Così disse lo Hegel nei “Lineamenti di filosofia del diritto”: «Lo schiavo ha il diritto in ogni momento di spezzare le sue catene: anche se egli stesso è nato da schiavi, anche se tutti i suoi progenitori erano schiavi, il suo diritto è imprescrittibile». Hegel legittimò e santificò tutte le rivoluzioni che costellarono il moderno. Addirittura, della aborrita Inghilterra, sede di un popolo “senza metafisica”, v’è un solo personaggio storico che Hegel salva e onora: il rivoluzionario Cromwell. Di più, vi è chi, con buone ragioni, ha sostenuto la tesi in accordo con la quale Hegel tratteggiò il nesso dialettico tra Servo e Signore, al centro della “Fenomenologia dello Spirito” (1807) e destinato a diventare il fondamento della filosofia della praxis di Marx e dei più o meno eterodossi marxismi successivi, traendo ispirazione dalla gloriosa rivoluzione di Haiti. Non possiamo, anche in questo, non essere hegeliani. La storia procede per balzi rivoluzionari più che per quieta evoluzione irenica. Dovremmo ormai averlo appreso. Eppure cosa succede se gli schiavi non sanno di esserlo? È il non domandato del teorema di Hegel. In effetti, nella figura dialettica servo-signore ciò che Hegel dà per acquisito è che, a differenza del Signore, il Servo abbia limpida coscienza della situazione obiettiva e, dunque, del proprio asservimento. E se invece il Servo fosse privo di coscienza quanto il Signore? Goethe, più sobrio in ciò di Hegel, disse nelle Affinità elettive, che il più servo è chi non sa di esserlo. Forse, in fondo, è questa la condizione in cui oggi ci troviamo, noi servi globalizzati che non sanno di esserlo e che sono pronti a lottare in nome delle proprie catene.
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