grazie a te. La mamma e le tue foto sono state per te le gioie massime. Stravedevi per entrambi, erano i tuoi punti fermi. Mentre soffro, mi accorgo che il registro della mia sofferenza è duplice ed è, oltretutto, quanto di più difficile da tradurre in concetti. C’è, da una parte, quella che potrei definire “sofferenza egoistica”, dovuta al fatto che sento che mi manchi in tutto quello che faccio e che ti vorrei ancora qui al mio fianco, perché insieme a te se n’è andata una parte del mio mondo. Vorrei ancora ridere con te delle tue battute geniali, chiederti consigli, raccontarti cosa faccio e sentirti raccontare cosa fai. E, poi, c’è la “sofferenza altruistica” – non saprei chiamarla altrimenti –, che scaturisce dal dolore che provo nel conoscere, di giorno in giorno, di ora in ora, tutte le esperienze e le emozioni che ora ti sono negate e alle quali avresti diritto: i momenti con mamma e con Allegra, i tanti progetti che ancora ti attendevano e di cui mi avevi parlato con tanto entusiasmo, le novità che avevi preparato con tanta cura e che, per ironia spietata della sorte, arrivano solo ora che tu non sei più. Riguardo con gioia mista a dolore tutte le foto che ci hai scattato in questi anni: è inconfondibile il tuo stile, unico e riconoscibile tra mille. Era però quasi impossibile fotografare te, che fotografavi tutti noi con passione. Mi riprendevi infastidito quando provavo a fotografarti, e ultimamente capitava spesso, quasi come se presagissi la tua partenza. Talvolta ti scansavi anche. E avevi ragione: i mie scatti mediocri erano quasi un’offesa rispetto ai tuoi, tanto belli. Eppure senza quelle foto oggi avrei ancor meno la possibilità di averti qui con me, di guardarti, di osservare i tuoi occhi nostalgici e profondi. Se fossi ancora qui, ti direi: “vedi, papà, che questa volta avevo ragione io?”. Mi hai fatto tantissimi ritratti in questi quarantuno anni insieme. Da quando sono venuto al mondo fino a poche settimane fa. Voglio provare a farne anch’io uno di te, con le parole però. Si dice spesso che la foto sottrae istanti al divenire e li rende, per così dire, immortali. È vero, ed è per questo che ora passo ore intere a rivedere le tue immagini: mi parlano di te e risvegliano in me tanti ricordi bellissimi. Ma tu facevi molto di più con le tue foto: facevi vedere ciò che ai più, anche ai più attenti, sfuggiva. Rendevi poesia il mondo, anche nei suoi dettagli apparentemente più insignificanti. Non restituivi la realtà in immagine, ma ce la facevi vedere da una prospettiva diversa, con la tua poesia. Saprei riconoscere le tue foto al primo sguardo anche in mezzo a migliaia di altre, perché nei tuoi scatti si vedevano sempre il tuo stile e la tua anima. E ora vedere le tue macchina fotografiche qui, abbandonate, mi fa piangere come un bambino: avevi ancora tanti, troppi scatti da fare. Le ultime foto le hai fatte ad Allegra, poche ore prima di andartene. Mamma mi ha raccontato che la prima volta che vi eravate visti, a Torino nel 1977, stavi sviluppando delle foto. Ricordo come se fosse ieri quando mi hai insegnato a pattinare e a guidare, quando pedalavamo e quando nuotavamo, quando passeggiavamo e quando mangiavamo insieme. In questi giorni ho sentito tantissime persone che ti conoscevano e ti stimavano. Mi hanno parlato di te, mi hanno reso ancora più orgoglioso di tutto quello che hai fatto e che eri: mi hanno restituito istanti della tua vita che non abbiamo vissuto insieme. Mi hanno insegnato a conoscerti da altri punti di vista. Perché per me tu eri e sei, semplicemente, mio papà. Da qualche tempo, eri solito fotografare il cielo e le nuvole, un soggetto nuovo, che ora che non ci sei più sembra guadagnare un senso particolare e ancora più poetico. Diverse volte avevamo parlato della possibilità di fare qualcosa insieme, un libro di filosofia del giardino con le tue foto e le mie parole. Ricordo ancora – credo fosse il 2010 – quando ti parlavo, a pranzo, della mia tesi di dottorato e degli intricati problemi filosofici legati al tempo, al rapporto tra il passato, il presente e il futuro. Ti raccontavo che viviamo nel tempo del futuro assente e dell’eterno presente. Mi stavi a sentire con attenzione e, a un certo punto, te ne sei uscito genialmente così: “che fine ha fatto il futuro? Non lo so: quand’è passato, non ero presente”. Non sono mai stato, lo sai, un uomo di fede. Ma mai come ora la ragione mi spinge a rifiutarmi di credere che tutto finisca qui, tra le pareti strette di questo mondo. Come posso pensare di non vederti mai più? È straordinario – sai? – pensare che la parola paradiso, “paràdeisos”, significhi “giardino”. Ed è in un giardino bellissimo, il più bello di tutti quelli in cui sei stato, che ora ti immagino mentre ti godi la natura colorata e scatti ancora foto meravigliose, con la poesia di sempre. C’è un passaggio del Vangelo che non avevo mai capito e che, anzi, mi pareva assurdo, respingente, e che solo ora tu mi hai aiutato a capire. Al giovane che ha perso il padre e vuole andare a dargli sepoltura e stare accanto a lui, Gesù risponde con parole sconvolgenti, spietate: “lascia che i morti seppelliscano i loro morti”. Gesù porta via con sé il giovane e non lo lascia andare dal padre morto. Perché un gesto così assurdo e spietato? Perché – provo a rispondermi – non deve essere chi non è più a portarci con sé, ma siamo noi che ancora viviamo a dover portare con noi sempre chi non è più. Ed è – te lo prometto – quello che farò sempre finché avrò vita: non sei più qui e, insieme, sei ovunque io sono. Ogni sera alzo lo sguardo verso il cielo, a volte anche con Allegra, e guardo la stella più luminosa mandandoti un saluto. È incredibile pensare – chissà se ci avevi mai riflettuto, papà – che la luce degli astri che vediamo brillare in cielo proviene da stelle morte milioni di anni fa. Illuminano la volta celeste e ci fanno sognare anche se non sono più. Ed è anche in questo senso che tu sei, e sarai sempre, per me la stella più luminosa: non ci sei più ma continui a brillare e a illuminare la mia vita. E, dunque, ci sei sempre. Ti amo e ti amerò sempre, papà.

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