In tempi in cui il mondialismo ancora era ben lungi dall’affacciarsi sulla scena della storia universale, così scriveva il padre Dante: “Questi sono da chiamare pecore, e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro; e se una pecora per alcuna cagione al passare d’una strada salta, tutte l’altre saltano, eziandio nulla veggendo da saltare” (Dante Alighieri, Convivio). Le parole di Dante valgono oggi più di ieri. Basta guardarsi intorno per avvedersene. I signori del mondialismo e il loro clero di accompagnamento politicamente corretto vorrebbero che diventassimo un gregge amorfo e post-identitario di pecoroni cosmopoliti e fashion addicted, globetrotter e liberal-libertari, schiavi policromi e lobotomizzati che amano le loro catene e schiumano di rabbia contro tutto ciò che possa liberarli e renderli consapevoli. Ci stanno riuscendo con successo e – è il caso di dirlo – con profitto. La situazione è tragica, ma non seria. Il nuovo feudalesimo capitalistico post-1989 è, dovremmo ormai esserne avvertiti, il tempo della cattiva universalità dell’americanizzazione del pianeta, del livellamento consumistico e dell’omologazione esistenziale di ogni specificità culturale e di ogni identità non ancora integrata nel nuovo modello unico del consumatore post-identitario e post-tradizionale, neutro e infinitamente plasmabile dalle forme della produzione, della circolazione e del consumo. L’omologazione di massa e l’uniformità gregaria ridefiniscono gli abitanti della cosmopoli come un gregge docile e uniforme, in cui ciascuno è pura immagine della reificazione in atto.

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Di admin