Nel corso della storia umana sono sempre esistite grandi organizzazioni gerarchiche che usano masse di esseri umani come componenti o unità servili; ad esse il sociologo americano L. Mumford ha dato il nome di mega-macchine sociali. Esempi classici di tali grandi organizzazioni sono l’apparato amministrativo-militare dell’impero romano o, nel Novecento, quello militare e burocratico dell’Unione Sovietica. Appartiene alla specie delle mega-macchine anche il finanzcapitalismo, sistema sviluppatosi nel corso degli ultimi decenni allo scopo di massimizzare e accumulare, sotto forma di capitale e potere, il valore estraibile sia dal maggior numero possibile di esseri umani, sia dagli ecosistemi, penetrando tutti gli strati della società, della persona e della natura. Per pervasività il finanzcapitalismo ha superato ciascuna delle precedenti forme di mega-macchine, ivi compreso il capitalismo industriale, basato sulla produzione di valore. L’estrazione di valore è un processo diverso dalla produzione di valore, che si concreta nel far venire alla luce un bene, che prima non esisteva: si costruisce una scuola, si piantano alberi, si lancia sul mercato una nuova medicina. L’estrazione è invece un processo finalizzato ad aumentare il valore di una merce, anche in maniera artificiosa: si aumenta il prezzo delle case, manipolando i tassi di interesse o le condizioni del mutuo, si aumentano i ritmi di lavoro a parità di salario o si impedisce ad un sistema operativo concorrente di affermarsi, vincolando la vendita di un pc al concomitante acquisto di quel sistema. Capitale e potere sono le due forme di accumulazione di valore del finanzcapitalismo, si tratta in realtà di due termini di identico significato, nella misura in cui il capitale è potere
La presente trattazione mira, in forma sintetica, a riassumere ed analizzare alcuni elementi che aiutano a comprendere a fondo un fenomeno assai complesso come il capitalismo finanziario, partendo dalle sue radici storiche e dalla sua matrice ideologica e teorica, analizzandone attentamente la fenomenologia evolutiva fino ai nostri giorni. Si passeranno in rassegna le cause profonde e quelle immediate che hanno portato all’affermazione del finanzcapitalismo e i meccanismi, più o meno visibili, attraverso cui quest’ultimo ha radicalmente modificato il paradigma culturale e la società in cui viviamo, fino a determinare una nuova civiltà dai caratteri sostanzialmente omogenei e unitari: la civiltà-mondo, in cui non esiste di fatto cittadinanza attiva e democrazia. Infine, si analizzeranno i possibili scenari futuri, le conseguenze devastanti che la massimizzazione del profitto ha avuto sul mondo del lavoro e sull’umanità in genere, nonché le possibili riforme, impossibili, ma necessarie, che possano porre definitivamente un argine a un processo senza limiti e senza regole che potrebbe definitivamente portare al collasso l’intero sistema.
La finanziarizzazione dell’impresa industriale ha ricevuto un forte impulso a partire dagli anni ’80 del Novecento: gli investitori istituzionali, parecchi dei quali facenti capo alle banche, sono giunti a possedere al presente il 55% del capitale di tutte le società quotate nelle borse, pertanto in forza di questo ruolo di proprietari universali il loro potere diretto e indiretto nel governo delle imprese è diventato sempre più determinante. Questi investitori hanno imposto ai dirigenti d’azienda il paradigma per cui il governo dell’impresa deve avere come scopo dominante la massimizzazione del valore a favore degli azionisti: il capitale va creato soprattutto facendo salire il corso delle azioni in borsa, infatti il corso quotidiano delle azioni, da cui dipende il valore di mercato dell’impresa è uno dei fattori ai quali gli investitori assegnano maggiore importanza assieme ai flussi di cassa dichiarati da una società. L’ossequio forzato al paradigma della massimizzazione del valore per gli azionisti ha comportato l’adozione di una nuova concezione dell’impresa. Essa non viene più concepita come un’organizzazione fortemente legata agli interessi della comunità locale e al territorio in cui opera, ma come un conglomerato di mezzi di produzione e uffici di cui ogni pezzo deve essere monitorato di continuo al fine di stabilire se il suo rendimento finanziario, il suo flusso di cassa, sia pari o superiore a quello dei pezzi migliori della concorrenza. Se tale rendimento è in sé elevato, ma è comunque inferiore anche solo di poco a quello della concorrenza, quel pezzo di impresa va ristrutturato, venduto, oppure definitivamente chiuso. Ciascuno di questi interventi determina com’è ovvio il licenziamento di gran parte dei relativi addetti, e talora di tutti. La sola finalità che l’impresa deve perseguire è quella di creare valore per gli azionisti. Il modo in cui lo crea è un elemento secondario, lo scopo principale è fare salire il valore di mercato dell’impresa, rispetto a questo fine il fatturato, le dimensioni produttive, l’occupazione sono elementi del tutto secondari. In effetti le valutazioni finanziarie sono alla base delle strategie di ristrutturazione aziendale. Queste ultime mirano a ridurre l’occupazione e a moltiplicare il lavoro precario o informale mediante l’esternalizzazione della produzione. Un caso esemplare per comprendere l’impatto economico e sociale di tali strategie è rappresentato dall’industria alimentare, a cominciare dalle tre maggiori società operanti nel settore, Kraft, Nestlè, Unilever. La Unilever, terza industria alimentare del mondo, grazie alla strategia chiamata La via della crescita ha ridotto drasticamente il numero dei dipendenti tra i 2000 e il 2009. Ai dipendenti scomparsi dai ruoli paga dell’Unilever come lavoratori a tempo indeterminato ha fatto riscontro l’aumento dei lavoratori informali. I procedimenti di ristrutturazione e le loro ricadute sono ben illustrate da questo genere di piani.
Un altro caso emblematico di esternalizzazione della produzione è rappresentato dalla Mirafiori di Torino: in questa fabbrica venivano prodotti quattro quinti dei componenti delle auto Fiat. Oggi oltre il 75% di un automobile Fiat viene fabbricato da centinaia di fornitori esterni. In Italia si è conservata soprattutto la funzione di coordinare la produzione di migliaia di fornitori, piccoli medi e grandi, collocati in quattro diversi continenti, convogliandone poi il flusso verso un numero ridotto di assemblatoti finali. L’esternalizzazione globale tende a generare effetti negativi sull’occupazione, sulle relazioni industriali e sui rapporti tra le grandi imprese, dalle quali originano le commesse, e i diversi livelli di cui si servono. Nell’insieme, l’esternalizzazione ha comportato una conflittualità tra fornitori, lavoratori, regioni, sia entro lo stesso paese, sia tra paesi diversi. Una ricetta efficace per migliorare il bilancio finanziario, quanto micidiale per l’occupazione, sia in termini di quantità che di qualità, livelli di salari e protezione sociale. Tale processo di concentrazione viene da lontano e risale addirittura alla fine dell’Ottocento inizi del Novecento, raggiungendo oggi dimensioni inquietanti: le fusioni e acquisizioni di maggior entità avvenute durante gli anni ’90 e primi del 2000 in Usa e Ue hanno radicalmente cambiato il volto dell’industria mondiale. Ma con quali capitali avvengono dette fusioni? Poiché nemmeno i grandi gruppi economici sono in condizione di mettere sul tavolo decine di miliardi di denaro proprio, tale genere di operazioni vengono finanziate facendo ampio ricorso al debito e contraendo larghi prestiti con le banche. In modo speculare, le società che vogliono tutelarsi dalla fusionite contraggono debiti allo scopo di acquistare grossi volumi di azioni proprie, in modo da aumentare il loro prezzo di mercato e scoraggiare eventuali acquirenti. Tutto il sistema ha alla base una psicologia speculativa che rende molto fragile l’intero sistema, il quale non si fonda sull’assunto proprio del vecchio capitalismo, basato su una forma di competizione rispettosa e sulla creazione di valore, estratto per lo più dal lavoro umano, bensì su una forma di competizione coercitiva o concorrenza distruttiva che obbliga ad effettuare massicci investimenti anche quando è evidente a priori che il loro rendimento sarà scarso. Pertanto un effetto collaterale delle fusioni e acquisizioni intraprese per eliminare la concorrenza sgradita è stata la formazione di un forte eccesso di capacità produttiva in presenza di mercati stazionari, in quanto divenuti ormai mercati di mera sostituzione. La finanziarizzazione delle grandi imprese industriali ha avuto, tra le sue tappe salienti, la formazione di monopoli e oligopoli mediante estese campagne di fusioni e acquisizioni. Questo fenomeno ha preso il nome di fusionite. Tra i fattori che hanno favorito questo fenomeno vi è il fatto che il neocapitalismo non si basa più sulla libera concorrenza. Troppo sovente essa comporta seri problemi. Per affrontarla bisogna investire in ricerca e sviluppo, nuovi impianti, nuovi prodotti, invenzione di nuove strategie industriali e di marketing. Appare allora più promettente, quando si individua un’impresa come un serio concorrente puntare ad acquistarla. Infatti, è dimostrato, che a conti fatti, l’acquisto finisca per costare molto meno rispetto alla creazione di una società ex novo. In assoluto il maggior vantaggio atteso da una fusione o una acquisizione è che essa faccia notevolmente aumentare i titoli delle società coinvolte. Per ciò che riguarda la concorrenza e il libero scambio, basar sulla domanda e offerta, il neocapitalismo o capitalismo finanziario differisce sensibilmente dal capitalismo industriale: anzitutto perché il fatturato, le dimensioni produttive, l’occupazione finiscono per diventare fattori secondari, rispetto al valore di mercato di un’impresa.
Questo passaggio da un capitalismo industriale a un capitalismo finanziario ha avuto tra le sue ricadute un profondo deterioramento delle condizioni di lavoro in tutti i paese Ocse. Simile processo è stato sapientemente accompagnato da politiche fiscali favorevoli ai redditi elevati, all’indebolimento dei sindacati, nonché dall’aver posto sistematicamente in conflitto tra loro, come si è detto, i lavoratori dei paesi sviluppati con quelli emergenti. Un altro caso rappresentativo, tra i tanti osservabili, è stato in Italia quello dello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco in Campania. Nel 2010 la cassa torinese ha presentato un piano di riorganizzazione della produzione che imponeva i suoi 5.000 operai durissime condizioni di lavoro quanto a numero dei turni, accresciuta costrizione delle mansioni, accelerazione dei ritmi, riduzione delle pause, aumento degli straordinari; condizioni di lavoro molto simili a quelle introdotte qualche anno prima nello stabilimento polacco di Tichy. A completamento di questo iniziale confronto tra il vecchio sistema economico, basato sulla libera concorrenza e il libero scambio, e il nuovo basato sul monopolio o sull’oligopolio e di questa riflessione preliminare sugli effetti della finanziarizzazione delle imprese si osservi come questa abbia influito persino sulla scelta e sul comportamento dei manager: i dirigenti d’azienda spesso saltano da un settore all’altro con disinvoltura. Tutto questo è reso possibile dal fatto che questi professionisti devono possedere competenze o esperienza nel muoversi nei labirinti del sistema finanziario nelle sue tante parti visibili e in ombra. Anche in questo caso le origini di questo fenomeno non sono nuove e rimontano alla fine dell’Ottocento inizio Novecento, quando gli imprenditori che avevano creato grandi società per la capacità di dominare gli aspetti tecnici e organizzativi di un determinato settore produttivo dovettero cedere il passo agli esperti di operazioni finanziarie. Nondimeno va riconosciuto che per alcune generazioni rimasero numerose le industrie che badavano essenzialmente ai caratteri della produzione più che al corso quotidiano delle azioni in borsa. È stata l’epoca del capitalismo manageriale basato sulla produzione. Dagli anni ’80 del Novecento, al contrario, esso ha ceduto definitivamente il passo al capitalismo manageriale azionario. Nel quadro di quest’ultimo un manager che si dimostri abile nell’applicare le strategie e le tattiche più idonee a far salire il corso delle azioni, e con esso il valore di mercato dell’impresa, è decisamente preferito dagli azionisti rispetto a un manager che è invece versato nelle complicazioni del relativo processo produttivo. Si noti ancora che le competenze finanziarie anteposte a quelle produttive per selezionare i manager mediante vere e proprie caccie al talento non assicurano affatto in realtà il successo continuativo dell’impresa: gli immani disastri finanziari di società industriali, verificatesi nel primo decennio del 2000, hanno avuto come protagonisti, in diversi casi, proprio i migliori manager selezionati e stimati sulla base delle loro capacità in campo finanziario, non necessariamente tecnico. Le società stesse impongono ai manager di far salire il corso delle azioni a qualunque costo, dando vita a comportamenti irresponsabili e che per nulla tengono in considerazione gli interessi della comunità: non a caso oggi si parla di responsabilità sociale di impresa nel capo degli studi economici. Quando il corso delle azioni si rifiuta di salire, oppure gli utili non maturano, o, peggio ancora, si stanno verificando delle perdite consistenti, il manager è indotto a dare a intendere che l’impresa stia operando in modo da garantire che esso salirà entro breve termine. Ragion per cui gli azionisti e le autorità di sorveglianza, si vedono fornire informazioni manipolate.
Principalmente il finanzcapitalismo, basato sull’estrazione di valore dall’investimento di denaro, sfrutta la ridistribuzione di ricchezza-profitto/reddito a spese di altre fonti di reddito realizzata mediante la manipolazione di prezzi a scopi speculativi, salari in flessione, privatizzazione di prestazioni statali o sfruttamento internazionale, insomma una redistribuzione dal basso verso l’alto.
Ma qual è la sua struttura e come funziona il finanzcapitalismo? Il braccio operativo del finanzcapitalismo è il sistema finanziario di cui si è dotato, formato da alcune componenti strutturali: le prime sono le grandi banche, intese come grandi società che operano in almeno una dozzina di settori di attività differenti e in ciascuno di questi controllano numerose società. Siamo quindi dinnanzi a immense reti societarie nelle quali si intrecciano inestricabilmente sia le funzioni che i titoli di proprietà. Questa componente “bancocentrica” del sistema finanziario, per quanto complessa, è composta da entità visibili ed opera in larga misura alla luce. Una seconda componente del sistema finanziario chiamata finanza ombra risulta, al contrario della prima, praticamente invisibile alle autorità, quindi di fatto non regolabile. Le sue dimensioni, in termini di attivi, superano di molte volte gli attivi delle società finanziarie che di essa tengono i fili, sebbene sia arduo stabilire quale sia alla fine il totale degli attivi o dei passivi che sono in capo a ciascuna di esse. Una terza componente del sistema finanziario che sta a cavallo tra il sistema bancocentrico e la finanza ombra è costituita dagli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi comune di investimento, compagnie di assicurazione, fondi comuni speculativi, detti hedge founds ovvero “fondi copertura”). Gli investitori istituzionali sono una delle maggiori potenze economiche del nostro tempo, gestiscono un capitale enorme e influenzano le sorti delle grandi corporation e dei bilanci statali. La principale ragione per cui è corretto affermare che gli investitori finanziari si muovono a cavallo tra le altre due componenti del sistema finanziario è che tutte queste componenti sono collegate da scambi quotidiani di denaro e capitale che avvengono attraverso molteplici canali. In forza di queste tre componenti, fortemente interdipendenti, la mega-macchina del finanzcapitalismo è giunta ad asservire ai propri scopi di estrazione del valore ogni aspetto come ogni angolo del mondo contemporaneo. La politica ha finito con l’identificare i propri fini con quelli dell’economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorirne l’ascesa, abdicando così al proprio compito storico di migliorare la convivenza umana, governando l’aspetto economico e non viceversa. In questo modo il finanzcapitalismo è stato elevato a sistema politico dominante a livello planetario, unificando tutte le civiltà preesistenti e svuotando di sostanza il processo democratico. Un’intera civiltà è stata asservita alla finanza dalla politica: nel corso del 2010, ad esempio, l’Unione Europea ha rischiato più volte un crack a causa dell’attacco che i gruppi di operatori della finanza ombra avevano sferrato al debito pubblico dei suoi stati e alla sua moneta. Basterà qui ripercorrere sommariamente i momenti salienti della crisi economica in atto, per comprendere l’enorme responsabilità che ha avuto la mancata regolazione del finanzcapitalismo: il debito pubblico e i deficit di bilancio erano cresciuti di parecchi punti percentuali a causa dei costi sopportati dagli stati per far fronte alla crisi del sistema finanziario, con rilevanti effetti depressivi sull’economia reale, iniziata nel 2007. Si può riassumere così l’andamento di questo primo periodo della crisi iniziata nel 2007: a causa di politiche economiche gravemente difettose, il sistema finanziario è incorso in una grave crisi, nei primi tre anni gli stati hanno impegnato un’ingente quantità di denaro per salvare le banche e le compagnie di assicurazioni e stimolare la ripresa economica. Non appena ritornato in forze, per esattezza nel 2009, il sistema finanziario è ripartito all’attacco a danno degli Stati che si erano indebitati per sostenerlo, riparandone i guasti. In questo gioco erano a rischio i risparmi delle famiglie, le condizioni di salario e di lavoro, la sicurezza e la sanità, la previdenza sociale e i diritti umani, l’istruzione e la ricerca, la qualità della vita e i rapporti interpersonali, le istituzioni e la democrazia. In altre parole, il senso di un’intera civiltà. Pertanto la crisi economica è diventata la crisi di civiltà, intesa come particolare modo storicamente determinato di strutturare la politica, l’economia, la cultura e la comunità, esteso a numerose società o stati.
Si impone a questo punto una riflessione sul concetto di civiltà: oggi classificare le civiltà è diventato sempre più difficile poiché dagli ultimi trent’anni a questa parte si è verificata un’accelerata occidentalizzazione del mondo. Tuttavia non si può semplicisticamente considerare la nuova civiltà emergente una civiltà occidentale allargata. Occorre piuttosto considerarla come una civiltà dai caratteri originali che è possibile definire “civiltà-mondo”, caratterizzata da una forte intreccio tra politica ed economia, senza confini di alcun genere, nonché da una interconnessione che è stata creata tra quasi tutte le società del mondo, cosicché qualsiasi evento accada in una di esse ha effetti ravvicinati sulle altre.
La civiltà-mondo che si è determinata presenta numerosi aspetti estremamente problematici e su cui vale la pena riflettere: anzitutto l’immane squilibrio tra le potenzialità tecnologiche ed economiche e le effettive condizioni di vita della popolazione del pianeta: a fronte di immensi mezzi, la civiltà mondo assicura una vita decente a circa 1,5 miliardi di persone nei paesi più sviluppati, mentre costringe a una vita classificabile come indecente gli altri 5 miliardi. Sullo sfondo di tali dati v’è una situazione per un certo verso altrettanto drammatica: l’elevato grado di insicurezza socio-economica che attanaglia migliaia di persone, che la crisi ha accresciuto nei paesi sviluppati. Persone che si chiedono con angoscia se avranno ancora un lavoro, un reddito, una casa o la possibilità di avere dei figli. Un altro aspetto problematico ed estremamente preoccupante che riguarda la civiltà-mondo riguarda il genere di esistenza umana, insieme con la personalità o il carattere della persona, che la civiltà in questione, basata sul capitalismo finanziario o finanzcapitalismo, è orientata a produrre: l’individuo si trova in una società in cui le motivazioni, l’identità, il riconoscimento sociale, i percorsi di vita sono stati costruiti attorno al lavoro, in specie attorno al lavoro dipendente salariato, nell’età in cui questo viene fatalmente a mancare; pertanto la civiltà mondo produce senza posa giovani dal costume decomposto, adulti rimasti o ricondotti in uno stadio infantile, e cittadini che hanno introiettato il vangelo del consumo in luogo delle regole della democrazia. Sulla circostanza che la sistematica produzione in massa di simili caratteri umani rifletta non un mero mutamento di costumi, ma una drammatica degradazione politica aveva attirato l’attenzione Marcuse sin dagli anni ’60, descrivendo i tratti dell’uomo a una dimensione. Quello che risulta totalmente distorto è il processo formativo che dovrebbe avere come esito la personalità dei cittadini consapevoli, determinati a far valere in ogni ambito il principio di libertà e partecipazione alla gestione e al governo della cosa pubblica, mentre in luogo di tale esito la civiltà basata sul consumo, nel tentativo di ristabilire un equilibrio tra l’eccesso di produzione e il deficit di consumatori, produce individui per i quali la libertà consiste nella possibilità di scegliere dei prodotti. La privatizzazione è espressione di questa filosofia che predilige e antepone l’individuo alla collettività. Infine altro aspetto critico della civiltà-mondo riguarda il moltiplicarsi dei segni attestanti che l’attuale rapporto tra uso delle risorse naturali e il modello economico fondato sullo sviluppo senza fine non è sostenibile, e che il tempo per cambiarlo a fondo si sta facendo drammaticamente breve. Ciò getta una luce critica sulla civiltà della crescita economica senza limiti che provoca la trasformazione delle risorse rinnovabili in risorse non rinnovabili, utilizzate fino all’esaurimento definitivo, e il verificarsi di improvvisi mutamenti non lineari del progresso economico, con possibili esiti catastrofici. La crisi economica odierna che perdura ormai dal 2007 e minaccia di continuare, se non di aggravarsi, ha contribuito a portare alla luce l’insostenibilità sistemica della civiltà-mondo. Poiché non esistono altre civiltà esterne con le quali la civiltà-mondo possa confrontarsi o entrare in conflitto a livello planetario, è possibile che le sue varie forme di insostenibilità diano origine nel prossimo futuro a conflitti endogeni. Ai parlamenti e ai governi del mondo resta dunque la possibilità di incivilire in qualche misura il finanzcapitalismo.
Ritornando alla crisi economica in atto, essa ha avuto come terreno di coltura tutti e tre gli elementi della civiltà-mondo sopra descritti, sebbene la causa immediata e scatenate sia stata lo sviluppo e la conseguente crisi di un sistema finanziario basato sul debito pubblico e privato. Dal 1980 l’economia mondiale è stata finanziarizzata, in altre parole la produzione di denaro per mezzo di denaro, insieme alla creazione di denaro dal nulla per mezzo del debito hanno preso il sopravvento quali criteri guida dell’azione economica, rispetto alla produzione di merci per mezzo di merci. Si è dinnanzi non ad un’economia reale, ma ad un gigantesco processo di illusionismo finanziario. La crisi economica è esplosa quando un numero crescente di risparmiatori, di imprese, di investitori istituzionali e di banche dovettero constatare che alla promessa di valore che avevano in mano sotto forma di titoli non corrispondeva più la quantità di denaro o il tipo di beni reali che essa pareva nominalmente assicurare. Il problema poi fu enormemente accresciuto da un’architettura finanziaria difettosa che rendeva difficili le attività di sorveglianza e regolazione che le autorità avrebbero dovuto esercitare sulle banche. Tuttavia lo sviluppo di un sistema finanziario basato sul debito, nel quadro di una struttura di monitoraggio carente, non sarebbe stato possibile se nel periodo considerato l’economia non avesse intessuto rapporti sempre più stretti con la politica. In genere esso viene interpretato come una sconfitta della politica, una sopraffazione che essa avrebbe subito. La politica piuttosto che prefiggersi di regolare l’economia per adattarla alla società si sarebbe impegnata ad adattare la società all’economia. In luogo di proteggere i cittadini dall’insicurezza socio-economica, essa si propone tutt’al più di fungere da soccorritore nei confronti di coloro che sono stati colpiti da questa; in luogo di produrre beni e tutelare quelli esistenti, favorisce le privatizzazioni, abdicando ai suoi doveri. Ma i confini tra economia e politica non sono stati attraversati dalla prima grazie alle proprie incontenibili forze, ma, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, dalla politica stessa, attraverso leggi e normative che hanno liberalizzato i movimenti di capitale, tolto ogni vincolo all’attività speculativa delle banche e alla connessa produzione di strumenti finanziari sempre più complessi. In tali interventi politici espressamente de-regolativi dell’economia vanno individuate le premesse della crisi economica attuale. Bisogna notare al riguardo che dai primi anni ’80 ad oggi tra politica ed economia è avvenuto persino uno scambio di personale conosciuto come revolving doors ovvero “porte girevoli”: alti dirigenti di istituzioni finanziarie private sono diventati ministri o titolari di importanti cariche pubbliche; ex ministri sono diventati dirigenti di banche oppure hanno trovato occupazione come esperti in grandi società con cui il governo da loro presieduto aveva trattato su complesse questioni in campo energetico o ambientale. L’ideologia che ha promosso e legittimato questo processo di incontrollato attraversamento dei confini tra politica ed economia si chiama neoliberalismo. Che cos’è il neoliberalismo e come si è affermato? Le idee motrici del neoliberalismo sono maturate tra la fine degli anni ’30 e gli anni ’50 del Novecento. La crisi del 1929 e la grave recessione che ne era seguita avevano compromesso il prestigio del capitalismo. La causa prima della recessione veniva individuata da parte degli economisti nelle politiche keynesiane dei governi di F.D. Roosevelt e quindi al massiccio intervento dello stato nell’economia e allo sviluppo dello stato sociale. Una politica economica efficace doveva rimuovere gli ostacoli al mercato. Quando il neoliberalismo da teoria economica diviene un teorema politico vengono progressivamente cancellate, nel corso del secondo dopoguerra, le conquiste sociali delle classi lavoratrici. All’affermazione del neoliberalismo hanno contribuito i cosiddetti “serbatoi di pensiero” ovvero think tanks, associazioni che riuniscono i massimi esponenti della finanza e dell’industria mondiali, i quali hanno notevolmente influito sull’insegnamento universitario, sui media, sulle politiche economiche dei governi, e dunque indirettamente sul modo di pensare e di agire delle persone, determinando quella egemonia culturale di cui parlava Antonio Gramsci nei suoi scritti. Questa teoria politica mira a impedire che lo stato o il governo per esso interferiscano con l’ordine che il neoliberismo intende stabilire. Applicato a una società democraticamente costituita, esso si trasforma in un argomento contro la democrazia: esso non rappresenta una nuova fase della democrazia liberale, ma la fine della democrazia in quanto tale. Il neoliberalismo si fonda su alcuni principi fondamentali come l’aumento dei consumi e lo sviluppo continuativo del Pil, ritenuto indispensabile anche per quei paesi che hanno raggiunto un soddisfacente stato di benessere. Gli assiomi su cui si fonda la teoria neoliberista sono i seguenti: i mercati sono perfettamente in grado di autoregolarsi, il capitale affluisce dove la sua utilità risulta massima, i rischi del sistema sono integralmente calcolabili (es. caduta prezzi o variazione dei tassi di interesse). I casi ripetuti di recessione e le crisi cicliche non hanno mai intaccato queste credenze tra i fautori del neocapitalismo. Inesauribile nella sua vocazione totalitaria, il neoliberalismo propone una teoria dell’occupazione, della distribuzione del reddito e della persona di fronte al lavoro. Le politiche attive del lavoro, introdotte nell’Ue, insistono infatti sulla necessità che ciascuno si assuma la responsabilità del proprio destino lavorativo. Il neoliberalismo contiene anche una esauriente teoria dell’istruzione il cui fine ultimo e unico risiede nel conferire all’individuo competenze professionali tale da renderlo produttivamente occupabile. Se dalla scuola si passa all’Università si vedrà che le teorie economiche di orientamento neoliberale appaiono da decenni dominanti. Il neoliberalismo è una sorta di credo che le sinistre democratiche hanno scelto di assorbire integralmente.
Se il neoliberalismo è la dottrina politica, posta a fondamento della civiltà-mondo, che ha determinato una serie di recessioni e crisi cicliche del sistema economico e sociale globale, la causa principale della crisi potrebbe essere insita nel finanzcapitalismo o capitalismo dei mercati finanziari e in questo caso la crisi sarebbe una naturale e inevitabile conseguenza delle dinamiche dell’attuale sistema economico, della sua fragilità sistemica e delle distorsioni che questo impone all’economia reale, ma è possibile andare ancora più a fondo nella comprensione delle cause della crisi odierna. Dato che un fenomeno simile non può venire spiegato in modo semplicistico, poiché in esso operano numerosi meccanismi complessi e interrelati, centinaia di saggi pubblicati tra il 2007 ed il 2010 hanno provveduto a costruire degli schemi esplicativi, riconducibili schematicamente a tre varianti fondamentali, oltre a quella sopraccitata: la crisi è dovuta a una sorta di psicologia speculativa che ha portato sia famiglie che istituzioni a contrarre mutui e debiti, senza essere poi in grado realmente di pagare; un potente motore di consumi privati è la costruzione di case, pertanto il governo americano, allora presieduto da Bush Jr e la Fed (Federal Reserve System), ovvero un sistema di dodici banche private americane, cui in Usa è affidato il ruolo di banca centrale, decisero di incentivare l’edilizia residenziale, portando le famiglie a contrarre debiti per l’acquisto di case, garantiti dal valore della casa stessa, ossia sottoscrivendo con una banca o un altro ente finanziario un mutuo gravato da ipoteca. Da parte loro le banche favorirono la trasformazione di strumenti di debito in titoli commerciali, ciò significa che il credito concesso da una banca a una famiglia o a una impresa veniva trasformato in un titolo commerciabile, con la conseguenza nefasta che nessuna banca si curò più di verificare in via preliminare la duratura solvibilità del mutuatario visto che il rischio di insolvenza veniva subito trasferito su un altro ente e poi agli investitori. I risultati di questa campagna governativo-bancaria a favore dei mutui concessi con interessata facilità e a tassi variabili avrebbero portato alla fine ad un’ondata di sequestri, a una svalutazione del valore degli immobili, alla crisi di tutti quegli enti finanziari e quelle società che avevano assicurato i mutui dal rischio di insolvenza e persino delle banche che avevano venduto a società-veicolo (Siv) i titoli di debito facendoli uscire dal perimetro del loro bilancio consolidato. Date le perdite subite e la contrazione degli attivi rimasti sui bilanci, le banche ridussero al minimo i prestiti di denaro e tutte quelle operazioni su cui si fonda in gran parte il sistema bancario. Partita dagli Usa, la crisi si sarebbe rapidamente diffusa nella Ue; un’altro schema esplicativo della crisi verte sull’importanza dello sviluppo patologico della finanza mondiale che oltre a raggiungere, come si è detto precedentemente, una dimensione sproporzionata rispetto all’economia reale, ha generato un gigantesco sistema finanziario ombra, sottratto a qualunque regolamentazione. Il sistema finanziario è uno strumento indispensabile per il buon funzionamento dell’economia reale, nondimeno, quando il suo valore complessivo arriva a superare di parecchie volte il valore di quest’ultima, significa che la maggior parte delle sue operazioni hanno una finalità speculativa e non produttiva (gli attivi finanziari globali hanno superato nel 2007 di 4,4 volte il Pil mondiale), persino gli altissimi compensi destinati ai dirigenti e ai trader delle banche indicano chiaramente che l’attività di queste banche è eminentemente speculativa, poiché nessun tipo di investimento nell’economia reale permetterebbe di erogare simili compensi (stipendi, bonus etc.); infine una frazione elevatissima dei movimenti di capitale che hanno luogo nel sistema sono deliberatamente sottratti a ogni forma di effettiva regolazione da parte delle autorità che per legge dovrebbero vigilare su di esso, per questi motivi l’attuale sviluppo del sistema finanziario non può che dirsi malato: la dimensione delle voci fuori bilancio delle banche comportava che esse fossero capaci di operare e muovere con un effetto leva una quantità denaro, sotto forma di titoli ed altri effetti, enormemente più alta di quella effettivamente disposta in soldi veri. Il sistema bancario internazionale ha radicalmente trasformato le proprie funzioni e forme organizzative, costruendo intorno a sé a tale scopo, a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, il sistema finanziario ombra con il quale intrattiene strettissimi rapporti. È stata la legislazione de-regolatrice e liberalizzatrice intervenuta negli anni ’80 del Novecento in poi a consentire agli enti finanziari di svolgere nell’ombra, ossia al di fuori della visibilità e della presa normativa delle autorità di sorveglianza, ma in modo legale, una massa colossale di attività finanziarie. I motivi principali che hanno spinto le banche Usa e Ue a sviluppare un gigantesco sistema finanziario ombra sono stati anzitutto quello di massimizzare i ricavi derivanti dai crediti concessi e al tempo stesso quello di aggirare le disposizioni e gli accordi relativi alla quota da tenere in riserva, denominato in Italia patrimonio di vigilanza: un mutuo ad esempio è un capitale dato a credito che per decenni rimane immobilizzato e rende unicamente un tot di interessi; per contro se esso viene trasformato in un titolo commerciabile e quindi venduto a un Siv, una società-veicolo, quello stesso capitale, sottratte le rate del mutuo già pagate dal debitore, ridiventa disponibile per concedere un altro mutuo, cioè un altro credito, e questo può avvenire più di una volta. Un mutuo venduto a un Siv presenta poi un altro vantaggio: anche se la vendita è in realtà fittizia, perché la banca controlla pur sempre i suoi veicoli, le norme contabili di diversi paesi permettono di portare fuori bilancio i crediti venduti. Questo significa che il capitale costituito dai questi ultimi non grava più sul capitale da tenere in cassa quale garanzia a fronte delle proprie attività. Una banca ha infatti l’obbligo di tenere in cassa come fondi propri una certa percentuale dei suoi depositi, che sono debiti, e dei suoi attivi, incluso ogni prestito che concede (nei paesi dell’Ue 8% del totale, ossia 8 euro per ogni 100 che un ente presta). Se viene registrato in bilancio come attività, qualunque credito o prestito concesso fa crescere il patrimonio da far figurare come riserva e crescono così patologicamente anche gli attivi fuori bilancio. Quando una quota di attività finanziarie si svolge per lungo tempo nell’ombra, accade che non solo le autorità di sorveglianza, ma persino coloro che tali attività svolgono non riescano più a scorgere né le attività stesse, né le loro conseguenze. Purtroppo nel sistema finanziario ombra nemmeno i suoi creatori riuscivano più a conoscere le informazioni riguardanti i titoli di debito (Cdo), pertanto il risultato fu che nel 2008 il sistema finanziario globale rischiò di andare in frantumi. Solo un massiccio intervento dello stato, in Usa e Ue, riuscì a salvarlo. Un altro schema esplicativo attribuisce un notevole peso alla crescita delle disuguaglianze economiche, ma tuttavia va rilevato che la crescita delle disuguaglianze è anch’essa un carattere costitutivo del finanzcapitalismo ed andrebbe pertanto considerata come una causa indiretta. Sebbene non si possano trascurare tutti questi fattori, certamente la realtà della finanza globale non sarebbe mai cambiata tanto radicalmente se in Europa ed Usa non fossero state progressivamente abolite le regole in vigore, mentre nuove leggi e normative venivano introdotte per consentire il massimo sviluppo dei mercati finanziari e dei loro prodotti. La storia economico-finanziaria degli ultimi trent’anni è caratterizzata da un processo di deregolazione accompagnata da uno sviluppo della tecnologia, dell’informatica e delle telecomunicazioni tale da consentire di spostare liberamente da un paese ad un altro masse ingenti di capitali in modo quasi istantaneo. Questa spinta alla liberalizzazione dei movimenti di capitale è stata in gran parte incoraggiata dall’Europa occidentale: la globalizzazione finanziaria è decollata grazie ai contributi dei partiti e dei politici che si reputavano di sinistra, fatto che costituisce un paradosso clamoroso a fronte di un processo mondiale che è stato condotto in funzione antioperaia e volto allo smantellamento dello stato sociale. La mitologia neoliberale o liberista ha esercitato un’attrazione forte sulla nuova sinistra britannica, francese, tedesca, italiana. L’evoluzione diacronica degli avvenimenti mostra chiaramente che la conversione al neoliberismo dei massimi politici socialisti venne sollecitata storicamente da una sconfitta politica ovvero dall’impossibilità di ostacolare l’espatrio dei capitali nazionali all’estero. In barba alle leggi e ai controlli vigenti, i capitali continuavano a muoversi liberamente, pertanto venne mutata la strategia politica delle sinistre, al principio della sinistra francese seguita dalla Germania e dalle altre nazioni dell’Ue: se i movimenti di capitale risultavano incontrollabili, quanto invisibili, tanto valeva rendere esplicita e pienamente legalizzata la loro libertà di movimento. Negli Usa la battaglia per liberalizzare i movimenti di capitale, sull’esempio dell’Europa, ha preso forma di smantellamento della legislazione che durante i primi due mandati presidenziali di F. D. Roosevelt era stata introdotta proprio per evitare che le banche e altre istituzioni finanziarie operassero a fini esclusivamente speculativi, eludendo la loro funzione fondamentale di supporto all’economia reale. Il testo più importante di tale legislazione è stata la seconda legge Glass-Steagall, ufficialmente abrogata nel 1999, ma nella stessa direzione vanno la legge Gramm-Leach-Bliley e Il Commpdity Futures Modernization Act, quest’ultime furono entrambe sottoscritte dal presidente americano Clinton. Nel tempo negli Usa e in gran parte dei paesi dell’Ue le regole vigenti sono state sostituite con altre norme che hanno allargato a dismisura il perimetro delle attività degli enti finanziari, rendendo legali molti tipi di attività che potrebbero essere esposte a contestazioni da parte di istituzioni concorrenti e dei risparmiatori. Ma di fatto le autorità di sorveglianza, in primo luogo la Fed e la Sec americane, ma anche la Banca d’Inghilterra e la Fsa, nonché la Banca Centrale Europea hanno spianato la strada delle liberalizzazioni di capitali dando scarso peso ai rischi che ad esse si accompagnavano e hanno del tutto ignorato i segni di grave destabilizzazione del sistema finanziario nel suo complesso che pure molti centri di studi avevano lanciato. Nonostante le previsioni molti esponenti dell’alta finanza continuarono a ripetere che il mondo della finanza aveva raggiunto una tale maturità ed efficienza di mezzi da non aver più bisogno di alcuna regolazione da parte dello stato, salvo poi consentire, attraverso le suddette legislazioni, che i depositi, garantiti dal governo venissero utilizzati per operazioni ad alto rischio, le cui eventuali perdite non godevano di alcun diritto a essere rimborsate a spese dei contribuenti. Quando la crisi economica ha travolto l’intero sistema finanziario globale, i governi sono intervenuti per risanare i guasti e salvare le banche dalla bancarotta. Si possono ovviamente offrire molteplici spiegazioni del fatto che le massime autorità finanziarie internazionali sembrino non aver visto né compreso l’avanzare della crisi, tuttavia proprio la storia e gli attori del processo di deregolazione sopracitato suggeriscono che sia negli Usa che nella Ue gli intrecci organizzativi, personali e ideologici tra finanza e politica, tra enti che dovrebbero essere regolati ed enti di sorveglianza, tra cariche pubbliche e private, sono stati tanto stretti da rendere illusoria l’attesa che anche in vista della crisi la politica riprendesse una congrua misura di autonomia rispetto alla finanza. In Italia, ad esempio, prima di assumere il ruolo di governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, lavorava nel privato come vice-presidente per l’Europa della Goldman Sachs, la più grande banca di investimento del mondo, ruolo a cui era giunto per le competenze dimostrate come Direttore generale del Tesoro dal 1996 al 2002. Tra i consulenti della Goldman Sachs vi sono stati anche Romano Prodi e Mario Monti, a ulteriore riprova che anche nel nostro paese vi sono stati transiti dal mondo della finanza a quello della politica e viceversa, tutti perfettamente legali, transiti che hanno avuto un ruolo cruciale nella deregolazione della finanza internazionale che ha condotto alla crisi ed a quelle riforme che hanno progressivamente smantellato lo stato sociale e le conquiste dei lavoratori. È quindi lecito dubitare che siffatto genere di politici, indirettamente responsabili della crisi, arrivino a svolgere un incivilimento del sistema finanziario, sebbene proprio la Grande Crisi lo abbia reso ormai improcrastinabile.
Storicamente il finanzcapitalismo ha avuto, fin dal principio, origini politiche: tra gli anni ’60 e gli anni ’80 le imprese dei maggiori paesi industriali dovettero registrare una considerevole riduzione dei profitti, dovuta, a partire dagli anni ’60 del Novecento a un miglioramento delle condizioni dei lavoratori: si registrò in quell’arco temporale un aumento dei salari reali, notevoli riduzioni dell’orario annuo, risalgono a quel periodo l’introduzione del sabato festivo e l’allungamento delle ferie retribuite, l’introduzione di sistemi nazionali di protezione sociale in ambito sanitario e previdenziale. Le difficoltà insite nel recupero di un tasso elevato di profitto mediante la produzione di beni e servizi reali spinse le imprese di ogni settore a ricercarlo in prevalenza nelle attività finanziarie. L’ultimo ostacolo politico-ideologico venne a cadere con la dissoluzione dell’Unione sovietica e il tracollo di un ordine alternativo rispetto a quello capitalistico, in quanto basato sul collettivismo e sulla gestione statale dell’economia. Pertanto, tra i fattori scatenanti la finanziarizzazione del mondo ci furono senz’altro la tendenza ad allargare in tutti i campi il terreno propizio alle attività finanziarie, esercitata in ogni possibile ambito, utilizzando lo strumento della privatizzazione della previdenza, della, sanità, della scuola, delle aziende pubbliche, come le aziende deputate al trasporto collettivo, della produzione e distribuzione di energia e dell’acqua; nonché la concorrenza che è stata stabilita, per mezzo della globalizzazione, tra i salari e i diritti dei lavoratori dei paesi più sviluppati con quelli dei paesi emergenti. Il risultato è stato un abbassamento delle condizioni dei lavoratori e la conseguente proliferazione in Usa e Ue di contratti di lavoro precari che richiedono una grande flessibilità. Alla fine si è registrata una gigantesca redistribuzione del reddito dal basso verso l’alto, poiché i più colpiti da questa redistribuzione alla rovescia sono evidentemente proprio i lavoratori dipendenti: dati statistici confermano questa lettura non solo per gli Usa, ma anche per molti paesi Ocse, dal Regno Unito alla Francia, dalla Germania all’Italia. Questo passaggio da un capitalismo produttivo a un capitalismo finanziario è stato sapientemente guidato e sostenuto da una ristretta classe capitalistica transnazionale, formata da una decina di milioni di persone in tutto il mondo, sopportata all’esterno sul piano ideologico da una classe parallela formata da politici, manager istituzionali, intellettuali, accademici, editori, giornalisti, funzionari dello stato perfettamente allineati e pronti a sostenere nella società civile le ragioni del sistema. Come è stato già notato, tra i vertici delle due classi gli scambi sono frequenti. Dopo trent’anni di sviluppo, nei primi anni 2000 il capitalismo finanziario ha maturato in sé una serie di squilibri economici e sociali dai costi insostenibili: una macroscopica forma di squilibrio è la disuguaglianza costituita dall’astronomico arricchimento del 10% della popolazione e la stagnazione del reddito trentennale del reddito del restante 90%, e ciò andrebbe enfatizzato non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché essa significa che lo sfruttamento della classe lavoratrice ha ormai raggiunto un limite invalicabile. Altro squilibrio insostenibile è quello nei rapporti di forza stabilitosi tra i vari paesi a livello mondiale e la passiva accettazione del dollaro come moneta forte di riferimento.
Ognuno degli schemi esplicativi della crisi sopra esposti contiene diversi aspetti di verità, tuttavia quest’ultimo che riconnette la crisi ai limiti intrinseci del sistema, pur non pretendendo di essere esaustivo, riesce a unire e spiegare in gran parte tutti i precedenti in una riflessione unica e globale sull’attuale sistema politico e socio-economico. Modelli, teorie e metodi forniti dalle scienze economiche hanno fornito più che un mero presupposto teorico e una legittimazione a questo sistema in grado di inventare e diffondere su larghissima scala prodotti finanziari di estrema complessità: secondo gli osservatori i suddetti modelli avrebbero contribuito a costruirlo. Una delle critiche che viene oggi mossa da una parte degli osservatori è proprio l’impostazione acritica e l’uso improprio di teorie e modelli scientifici ripresi dalle scienze fisiche e naturali e la creazione per mezzo di essi di nuove realtà economiche, pertanto i punti che si vorrebbero fissare sono essenzialmente due: il ruolo che determinate teorie economiche hanno avuto nel produrre questa specifica crisi, e il peso che una scientifizzazione mal riposta ha esercitato nel condurle a svolgere tale ruolo, creando un sistema avulso dall’economia reale e insostenibile, sia da un punto di vista sociale che ecologico. Le idee degli economisti, diceva J. Keynes, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga. Da tempo le idee degli economisti prendono forma di modelli scientifici: rappresentazioni formalizzate del modo in cui l’economia si suppone che funzioni. Coltivando a livello globale la cultura del debito hanno creato una straordinaria varietà di strumenti finanziari e una stupefacente quantità di denaro. Le istituzioni finanziarie, le maggiori banche europee e americane, hanno potuto crearlo perché hanno potuto avvalersi di due principali classi di modelli scientifici. Una prima classe di modelli rappresenta il mercato come un sistema che infallibilmente si autoregola in base alle sue stesse retroazioni; il capitale affluisce immancabilmente dove il suo rendimento è più efficiente. Una seconda classe di modelli rappresenta il rapporto tra rischio e prezzo in modo tale che qualunque sia il livello di rischio si trovi infallibilmente qualcuno disposto a pagare il prezzo che lo copre. In altre parole, se un soggetto utilizza simili modelli il rischio che corre in campo finanziario dovrebbe essere azzerato o più precisamente dovrebbero venire azzerate le perdite eventualmente dovute ai rischi in cui uno è incorso. Tutti i modelli teorici dovrebbero basarsi su dei presupposti che ne assicurano il rapporto con la realtà, tuttavia quelli maggiormente utilizzati per organizzare e gestire il sistema finanziario hanno perso ogni contatto con quest’ultima. Inoltre, i principali limiti del sistema risiedono principalmente nell’applicare il concetto di equilibrio della fisica ad un campo, quello economico, in cui tale concetto non trova alcun riscontro, poiché esso si riferisce solo a sistemi chiusi, mentre i mercati sono sistemi aperti e peraltro estremamente complessi ed eterogenei, perché al suo interno operano milioni di partecipanti e milioni di beni ed inoltre perché, nel mondo reale, vi sono partecipanti eterogenei che hanno un diverso grado di conoscenza del mercato, fatto quest’ultimo che rende pressoché impossibile una valutazione attenta degli rischio reale degli strumenti finanziari. Un congruo numero di esperti, fisici e matematici, hanno offerto il loro contributo allo scopo di rendere più realistiche ed efficaci le teorie economiche applicate al sistema finanziario. Dalla metà del Novecento in poi uno degli sforzi intrapresi dalle scienze economiche per assomigliare alla fisica è consistito appunto nell’uso sempre più esteso della matematica; parallelamente al cammino verso la matematizzazione, le discipline economiche hanno importato numerosi modelli dalle scienze fisiche. Lo scopo era quello, da una parte, di far rientrare l’economia nell’ambito delle scienze esatte, dall’altro quello di accrescere la capacità della disciplina di rappresentare realisticamente l’economia così com’è e non come gli economisti vorrebbero che fosse. L’intento è stato descritto con chiarezza da M. Friedman, caposcuola dell’economia come scienza positiva negli anni ’50 del Novecento. Già a partire dagli anni ’80 le scienze economiche avrebbero conosciuto severe sconfitte sul terreno della precisione, portata e conformità delle sue predizioni con l’esperienza. E ciò non a causa di errori nella costruzione dei modelli sempre più complessi, bensì a causa dei presupposti radicalmente errati su cui si fondano che sottende un divario enorme tra realtà e astrazione.
Un ponte tra le scienze fisiche e matematiche da un lato e le scienze economiche dall’altro è stato fornito dall’informatica e dalla robotica, essendo un automa una macchina computazionale che elabora processi informativi: se il mercato compie operazioni senza mai fallire può essere considerato alla stregua di un Grande automa. Nel tempo si avuta una ibridazione della teoria economica da parte della fisica: tra questi modelli la teoria del moto di Brown è una di quelle teorie che è scivolata con successo da un campo all’altro, giacché autorevoli studiosi di fisica ed esperti economisti negli anni ’70 del Novecento sono giunti alla conclusione che il moto di Brown poteva essere adattato per scrivere e prevedere il movimento dei prezzi delle azioni sui mercati borsistici. Il più noto dei modelli finanziari che hanno come ascendenti teorici la fisica del moto di Brown è il modello elaborato da Fisher Black, MyronScholes e R. C Merton, da cui la sigla BSM con cui è diventato famoso negli anni ’70 del secolo scorso, impiegato per la gestione del rischio negli investimenti di capitale, un modello che ha rivelato numerose criticità. Questo dimostra che bisognerebbe riconsiderare i confini epistemologici della disciplina economica e ricondurla al suo giusto ambito, considerando opportunamente un concetto proprio della sociologia economica che riguarda la performatività delle teorie economiche e più in particolare il concetto di performatività effettiva, quando l’uso del modello teorico che dovrebbe rappresentare un determinato settore economico reale finisce per modificarlo e configurarlo. Un esempio emblematico è offerto dai titoli in borsa: il modello risultava in grado di prevedere accuratamente quali avrebbero potuto essere gli effetti di composizione di decine di migliaia di comportamenti individuali, effetti che prendevano la forma finale di prezzi alla chiusura delle borse. Dopo qualche tempo, i trader finirono per utilizzare le previsioni del modello BSM prima di impegnarsi negli scambi, offrendo e acquistando contratti a prezzi che, se fossero stati i più vicini possibili a quelli che il modello indicava, si sarebbero determinati dopo che gli scambi erano avvenuti. Perciò in questo caso non era la teoria a prevedere acutamente i prezzi; erano i trader che credendola vera, l’avevano resa tale. Il modello non aveva descritto la realtà di un mercato, ma l’aveva creata. Il problema è che, se una teoria risulta vera non perché descrive correttamente una realtà indipendente da essa, ma piuttosto perché gli attori coinvolti agiscono anticipatamente come se fosse vera, è molto probabile che questa realtà vada in frantumi nel momento in cui gli attori smettono di credere alla attendibilità della teoria. È quanto è successo nel 2000-2001, e su scala maggiore nel 2007-2008. Numerosi scienziati ed economisti hanno discusso nel 2009 in Usa e Canada sulla realizzazione di un Progetto Manhattan di tipo economico, un progetto grandioso in grado di coinvolgere e far lavorare al suo interno numerosi scienziati e tecnici, appartenenti a tutti i campi delle scienze naturali ed economiche, con lo scopo di elaborare un modello economico con maggiore efficacia predittiva, regolativa ed esplicativa. L’obiettivo del progetto era rifare una teoria e una modellizzazione economica in grado di tornare a offrire una guida affidabile per l’organizzazione e la regolazione di mercati finanziari stabili, credendo di rimediare alle insufficienze e ai guasti delle teorie economiche precedenti, accrescendo la dose di teoria proveniente dalle scienze naturali (fisiche e matematiche) e ignorando il fatto che una simile osmosi tra teorie fisiche ed economiche non ha avuto esisti particolarmente positivi da sessant’anni a questa parte. Tale progetto parte dal presupposto che le teorie delle scienze naturali possano colmare un deficit di comprensione del sistema economico. Ma a ben guardare gli studi sulla performatività delle teorie economiche attestano che qualora si sia trattato realmente di deficit, nel caso della crisi, esso non è stato un deficit di comprensione di un sistema preesistente, bensì un deficit di progettazione. Gli economisti hanno costruito un sistema finanziario su presupposti che sin dal principio assicuravano per certo che esso sarebbe sfuggito al loro controllo e che pertanto non ha alcun bisogno di essere compreso, perché nessuna ulteriore immissione di scienze naturali delle teorie economiche potrà ovviare ai gravi difetti di quella attuale fino a quando gli scopi che essa persegue non saranno costituiti partendo da un’idea più alta dell’essere umano, del suo essere socialmente determinato, e delle sue responsabilità nei confronti della natura e delle generazioni future: infatti il sistema finanziario che è stato creato negli ultimi trent’anni ha la funzione non di estrarre valore dalle classi medie e medio-inferiori, attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma mediante un coinvolgimento totale della loro mentalità e della loro esistenza nel sistema finanziario. Enormi capitali, che potevano diversamente essere investiti allo scopo di ridurre i costi umani della crisi economica, sono stati impiegati allo scopo di salvare le istituzioni finanziare dalla bancarotta, ovvero il salvataggio quelle stesse istituzioni finanziarie che hanno posto le premesse per la caduta si se stesse e dell’intero sistema. Questi stessi capitali potevano essere impiegati diversamente per aumentare la qualità della vita, il benessere della popolazione, per la salvaguardia ambientale o per risolvere lo squilibrio tra nord e il sud del mondo che ha acuito drammaticamente il fenomeno dell’emigrazione. Pertanto, le misure di austerità richieste con severità dai governi, ripercossesi gravemente sullo stato sociale, equivalgono a chiedere a coloro i quali stanno già pagando i costi umani della crisi si accettare di pagarla una seconda volta. La crisi economica, apertasi nel 2007, ha avuto come causa primaria i mutamenti dei rapporti di potere politico-economico che dagli anni ’80 in poi hanno facilitato l’ascesa della finanziarizzazione, la deregolazione dei movimenti di capitale e l’affermazione di altri aspetti dell’ortodossia neoliberale: mutamenti rilevati persino dall’ONU. Concause di notevole peso sono state l’irresponsabilità sociale, l’incompetenza e l’avidità di una parte significativa degli alti dirigenti di società finanziarie e non finanziarie; personaggi che governano di fatto l’economia e la politica del mondo. Una decina di milioni di individui che infliggono rilevanti costi umani a miliardi di altri: i gruppi sociali che stanno pagando e pagheranno la crisi sono in generale, sia pure in forma e misura diversa da un paese all’altro, i soggetti più deboli, sotto il profilo economico e politico, ossia i lavoratori aventi qualifiche professionali medio basse, i disoccupati di lunga durata, i lavoratori precari per legge o quelli occupati nell’economia informale, i bambini, le donne, i poveri, gli anziani, gli immigrati, o coloro che hanno bisogno di cure mediche e spesso non sono in grado di pagarle. A livello planetario, è stata compiuta da vari centri di ricerca una stima della distruzione di valore degli attivi di ogni genere provocata dalla crisi. Le stime variano tra i 25-28 trilioni di dollari a 100 trilioni, 1,8 volte il Pil mondiale. La crisi comporta e comporterà in tutto il mondo costi elevatissimi sotto il profilo dell’occupazione e delle condizioni di lavoro. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro ha stimato che a fine 2009, a causa della crisi, i disoccupati sarebbero aumentati di 50 milioni e 200 milioni di lavoratori sarebbero stati sospinti in condizioni di povertà estrema. In Usa e in Ue, considerando il tasso reale di disoccupazione che include anche i disoccupati che hanno smesso di cercare lavoro e i cassintegrati, la percentuale sfiora i 30 milioni di disoccupati. Le medie nazionali occultano però un fatto estremamente grave e cioè che la disoccupazione colpisce soprattutto i giovani in un’età compresa tra i 15 e i 24 anni. La disoccupazione costituisce certamente un costo personale e sociale rilevante, ma la crisi tende anche a provocare una degrado complessivo delle condizioni di lavoro di coloro i quali un qualche tipo di lavoro ancora ce l’hanno. Il degrado delle condizioni lavorative è riscontrabile in tre ambiti: lo sviluppo dell’economia e dell’occupazione informale, quest’ultima rappresenta in tutto il mondo il regno della totale assenza di contratti scritti in base ad una legge, da cui deriva la mancanza di diritti, regole, criteri pubblici per la retribuzione e l’orario di lavoro, per non parlare della sicurezza e della salute dei lavoratori. L’Organizzazione Internazionale del Lavoro e altri istituti ritengono che a causa della crisi l’occupazione informale stia aumentando in quasi tutti i paesi, sviluppati o emergenti che siano. Il motivo dell’aumento è abbastanza noto: dinnanzi alla riduzione o all’incertezza degli ordinativi, molte imprese, in Italia come in altri paesi, tendono a offrire lavoro, purché i candidati accettino salari più bassi, orari di lavoro più lunghi e flessibili, ossia lavorino senza contratto. Chi ha bisogno di lavorare quasi sempre accetta. Molte persone si inventano qualche tipo di occupazione indipendente che spesso si svolge nell’abitazione o per strada. Un processo simile è evidente in molti paesi sviluppati dell’Ue; l’aumento dei lavoratori precari con contratti atipici e il peggioramento della qualità del lavoro nell’economia formale: i contratti atipici o temporanei sono una via di mezzo tra l’occupazione informale e il contratto di lavoro a tempo pieno indeterminato, in entrambi i casi precario è colui o colei che deve pregare qualcuno per ottenere un lavoro anche se all’interno di questa categoria rientrano diverse tipologie di lavoratori: vi sono quelli che hanno accumulato più contratti di lavoro di breve durata, compresi tra i tre e i sei mesi, poi vengono i lavoratori con un contratto a termine di breve durata o a tempo parziale, i lavoratori occupati per poche decine di ore al mese, gli occasionali; infine, aumento del numero dei lavoratori poveri: in Italia tale definizione si riferisce a una persona che pur lavorando regolarmente percepisce un reddito mensile prossimo o inferiore alla soglia di povertà relativa, che corrisponde, secondo la definizione della International Standard of Poverty Line utilizzata anche dall’Istat, alla spesa per consumi media pro capite riportata a una famiglia di due persone. Il reddito di un singolo lavoratore povero equivale a quindi a 490 euro mensili o meno. La crisi sta provocando un forte aumento della povertà estrema. Le stime variano a seconda degli enti che la effettuano, ma le cifre sono ovunque rilevanti e destinate nel breve termine ad aumentare. A parte la gravità del fenomeno in sé, l’aumento della povertà estrema accrescerà in notevole misura la pressione migratoria, già rilevante, dal Sud del mondo verso i paesi benestanti dell’Ue. Anche il numero degli affamati nel mondo è aumentato nel corso della crisi, soprattutto per quanto concerne i prezzi degli alimenti di base come grano, mais, riso, soia, sorgo. L’affermazione per cui gli aumenti degli alimentari sono nati dall’aumento dei consumi delle classi medio-alte dei paesi emergenti ha invece uno scarso fondamento, poiché in questo caso gli aumenti non sarebbero stati né così improvvisi né così rilevanti. È vero invece che un ruolo importante nel predisporre la crisi del cibo hanno avuto, nel corso di una ventina d’anni, le strategie agro-alimentari del finazcapitalismo e soprattutto i monopoli o gli oligopoli esistenti sui mercati mondiali delle derrate alimentari: ad esempio l’85% del commercio mondiale delle granaglie è controllato da tre sole società americane. Sotto la spinta della speculazione, i prezzi delle derrate alimentari hanno subito tra il 2005 ed il 2008 aumenti compresi tra il 70 % del riso e 130% del grano. Aumenti di tale entità sugli alimenti, sono particolarmente disastrosi per i popoli dei paesi in via di sviluppo. La povertà poi non ha ovviamente esclusivamente effetti sulle condizioni economiche in cui vivono le persone che la patiscono. Ha effetti duraturi e diffusi sulla salute e sulla speranza di vita, soprattutto per quanto riguarda le donne, i bambini e gli adolescenti. Per varie ragioni, quantità e qualità delle cure mediche di cui possono usufruire le famiglie diminuiscono quanto più queste si impoveriscono. Oltre al tasso di mortalità tra i bambini in età inferiore ai 5 anni di vita, aumenta pericolosamente, secondo le stime dell’ONU, il tasso di mortalità materna: ogni anno più di mezzo milione di donne muoiono durante la gravidanza, al momento del parto. In Africa il tasso di mortalità materna è 100 volte superiore a quello dei paesi sviluppati. Le cause sono individuabili in malnutrizione, carenza di assistenza medica, scarsità di medicinali, uso forzato e abituale di acqua non potabile. Nel corso di una crisi economica la prima a declinare è la spesa privata per la sanità. Nei paesi in cui l’assistenza sanitaria è in gran parte privata, ciò incide subito sulla frequenza dei ricorsi al medico, all’ospedale, all’acquisto di medicine, sulle cure pediatriche e ortodontiche. Le famiglie che non sono più in grado di affrontare spese mediche in via privata si rivolgono in via crescente al sistema pubblico. Poiché le persone tendono a ritardare il ricorso al medico o all’ospedale, per evitare sia le spese sanitarie che le spese di trasporto, e arrivano ai centri di assistenza colpite da malattie più gravi, che accrescono il costo delle cure. La caduta stessa sotto il livello di povertà derivante dalla disoccupazione accresce la malnutrizione di un gran numero di persone e la loro vulnerabilità nei confronti delle malattie. Oltre che sulla salute e sulla speranza di vita, ovviamente la povertà o le condizione di lavoro precario incidono sull’istruzione e sullo sviluppo del lavoro minorile, poiché le famiglie con un reddito molto basso sono costrette a ritirare presto i propri figli da scuola. Crescono anche gli agglomerati di abitazioni caratterizzati da assenza di acqua potabile, assenza di servizi igienici, condizioni di sovraffollamento, strutture abitative provvisorie dette slums. Lo sviluppo degli slums ha subito una forte accelerazione con la crisi economica, in Africa, Asia meridionale, America latina, Europa e Usa, paesi dove, secondo i rapporti dell’ONU, gli abitanti sono stimati in oltre 50 milioni, ma se la tendenza in atto continuasse la popolazione degli slums potrebbe rasentare i 2 miliardi verso il 2039, e i 3 miliardi verso i 2050. Pertanto, al fine di evitare una simile catastrofe umanitaria sarebbe necessario varare un piano per la costruzione di unità abitative per le persone indigenti. La crisi ha reso ovviamente questo traguardo praticamente improponibi
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