È di nuovo il 25 aprile. E, come ogni anno, qualcosa risulta puntualmente stonato, fuori posto. Si festeggia la fine del fascismo e la liberazione, come ogni anno. E come ogni anno ci domandiamo se realmente si sia posta fine alla violenza e si sia guadagnata la liberazione. Il fascismo è, per fortuna , finito per sempre, su questo non devono esserci dubbi: e questo merita indubbiamente di essere festeggiato, con buona pace dei nostalgici della camicia nera, folklorici e spesso pittoreschi residui del passato tramontato. Ma con il fascismo è venuta meno ogni violenza? Si è prodotta autenticamente la liberazione di tutti? A queste domande mi pare difficile rispondere affermativamente. Per questo, ritengo che il vero modo – l’unico legittimo – di festeggiare il 25 aprile sarebbe quello di ereditarne attivamente il messaggio di liberazione e di lotta contro la violenza, soprattutto contro quella presente: la violenza oggi ha, certo, cambiato forma, ma non ha smesso di esercitarsi, sia pure in forme spesso tecnicamente più evolute e meno immediatamente visibili. Non sarebbe poi difficile mostrare quale mole di violenza ancora regni sotto il cielo: la violenza dei mercati e della finanza, del “ce lo chiede il mercato” e del precariato, delle politiche di austerità depressiva mascherate come esigenze sistemiche imposte dalla crisi permanente. Per non parlare, poi, della violenza fintamente umanitaria dell’imperialismo etico che sta producendo montagne di cadaveri a Gaza. E allora torniamo a domandare: il fascismo è finito, per fortuna, ma è finita anche, con esso, ogni violenza? Siamo davvero diventati liberi? È questo, in effetti, che ogni anno lascia l’amaro in bocca quando si festeggia il 25 aprile: lo si festeggia per lo più come se appunto la liberazione e la fine della violenza si fossero finalmente compiute e non risultassero, invece, un obiettivo in nome del quale dobbiamo ancora con zelo sforzarci. Siamo davvero liberi nel tempo della disuguaglianza sempre crescente e della violenza anonima dei mercati? Siamo realmente liberi in quanto popolo italiano, con il nostro territorio occupato da più di cento basi militari americane che rendono impossibile ogni politica sovrana indipendente dalle scelte di Washington? Anche al 25 aprile si possono ragionevolmente estendere le considerazioni che Pasolini svolgeva intorno all’antifascismo archeologico: l’antifascismo, cioè, che anziché combattere contro le violenze del presente continua a fingere di lottare contro un fascismo che ormai è morto e sepolto. Nulla di più sbagliato, nulla di più oltraggioso nei riguardi di chi per l’antifascismo ha dato la vita: non mi stanco di ribadirlo, l’antifascismo di Gramsci e di Gobetti era eroico, dacché combatteva un nemico reale. L’antifascismo odierno finge di combattere un nemico che non esiste più per non doversi affaticare a combattere il nemico realmente esistente, con tutto il suo volume di violenza e di soprusi. Anzi, in non rari casi l’antifascismo archeologico diventa l’alibi per aderire alla violenza dei mercati e ai suoi soprusi, come nel caso di scrittori che sventolano la bandiera dell’antifascismo e poi placidamente sostengono le ragioni dei governi tecnici e dei sacerdoti dell’austerità depressiva, magari anche implorandoli di rimanere fino alla fine sulla plancia di comando. Proprio così: l’antifascismo in assenza di fascismo offende e oltraggia il vero antifascismo in presenza di fascismo e diventa anzi uno strumento di consenso per la civiltà dei mercati e per la sua violenza invisibile; finisce per farci credere che la società della violenza del mercato sia giusta e buona, da difendere contro il fascismo, identificato indistintamente con tutto ciò che non si identifichi con la civiltà della violenza del mercato. In fondo, non c’è nulla di più semplice che sventolare la bandiera dell’antifascismo archeologico: fatta eccezione per i folklorici nostalgici di cui sopra (utili strumenti funzionali alla narrazione dell’antifascismo permanente), siamo tutti capaci a fare gli antifascisti in assenza di fascismo. Ma quando il fascismo c’era, pochi erano apertamente antifascisti: eroi come i già ricordati Gramsci e Gobetti, ma poi anche Benedetto Croce e i dodici docenti – tra cui il filosofo Piero Martinetti – che non vollero giurare fedeltà al fascismo. Come si collocano gli odierni antifascisti archeologici rispetto all’imperialismo di Washington? E rispetto alla violenza del mercato capitalistico? E che hanno fatto negli anni duri dell’emergenza terapeutica con tanto di infame tessera verde? Si sono comportati come i dodici docenti di cui sopra, rigettando la tessera? La risposta la conoscete benissimo e non vale la pena insistervi oltre. Se vogliamo realmente che il 25 aprile sia una festa e non semplicemente una celebrazione archeologica, buona solo a legittimare il presente e le sue storture, dobbiamo ereditarne il messaggio, facendo nostra la lotta per la liberazione e contro le nuove violenze che infettano il nostro presente. La liberazione e la fine della violenza non sono ancora del tutto avvenute: restano un compito in nome del quale dobbiamo adoperarci attivamente. Non ci saranno pace, libertà, giustizia e fine della violenza finché ci sarà il regime capitalistico. La verità dell’odierna società è la sua negazione. Come disse una volta Max Horkheimer, il fondatore della scuola di Francoforte: “chi non ha nulla da dire sul capitalismo deve tacere anche sul fascismo”. E – aggiungiamo noi – dovrebbe tacere anche sul 25 aprile.
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