Proprio come il potere delineato da Tocqueville, la civiltà dei consumi dispensa dall’usare la propria testa e colonizza le menti con un’ortodossia che impedisce al pensiero di avventurarsi al di là delle colonne d’Ercole aprioricamente fissate dall’ordine dominante. In questo senso, il conformismo della società degli eremiti di massa annienta il pensiero disincentivando il suo stesso costituirsi: non ne reprime gli effetti, ma ne devitalizza la radice. In una realizzazione della distopia tracciata da Orwell in 1984, ortodossia vuol dire non pensare e non avvertire nemmeno il bisogno di farlo. Per comprendere geneticamente questa condizione, occorre volgere retrospettivamente lo sguardo al 1989, da identificarsi – dissentendo rispetto alla grande narrazione oggi egemonica – con l’anno della più grande tragedia geopolitica della seconda metà del XX secolo. Con l’implosione del bipolarismo mondiale del cuius regio eius oeconomia, la polverizzazione dei sistemi socialisti e la scomparsa dell’alternativa possibile sotto le macerie del Muro (Berlino, 9.11.1989) non ha determinato il trionfo della libertà per i milioni di schiavi del dispotismo comunista, secondo la lieta novella con cui la grande narrazione neoliberale continua a offuscare le menti. Nel tempo della menzogna universale, la storia continua a essere, con Orwell, un palinsesto che può essere riscritto ad libitum. L’inglorioso crollo del comunismo storico novecentesco ha, semmai, segnato il trionfo della logica dell’estensione illimitata del tecnocapitalismo, con le sue specifiche patologie (dalla mercificazione alla schiavitù salariata, dal folle mito della crescita senza misura alla fola del progresso), dopo che la pur contraddittoria esperienza dei socialismi realizzati ne aveva, almeno in parte, rallentato e contenuto l’avanzata.
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