Su La Repubblica, rotocalco turbomondialista e voce del padronato cosmopolitico, esce in questi giorni un articolo in cui si spiega candidamente e quasi con tono entusiastico che i giovani non vogliono più saperne di fare figli. L’articolo fa il paio con un altro, uscito nei giorni scorsi, con cui si rendeva conto di uno studio scientifico che pretenderebbe di aver dimostrato che la maternità genera un’accelerazione dell’invecchiamento nelle donne. Nulla di nuovo sotto il sole. Si tratta dell’ordine simbolico dominante di completamento dell’ordine della globalizzazione neoliberale: la quale mira a decostruire la famiglia e la genitorialità, per produrre un piano liscio di atomi concorrenziali, legati unicamente dal rapporto effimero dello scambio mercantile. In effetti, questo vuole il turbocapitalismo globalizzato: non padre, madre e figli, ma consumatori unisex sradicati e atomizzati, mere pedine eterodirette dal consumo e dai processi mercantili. Non stupisce che suddetti articoli celebrino apertamente i processi di evaporazione della famiglia e della genitorialità come se fossero intrinsecamente emancipativi quando in realtà sono esattamente l’opposto, coincidendo in ultima istanza con il tramonto dell’Occidente. D’altro canto, nell’Occidente liberal-progressista si respira oggi a ogni latitudine una pesantissima aria di morte e di idiosincrasia verso la vita in ogni sua estrinsecazione. Il godimento aprospettico e fine a se stesso, senza progettualità familiare e senza eticità, prende il sopravvento e rispecchia perfettamente l’essenza della società reificata della forma merce. Per dirla con Kierkegaard, il capitalismo ci proietta tutti nella fase estetica del Don Giovanni, impedendo il passaggio alla superiore fase etica del padre e della madre di famiglia. Per questo, come spiegavo nel mio libro “Il nuovo ordine erotico”, oggi sposarsi e mettere il mondo dei figli rappresenta un gesto autenticamente rivoluzionario e oppositivo rispetto alla logica illogica della globalizzazione neoliberale.
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