Libri di Diego Fusaro

In queste settimane di scellerato riarmo dell’Europa voluto dagli euroinomani di Bruxelles e, segnatamente, dalla vestale del neoliberismo cosmopolita Ursula von der Leyen, la propaganda europeista sta assumendo toni sempre più radicali e intransigenti, di fatto monopolizzando il dibattito pubblico. Si pensi anche solo al surreale monologo catodico in assenza di contraddittorio di Roberto Benigni sulle reti Rai, costato un milione di euro: propaganda allo stato puro, che con la bacchetta magica dell’ideologia è riuscita a trasformare il costrutto repressivo neoliberale dell’Unione Europea nel più grande laboratorio democratico degli ultimi cinquemila anni. Nessuno spazio, ovviamente, per voci anche solo vagamente critiche rispetto a questa narrazione deplorevole, che non trova riscontro nella realtà fattuale. Era prevedibile e, di più, scontato che i pretoriani del pensiero unico politicamente ed europeisticamente corretto mobilitassero anche la fanteria degli studenti Erasmus per nobilitare il loro programma di distruzione dei diritti sociali e del mondo del lavoro, celebrato ideologicamente come trionfo di una democrazia europea che, oltretutto, sta promuovendo sempre più sfacciatamente le irragionevoli ragioni della guerra. E così è stato. Su “La Repubblica”, rotocalco turbomondialista e voce del padronato cosmopolitico, è uscito in questi giorni un assurdo articolo in forma di intervista del seguente titolo (e firmato da un giornalista dal significativo nome di Concetto Vecchio): «Lo studente: “A noi giovani la Ue piace, a maggio vado in Erasmus”». La generazione Erasmus, composta da una schiera di cortigiani della globalizzazione neoliberale che vivono con ebete euforia la loro condanna allo sradicamento e alla precarietà lavorativa ed esistenziale, è una generazione perduta, totalmente dominata e, insieme, subalterna, cioè gramscianamente dominata nella mente. Anziché contestare l’asimmetrico mondo della globalizzazione neoliberale, di cui l’Unione Europea è vessillo, ossia il mondo che la condanna a vivere senza un posto fisso in ogni ambito dell’esistenza, lo celebra con stolta letizia come se fosse il non plus ultra della libertà e della coolness postmoderna. Non vi è figura in cui meglio si esprima l’immagine platonica dello schiavo che ama le proprie catene ed è perfino disposto a battersi in loro difesa contro eventuali liberatori ridiscesi nell’antro caliginoso. Nel corso della assurda intervista, lo studente Erasmus così precisa a cuor leggero: “a maggio vado in Erasmus, per due settimane in Spagna, e già l’anno scorso sono stato a Valladolid”. Insomma, basta una vacanzuccia di due mesi in Spagna per amare l’Unione Europea: che importa, poi, se l’Unione Europea strutturalmente e non accidentalmente decompone i diritti del lavoro e supplizia le classi lavoratrici, tutelando unicamente il capitale finanziario e le sue classi di riferimento? Che importanza può avere per la generazione Erasmus se l’Unione Europea la priva del diritto al lavoro e ai diritti sociali fondamentali, magari anche dichiarando guerra alla Russia? Basta un periodo di vacanza in qualche località attraente, con goderecce feste in terrazza, per risolvere ogni cosa. Forse ricorderete quando, in occasione del Brexit, gli studenti Erasmus piagnucolavano lamentandosi del fatto che non avrebbero più potuto usufruire delle vacanze del programma cosmopolita. D’altro canto, fin dal suo momento genetico, il programma Erasmus figura come una sorta di Naia della globalizzazione neoliberale, volta a educare le nuove generazioni allo sradicamento e alla precarietà, ossia al non avere mai un posto fisso nel mondo e a vivere questa sciagurata perdita come se fosse una entusiasmante liberazione di cui andare fieri. Sarebbe d’uopo ricordare ai cortigiani Erasmus della globalizzazione neoliberale che il viaggio di studio, lungi dall’essere un’invenzione dell’Unione Europea, è sempre esistito, come potrebbero testimoniare tra i tanti Goethe e Montaigne (farebbero oltretutto bene a leggere questi spiriti magni della nostra civiltà). Dalla subalternità integrale rivelata dalla generazione Erasmus si potrebbe ricavare facilmente un corollario: se gli schiavi amano le proprie catene, è bene che in catene restino per tutta la vita. E che si godano con ebete euforia la loro entusiasmante esperienza Erasmus, senza mai avere un lavoro dignitoso, diritti sociali stabili e una pensione nella vecchiaia. E magari anche ricevendo la cartolina per il fronte.