Il femminismo fu. Fu un sacrosanto movimento anticapitalistico teso a riconoscere la piena dignità della donna nella sua alterità e irriducibilità rispetto all’uomo. Oggi il femminismo non è più. O, meglio, sopravvive esclusivamente come individualismo femminista, favorevole all’abbandono del modello paternalistico in vista non certo del nobile ideale dell’emancipazione universale, bensì dell’integrazione della popolazione femminile nel mercato globale del lavoro flessibile e precario; integrazione essa stessa resa possibile dalla destrutturazione del modello della famiglia tradizionale. In questo senso il femminismo diventa, malgré lui, vettore della modernizzazione capitalistica post-borghese e post-proletaria e della sua sussunzione integrale del mondo della vita nella logica dell’aziendalizzazone senza riserve. È tutto fuorché accidentale il fatto che, nell’ordine del discorso dominante, la questione femminile non compaia mai come scandalo dell’ineguaglianza e del super sfruttamento salariale, ma sempre e solo come individualismo dello sradicamento delle vecchie forme borghesi (indistintamente liquidate come paternalistiche, maschiliste e sessiste) e come trionfo della nuova donna manager emancipata dai vincoli – essi stessi demonizzati come obsoleti e intrinsecamene autoritari – della maternità. La variante liberal della donna manager in carriera coesiste, come espressione opposta del medesimo fenomeno, con la figura anarchica e new global del femminismo alla moda delle bad girl anti-borghesi e ultra-capitalistiche (Pussy Riot, Femen e numerose altre icone post moderne del conformismo globalizzato fintamente contestatore e, in realtà, completamento ideologico essenziale della mondializzazione classista). Destra del Denaro e Sinistra del Costume, lato liberista e lato anarchico, continuano, anche in questo caso, a porsi come i baluardi del sistema dei bisogni deeticizzato, post-borghese e post-proletario. La situazione è tragica, ma non seria.
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