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Si fa un gran parlare di resilienza. Viene descritta come la virtù dell’uomo che ha capito come va il mondo. Nulla può spezzare il resiliente, perché è capace di assorbire qualsiasi colpo e resistervi, come il metallo regge l’urto e riprende la forma originaria. Tutti i media ne parlano in questi termini, ricorre nei discorsi dei governanti, abbonda nelle narrazioni sulla collettivi-tà. Ma la resilienza è una favola, ci dice Diego Fusaro. Una fiaba della buonanotte cantilenata al fine di stordirci e farci assopire. È un incubo che minaccia il nostro futuro.L’uomo resiliente è il suddito ideale. Si accontenta di ciò che c’è perché pensa che sia tutto ciò che può esserci. Non conosce nulla di grande per cui lottare e in cui credere. Ha abbandonato gli ideali e vivacchia convincendosi che il suo compito, la sua missione, sia di accettare un destino ineluttabile. Anzi, viene portato a pensare che proprio nella passività possa dare il meglio di sé.È storia vecchia. Da sempre chi ha il potere ci chiede di subire in silenzio, di sopportare con stoica resilienza per poter agire indisturbato. Ma in questi anni ce lo chiede ancora di più: il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza di Mario Draghi ne è un esempio lampante, ma già nel 2013 il «dinamismo resiliente» era la parola d’ordine del World Economic Forum. Perché, certo, la resilienza è un profilo psicologico, ma anche un atteggiamento politico. I cittadini sono chiamati a fare propria la virtù dell’adattarsi senza reagire alle storture invocando il cambiamento. Non è forse il sogno inconfessabile di ogni padrone quello di governare schiavi docili e mansueti? Eppure “vivere vuol dire adoperarsi per cambiare il mondo con i propri pensieri e con le proprie azioni” scrive l’autore: una vera e propria chiamata alle armi. “Riprendiamoci le nostre passioni annichilite da questa docilità. Frangar, non flectar.”